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  • Aree Interne, la verità del Piano Strategico

    Aree Interne, la verità del Piano Strategico

    L’analisi effettuata nel Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne potrà non piacere, potrà essere cruda e forse anche crudele in alcune considerazioni, ma fotografa una realtà basata su dati e numeri forniti da Istat, Censis e CNEL. Una realtà – e questa è la premessa – che è stata sottovalutata per decenni e sicuramente dal 2022 quando, durante una riunione del Cipess, è stata presentato l’aggiornamento della classificazione degli enti locali che raccontava di un aumento complessivo dei Comuni periferici e ultra-periferici: +7,9%. La faciloneria con cui alcuni hanno titolato che il piano del governo fosse di abbandonare le aree interne è stato un ruggito ideologico che, ahimè, prescinde dall’analisi della complessità dei contesti e dei processi in cui versano quelle aree. Aree che rispecchiano non solo una tendenza italiana all’emigrazione prima dalle ultra-periferie verso i centri e poi dai centri all’estero, ma soprattutto una condizione di denatalità di cui abbiamo il primato in Europa.

    La popolazione complessiva e specificatamente quella calabrese, sta invecchiando

    Il futuro che ci attende è vecchio

    Invecchiamo come sistema-paese, non siamo nelle condizioni di garantire un efficace e strutturale ricambio generazionale, siamo poco attrattivi perfino per noi stessi. Questo accade al Nord, al Centro e al Sud (con maggiore intensità, viste le storiche ed endemiche disparità di cui questo disgraziato Paese soffre). Solo che lì – qui – la crisi è più forte perché ci sono meno lavoro, infrastrutture e servizi e la morfologia territoriale dominata dalla dorsale appenninica acuisce isolamento e difficoltà di progettazione e realizzazione di assi di comunicazione che, spesso, non hanno i numeri – la massa critica – per ritenersi sostenibili in termini di costi di realizzazione e conseguente impatto sociale.

    Il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne, prendendo spunto dagli errori del primo ciclo sperimentale della SNAI relativo al settennato 2014-2020, ne sottolinea i risultati metodologici (partenariato multi-livello e multi-attoriale, processi di co-progettazione integrata per ambiti settoriali e ridisegno dei percorsi di sviluppo locale), ne approfitta per intervenire laddove fondi, processi e procedure non hanno funzionato o lo hanno fatto poco e male e illustra come per il ciclo 2021-2027 gli strumenti di pianificazione, attuazione e governance siano stati migliorati di pari passo con un aumento dei fondi dedicati.

    La minaccia del deserto demografico

    Contro l’ineluttabilità del destino

    È vero poi che nel Piano si parla di una casistica dedicata a un «accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile», laddove si riscontri «un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita», ma – aggiunge Alessandro Rosina, il demografo dell’Università Cattolica che ha curato i dati inseriti nel Piano – «ogni Comune deve poter valutare in quale di queste quattro tipologie si colloca». (Per le tipologie si veda alle pag.. 44 e 45 del Piano, ndr.). E che, in ogni caso, «nessun Comune ha di fronte un destino ineluttabile in relazione alle coordinate geografiche in cui si trova, ma sono molti i Comuni che rischiano un percorso di marginalizzazione irreversibile per le dinamiche demografiche che li caratterizzano». Un po’ diverso dall’affermare che il Governo voglia lasciare per strada i 1.904 Comuni delle 124 aree di progetto, oltre 4 milioni di abitanti che vanno da Nord a Sud e che rappresentano una parte importante, se non cruciale, dell’Italia.

    Il destino delle aree marginali

    Chiarito questo punto bisogna però raccontare l’altro pezzo di verità: il come sia stata effettuata la programmazione e l’attuazione degli interventi, come (e se) siano stati spesi i fondi disponibili, quale sia stata la qualità di quella spesa e quale sia il modello alla base. Calcolo sommario: tra le risorse dei cicli 14-20 e 21–27, senza considerare gli incrementi dei fondi solo parzialmente dedicati alle aree interne, si arriva a oltre 1,1 miliardi di euro, cui vanno aggiunti ulteriori 600 mila euro a valere sulla missione 5 del PNRR dedicata al Potenziamento servizi e infrastrutture sociali di Comunità e strutture sanitarie di prossimità.

    Si è programmato bene? Si è attuato bene? Si è speso bene? Per le diverse mansioni che ricopro e per i rapporti che intrattengo ho avuto modo di parlare con diversi amministratori locali. Ad esempio, a Cardeto, comune periferico del Reggino, sono stati impiegati 2 milioni di euro per realizzare un asilo nido per un paesino che non ha neonato.

    Dalla Regione altri 36 milioni

    Qualche mese fa l’inserimento di altre tre aree SNAI calabresi nel ciclo di programmazione 21-27, ha portato la Regione a decretare un cofinanziamento di 36 milioni di euro da aggiungersi alle risorse nazionali destinate ai comuni del Versante Tirrenico Aspromonte, dell’Alto Jonio Cosentino e dell’Alto Tirreno Cosentino Pollino.  Questo mentre Maria Foti, sindaca di Montebello Jonico, e nuova referente per la SNAI grecanica, raccontava lo scorso ottobre come quella strategia, dotata di 28 milioni di euro per il periodo 14-20, gestiti in gran parte dalla Città Metropolitana di Reggio Calabria, proseguisse a passo di lumaca e come l’attuazione dei suoi interventi si attestasse attorno al 4% a fronte di un 30% complessivo di realizzazione dell’intera strategia, mentre la Regione chiedeva che le obbligazioni giuridicamente vincolanti venissero presentate entro lo scorso 31 dicembre.

    Aree interne a rischio di scomparsa

    La Sintesi dello stato di attuazione Aree SNAI 2021-2027 redatta dal Settore “Strategie Aree interne, comuni in via di spopolamento, minoranze linguistiche” del Dipartimento Agricoltura di Regione Calabria, evidenziava un gap di programmazione e attuazione di 2 anni che rischiava di mandare i fondi a revoca, quando sarebbe invece dovuto già partire l’accordo di programma per il biennio  2025 – 2027: «Delle quattro Aree finanziate sul territorio regionale nel precedente periodo di programmazione, tre hanno firmato l’APQ solo nel 2022. Il riconoscimento di Aree interne e il finanziamento a livello nazionale di queste Aree è avvenuto, infatti, solo a fine 2019, e il successivo ritardo nel compimento delle fasi di progettazione e definizione procedurale, a livello locale, hanno dilatato i tempi della programmazione territoriale»

    La denatalità segna gran parte della aree interne

    Denatalità e disinteresse delle istituzioni sono i due nemici

    Ma, volendo pure mettere da parte i tecnicismi, non si può procedere ad alcun ragionamento senza considerare due dimensioni: il disinteresse dei governi e delle Regioni nel programmare e attuare politiche di mitigazione delle crisi e di sviluppo locale per aree considerate appendici da dimenticare, con un destino segnato; e la tendenza, oggi divenuta drammatica realtà, alla denatalità. E qui arriviamo al punto: perché senza nuovi nati, senza giovani, non c’è vita, non ci sono prospettive di crescita, non ci sono strade, servizi o prospettive di invecchiamento attivo che tengano.

    Ripensare presto il modello di intervento

    Il modello allora va ripensato dalla base: le aree interne non sono luoghi da turismo esperienziale, trattorie, amenità naturalistiche o residenze di artista. Sono luoghi reali, con opportunità concrete,  che vanno ricalibrate. Sono i luoghi dell’allevamento, dell’agricoltura 5.0 e quelli delle risorse primarie. Sono i posti dove la qualità di vita può essere migliore, dove il paradigma digitale, ancora agli albori, può fare una differenza che noi nemmeno ancora immaginiamo. Ma sono soprattutto i luoghi che hanno bisogno di figli, di uomini, donne, ragazze, ragazzi in grado di attivare processi di produzione e promuovere strategia di vita  sostenibili e lungimiranti. Strade e servizi arrivano appresso, ma arrivano meglio quando viene messa una visione concreta di futuro.

    Precacore di Samo

    Un processo lungo e per nulla scontato, ma necessario

    Il processo è lungo e complesso e la sua riuscita non è scontata. Bisogna però cominciare a lavorare affinché si creino le condizioni per vivere, rimanere e prolificare. E noi possiamo contare su un formidabile alleato: gli immigrati. Sono loro che fanno figli, che non temono la fatica, il lavoro nei campi o con gli animali. Portarli nelle aree interne, dove è più facile interagire e riconoscersi, promuovere progetti di imprenditorialità legati all’agricoltura, all’allevamento, alla zootecnia, può dare una nuova chance di vita a loro, a noi e ai territori. A patto che a questo si aggiunga la consapevolezza che siamo di fronte a una sfida epocale che come tale va trattata. Con idee e risorse capaci di programmare e agire a 360 gradi. Perché che manchino strade e servizi è sotto gli occhi di tutti, ma bisogna porre le condizioni e le necessità affinché siano realizzati.

  • Sfruttati sin da bambini

    Sfruttati sin da bambini

    «Nel 2015, il mondo si è impegnato a porre fine al lavoro minorile entro il 2025. Il termine è scaduto, ma il lavoro minorile esiste ancora». Questa amara constatazione, che riecheggia nei rapporti internazionali, suona come una condanna in Calabria, terra di perenni contrasti, dove una bellezza mozzafiato convive con un’oscurità sociale che inghiotte il futuro dei suoi figli. Questo è il paradosso di una regione che è epicentro di un’emergenza silenziosa e inaccettabile: il lavoro minorile, un fenomeno che in Italia coinvolge una stima di 336 mila bambini e adolescenti .

