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  • BOTTEGHE OSCURE | Braccia, bestie e giovinette nella storia dell’olio calabrese

    BOTTEGHE OSCURE | Braccia, bestie e giovinette nella storia dell’olio calabrese

    Trappeto a sangue. Si chiamava così il frantoio per la molitura delle olive azionato da uomini e animali, e ciò basta a dare un’idea di quanta fatica costasse la produzione di olio fino all’impiego dei moderni macchinari. Poi vennero i frantoi meccanici, più rari e in genere mossi dalla forza idraulica, ma fino al XVIII secolo la lavorazione delle olive in Calabria seguiva tecniche arcaiche.

    Olio-calabria-i-calabresi
    Trappeto a sangue all’uso genovese. Dal volume di Grimaldi del 1773
    Trappeto alla calabrese e alla genovese

    Decisamente arcaico era il cosiddetto “trappeto alla calabrese”: due grandi viti incastrate nella pietra pressavano le olive già lavorate dalla macina. Il sistema consentiva però una scarsa resa e la necessità di scaldare i frutti prima della lavorazione ne inficiava la qualità. La svolta arrivò nella seconda metà del XVIII secolo grazie all’introduzione del trappeto “alla genovese”.

    Costituito da un torchio a unica vite, tale sistema giunse in Calabria nel 1773 sponsorizzato dal marchese genovese Domenico Grimaldi proprio per la regione in grado di produrre «più di centocinquantamila macinature di ulive, ciascheduna di nove tomola». La reclame del marchese sortì gli effetti sperati giacché il frantoio “alla genovese” resse fino alla comparsa delle prime macchine novecentesche. Il trappeto era sinonimo di prosperità, oltre che di esibizione dello stato sociale.

    Macina di frantoio in rovina nelle campagne di Santa Sofia d’Epiro nel 2017
    Le braccia e le bestie

    Lo spiega bene il solito Vincenzo Padula: «Nessun nostro galantuomo si crede proprietario davvero quando non abbia un trappeto». Le figure chiave nel sistema di lavoro del trappeto erano essenzialmente tre: l’oliandolo o agliere, l’attizzatore o tizzuni, e il saccardo o vetturino. Quest’ultimo si occupava di condurre l’animale, in genere un mulo o un bue, che faceva andare le macchine e versava la pasta d’olive macinate sui fischiuli per essere pressata al torchio.

    Una paga misera

    Toccava poi all’attizzatore il compito di spingere le olive con una pala sotto la macina a ogni giro della stessa. Infine l’oliandolo faceva funzionare il torchio e, dopo la spremitura, raccoglieva l’olio dal pozzo. Nonostante le enormi fatiche, il lavoro nel frantoio permetteva ai fattoiani (quanti lavoravano in un “fattoio”) di mettere da parte una riserva d’olio per uso familiare. Per ogni macina di olive infatti, essi avevano diritto a poco più di due litri d’olio, da spartirsi però con l’oliandolo, l’attizzatore, il saccardo oltre che col proprietario del frantoio.

    Coloro i quali portavano le olive a macinare avevano il buon cuore di offrire agli operai anche «la minestra di fave, o fagiuoli, e pane, formaggio e salame per spesare i fattoiani». Insieme al pasto trangugiavano grandi quantità d’olio, tanto che «la favata, che dalla popolana viene apparecchiata per essi, deve nuotare nell’olio».

    “Più pende, più rende”

    L’olivicoltura calabrese ottocentesca dalla coltivazione alla potatura e dalla raccolta alla molitura era praticata con scarsa cura e nulla razionalità. Ciò portava a raccolti esigui e a oli di scarsa qualità. Il proverbio secondo cui l’olivo “più pende più rende” conduceva infatti alla raccolta in periodi in cui il prodotto aveva già perso di qualità. In una relazione del 1863 il professore Giuseppe Antonio Pasquale scriveva che «le olive cascano da sé a poco alla volta, s’imbrattano di terra e si feriscono, poi s’ammonticchiano ed incamminano, e fermentano, e rancidiscono, e talora saponificano».

    Olive nella tradizionale rete utilizzata per la raccolta

    Un tale spreco era inconcepibile. Secondo lo scrivente era necessario dunque «raccogliere le olive colle mani da sopra l’albero, e spremerle tosto in apparecchio tersissimo, ed ecco l’olio più puro che la natura e l’arte possa dare». Da questo punto di vista, le olive della Piana di Gioia Tauro erano da preferire perché da un uliveto di venticinque piante si poteva ricavare un totale di 200 tomoli, e di conseguenza 4 botti d’olio per un totale di 16 quintali.