    Un fatto sociale diffuso nel Sud, soprattutto in Calabria

    Mentre il mondo ha visto una, seppur lenta, diminuzione del fenomeno, la Calabria sembra marciare in direzione contraria. Qui, i dati nazionali, già allarmanti, assumono i contorni di una vera e propria voragine. È nel Mezzogiorno che questo sfruttamento rivela il suo volto più feroce e la Calabria si distingue come un’area ad altissimo rischio, in un’emorragia di futuro che prosciuga la regione delle sue energie più vitali e la cui reale dimensione rimane in gran parte invisibile alle statistiche ufficiali .

    All’origine del fenomeno un diffuso disagio sociale e forme di povertà

    Le nuove forme di povertà alla base del fenomeno

    I numeri non descrivono il freddo di un cantiere, l’odore acre dei campi o la stanchezza di un servizio ai tavoli che si protrae per ore. Sono storie di ragazzi costretti a barattare i sogni per garantire un presente alla propria famiglia. La spinta è quasi sempre la vulnerabilità socioeconomica, quella stessa fragilità che colpisce quasi un terzo dei minori calabresi in povertà relativa, lasciando le famiglie prive di strumenti e rendendo il lavoro precoce una drammatica necessità 

    Sul lavoro invece che a scuola

    Questo dramma sociale si intreccia inestricabilmente con un’altra piaga: la dispersione scolastica. Lavoro precoce e abbandono degli studi sono due facce della stessa medaglia, un circolo vizioso che condanna intere generazioni. Un adolescente che lavora ha una probabilità quasi doppia di essere bocciato e più che doppia di interrompere la scuola. È la negazione del diritto primario all’istruzione, in un contesto dove il tempo per lo studio è divorato dalla fatica  In Calabria, il lavoro non è solo precoce, è spesso pericoloso, con la regione che figura tragicamente tra le sei in Italia che concentrano oltre la metà dei decessi sul lavoro di minori. A questa realtà si aggiunge la presenza asfissiante della ‘Ndrangheta, che si nutre del disagio e trova nei più giovani una manovalanza a basso costo, trasformando lo sfruttamento in uno strumento di controllo e reclutamento criminale 

    La fuga dalla scuola verso un lavoro sfruttato

    La sostanziale assenza delle istituzioni

    A fronte di questo scenario, la risposta delle istituzioni appare drammaticamente inadeguata. Mentre si invocano normative più stringenti, la Calabria soffre di una cronica carenza di controlli. Con circa 110 ispettori per 180.000 imprese, la vigilanza è un miraggio, lasciando migliaia di minori esposti a rischi e abusi senza alcuna tutela effettiva .

    Eppure, in questo quadro desolante, si accendono piccole luci di speranza. Sono le iniziative del terzo settore e progetti coraggiosi come “Liberi di Scegliere”, che tentano di spezzare le catene che legano i figli delle famiglie di ‘ndrangheta a un destino criminale, offrendo loro una possibilità di futuro diversa, una via d’uscita basata sulla legalità e sulla dignità .

    Serve un intervento dello Stato e della Regione

    Per essere pienamente efficaci, però, le iniziative isolate non bastano. La lotta al lavoro minorile deve diventare una priorità nazionale e regionale. Serve un intervento straordinario, un piano Marshall per l’infanzia calabrese che metta al centro l’istruzione, i servizi e la creazione di lavoro legale. Perché il futuro della Calabria non può e non deve essere costruito sulle macerie dei sogni dei suoi figli, in un Paese che, nonostante gli impegni, non è ancora riuscito a proteggerli tutti.

    Tommaso Scicchitano

  • Una generazione cancellata dalla Calabria

    Una generazione cancellata dalla Calabria

    La piccola borghesia da cui provengo, che è quella che Brunori Sas ha ben descritto in una sua canzone, è la borghesia che non ce l’ha fatta. Non è riuscita a fare il salto di qualità che le aveva promesso la falsa ideologia di uno sviluppo infrangibile verso le praterie dell’abbaglio capitalista. È quella che ha edificato in centro, sì, ma appena fuori dal centro che conta. La borghesia che continua a fare della Calabria il regno dei “vorrei, ma non posso”, tradita ed orfana di certe velleità che ha comunque riversato, di generazione in generazione, sui figli come un imprinting.

    Quale Eldorado?

    La generazione di quelli come me, educati a questo inganno, è cresciuta nel velleitarismo di essere attesa dall’Eldorado vagheggiato dai propri genitori. Ma quell’Eldorado lo avremmo dovuto cercare ovunque tranne che in Calabria. Perché qui, dove oggi sono tornato, niente c’era e niente ci sarebbe stato.
    Avremmo dovuto emigrare al Nord in sella a destrieri di risentimento e disprezzo. Tutti figli di quel senso di vergogna ereditato e interiorizzato da genitori che si sono arresi – se non accomodati – al processo di abdicazione delle proprie radici e di quella cultura contadina da cui tutti proveniamo. Qualcosa che il Boom economico degli anni Sessanta era chiamato a spazzare via.

    Radici nella plastica

    Un abbraccio mortale a pattern culturali, antropologici e sociali estranei che, in enclavi come Cardeto, o Pentedattilo o Roccaforte del Greco, avevano condotto alla sistematica sostituzione del rame e della terracotta con la plastica. Una nuova deificazione del benessere legato a un modernismo che solleticava i più sordidi istinti di invidia sociale. L’erba – o la plastica – del vicino era sempre più verde e sarebbe toccata anche a noi. Così mi ha raccontato un mastro zampognaro aspromontano descrivendo lo spasimo di sua madre verso i nuovi utensili sfoggiati dalla vicina modernista.

    Paesi e radici chiusi come reliquie nei musei

    Identità in estinzione

    Rame e terracotta, però, non erano simboli di un passato straccione da dimenticare. Erano elementi distintivi del nostro genoma di popolo che lentamente – e manco troppo – venivano relegati in teche da museo etnografico, col loro numero di serie da esemplare in estinzione. Fin quando turismo esperienziale e marketing territoriale li avevano elevati allo status di “marcatori identitari”, una sorta di olio crismale con cui consacrare miracolose strategie di sviluppo territoriale. Più supposte che reali, tanto per rimanere in tema di quote WWF.

    C’è una generazione, con competenze sofisticate, che ha lasciato la Calabria

    Calabria: una generazione non c’è più

    Eradicazioni, perdite, sostituzioni culturali unite a fenomeni come la carenza di lavoro, l’ineducazione alla sua cultura, deficit infrastrutturali tramutatisi in mutilazioni di competitività, narrazioni ideologizzate e criminalizzanti hanno provocato la perdita della mia generazione.
    Invece di origini e radici, ci hanno trasmesso un senso di colpa e arrendevolezza già appartenuto ai  nostri genitori: per loro si è manifestato con la violenza dello stigma; per noi si è annacquato nel grottesco, se non nel folkloristico, da ritrovare una o due volte l’anno. Il tempo dedicato al ritorno del fuorisede da su.

    Trenta e quarantenni in Calabria non ci sono più e, se ci sono, si tratta di appartenenti a due categorie: quelli che non sono potuti partire e i romantici che hanno fatto della vocazione al riscatto della propria terra una missione impossibile. Una vocazione al martirio.

    Eterna nostalgia e mezze verità

    Un fenomeno speculare a quello verificatosi nella Calabria greca, con esiti ancora più disastrosi, quando gli anziani, apostrofati come stupidi, parpatuli e paddhechi, di fronte al tramonto del greco di Calabria come lingua veicolare, decisero di smettere di parlarlo per dare una nuova chance di vita ai propri figli, che non sarebbero così stati condannati a un destino da caprari.

    Il biennio di insegnamento al liceo classico della mia città mi ha reso evidente questo sradicamento poi trasmesso alle generazioni successive. Davanti a me c’erano ragazzi privi di memoria e coscienza storica. Poco o nulla conoscevano del passato del proprio popolo o territorio, convinti anche loro di essere capitati per errore in una terra di mezzo che presto avrebbero abbandonato per sempre.
    Una terra da dimenticare, senza opportunità, per cui non vale la pena di combattere, ma per la quale tenere vivo un senso di eterna nostalgia, straziati tra il dover andare e l’eco del bisogno di tornare.
    In tutto questo nessuno si è reso conto che le mezze verità a furia di raccontarle, sostituiscono le vere verità.

  • Il lavoro senza festa

    Il lavoro senza festa

    Il primo giorno di maggio, per secoli, è stata la festa in cui si celebrava la bella stagione, il Calendimaggio. Il Primo Maggio come lo conosciamo noi nasce insieme ai partiti che difendono i lavoratori. A fine ‘800, con l’Internazionale Socialista, di ispirazione marxista, si decide di dedicare un giorno alla rivendicazione universale delle 8 ore. Incredibile ma vero, l’intuizione arriva dall’America, che a inizio ‘900 era tra le patrie del movimento operaio, avendo un grande ruolo in tema di Diritti del lavoro e sindacalismo. Spunto propositivo, il triste epilogo di una grande manifestazione iniziata a Chicago proprio il 1° maggio del 1886. La manifestazione vide un’adesione incredibile tanto da meritare di essere ripetuta fino ai giorni nostri.

    La Festa dei lavoratori nasce dunque in relazione alla richiesta di tutele crescenti in capo ai poveri, quella classe operaia che ha ispirato battaglie sociali e conseguito diritti civili che ci è dato di fruire ad Aeternum, o quasi. In tempi non sospetti mi domandavo perché i protagonisti di quella festa fossero solo persone umili: mi incuriosiva intimamente il fatto che, a essere considerati lavoratori non fossero pure quelli che facevano un lavoro non manuale, quelli con la cravatta li chiamavo! A casa non mi si aizzava contro I padroni, provando piuttosto a ridimensionare la mia critica sociale prematura. Crescendo però, mi sono interessata sempre più alle questioni di matrice sociale, forse proprio perché non mi bastavano le risposte a domande pur lecite, questioni che credo vadano conosciute quanto più dall’interno, approfondite, a livello dottrinale e teorico e, all’occorrenza, denunciate in quanto non accettabili.