    Il nettare verde amato dagli italiani

    Nonostante i metodi arcaici e gli esigui raccolti all’alba del ventesimo secolo le olive, e in misura maggiore l’olio prodotto nelle province calabresi, deliziavano i palati di tutta Italia e a volte superavano i confini nazionali. Il rapporto intitolato “Sul commercio oleario delle Calabrie nel 1902”, firmato dal direttore del regio oleificio sperimentale di Cosenza, Flaminio Braccis, ripercorre le strade imboccate da questa “pregevole derrata” il cui traffico complessivo, specie via mare, «raggiunse la rispettabile cifra di 153.373 quintali, peso netto».

    “Il vaiuolo dell’olivo”

    Si tratta di numeri che, a detta di Braccis, andavano quasi ad eguagliare «il livello normale dei tempi migliori, dopo un periodo abbastanza prolungato d’insolita depressione, causata dalla fallanza continuata dei raccolti». Il migliore di quell’anno si registrò in provincia di Catanzaro, mentre Cosenza e Reggio furono penalizzate da fattori ambientali. Per gli oliveti «dell’ampia zona Rossanese che si stende fin sulla spiaggia del mare» fu un’annata inclemente a causa del cycloconium o più semplicemente “vaiuolo dell’olivo” che causò gravi danni. Allo stesso modo nella zona tra Gioia Tauro, Rizziconi, Radicena, Cittanova e Polistena la nemica si rivelò essere la mosca tardiva specie nelle zone pedemontane. Nonostante ciò i produttori calabresi non si persero d’animo, motivati a esportare la loro eccellenza a migliaia di chilometri di distanza.

    Raccolta delle olive in Italia. Stampa francese del 1862
    L’olio esportato in Francia

    Le commesse, seppur in calo, non mancavano. Gli oli provenienti da Rossano e Gioia Tauro raggiungevano la Francia, mentre la stessa località della Piana fu penalizzata dal venir meno della commessa record di 10milia quintali di olio da ardere proveniente dalla Russia. Anche per questo motivo i coltivatori reggini si convinsero a puntare sull’impianto di qualità di olive “mangiabili o fini”, più redditizie, dirette principalmente in Liguria (Genova, Porto Maurizio, Oneglia e Sanremo), Toscana (Livorno) e nel Barese. Mentre gli oli industriali prendevano soprattutto la strada di Sicilia, Sardegna e del Napoletano. Gli “scali” dell’allora versante tirrenico catanzarese (Pizzo, Nicotera, Sant’Eufemia) brillavano sia per esportazioni di oli da tavola sia per quelli industriali, diretti anche in questo caso in Campania, Toscana ma anche a Venezia.

    L’olio al solfuro

    Ma dal punto di vista logistico i più organizzati erano gli scali ionici di Rossano e Corigliano e quello tirrenico di Amantea, da dove «si effettuarono spedizioni a vagoni completi per la Liguria, il Barese e Napoli». Lo stesso rapporto annovera tra le eccellenze calabresi in ascesa un nuovo protagonista: l’olio al solfuro. Prodotto negli stabilimenti di Rossano, Cariati, Catanzaro, Siderno e Gioia Tauro, veniva utilizzato e apprezzato dalle industrie cosmetiche di Catania, Genova e Bari per la produzione di saponi verdi che cominciavano a far la loro comparsa nelle toilette dell’epoca bella.

    La “buona scuola” tra gli uliveti

    Ai sistemi arcaici utilizzati nei secoli precedenti fece da contraltare, nel senso del progresso, l’esperienza vissuta da alcuni allievi della Scuola pratica d’agricoltura di Cosenza (oggi Istituto agrario “G. Tommasi”). Ciò che recentemente chiameremmo entusiasticamente “buona scuola”, “alternanza scuola-lavoro” o “a scuola d’azienda” si praticava tra gli oliveti della provincia di Cosenza già 120 anni fa. Nell’anno scolastico 1902-1903 il Ministero dell’agricoltura pensò di promuovere un corso teorico-pratico d’oleificio su esplicita iniziativa dell’Oleificio sperimentale di Cosenza diretto da Flaminio Braccis. Al corso, indirizzato oltre che agli studenti anche a operai e agenti di campagna, parteciparono due classi della locale Real scuola pratica d’agricoltura diretta dal cavalier Tommasi (che oggi dà il nome all’Istituto agrario).