    Una festa ritualizzata che rischia di perdere senso

    Aldilà delle celebrazioni infatti, temo ci sia ben poco da esser contenti. Al pari di molte date emblematiche ahinoi, la Festa dei Lavoratori è stata ridotta a formalità pacchiana, se non ipocrita, tant’è che, di anno in anno, sono sempre più convinta del messaggio subliminale insito in quel “Primo maggio su coraggio …” di tozziana memoria, che mi restituisce insospettabile stima nel cantautore torinese! Quest’anno, per l’occasione, nelle parole della presidente del Consiglio possiamo scorgere, con uno slancio di ottimismo e poca critica, un anelito speranzoso: la situazione ci sovviene come ottimale, con un’occupazione senza precedenti che pure non risolve i problemi di chi non arriva a fine mese.

    Checché ne dica Giorgia Meloni la situazione nostrana a livello lavorativo è avvilente. Gli anni che viviamo hanno visto il susseguirsi di prassi e norme tese a svuotare qualsivoglia conquista pregressa in tema di diritto del lavoro: ad oggi il lavoro duro lo continuano a fare quelli che hanno meno tutele e i figli della classe lavoratrice faticano a posizionarsi in ruoli più elevati rispetto a quelli di chi, con grandi sacrifici, ha permesso loro di studiare per elevarsi a condizioni meno disagianti.

    Una manifestazione in occasione del Primo maggio

    Il lavoro sempre più povero

    Oggi lo so, come so che è difficile spiegare a una creatura di una decina d’anni che probabilmente sarà sfruttata! Come si fa a consegnargli l’ipotesi di dover sbattersi il doppio per guadagnare la metà di quelli che la dirigeranno al netto di competenze inferiori alle sue in ambiti che potremmo definire “sensibili” se non li avessimo svelati a noi stessi come “sommersi”? Oltre al danno c’è da considerare la beffa, nella misura in cui, a favorire lo sfruttamento, sono proprio quelli che sarebbero preposti all’advocacy dei lavoratori, primi tra tutti i settori che, proponendosi di supportare le categorie fragili, sfruttano e debilitano le risorse umane a propria disposizione, quale è l’ambito sociale.

    Ho sempre lavorato per organizzazioni non-profit, nessuna di destra, vedendomi riconoscere pochi diritti, economici e fiscali, misurando quanta poca tutela sia riservata al mio settore in questo Paese. Vero è che la destra al potere sta palesando la disaffezione ai non benestanti nel modo peggiore, andando a braccetto coi potenti che, ritenendo di comprare tutto, svendono chiunque non sia funzionale ad una capitalizzazione bieca.

    Le responsabilità della sinistra

    Nella medesima ottica critico le sinistre che lasciano che sia, divenendo complici delle destre quando si tratta di prendere decisioni impopolari. Nonostante la fisionomia sovranista, europea e non, abbia i tratti delle destre al potere, infatti, l’agire politico della controparte, non ha alcun tratto distintivo che favorisca una qualche indulgenza da parte mia, e mi riferisco alle leggi contro gli immigrati, alle tasse non proporzionali al reddito, alle battaglie civili sposate a voce bassa, in un piglio che volendo accontentare tutti, scontenta i più fragili. Per questo, “Odio gli indifferenti” oggi lo interpreto nel significato meno scontato, in riferimento non solo alla complicità, ma anche alla non differenziazione.

    L’egemonia dell’omologazione

    L’omologazione della classe dirigente, come l’omologazione degli individui, è il morbo contemporaneo di matrice capitalistica. L’odierna uguaglianza interclassista non è una conquista, ma un regalo del potere totalizzante dell’edonismo merceologico che le sinistre non hanno scongiurato allineandosi, nel dire e nel fare, a quelli che però, si riservano di additare come fascisti, come si trattasse di una sorta di innatismo che li assolve, perché mai potrà interessarli, un po’ nella falsariga della questioni che si chiamavano “di classe”.

    Pasolini lo denunciava parlando “un potere ancora senza volto”, falsamente tollerante, ma impositivo. “Un nuovo potere ancora non rappresentato da nessuno”, scriveva nel 1974, che palesa la mutazione completa (all’epoca in corso) della classe dominante che tende a omologare, attaccando ogni minoranza in un anelito di standardizzazione funzionale alla gestione della collettività silente. Questo nuovo potere genera e sviluppa nella società del capitale, una forma totalizzante, fascista, che consegue l’omologazione più repressiva. Pasolini parla poi dei codici culturali e addita la sovrapposizione dei comportamentiin capo a schieramenti, ufficialmente, contrapposti. Perché è pericolosa questo allineamento? Perché tende ad escludere ogni differenza, espellendo dal sistema chi non assomiglia allo standard funzionale all’esercizio del potere.

    Oggi che conosciamo il volto di quel potere, perché non corriamo alle contromisure? Perché imbambolati da piccole, false conquiste che ci illudono convenga stare buoni aspettando il miracolo ad personam! Si perché, nel frattempo, ci siamo lasciati convincere che è tutto un magna magna, che non conviene sposare alcuna causa che, prima o poi, si rivelerà ispirata ad un qualche interesse particolare: questo è il danno che ha fatto chi doveva tutelare i lavoratori per mandato, alias, favorire il radicarsi dell’idea che quelli che fanno politica sono tutti uguali e che, a questo punto, convenga votare chi è più spregiudicato e fottipopolo!

    La sinistra ha responsabilità nel non aver c contrastato il precariato

    Lo sfruttamento “bipartisan”

    Lo sfruttamento dei lavoratori in capo ad organizzazione di sinistra, non è forse la forma peggiore di fascismo? L’approccio patriarcale, il mobbing, l’abuso non sono appannaggio della destra: in cosa si distinguono i cittadini e le organizzazioni di destra da quelli di sinistra in questo buffo Paese? Non certo nelle tutele in capo ai lavoratori! Vogliamo ancora credere ad una superiorità di qualche tipo di uno schieramento che si rivolge (solo) ufficialmente alle classi popolari, o riteniamo sia giunto il momento di guardarci in faccia?

    A sfruttare i moti migratori sono state le organizzazioni di sinistra, a propinare i cosiddetti CO.CO.CO. CO.CO.PRO. e altre forme contrattuali ufficialmente illegittime, ma ancora in essere chez nous, sono organizzazioni di sinistra che hanno la gestione pressoché totale del settore: denunciare vuol dire non essere complici, ma viene considerato tradimento, esattamente come avveniva tra camerati, come vogliamo regolarci? Io ritengo non si possa più rimandare quel cambiamento che chiamano Rivoluzione e credo che a promuoverlo debba essere la mia generazione, terra di mezzo di troppi paradigmi subiti e poche conquiste conseguite, come le donne, che guideranno il cambiamento.

    Giovani e precariato

    Le principali frange sociali cui guardare alla ricerca di alleanze necessarie sono le Seconde Generazioni e i Precari, equivalente contemporaneo di Studenti e Operai. La Borghesia tende a ridurre tutto a se stessa, per questo le viene consegnata la gestione del potere. I gruppi sociali che identifico come portatori di cambiamento migliorativo, di contro, sono sfaccettati, accomunati solo dalla necessità di tutele che nessuno non interessato in prima persona gli consegnerà mai.

    La festa del lavoro nel titolo dell’Unità di molti anni fa

    In attesa di una nuova sinistra   

    Che le nuove alleanze siano vocate ad una parità di condizioni che ispiri la comune emancipazione. E che la nuova rappresentanza condivida i tratti, sociali e civici, delle minoranze che sono state sempre e solo funzionali alla propaganda di destra come di sinistra. Che la nuova sinistra si riappropri di valori sviliti, ma fondanti, decidendosi a concedere l’accesso alla rappresentanza, anche alla classe dei lavoratori, non gli attuali sindacalisti che oltre alla causa si sono venduti anche il cervello!

    E il Primo Maggio 2025 sia l’ultimo a vederci scontenti, figlie di un Dio minore, artefici del proprio riscatto, erroneamente delegato, per noia o per rassegnazione, alla classe politica più cialtrona e machista di sempre!

    Manuela Vena
    Presidente Associazione Culturale Fidem
    Membro del tavolo  di aggiornamento sul Piano d’Azione Nazionale
    su donne,
    pace e sicurezza    

  • Calabria abbandonata: è davvero il turismo mordi e fuggi la salvezza?

    Calabria abbandonata: è davvero il turismo mordi e fuggi la salvezza?

    In un articolo comparso qualche tempo fa su Repubblica a firma di Fiammetta Cupellaro
    si tornava a parlare dei gradi temi che riguardano le politiche di coesione e sviluppo dell’Italia. Tra questi, le aree interne di cui ormai tutti conosciamo i dati horror: dal numero di Comuni coinvolti, 4mila (il 48,5% del totale di quelli italiani), al tasso di invecchiamento della popolazione e del loro abbandono, in un Paese che già soffre di un livello di emigrazione giovanile preoccupante.

    Riguardo i giovani, il Meridione registra un -6,3% contro il -4,3% del Centro e il -2,7% del Nord. Al Sud i Comuni in declino sono per oltre i due terzi nelle aree interne. Ed è dalle stesse aree meridionali che proviene la metà dei flussi migratori nazionali (46,2%), confermando il triste primato che tutti conosciamo da almeno settanta anni a questa parte. Tra 20 anni l’80% dei Comuni delle Aree interne sarà in declino e la Calabria entro il 2050 scenderà sotto 1,5 milioni di abitanti, con una perdita di circa 368.000 persone rispetto al 2023.

     

    La Calabria che si svuota

    L’ultimo rapporto Demografia e Forza Lavoro del Cnel sottolinea poi come la Calabria sia quella che soffre di più con una continua erosione del suo capitale umano e con un ritardo feroce nel recupero dell’occupazione rispetto ad altre aree, interne e non, del Sud.
    Bassa natalità, alto tasso di emigrazione giovanile, poca offerta di lavoro. Elementi che cozzano con la nuova narrazione di una Calabria proiettata nel futuro che cerca di vendersi a tutte le fiere internazionali come nuova mecca di un turismo ancorato al rafforzamento del sistema aeroportuale regionale in atto.

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    Un aereo sulla pista dell’aeroporto di Lamezia

    Ci si chiede allora: su quale modello di sviluppo sta puntando la Calabria? Può il turismo Ryanair rappresentare il motore della produttività regionale? Qual è il ruolo di piccoli comuni e aree interne in questo processo? E, più in generale, come il governo intende rimettere al centro la metà delle aree del Paese in via di desertificazione demografica, sociale ed economica?

     

    È chiaro a tutti che la questione meridionale, spesso derubricata a retaggio del passato, sia più contemporanea che mai e rappresenti una delle principali zavorre per la competitività di un Paese che ha lasciato le politiche di sviluppo e coesione territoriale a bagnomaria

    Le aree interne e la risposta della bomboniera

    Le prime a cadere sono state le aree interne, abbandonate a loro stesse, e in costante emorragia di risorse pubbliche, private e capitale umano. Da qualche anno a questa parte, a queste aree interne è stata data la risposta della cosiddetta “bomboniera”: trasformare lande abbandonate e cosiddetti “borghi” in paeselli vetrina ad uso e consumo dei turisti della domenica. Un giro in moto, una camminata, una mangiata, una dormitina in un b&b del luogo, qualche foto da condividere sui social con relativo hashtag. Poi tutti a casa. Una strategia del mordi e fuggi non sorretta da flussi turistici in grado di creare un’economia stabile e attrattività strutturale per aree che restano con pochi servizi, e deficit logistici enormi.

    L’Europa e lo Stato

    Lo dicono chiaro anche le scelte politiche effettuate: l’inutile legge salva-borghi, lo squilibrio dei finanziamenti PNRR tra territori di serie A – “borghi pilota” a rischio abbandono finanziati con decine di milioni di euro e un fondo complessivo nazionale di 420 milioni con Gerace che è assegnatario di 20 milioni -, e territori di serie B – 229 borghi ”qualunque” con un fondo di 580 milioni su base nazionale cui la Calabria partecipa con 133 progetti.

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    La sede del Parlamento europeo

    Un piano di attrazione degli investimenti non esiste. Men che meno la capacità amministrativa per lasciare l’attuazione degli interventi finanziati in mano a piccoli comuni, sempre a corto di personale: ingegneri e architetti lavorano a scavalco e gestiscono uffici tecnici di diversi comuni. E i finanziamenti europei programmati nel settennato 2021-2027 per lo sviluppo e il potenziamento di tale capacità amministrativa non sono strutturali. Ci investe l’Europa, ma lo Stato no. E, come è noto, per gli organismi di attuazione dei fondi comunitari conta più dimostrare di saper raggiungere i target di spesa, la quantità, piuttosto che la qualità di quella spesa.

    Si investe male, poco e in modo sperequato rispetto ad un fabbisogno che solo in minima parte riguarda la rigenerazione urbana, la creazione di parchi di varia natura, di percorsi tematici, di azioni di valorizzazione un tanto al chilo che si rivelano progettualità alimentate col respiratore artificiale. Incapaci di stimolare una crescita strutturale basata su politiche di sviluppo di lungo periodo.
    Il modello “bomboniera” non serve a nulla.

    Strategie per le aree interne

    Oltre un anno fa Poste Italiane inaugurava il progetto Polis – Case dei servizi di cittadinanza digitale: 1,24 miliardi di euro per il potenziamento dei servizi digitali alla cittadinanza tramite i 6.933 uffici postali coinvolti nei Piccoli Comuni con meno di 15 mila abitanti. Un progetto di cui non si conosce il livello di attuazione e che comunque non prende di petto il problema dell’occupazione, della logistica e dell’accessibilità che, ad esempio, nella nuova programmazione 2021- 2027, Regione Sicilia ha caratterizzato come Obiettivo di Importanza Strategica.poste-uffici-calabria-riaprono-e-dai-paesini-non-si-fugge-piu

    Bisognerebbe in ordine sparso:

    1. aggregare i servizi tra comuni contigui delle aree interne con l’obiettivo di realizzare un’unione tra enti;
    2. riprogrammare politiche e interventi di sviluppo per il miglioramento delle condizioni di vita e di mobilità nei territori. L’anticamera per attrarre capitali umani e finanziari;
    3. diversificare gli investimenti pubblici, sganciandosi dall’assunto che il turismo (quale turismo?!?) sia panacea di tutti i mali;
    4. Puntare sulla creazione di filiere del lavoro guardando alle caratteristiche e alla vocazioni dei territori;
    5. Stimolare l’attrazione di investimenti privati per la creazione di imprese e posti di lavoro, unico argine allo spopolamento.

    Due “sorprese”

    I dati ISTAT esposti all’inizio danno un elemento curioso quanto ovvio: la speranza di vita nei Comuni Ultraperiferici del Mezzogiorno è più alta di quella riscontrata nei Poli di attrazione dell’emigrazione. In certe aree del Sud, come la Calabria, c’è l’aspettativa di vivere di più.
    C’è poi un altro date interessante sul patrimonio culturale: su 4.416 tra musei, gallerie, aree archeologiche e monumenti e complessi monumentali pubblici e privati italiani, quasi quattro su 10 (39,4%) si trovano nei piccoli Comuni delle Aree Interne, gestiti più o meno alla buona, stagionalmente, spesso ad accesso gratuito, con una striminzita offerta di attività ad essi collegate, poco digitalizzati e senza poter contare su grandi risorse. Un capitale immobilizzato a metà che deve essere sbloccato.

    Collegando questi elementi con investimenti in infrastrutture digitali, in un’agricoltura e allevamento moderni, in servizi avanzati, in produzione di energia pulita, in forme di turismo residenziale e non stagionale, qualcosa potrebbe muoversi.

  • GENTE IN ASPROMONTE| “Il selvaggio” Demi, l’uomo che unisce comunità

    GENTE IN ASPROMONTE| “Il selvaggio” Demi, l’uomo che unisce comunità

    Quella di oggi è una storia di passione, morte e rinascita. Contemporaneamente anche un racconto di community building, incubazione di “proto-imprese”, collaborazione e azioni dal basso per la rinascita delle aree interne. Perché dietro – o, meglio, attorno – al protagonista si snodano le strade e le scelte di altri protagonisti che contribuiscono a formare una nuova narrazione corale dell’Aspromonte. Sono le vite degli altri nella storia di Demetrio D’Arrigo, per tutti Demi e meglio conosciuto sui social come AspromonteWild. Per me il cicerone con cui ho alle spalle molte giornate condivise, tanti chilometri percorsi, tracce di speleologia e geologia e un confronto serrato sui temi che riguardano le aree interne, i restati e i ritornati. Il nostro rapporto, nato durante la visita a Pietra Cappa in occasione dell’intervista ad Annamaria Sergi , si è strutturato nel tempo e Demetrio è diventato compagno di esplorazioni e amico.

    La nostra tappa stavolta è stata a Roghudi Vecchio, antico insediamento aggrappato a uno sperone di roccia nel ventre dell’Amendolea, versante Sud dell’Aspromonte. Diverse volte alluvionato, dichiarato inagibile, è in stato di abbandono fin dagli anni Settanta. Terra di vento, crepacci e leggende nel cuore della Calabria greca dove ci sono cascate che, per la loro conformazione, fungono da prima palestra per i neofiti del torrentismo.
    «Pronto a fare l’esperienza delle corde?», chiede mentre ci appropinquiamo alla meta. L’idea è di realizzare un’intervista in natura, cercando di documentare le attività e le passioni di Demetrio D’Arrigo, voce autorevole tra gli operatori del settore e leader indiscusso del comparto sport di montagna.

    La seconda vita di Demetrio D’Arrigo

    «Sono alla mia seconda vita. La prima, un passato nel mondo della post-produzione musicale, si è chiusa diversi anni fa. Di quella conservo il mio orecchio assoluto. Abbracciare la montagna, perdendomici in solitudine anche per giorni, mi ha risollevato da un momento cupo e mi ha indicato una nuova strada. Il mio percorso inizia nel 2007, anno del mio ingresso nel Soccorso alpino. Nel 2009 lancio la mia associazione impegnata nella valorizzazione del territorio e nella promozione dei percorsi escursionistici in Aspromonte. Nel 2013, grazie alla legge sulle professioni non regolamentate, avvio la mia attività di guida canyoning. Poi nel 2015, finalmente, dopo un corso di formazione promosso dall’Ente Parco, divento una sua guida ufficiale. Oggi sono socio fondatore dell’ENGC e unico calabrese a farne parte. Sto cercando di diventare una guida completa, sia sul versante sportivo che escursionistico, accompagnando su più terreni, su diversi territori e in varie attività sportive».