    A lezione dai latifondisti

    Per venti giorni venti allievi di due classi frequentarono lezioni specifiche ed approfondite tra Cosenza (Campagnano e Rovello), Montalto Uffugo, Rossano, Amantea, Scalea. Qui, sui terreni di ex latifondisti incuranti ora apertisi alle diavolerie della modernità, ebbero luogo conferenze, visite e dimostrazioni pratiche in campagna: dalla constatazione dello stato del frutto e delle piante alla scelta delle parcelle di terreno da sottoporre a concimazione chimica, dallo studio delle malattie dell’ulivo ai rimedi possibili e ai sistemi di piantamento dell’olivo.

    Il fine, esplicitato nel documento finale, fu quello di convincere e formare al «vantaggio degli ordegni moderni e delle pratiche razionali di oleificazione che hanno sostituito e vanno sostituendo in quest’ultimo quinquennio ai preadamitici frantoi ed ai torchi di legno». Ma c’è di più. A una scuola che, secondo gli indirizzi ministeriali, veicolava un’agricoltura finalmente razionale e non più arcaica si aggiungeva un aspetto non secondario. Il corso era non solo gratuito, ma ciascun partecipante fu rimborsato delle spese di viaggio (andata e ritorno) mentre ai più bisognosi venne riconosciuto addirittura un compenso giornaliero. Naturalmente tutti gli studenti erano maschi.

    Raccoglitrici di olive negli anni ’50 (immagine tratta dalla pagina facebook: Calabria Fotografia Sociale)
    Le insidie sessuali del padrone

    E le donne? Le raccoglitrici di olive condividevano i medesimi patimenti e condizioni di lavoro disumane delle gelsominaie. Più o meno giovani, le donne lasciavano i propri paesi per recarsi negli uliveti dei grandi proprietari nei diversi giorni della campagna di raccolta e condividevano locali angusti e poco igienici. Inoltre erano soggette alle insidie sessuali del padrone o dei suoi fattori. Scalze e curve sul terreno per la raccolta lungo tutta la durata della giornata, dovevano poi sobbarcarsi il peso dei sacchi colmi di olive fino ai depositi. La paga era quasi sempre misera, incerta e molto spesso corrisposta in natura. Alle raccoglitrici era concesso infatti di mangiare solo le olive già cadute al suolo ma non potevano portarne a casa. La condizione delle “montanine” che si riversavano nelle zone marittime nei mesi di maggior produzione è esposta nei minimi particolari da Vincenzo Padula.

    Giovinette sotto l’ombra degli ulivi

    Il letterato di Acri non manca di annotare che «il più vago spettacolo è d’inverno nella marina del Jonio: giovinette di tutti i tipi, che vestono di tutti i colori, che cantano in tutti i tuoni, ora sole, ora a gruppi, ora ritte, ora piegate sotto l’ombra degli ulivi». Non riuscivano però a racimolare «più di 34 centesimi al giorno», mentre erano sorvegliate da un misaruolu che nella giornata guadagnava una lira. Padula denuncia una realtà fatta di angherie, maltrattamenti e violenze commesse dai padroni che amavano «godere della voce, e delle grazie di quelle poverelle, alle quali danno 34 centesimi al giorno per disonorarle».

    Al momento della partenza per i luoghi di lavoro i genitori le mettevano in guardia ma «molte ed assai molte immemori dell’avvertimento paterno vi perdono l’onore; molte sono più avventurate, e prima divengono concubine, poi mogli di alcuno dei loro padroni». Non mancavano componimenti in versi e canzoni sull’argomento, tra cui una che Padula ebbe modo di sentire da una donna e che diceva in modo ironico: «Mi susu la matina/ Mi mindu lu jippuni/ U pulici d’u Baruni/ M’è venutu a muzzicà».

  • La pasta e patate “ara tijeddra” di Napoleone

    La pasta e patate “ara tijeddra” di Napoleone

    I calabresi sono orgogliosi che in questi giorni le patate della Sila vengano pubblicizzate nelle grandi reti televisive. Alcuni esperti di cucina ritengono che gli abitanti della regione siano talmente attaccati alle proprie abitudini da aver mantenuto intatte per secoli le tradizioni culinarie. In un recente manuale sulla gastronomia regionale si legge che le pietanze, composte da pochi prodotti semplici, nonostante il trascorrere del tempo sono rimaste sempre le stesse: in Calabria tutto quel che è antico è attuale. In realtà molti alimenti alla base della cucina calabrese fanno parte di una storia recente, frutto di un lento e difficile rapporto di assimilazione.

    Le patate della Sila durante il tempo della raccolta

    Un pericolo per corpo e anima

    Resistenze e cautele vi furono nei confronti dei prodotti portati dagli spagnoli dopo la scoperta delle Americhe. Chierici come José de Acosta sostenevano che le piante introdotte dalle Indie in Spagna fossero poche e riuscissero male, mentre quelle che dalla Spagna erano state esportate in India fossero numerose e riuscissero bene. Consumati da popolazioni selvagge che non conoscevano la parola di Dio, quei cibi erano pericolosi per corpo e anima: soprattutto il peperoncino a cornetto, per la natura «calda, fumosa e penetrativa», stimolava la sensualidad, pregiudicando la moralità dei giovani.

    Cibo? No, piante ornamentali

    I botanici erano ostili alle piante straniere perché pensavano che un alimento, salubre in alcuni climi e insalubre in altri, potesse provocare gravi malattie come la lebbra. Patate, mais, topinambur, pomodori e peperoncini erano buoni solo come piante ornamentali e, nei trattati sull’arte dell’ortolano, non erano presi neanche in considerazione. Gli studiosi, in realtà, conoscevano poco le nuove piante, di alcune ignoravano la provenienza e facevano una gran confusione persino sui nomi. Nel 1792, Gilli e Xuarez notavano che la descrizione del peperoncino era così scarsa e imprecisa che probabilmente molti, tra cui lo stesso Linneo, non avessero mai visto la pianta e «per mera notizia data da altrui l’avevano descritta».

    La mela insana

    Alcuni osservavano che i «pomi d’oro», una volta maturi, erano di un rosso intenso e che con tale nome erano conosciuti arance, cedri, limoni e altri agrumi che per il colore giallo somigliavano all’oro. Il pomodoro era chiamato anche «mela insana» e «mela aurea» e, in alcune zone, come ci informa un cuoco maceratese, «melanzana». Tozzetti, autore di un libro sulla storia delle piante forestiere introdotte nell’agricoltura, confermava che gli storici avevano pareri diversi sulla loro provenienza. Taluni, ad esempio, sostenevano che i peperoni fossero presenti già nell’Impero romano mentre altri affermavano che erano stati portati dalle Indie orientali in America e da qui introdotti in Europa.

    Patata, il nemico numero uno

    Tra i prodotti “americani” fu la patata a incontrare maggiore ostilità, probabilmente perché tra le molte specie esistenti se ne annoveravano alcune velenose. Nel 1767, Zanon lamentava che, quantunque da decenni in molte nazioni europee se ne facesse largo uso, in Italia i «pomi di terra» erano noti solo ai botanici. Fra gli agricoltori era diffusa la convinzione che le patate avvelenassero i terreni, facessero deperire le piante, contribuissero a far crollare il prezzo dei cereali e provocassero seri danni alla salute di uomini e animali.

    Una inconcepibile stravaganza

    Le patate più nocive erano quelle coltivate nei paesi caldi e nei trattati sui veleni si accenna a persone morte dopo averne mangiato un piatto. I pomi di terra erano diabolici perché cagionavano malattie gravi come la «lepra» e i proprietari si opponevano con «indicibile ostinazione» alla loro produzione. Uno studioso scriveva sconsolato che indifferenza, ostinatezza e ignoranza di molti possidenti facevano sì che la coltivazione del tubero fosse vista come una prova di «inconcepibile stravaganza e come un delirio dello spirito umano» e, dovunque, le patate erano «riguardate come un prodotto di giardinaggio».

    Un cibo per ricchi

    In molti, tuttavia, cominciarono ad apprezzare le qualità dei pomi di terra indicandoli come un dono del cielo: erano facili da coltivare, avevano un sapore squisito e si preparavano facilmente lessandoli in acqua o cuocendoli nella brace. A chi sosteneva che provocassero pericolose malattie, gli studiosi facevano notare che in diversi paesi europei le popolazioni che si nutrivano di tale tubero crescevano sane e robuste.

    Sembrava ovvio che mangiarle ogni giorno le rendesse indigeste, ma ciò sarebbe accaduto con l’uso di qualsiasi altro alimento. Era falsa anche la diceria secondo cui le patate, cibo buono per i maiali, fossero utilizzate dai governi per sfamare i poveri. In realtà erano presenti sulle tavole dei ricchi e i cuochi le preparavano in vari modi: cotte sotto la cenere o in tegame con butirro fresco; stufate con formaggio, cipolla, aceto ed erbe odorose; bollite, pelate e condite con olio e aceto; tagliate a fette e fritte con il lardo nell’olio o nello strutto.