    Oblio e alleanze

    Formatore, istruttore di canyoning molto conosciuto e riconosciuto, Demetrio D’Arrigo è un incredibile facilitatore: oltre al proprio lavoro coi gruppi turistici, si dedica a promuovere e divulgare le risorse del territorio ai calabresi, collaborando con le comunità e svolgendo una vera e propria attività di coaching e capacity building.
    È quello che gli ho visto fare durante le uscite di gruppo e i sopralluoghi a due durante tutti questi mesi: disseppellire da un oblio collettivo patrimoni naturalistici ed escursionistici e, contemporaneamente, rafforzare il fronte delle alleanze per lo sviluppo tra i territori. È stato lui a introdurmi e presentarmi a Giuseppe Murdica, Stefano Costantino con la moglie Arianna Branca e i tanti altri restati e ritornati con cui collabora e che ha spronato a credere nella possibilità di uno sviluppo endogeno.

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    Demetrio D’Arrigo e Peppe Murdica

    «Tento di ricucire i territori con le loro comunità, spesso inconsapevoli delle loro risorse naturalistiche e di quello che può essere attivato. Una cosa che è diventata quasi naturale, perché è parte integrante della natura stessa delle attività escursionistiche e sportive che propongo. I residenti dei territori inseriti nei miei itinerari sono un elemento essenziale: sono i loro custodi. Tra loro ci sarà sempre qualcuno con una storia da raccontare e un patrimonio da divulgare». Praticamente la nuova frontiera del marketing territoriale di prossimità.
    È quello che è successo nella piccola comunità di Armo, media collina a un passo da Reggio; a Piminoro, versante occidentale del lato più tropicale dell’Aspromonte che domina la Piana di Gioia Tauro; a Pietrapennata, tre case, qualche decina di abitanti e nemmeno un forno, più in quota di Palizzi Vecchio, dove allena i suoi allievi su una delle palestre di roccia utilizzate dagli scalatori.

    Lo schema di Demetrio D’Arrigo

    Lo schema di Demetrio D’Arrigo è sempre lo stesso: effettuare sopralluoghi alla ricerca di mete per nuovi percorsi escursionistici; agganciare i loro abitanti per carpire la natura e l’essenza di quei luoghi; costruire itinerari stimolando quelle comunità a creare servizi di accoglienza, promozione delle tipicità, narrazioni autentiche; lanciare quei nuovi punti escursionistici attraverso i suoi canali digitali, aggiungendo ogni volta un nuovo nodo a questa infrastruttura immateriale di relazioni. L’indicizzazione dei motori di ricerca gli dà ragione, il suo sito è da anni in prima posizione su Google. «E nel periodo estivo gli accessi alle pagine hanno notevoli picchi di ingresso».

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    Mimmo Plutino e Stefano Costantino

    A confermarmelo è Stefano Costantino, componente della Cooperativa Sant’Arsenio. Realtà di forte ispirazione cattolica, opera ad Armo dal 2005 aggregando piccole produzioni locali, orti urbani, ospitalità, formazione per le scuole, approccio eco-sostenibile. «Demetrio D’Arrigo è spuntato qualche anno fa per contrassegnare Armo, terra del monaco eremita Sant’Arsenio, come una delle ultime tappe del Cammino Basiliano. “Abitate un luogo straordinario da cui è passata la storia del monachesimo di Calabria. Siatene fieri”».

    Da Armo a Piminoro

    Mimmo Plutino, diacono della parrocchia, è più esplicito: «Quando, qualche anno fa, tornai a visitare il canyon dei Rumbulisi, condividendone le foto, Demetrio D’Arrigo mi contattò per organizzare un itinerario che unisse il canyon e la grotta del santo, mostrando contemporaneamente le formazioni rocciose di arenaria del luogo e la visita in paese. La sua idea ha funzionato, alimentando un nuovo flusso di visitatori». Che, oltre all’accoglienza e alle piccole produzioni, trovano ad Armo, conosciuta in zona per il modello di raccolta differenziata a impatto zero fatta con gli asinelli, un dedalo di murales a cielo aperto realizzato dal gruppo Creativi Armo.

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    Murales ecosostenibile realizzato ad Armo con il recupero dei tappi di plastica

    Lo stesso copione è andato in scena a Piminoro: dall’incontro di Demi con Giuseppe Murdica, già impegnato nella rivalutazione di vecchi sentieri verso le tante vie dell’acqua di questa frazione, sono germogliate iniziative nuove. Da un primo tentativo di ristorazione familiare ed ospitalità alla riattivazione, nel 2019, della Cooperativa Monte dei Pastori. «Ho conosciuto Demetrio 13 anni fa, in occasione di uno dei suoi sopralluoghi. Dopo avergli mostrato una delle tante cascate che abbiamo in zona, l’ho invitato a pranzo. Da lì sono nati un confronto e una sinergia che non si sono mai fermati».

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    L’area dell’ex caserma Naps a Piminoro

    Oggi Giuseppe con la sua famiglia ha creato un punto di riferimento per escursionisti e camminatori. Non solo: la cooperativa ha chiesto al Comune di Piminoro la concessione dell’area della vecchia caserma NAPS (Nuclei Anti Sequestri della Polizia di Stato), passata dal Comune all’Ente Parco che l’aveva lasciata in abbandono dopo un periodo transitorio in cui vi erano stati ospitati i richiedenti asilo. L’idea è di creare un villaggio polifunzionale con 300 posti letto e servizi per roulottes e camper. I lavori sono già partiti.

    La montagna che collassa

    Se questa emergente strategia complessiva sia consapevole o meno non posso dirlo, ma che inneschi un processo di auto-sostentamento è fuori di dubbio. Ed è funzionale alla battaglia contro l’abbandono e la deriva di territori in cui, emigrati gli uomini che li abitavano, la Natura si è ripresa spazi di vita e comunicazione un tempo antropizzati. «L’abbandono porta al collasso delle aree interne. Questi movimenti di persone e idee che cerco di accompagnare rappresentano un antidoto e una risorsa in un mondo dove il comparto del turismo e dei servizi collegati prende sempre più piede.

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    Torrentismo a Piminoro

    Se prima il modello di sviluppo legato a una certa industrializzazione appariva l’unica via possibile, oggi le attrazioni naturalistiche sono parte di soluzioni alternative per la rinascita dei territori. Ogni paese aspromontano ha diverse possibilità di creare un indotto a partire dalle proprie risorse: acqua, legna, pietre, antichi mestieri. Bisogna condurre quegli abitanti a crederci. Una montagna abbandonata non torna più autentica o incontaminata, ma rischia il collasso».

    È proprio così: quelli che fino agli anni Settanta e Ottanta erano territori abitati, stanno andando alla deriva. I tornanti che conducono a Roghudi Vecchio, una volta battuti e curati, sono ora invasi da una natura che se ne è riappropriata. Ma dove si attivano certi processi, la storia prende una piega diversa. Il passaggio dall’attività volontaristica o associazionistica a forme imprenditoriali rappresenta un punto di svolta: «L’associazionismo è quello da cui tutti siamo partiti. All’inizio può fare la differenza per la grande capacità di coinvolgere, mostrare e narrare. Ma per chi decide poi di fare questo lavoro, la dimensione volontaristica deve diventare impresa: partite IVA, ditte individuali, cooperative. Un passaggio obbligato che oggi è sempre più evidente: tante guide, tanta scelta per il turista di prossimità e per chi arriva da lontano».

    Tutto quello che serve

    È un punto su cui Demetrio D’Arrigo batte molto e sul quale io stesso mi sono soffermato durante una delle prime uscite a Natile, quando ho assistito al confronto serrato tra lui e Annamaria Sergi, ex presidente di quella Pro Loco. Riassunto: se vuoi crescere, devi fare il salto. Sergi si è poi messa in proprio: ha fondato una sua associazione programmando un percorso più strutturato per lo sviluppo della vallata delle Grandi Pietre.
    «Questa d’altronde è anche la mia storia. Da realtà associativa ho lentamente compiuto un passaggio verso un’imprenditorialità che mi permette di vivere seguendo la mia passione: lavorare con la natura e in natura, accogliere, divulgare, fare formazione e sport. A ben guardare abbiamo già tutto quello che serve: natura, cultura, storia, diverse tipologie di attività e ulteriori servizi da sviluppare. Credo che, se si decide di restare, le opportunità di lavoro non manchino. Però bisogna rafforzare l’acquisizione di competenze specifiche anche in relazione allo sviluppo di filiere produttive».

    La filiera delle pietre

    L’esempio che ha in mente è specifico e riguarda l’economia circolare: «Anche se i turbo-ambientalisti mi criticheranno vedo un’opportunità nella cosiddetta filiera delle pietre. La provincia di Reggio è localizzata a cavallo di un sistema complesso di fiumare in cui si deposita di tutto e che andrebbe irregimentato. Dalle pietre può derivare una grande ricchezza in ottica di edilizia eco-sostenibile. Ciò consentirebbe di monitorare i torrenti mantenendo stabili, puliti e dragati i loro greti e fornire materiale naturale, resistente e ad impatto minimo per costruire». Ma come al solito serve una visione abbracciata da una politica che dia seguito a soluzioni idonee per le procedure amministrative: ad esempio un sistema di concessioni. «Mi piacerebbe che ci fossero più persone giuste al posto giusto. Se politica e amministratori ascoltassero le richieste e i suggerimenti dai territori, si vivrebbe in modo differente». Ossia migliore.

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    La fiumara di Roghudi, ideale per la cosiddetta “filiera delle pietre”

    Demetrio D’Arrigo tra monaci e politica

    Un esempio di questa crasi incomprensibile è la vicenda legata al collegamento dell’ultima tappa del Cammino Basiliano che termina al Duomo di Reggio Calabria: 81 tappe divise tra Calabria e Lucania, con la presenza di 10 dei borghi più belli d’Italia e 3 siti UNESCO. Un progetto finanziato da Regione Calabria per valorizzare, salvaguardare e promuovere la fruizione eco-sostenibile dei patrimoni presenti lungo la dorsale di questo sentiero. Demetrio D’Arrigo, che è membro dell’omonima associazione che lo ha incaricato di elaborare le ultime tre tappe del sentiero, la racconta con diplomazia: «Non sono riuscito a collegare l’ultima tappa che va da Armo a Reggio e a piazzare i cartelli che indicassero le rotte percorse dai monaci perché non ho bussato alla porta giusta».

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    Una delle 81 tappe – la numero 35, da Villaggio Mancuso a Pentone – del Cammino basiliano, con relativo cartello

    La verità è più tragicomica, più à la Totò. Come referente dell’associazione da cui aveva avuto mandato, si era rivolto al Comune di Reggio per individuare settore e responsabile cui inoltrare la richiesta di autorizzazione per l’apposizione della segnaletica. Dopo diversi tentativi era emerso che avrebbe dovuto rivolgersi all’Ufficio Pubblicità. Cosa c’entrasse la pubblicità con la sentieristica e la valorizzazione dei beni naturalistici e culturali è ancora da capire. Fatto sta che tra passaggi, lungaggini, burocrazia e Covid non se ne è fatto nulla. La sua ultima mail al Comune risale al 15 novembre 2021. Poi il silenzio.

    Il silenzio di Reggio

    «Credo non avessero capito che si trattasse di un sentiero e che, per completare il percorso, da contratto con la Regione che ha finanziato il progetto, si sarebbe dovuta apporre tutta la segnaletica. Il Comune di Reggio è l’unico tra quelli contattati che non mi ha considerato. A Motta San Giovanni mi hanno aperto le porte, a Montebello il sindaco si era addirittura offerto di accompagnarmi per indicarmi il punto esatto in cui le indicazioni andavano apposte, seguendo la posizione di alcune chiese o punti di passaggio. I cartelli li ho ancora a casa e sono pronto a piazzarli appena ce ne sarà possibilità».

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    Il Comune di Reggio Calabria

    Arrivati alle cascate di Roghudi, siamo poi scesi con corde, picchetti, moschettoni e mute. Un’esperienza di straordinaria intensità utilizzata anche nelle sessioni di team building dal management di medie e grandi aziende.

  • Primo Maggio, la festa del precario

    Primo Maggio, la festa del precario

    Il Primo Maggio è un rito stanco, cui il tempo, la modernità e diverse scelte politiche hanno sottratto senso. Semplicemente il lavoro, per come intere generazioni hanno imparato a concepirlo, non c’è più.
    Lo hanno sostituito forme di impiego precarie e sottoposte a forme di sfruttamento rapaci e del tutto legalizzate da una legislazione sedotta dal mito della flessibilità. In pratica, ci hanno raccontato che per avere lavoro occorreva stimolare la crescita, ma per avere la crescita dovevamo rassegnarci a rinunciare a qualche diritto.
    Oggi siamo rimasti senza diritti, la crescita c’è stata, ma il prezzo pagato è stato altissimo.

    Lavoro e flessibilità

    Del resto l’allarme era già giunto, quando Gorz avvisava che «Il sistema economico produce ricchezze sempre crescenti con una quantità decrescente di lavoro». In altre parole: oggi siamo capaci di produrre la stessa quantità di ricchezza di ieri, ma con meno ore di lavoro e l’impegno di meno persone. Questa condizione, però, invece di liberarci dalla fatica ha aggiunto una sofferenza sociale diffusissima e straziante, perché all’idea di flessibilità lavorativa si è assommata la frustrazione della precarietà sociale: in una società in cui ci hanno insegnato che siamo quel che facciamo, essere disoccupati, non fare niente, corrisponde allo smarrimento del proprio status.

    Gli effetti della precarietà

    Ma non basta: la precarietà genera fragilità sociale e con essa la rassegnazione che viene dall’antipolitica, una forma di disinteresse che è tra le ragioni dell’astensionismo, vera minaccia per le democrazie liberali.
    La precarietà del lavoro non è solo fatica presente, ma anche minaccia futura. La società e le persone ne pagheranno il prezzo più tardi, quando dopo decenni di lavori a termine, sempre differenti, si scoprirà che avremo un numero grande di persone che non hanno potuto accumulare esperienze, competenze e saperi.

    Se il lavoro uccide

    Nell’immediato la precarietà si è trasformata spesso in tragedie sul lavoro, morti causate dalla necessità di massimizzare i profitti, dall’assenza di sicurezza e dalla vulnerabilità sociale dei lavoratori stessi.
    In alcuni casi i morti non erano nemmeno lavoratori, ma studenti macinati letteralmente nel meccanismo del perverso rapporto “Scuola–Lavoro”, ragazzi che invece di stare nelle aule erano in fabbrica a “imparare” la flessibilità, cioè ad essere sempre pronti a piegarsi ai tempi mutevoli della produzione.

    Reddito e lavoro

    Le responsabilità di tutto quanto non è solo della destra tradizionalmente neoliberista, ma pure delle forze riformiste. La seduzione ingannevole di una modernità veloce e luccicante le ha abbagliate e non hanno saputo immaginare una risposta diversa ai mutamenti che ci hanno travolto.
    Dentro questo discorso entra prepotente il tema del reddito separato dal lavoro, cui le forze politiche dovrebbero guardare senza moralismi. La redistribuzione della ricchezza in una società opulenta sarebbe una forma di giustizia sociale. Ma al di là di questo, molto più prosaicamente sarebbe uno strumento necessario per non fare appassire i consumi, altrimenti il giocattolo si rompe.
    Per il resto ci piace ancora pensare che la sola festa del lavoro sia quella del lavoro liberato.

  • Meec: all’Unical il futuro green è già arrivato

    Meec: all’Unical il futuro green è già arrivato

    Il Master del Dimes – Dipartimento di Ingegneria informatica, Modellistica, Elettronica e Sistemistica dell’Unical – sarà presentato oggi, 4 aprile, nel Palazzo della Provincia di Cosenza. Tanti gli ospiti dell’evento dedicato al progetto di alta formazione in mobilità elettrica ed economia circolare e rivolto ai professionisti del futuro green già dietro l’angolo.
    Il Meec è il primo master di secondo livello in mobilità elettrica ed economia circolare per neolaureati e lavoratori.
    La prima edizione accoglierà fino a trenta partecipanti e, in base a una graduatoria di merito, verranno subito erogate (in tre tranche), borse di studio di 20mila euro ciascuna per dodici corsisti.
    Ai partecipanti sarà conferito il titolo di “esperto in gestione di sistemi e strutture per la mobilità elettrica e l’economia circolare”.

    A chi si rivolge il Meec

    Il percorso formativo nasce da un progetto del Dimes dell’Università della Calabria, nel contesto dei patti territoriali per l’alta formazione, finanziati dal Mur, ed è rivolto a laureati in ingegneria, matematica, fisica, economia, economia aziendale, finanza, statistica e informatica, chimica.
    Un ruolo attivo è svolto dalle imprese: attraverso la partecipazione ai moduli formativi e attraverso gli stage aziendali, ma anche per l’assorbimento di nuovi profili professionali, necessari all’evoluzione di un mondo a misura di veicolo elettrico. Un mondo che ha bisogno di diffusi e innovativi sistemi di carica, delle competenze per la manutenzione e la riparazione, di professionisti con competenze adeguate in materia di riciclo.

    I partner del progetto

    La partnership del progetto è di quelle che innescano rapporti immediati con le imprese, nel segno della mission dei Patti territoriali. Si tratta della Motus-E, la prima e principale associazione italiana costituita per accelerare il cambiamento verso la mobilità elettrica.
    In Motus-E fanno sistema, insieme con gli atenei, i principali marchi automobilistici, le industrie, i fornitori di energia, le imprese di servizio, i movimenti di opinione sulla sostenibilità ambientale.
    L’evento di presentazione del Meec 2023/2024, è anche l’occasione per fare il punto nazionale ed europeo sulla doppia tematica: la circolazione elettrica e il modello di produzione e consumo basato sul riciclo.

    Gli interventi previsti

    I lavori saranno aperti dai saluti istituzionali di Rosaria Succurro, presidente della Provincia di Cosenza. Seguirà l’intervento del direttore del master, il docente Unical Gregorio Cappuccino, che presenterà l’intero progetto con un intervento dal titolo: “L’Unical e il patto con il territorio”. Per il governo regionale, l’assessore allo Sviluppo economico Rosario Varì, interverrà sul tema: “La Regione a sostegno delle imprese e dei cittadini calabresi per la transizione ecologica”.
    Previsti i contributi del docente Unical Piero Guido, co-responsabile del master, “La mobilità del futuro in Calabria è già realtà” e dei rappresentanti della partnership: Fabio Pressi, “Motus-E: l’unione fa la forza”; Francesco Naso, “Il ruolo della formazione tra le opportunità e le sfide della E-Mobility”.

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    Rosaria Succurro

    Il dirigente regionale delle Ferrovie della Calabria, Aristide Vercillo Martino, farà il punto su “ASSTRA e la sfida della mobilità elettrica in Calabria”. In conclusione una storia di successo, quella della tenuta di “Serragiumenta” di Altomonte. Paolo Canonaco sarà testimonial di una Calabria votata alla produzione enogastronomica biologica, al turismo esperienziale, allo sviluppo di realtà produttive totalmente alimentate da energie rinnovabili.