    La Calabria scopre la patata

    Alla fine del Settecento le patate in Calabria erano coltivate solo da alcuni curiosi. Galanti scriveva che a Cosenza erano sconosciute, a Castrovillari se ne ignorava persino il nome mentre nel Crotonese alcuni possidenti avevano cominciato a piantarle, ma non fu possibile dar loro «voga» per una certa avversione degli abitanti. Swinburne racconta che un giorno cucinò patate in vari modi per i frati minimi del convento di Monteleone, ma questi, dopo il primo boccone, le rifiutarono ritenendole insipide e disgustose e ne mangiarono un po’ ricoperte con burro misto a una salsa di aglio e pepe della Giamaica. Alcuni studiosi sostenevano che uno dei motivi della resistenza dei campagnoli nei confronti delle patate fosse legato alla convinzione che i governanti, «per difetto di migliore alimento», volessero imporre quei tuberi che si davano ai maiali.

    La tijeddra di Napoleone

    Furono i funzionari del governo napoleonico a incoraggiare la coltivazione delle patate in Sila. I soldati avevano contatti con gli abitanti e finivano per influenzarne i costumi. Gli ufficiali partecipavano alle feste organizzate dalle ricche famiglie cosentine e il valzer rimpiazzò i balli locali; nelle locande cittadine, gli osti preparavano vivande con ricette francesi e probabilmente la pasta e patate ara tijeddra, ancora oggi un piatto amato dai cosentini, fu introdotto dai soldati napoleonici.

    Napoleone nel dipinto di Jacques Louis David

    Un premio ai coltivatori

    Nel 1812 la Società economica della Calabria Citeriore stabilì un premio per chi le seminava e Cosentini, grande proprietario terriero, le coltivò per circa tre anni con eccellenti risultati. Si trattava soprattutto di patate bianche dai bulbi tondeggianti, poiché quelle gialle, rosse e lunghe, anche se più «saporose», non vegetavano dappertutto e rendevano meno. In un opuscolo Silvagni incoraggiava i coloni a seguire l’esempio di Cosentini e consigliava di cuocerle mettendole sotto la brace, al forno o in acqua bollente, toglierle sino a che cedevano alla pressione di un dito e poi raffreddarle, levare la buccia, tagliarle a fette e insaporire con olio, sale e burro.

    Il commercio della patata

    Nel tempo, proprietari terrieri e contadini mutarono il proprio atteggiamento e gli studiosi notarono che le patate erano apprezzate soprattutto dai giovani, che le preferivano a fagioli e mais. Nel 1845, Grimaldi scriveva che in Calabria la coltivazione delle patate si andava «giornalmente estendendo» e che erano ormai nella maggior parte dei paesi si seminavano in maniera costante. Tre anni dopo, Raso annotava che da intingolo erano diventate oggetto di proficuo commercio e, cucinate in vari modi, erano sempre presenti sulle tavole dei contadini.

    Le patate della Sila sfondano

    Qualche anno dopo Pugliese scriveva che le patate, prima aborrite perché ritenute velenose e indigeste, si mangiavano con piacere ed erano particolarmente ricercate dai contadini che le acquistavano dai mulattieri di Bocchigliero e San Giovanni in Fiore dove erano coltivate in maniera intensiva. Nella seconda metà dell’Ottocento, le patate erano seminate non solo nei territori di montagna ma anche in quelli collinari e pianeggianti. Pur se prodotte in grandi quantità, non coprivano comunque il consumo interno e gli stessi agricoltori, spesso erano costretti ad acquistarle poiché facilmente deperibili. Come i cereali, si conservavano in grandi cisterne di muratura costruite in aperta campagna, coperte da strati di paglia e felci contro l’umidità, ma i risultati non erano incoraggianti.

  • BOTTEGHE OSCURE | Quando a Parigi facevamo i… fichi

    BOTTEGHE OSCURE | Quando a Parigi facevamo i… fichi

    Dalle neviere ai fichi ci fa da trait d’union la scirubetta. Era una e una sola l’essenza per eccellenza che si mescolava alla neve raccolta al momento e trasformata in granita nel bicchiere: il miele di fichi. Questa leccornia tanto ricercata quanto complessa da ottenere, è solo uno dei prodotti che nella Calabria e nel Cosentino si ricavavano dalla coltivazione dei fichi. Oltre al frutto da mangiare fresco e al miele ricavato tramite la sua bollitura e spremitura, a tenere alta la bandiera calabrese negli scorsi decenni sono stati i fichi secchi, che nella seconda metà dell’Ottocento raggiungevano le tavole di mezza Europa rappresentando per la Calabria una significativa fonte di guadagno.
    Altro che “non valere un fico secco”!