    L’importanza del Meec

    Varia e complessa la tematica al centro del progetto Unical. «Mobilità elettrica non significa soltanto il veicolo ad uso aziendale o privato, dall’automobile, alla navetta, alla bici. C’è tutto un altro versante che riguarda i vari settori dell’economia; basti pensare alle macchine, agli attrezzi, ai mezzi off road per la lavorazione in agricoltura e nelle industrie», spiega l’ingegnere Gregorio Cappuccino, docente di Elettronica del Dipartimento di ingegneria informatica, modellistica, elettronica e sistemistica.
    «In questo nuovo orizzonte si sta muovendo anche il settore pubblico. Gli autobus elettrici hanno una crescente diffusione, del tutto inattesa; i droni verranno utilizzati molto presto, appena sarà licenziato il relativo regolamento, per il trasporto di medicinali e di sacche ematiche da un ospedale a un altro».

    Intorno al Meec c’è un ampio progetto per creare un learning gateway fisico del settore, cioè un punto di riferimento e di scambio per le best practices.
    «Il cambiamento, oltre ad essere un dato di fatto, è un’esigenza di mercato. Il futuro – dice ancora l’ideatore e responsabile del master, – è il recupero delle batterie dalle apparecchiature elettroniche e dagli autoveicoli e per arrivare preparati dobbiamo essere in grado di sfruttare a pieno il valore del riciclo. In questo campo si sta investendo moltissimo e sono interessati anche gli operatori locali. Per tutti questi motivi c’è assoluto bisogno di professionalità ben formate, con competenze tecniche, normative e manageriali».

    Come e quando iscriversi

    Le domande di richiesta di partecipazione al Meec devono essere inoltrate entro il prossimo 30 aprile. Le borse di studio copriranno i costi di iscrizione (pari a 1.900 euro a iscritto, mille per gli uditori), per circa metà dei corsisti, fornendo un sostegno finanziario importante agli studenti e offrendo loro un ulteriore incentivo all’accesso alla formazione di alto livello.
    Tutte le informazioni utili possono essere visionate cliccando qui.

  • Che fine ha fatto Reggio Calabria?

    Che fine ha fatto Reggio Calabria?

    Che fine ha fatto Reggio Calabria? Potrebbe essere il titolo di una pellicola, a metà tra il poliziesco ed il noir. Perché nonostante l’avvento RyanAir, Reggio è sparita: appalti al palo, progetti arrivati all’ultimo miglio e mai completati, cantieri finiti nell’abbandono. E l’assenza di un dibattito pubblico serrato e pragmatico su dove sia e dove voglia andare.
    Dopo l’annuncio dello sbarco della compagnia aerea irlandese, in riva allo Stretto poco si è saputo. Nessuno ha visto il piano industriale successivo ai tre anni in cui la Regione coprirà il costo delle nuove tratte attivate. E il silenzio di imprenditori, associazioni di categoria, amministratori, e operatori vari, non lascia tranquilli. Una rondine sola non fa primavera.

    Reggio Calabria e i dati ISTAT

    Più che la ricettività, il vero tema da porre è l’attrattività. Su questo i dati sono impietosi: nella rilevazione ISTAT del 2023 sui profili delle Città Metropolitane in Italia, Reggio Calabria occupa gli ultimi posti di tutte le voci indicizzate. La sua popolazione è diminuita di 7,3 punti percentuali. Assieme a Palermo e Napoli, risulta l’area con la minore partecipazione attiva al mercato del lavoro. A livello nazionale, presenta la più bassa densità di unità locali relative ad offerta turistica, attività finanziarie e professionali. Senza contare che entro il 2033 è prevista un’ulteriore emorragia demografica.
    Un’Area metropolitana in piena crisi di lavoro e di risorse umane. Incapace di fare sistema. Un non senso rispetto a quello che a Reggio già c’è e che, se coordinato, potrebbe fare la sua fortuna: un aeroporto, diversi punti approdo marino, due università, un museo di rilevanza internazionale e uno del mare in fase di realizzazione, un parco nazionale, decine di km di costa, un patrimonio storico e archeologico non comune, produzioni floristiche ed agricole uniche per caratteristiche e qualità.

    Il rapporto con il mare

    Negli ultimi decenni, Reggio Calabria ha cominciato un cammino verso il modello di Città del Mediterraneo, rivalutando il suo rapporto col mare. Prima con la progettazione del lungomare dall’allora presidente di FS, Vico Ligato. Successivamente con la sua realizzazione sotto la guida di Italo Falcomatà. In ultimo, con la pianificazione del Waterfront da Giuseppe Scopelliti. Proprio il Waterfront – prima cassato da Giuseppe Falcomatà, poi ripreso, rimodulato e spezzettato rispetto all’idea originaria – deve ancora vedere la sua fine, tra cantieri sospesi o semi-abbandonati e misurazioni errate.
    Ne fa parte anche il Museo del Mediterraneo, già inserito nel PNRR,  pensato per «ampliare e potenziare l’offerta turistico-culturale» e dare «impulso al rilancio economico e sociale della città».

    Giuseppe Falcomatà

    Il progetto scomparso

    Resta invece al palo il progetto del porto turistico, Mediterranean Life. da realizzare a Porto Bolaro, zona sud della città, che il Comune ha approvato pressoché all’unanimità con delibera di Consiglio lo scorso 13 novembre 2021. Una grande infrastruttura da diporto con servizi integrati capace di generare attrattività per il territorio e creare 2.500 posti di lavoro. Un’opera a ridosso di una delle fermate della nuova metropolitana di superficie (finanziata con 25 milioni di euro dall’allora ministro dei Trasporti Bianchi) che RFI, una volta terminato l’aggiornamento del listino dei prezzi, è pronta a cantierare. E a due passi da un aeroporto che, per mantenere questa rinnovata vitalità, dovrà dimostrarsi attrattivo, caratterizzando l’offerta Reggio Calabria.

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    Come dovrebbe diventare Porto Bolaro con la realizzazione del progetto Mediterranean Life

    La delibera che approvava il progetto, a seguito del preliminare parere favorevole del dirigente di settore, gli assegnava un interesse strategico fino a ipotizzare di inserirlo nel PNRR. Dava quindi mandato al sindaco (poi sospeso) di convocare una conferenza inter-istituzionale per preparare il relativo accordo di programma ed eventuali deroghe al Piano regolatore, come da verbale della conferenza dei servizi tenutasi il 2 aprile 2019. Dell’inserimento nel PNRR non si è più parlato e dell’accordo di programma non si ha notizia. Dell’idea non si parla nemmeno nella bozza di Masterplan della città: al Punto B.4 del documento che illustra il Parco del Mare, Porto Bolaro, inserito ne “Le spiagge del vento”, è menzionato solo come zona con pontile di attracco. Un po’ poco per un documento programmatico che dovrebbe dettare le linee di indirizzo della futura città.

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    L’area costiera interessata dal progetto, così come appare oggi

    Botta e risposta

    Il progetto non è nemmeno previsto nel nuovo Piano Strutturale Comunale, che non prevederebbe ulteriori cubature in città e su cui pure la Regione pare abbia sollevato diverse osservazioni.
    Inoltre il recente Piano spiaggia prevede per Porto Bolaro solo l’autorizzazione per punti di approdo e bagni chimici, eludendo la possibilità di erogare servizi per le imbarcazioni in sosta. Non di certo un incoraggiamento.
    Nel botta e risposta tra il raggruppamento di imprese e l’amministrazione Comunale, Paolo Brunetti, facente funzione durante l’interregno di Falcomatà, ha dichiarato che il progetto esecutivo richiesto dal Comune non sia mai arrivato. Peccato che non si trattasse di una gara pubblica, ma della presentazione di un progetto “di particolare complessità e di insediamenti produttivi di beni e servizi” presentato con “motivata richiesta dell’interessato” con relativo studio di fattibilità, come previsto dal comma 3 dell’articolo 14 delle legge 241/1990.

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    Pino Falduto, l’imprenditore reggino promotore del progetto

    Lo scorso 8 febbraio, a oltre due anni dalla delibera, tramite Pec, il raggruppamento di imprese coinvolte, con a capo una reggina, ha scritto al Comune. Ribadendo di poter fornire gratuitamente «assistenza tecnica per il completamento dell’iter amministrativo», ha chiesto «un incontro di chiarificazione tecnico amministrativa» per «dare finalmente impulso» al progetto. Che, dice il sindaco, oltre ad incassare il parere favorevole di Sovrintendenza, Enac, Città Metropolitana, deve essere coerente con PSC, piano spiaggia, Ferrovie. Gli stessi attori presenti nella conferenza dei servizi preliminare e gli stessi documenti programmatici in cui un’ipotesi del genere non si menziona.

    Reggio Calabria in silenzio

    Per aumentare il proprio appeal turistico Reggio Calabria non può fermarsi all’offerta di città green che guarda alla cultura come idea di sviluppo. Deve promuovere una grande infrastruttura che punti sull’intermodalità (Forza Italia ha appena presentato un emendamento all’ultimo decreto del PNRR proprio sul rafforzamento dell’intermodalità e sull’annullamento dell’addizionale comunale sui diritti di imbarco sugli aerei). Un’opera che incoraggi il partenariato pubblico-privato inserito nel Masterplan e che sfrutti la geografia dell’area: al centro del Mediterraneo e della grande autostrada del mare che collega Oceano Atlantico e Oceano Indiano.

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    Uno yacht di fronte a Porto Bolaro

    Serve un’infrastruttura che attragga investimenti e capitali, generi economie di scala e spalanchi una nuova porta di accesso al suo territorio e ai suoi patrimoni: Museo del Mediterraneo, Museo della Magna Grecia, Parco Nazionale dell’Aspromonte, bergamotto, archeologia e storia millenaria. Potrebbe essere Mediterranean Life?
    Per questo, però, servono volontà, visione, continuità, strategia, vitalità, partnership e convergenza. Invece divisa, isolata, inaccessibile, lasciata all’oblio di un dibattito che non c’è, Reggio Calabria sembra non aver imparato la lezione. Mentre continua a perdere residenti, forza lavoro, capitale umano e opportunità.

  • Eranova, cronaca (e romanzo) di un assassinio di Stato

    Eranova, cronaca (e romanzo) di un assassinio di Stato

    Si può avere il coraggio di cancellare un intero paese, sradicare centinaia di migliaia di alberi per costruire un’acciaieria consci della crisi dell’industria siderurgica e, per giunta, che il progetto non sarà mai realizzato?
    Si può, purtroppo si può. Ed è il sunto della storia amara di Eranova, della truffa ordita negli anni Settanta del secolo scorso ai danni della Calabria, una terra fra le più povere del Continente, da sempre subordinata a forze superiori e spolpata dai massicci flussi emigratori; una storia che, se non fosse realmente accaduta, potrebbe apparire un romanzo a metà fra l’umorismo – tendente alla satira – e la distopia.
    Una storiaccia che, in effetti, proprio un romanzo ha riportato recentemente a galla, in un momento storico in cui tanto ci si interroga sull’opportunità di certi nuovi mirabolanti progetti pensati per la Calabria, per strappare i calabresi dalle secche dell’“insostenibile” sottosviluppo economico e infrastrutturale e schiudere loro inaspettati orizzonti di benessere.
    La vicenda di Eranova, il fu centro agricolo della Piana di Gioia Tauro, rivive nelle pagine di Un paese felice, l’ultima fatica letteraria dello scrittore Carmine Abate.

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    La Piana di Gioia Tauro

    Eranova, il paese profumato di zagara

    Prima che scoccasse l’ora fatale, Eranova era una frazione costiera del comune di Gioia Tauro, distinta dall’inebriante profumo di zagara e dalle distese di vigneti, uliveti e agrumeti che ne tingevano di colori il territorio parallelo alla spiaggia, dirimpetto alle Eolie.
    Un luogo paesaggisticamente meraviglioso che era stato fondato nel 1896 da un gruppo di braccianti stanchi di sottostare alla tirannia dei padroni della vicina San Ferdinando. Uomini e donne anelanti libertà, ché “la libertà è tutto nella vita di un uomo, come l’aria che respiriamo”.
    Un’aria fresca e pulita che d’un tratto, susseguentemente al famigerato Pacchetto Colombo (dal Presidente del Consiglio dei Ministri Emilio Colombo che lo annunciò) volto ad acquietare gli animi di parte dei calabresi dopo le rivolte di Reggio Calabria del 1970 – causate dalla decisione del governo di conferire a Catanzaro il titolo di capoluogo di regione –, venne inquinata dal limaccio e dai miasmi del denaro, della sopraffazione, del compromesso e degli intrighi politici in nome della parola-bestemmia degli ultimi cinquanta, sessant’anni della storia d’Italia: il progresso.

    I Moti di Reggio
    I Moti di Reggio

    Eranova: l’origine del disastro

    Moti di Reggio e successivo Pacchetto Colombo, dunque. Originano un po’ tutti da lì i mali della Calabria degli ultimi decenni.
    Il progetto del quinto centro siderurgico con annesso porto commerciale, di fatti, fu assegnato a Gioia Tauro nel 1972 come compensazione della rivolta reggina. Una assegnazione avvenuta senza una chiara programmazione ma indirizzata principalmente a placare gli spiriti inferociti e diretta a un settore, quello dell’acciaio, già in aperta crisi per via della stagnazione sia dell’edilizia sia della cantieristica – l’acciaieria di Bagnoli registrava perdite paurose e per quella di Piombino si pensava alla chiusura –; una crisi ampliata dopo l’apertura, nel 1965, dell’impianto di Taranto, che deturpò la città sullo Jonio e la sua piana punteggiata da ulivi secolari, da un giorno all’altro bollati come testimoni di un mondo arcaico, inutile cordone con una civiltà contadina da lasciarsi alle spalle senza troppi dispiaceri.

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    Quel che resta delle acciaierie di Bagnoli

    La bella Taranto, abbracciata dal mare e cantata nei secoli da poeti e viaggiatori – Pasolini nel suo viaggio in Italia del 1959 la definì “una città perfetta” –, sparì, lasciando spazio a un’area industriale che spianò per Taranto la strada verso il titolo di città fra le più insalubri del pianeta. Quel precedente, però, non fece squillare alcun allarme alle orecchie turate di una buona porzione dei calabresi e dei governi nazionali e regionali.

    Mille miliardi gettati al vento

    Appalesatesi presto i primi segni del prevedibile inganno, gli abitanti della città offesa dalla mancata assegnazione del capoluogo, nella cui provincia sarebbe ricaduta l’opera con tutti i suoi utopistici benefici, furono i primi a non mollare di un centimetro affinché il disegno del centro siderurgico della Piana non fosse rimodulato o accantonato. Già in quegli anni settanta, di fatti, era stata stabilita la antieconomicità del progetto dell’acciaieria e delle infrastrutture collegate, con quell’investimento statale monstre di mille miliardi di lire che sarebbe stato impossibile da recuperare, tanto che anche Finsider e Iri avevano consigliato di spostare l’impresa in zone più propense alla sua realizzazione, vale a dire Lamezia Terme e Crotone.

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    I lavori per la realizzazione del polo siderurgico, 1976 (foto Michele Marino)

    Titolò La Stampa, il 24 agosto 1973: “Reggio vuole a tutti i costi il 5° ‘Centro’ di Gioia Tauro”. Un fermo sostegno da parte della città più popolosa della regione per scongiurare un ripensamento, un cambio di rotta – il quale, chiaramente, sarebbe stato visto come di matrice politica – che, qualora fosse sopraggiunto, avrebbe condotto i reggini di nuovo in piazza per riaprire la tutt’altro che sopita polemica circa il capoluogo.
    Una posizione ferrea che assumeva la forma di un ricatto morale a cui lo Stato italiano si piegò ma che di vittime non ne mietette presso i palazzi del potere, bensì soltanto nella disgraziata Calabria.
    Soprattutto in quel piccolo centro di Eranova, il paese felice del romanzo di Abate, un libro testimonianza che si fa portavoce di tutte le ingiustizie subite dalla Calabria e dai calabresi, un’opera che, grazie all’incoraggiamento “di un coro di voci veritiere” – come afferma lo stesso autore originario di Carfizzi –, permette di fare emergere una storia drammatica seppellita dalla mala coscienza nazionale e locale.

    Il disastroso impatto ambientale

    Dietro la promessa da marinaio della creazione di circa 7.500 posti di lavori offerti ai calabresi – molti dei quali, emigrati in Alta Italia, in Germania, nelle Americhe, già pregustavano il sognato ritorno a casa: «Ci sarà il progresso finalmente! Non possiamo vivere solo di zappa e partenze» –, a Eranova si procedette allo sbancamento della spiaggia e all’esproprio di 500 ettari di terreno. Fu un sacrificio che il deputato socialista Giacomo Mancini, fra i maggiori sostenitori dell’impresa fallimentare, definì “minuscolo” considerati i cinquantamila ettari coltivati nell’area.
    Si assistette così all’abbattimento impietoso di circa 700.000 alberi – cifra abnorme che pure se non fosse corrispondente al vero dà comunque la misura dello spaventoso abuso perpetrato contro la natura – e della folta pineta marina che riparava dal vento e dalla salsedine i prosperosissimi uliveti, vigneti e agrumeti, quest’ultima coltivazione, ritornata col tempo un fiore all’occhiello della Piana, oggi nuovamente strozzata dalle politiche europee.

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    Andreotti, Mancini e l’allora sindaco Gentile posano la prima pietra del Quinto polo

    Una serie di azioni scellerate che estirparono per sempre il profumo di zagara che contraddistingueva quel tratto della Piana e stravolsero le vite di centinaia di famiglie.
    Il polo siderurgico di Gioia Tauro non è stato mai realizzato e il porto commerciale della città – costruito per dare supporto all’acciaieria fantasma inondando l’area interessata con due milioni e mezzo di metri cubi d’acqua – si staglia oggi come unica testimonianza tangibile di quella promessa che cinquant’anni fa illuse per l’ennesima volta i calabresi; un impegno puntualmente non mantenuto dalla Repubblica e che si trasformò in un imponente sperpero di fondi pubblici, nonché in un colossale affare per politici e mafiosi.

    Un memento per i calabresi

    L’avanzare delle voraci gru, delle ruspe e delle draghe, la lenta e inesorabile cancellazione del paesino di Eranova, le proteste dei pochi eranovesi non lasciatisi incantare dagli unicorni delle favole e corrompere dal dio denaro, il blocco dei cantieri per i ritardi circa l’arrivo degli indennizzi per gli espropri e i trasferimenti verso i nuovi alloggi allestiti presso anonimi quartieri di Gioia Tauro e San Ferdinando.

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    Lo scrittore Carmine Abate

    Sono tutti aspetti e riflessioni che, attraverso la storia romanzata di Un paese felice, Carmine Abate ci racconta, risvegliando il ricordo di una cicatrice mai rimarginata e stimolando il popolo calabrese – cui sovente, nella storia, si è ritorta contro la sua acquiescenza e la sua proverbiale accoglienza – a tenere sempre alta la guardia dinanzi ai canti ammaliatori dei signori del “progresso” e ai nuovi piani di ripresa e “pacchetti” di varia forma e natura che oggi o domani potrebbero essere offerti come manna dal cielo.