    Ficu prene

    La cultura popolare e contadina ha poi elaborato il prodotto in varie altre declinazioni, in base alla forma, all’intreccio, all’essiccazione, al passaggio in forno o all’abbinamento con altra frutta secca. Le crucette, che Accattatis nel suo Vocabolario del dialetto calabrese chiama anche ficu prene e definisce «due o quattro fichi spaccati, imbottiti di noci e simili ingredienti, incastonati a forma di croce e tostati al forno», sono forse i prodotti più noti, ma non sono i soli. Ficu ‘mpurnate, cioè passate al forno, jette, trecce di fichi secchi infilzati ad un’asta di canna, ficu a pallune, i fichi secchi e infornati, uniti all’interno di foglie a formare una palla dalla grandezza di un pugno, sono solo alcune delle specialità tradizionali più ricercate. Ma a volerle elencare tutte… te salutu ped’e ficu!

    Fichi al forno
    Fichi al forno (foto Rosalia Spadafora)
    Influssi astrali

    Tra Cinquecento e Seicento i fichi calabresi erano rinomati soprattutto fuori regione. Ne offre una preziosa testimonianza lo storico Giovanni Fiore da Cropani in Della Calabria Illustrata (1691): «Nientemeno più prezioso, e per la copia e per la perfezzione egli è il raccolto delli Fichi. Principia egli nel mese di Giugno, e si allunga fin all’altro di Decembre». Fiore scrive a proposito della coltivazione, della diversità delle specie e dell’esportazione verso Napoli, Sicilia, Roma e addirittura Malta.

    Ma come tutti i prodotti della terra, si credeva che anche i fichi fossero soggetti agli influssi astrali e che richiedessero particolari attenzioni nella coltivazione. L’astronomo/astrologo cosentino Rutilio Benincasa nel suo Almanacco Perpetuo divideva i frutti in tre gruppi di dodici. Li distingueva tra quelli che «si mangiano tutti», quelli che «si mangiano dentro» e quelli che «si mangiano quello di fuora». I fichi «che si mangiano tutti» erano dominati dall’Orsa maggiore. Nel calendario annuale, invece, era da annotare la data del 31 agosto, in cui «Andromeda appare, e fa freddetto, ed in questi tempi si domesticano li fichi, e s’incomincia dai 14 di luglio ad innestare et insertare».

    Secondo Benincasa persino il lattice, cioè la sostanza bianca che stilla dal fico non ancora maturo appena raccolto o dalle sue foglie, aveva proprietà benefiche, tanto che a chi avesse voluto far passare il gonfiore di punture di api o di vespe consigliava: «Sopra detto morso vi metterete latte di fico».

    Dalla seta ai fichi

    Dalla fine del Settecento la coltivazione prendeva sempre più piede nelle campagne calabresi, con un particolare incremento nel Cosentino. Nel 1792, nel corso di un viaggio in Calabria, attraversando il Cosentino l’economista e intellettuale napoletano Giuseppe Maria Galanti notò che i fichi stavano lentamente prendendo il posto dei gelsi, a testimoniare un’involuzione dell’economia della seta. Quella dei fichi era infatti una delle “estrazioni della provincia” e «olio, fichi ed uve passe, qualche volta grano» erano le uniche esportazioni che giungevano «fuori dal Regno».

    Certo, il commercio era ostacolato da numerose “vessazioni”. Tra queste, il “lasciapassare” che era necessario anche all’interno della Calabria «per trasportarsi i generi d’olio, di cotone, formaggio, lana, lino, canapa, fichi secchi, da un lato all’altro». Galanti non può fare a meno di notare e annotare che «la miseria sembra estrema ne’ casali di Cosenza. La principale industria era la seta; si tagliavano prima li castagni per piantare gelsi: oggi si esercita a pura perdita ed in luogo di gelsi si piantano fichi». Anche nel Vallo, cioè nei paesi della Valle del Crati, «da pochi anni si sono fatte gran piantagioni di olivi e di fichi dove i gelsi si sono invecchiati».

    Così pure nel «litorale da Amantea a Belvedere» l’industria della seta, un tempo principale, era in declino, mentre era attivo un discreto commercio di fichi secchi. La coltivazione dei fichi era praticata abbondantemente anche nelle altre aree della regione, ma non sempre riusciva a travalicare i confini territoriali. A tal proposito lo stesso Galanti fa notare che nei dintorni di Tropea «i fichi secchi si reputano i migliori del paese» ma la loro esportazione era scarsa: «si seccano i fichi e le prugne damascene, che sono ottime, ma sono per l’uso del paese».

    Trecentomila quintali

    A fine Ottocento le qualità più pregiate venivano coltivate a Cosenza, Rende, Rose, Castiglione Cosentino, Roggiano, Torano, Rovella e Zumpano. La produzione in media raggiungeva i 300 mila quintali. La gran parte di questi veniva esportata «al prezzo medio di L.34 per ogni quintale». Il prodotto di prima scelta veniva confezionato e spedito all’estero.

    La Francia ne importava ancora agli inizi del Novecento le quantità più significative, ma fichi calabresi giungevano anche in Olanda, in Austria e, ovviamente, in tutte le regioni d’Italia. Se ne trova menzione anche nel carteggio di Filippo Turati, uno dei fondatori nel 1893 del Partito dei lavoratori italiani dai quali nascerà lo storico Partito socialista. In una sua lettera del 1920, infatti, Turati accenna a un Berardelli indicandolo come «quello dei fichi di Cosenza».

    Non mancavano le note dolenti. Non sempre i prodotti calabresi riuscivano a imporsi all’estero, e a difettare non era la qualità, ma spesso la capacità di saperli presentare in modo efficace. Durante un congresso di frutticoltura nel 1927 uno dei relatori, a proposito dell’esportazione dei fichi di Cosenza, notava che spesso «difetti nella scelta delle razze, nella cernita e nella confezione del prodotto, nei sistemi di imballaggio, tengono i nostri fichi secchi in condizione di inferiorità» ma allo stesso tempo ricordava che «i migliori fichi di Cosenza, esportati in Francia e pagati a prezzi modici, vengono quivi accomodati in modo civettuolo in eleganti cestini e rimessi in commercio col nome di fichi di Smirne!».

    Siccaficu e leghe bianche

    Ogni quintale di fichi secchi richiedeva un notevole lavoro. Trattandosi di un prodotto essiccato al sole la variabile metereologica incideva molto. La parte destinata all’essiccazione veniva raccolta dagli alberi una volta giunta a maturazione, i passulùni, e riposta sulle cannizze, graticci di canne intrecciate, pronte a essere ritirate in fretta all’asciutto al primo accenno di pioggia. Ma anche dopo riposte sulle cannizze, il lavoro non era finito. Periodicamente era necessario girarle da un lato, dall’altro, e anche con la punta in alto, perché si essiccassero in maniera uniforme.

    Fichi sulla cannizza
    Fichi in essiccazione sulla “cannizza” (foto Rosalia Spadafora)

    Distese di cannizze colme di fichi al sole costellavano così le campagne attorno alla città e quelle più vicine ai paesi attorno a Cosenza. Per gli abitanti di Sant’Ippolito, ad esempio, Vincenzo Padula riporta il soprannome di siccaficu, a conferma che l’attività era tanto diffusa da caratterizzare il paese. E una simile cosa doveva avvenire a Torzano, attuale Borgo Partenope, dove ancora negli anni ’20 del secolo scorso si era soliti fare anche una “raccolta delle fichi”, oltre che di grano e mosto, per sovvenzionare le feste di Santa Maria e dell’Immacolata che si tenevano all’inizio e alla fine di settembre, il mese dei fichi per eccellenza.

    Donne al lavoro in una fabbrica di fichi
    Donne al lavoro in una fabbrica di fichi – I Calabresi

    In questi centri, così come a Donnici e negli altri paesi del Cosentino, gli intermediari acquistavano la parte migliore per poi immetterla sul mercato. Le famiglie, invece, tenevano quelle di minore qualità da ‘mpurnàre o trasformare in crucette conservandole in apposite ceste o nei casciùni. A contrastare l’attività lucrosa degli intermediari provò don Carlo De Cardona che, nel primo decennio del Novecento, tramite le sue “leghe bianche” aveva incentivato la nascita di una cooperativa di produzione. La cooperativa aveva rappresentanti a Marsiglia, dove giungeva una parte significativa dei fichi calabresi.

    Un frutto, tante varietà

    «Che dir dobbiamo ai venditor di fichi?» si chiede Nicola Leoni in Della Magna Grecia e delle Tre Calabrie (1844). Nel suo pistolotto lirico lo scrivente ammonisce i contadini calabresi dediti a ogni sorta di magheggio pur di piazzare la propria mercanzia: «I buoni esporre de’ canestri in fuori […] i viziosi e i duri occultare in sotto». E di fichi eccellenti, o almeno di buona qualità, in quelle ceste non dovevano essercene in grande quantità. I pezzi migliori, cioè quelli più grassi e intonsi, erano destinati all’esportazione.

    Ficu citrulare
    “Ficu citrulare” – I Calabresi

    Gli almanacchi di cultura popolare calabrese e le istruzioni a uso del contadino citano molteplici varietà. Tra queste:

    • il dottato (volgarmente ottato), «varietà squisita che viene principalmente e specialmente adoperata per seccare»
    • i fichi melignana, che per forma e colore rassomigliavano a una melanzana
    • il calastruzzo, «piccolo e saporito»
    • i fichi biferi
    • i fichi fiore (fioroni), con buccia verde, frutto paonazzo «grossi e di sapore gradito»
    • il messinese
    • il natalino nero
    • il troiano
    Cosenza vs Smirne

    Nella seconda metà dell’Ottocento il fico dottato bruzio era rinomato e secondo soltanto a quello coltivato nella città turca di Smirne. Il motivo è presto detto: il fico cosentino «è più ricco in glucosio, ma più deficiente in sostanze proteiche dei fichi di Smirne: in confronto a quelli i prodotti calabresi sono più piccoli». Anche in termini di peso medio la differenza era macroscopica: 22 grammi contro 10.

    Ciò secondo gli “addetti ai lavori” era dovuto a una coltura praticata in maniera non razionale, senza cure alla pianta e in maniera promiscua, cioè affiancata ad altre piante. Anche per quanto riguarda le fasi successive il caro vecchio almanacco si premura di sentenziare: «Converrebbe migliorare la tecnica dell’essiccamento che si fa al sole pei primi fichi e al forno per gli ultimi, ma sempre con mezzi deficienti, in caso di variazioni dell’andamento della stagione».

    Figues de Cosenza
    Dal gruppo Facebook "Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza"
    Dal gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”

    Bertini, Garritano, Colavolpe, Aloisio sono solo alcune delle decine di aziende del Cosentino con una solida tradizione famigliare alle spalle dedite alla lavorazione e al commercio di fichi infornati, ricoperti, imbottiti. Molti anni prima delle fortune di costoro altri imprenditori, autentici pionieri nel settore, guardavano Oltralpe per piazzare la propria migliore mercanzia.

    Una preziosa testimonianza sulle qualità e le tipologie di fichi esportati è offerta dai marchi e modelli originali custoditi nei corposi registri dell’Archivio Centrale dello Stato. La città di Cosenza e il suo produttivo hinterland (Bisignano, Torano, Vaccarizzo, Montalto Uffugo) si presentavano sul mercato transalpino con un tripudio di etichette sulle quali campeggiavano ancore, pavoni, docili mucche e felini, stemmi inquartati e divinità alate.

    Alcuni sono davvero essenziali, come quello studiato da Catiello Florio, dedito alla fichicoltura dal 1883. C’è poi la ditta Barone&C. di Bisignano, che negli anni ’30 del Novecento si presentava sulle piazze di Parigi, Lione e in tutta la Francia con addirittura quattro specialità a base di fichi e una “prima scelta” propagandata da due falchi divisi da una stella. Infine nel 1906 Guglielmo Pellegrini Lise si rivolge senza mezzi termini ai propri affezionati clienti: «Tra i fichi di Cosenza preferite “la marca sette colli”, esclusiva produzione del luogo».

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  • Cucina tipica calabrese, sapori di un tempo inventato

    Cucina tipica calabrese, sapori di un tempo inventato

    Coadiuvato da un’equipe, Ancel Keys, fisiologo americano e inventore della “razione k”, il rancio dei soldati americani durante la Seconda guerra mondiale, nel 1957 studiò la dieta alimentare degli abitanti di Nicotera, paese calabrese lungo la costa del Tirreno. Su un campione di trentacinque famiglie riscontrò che vi era un basso tasso di malattie cardiovascolari dovuto allo stile di vita e alla nutrizione. La ricerca, estesa ad altre regioni, confermò che le popolazioni del Mediterraneo erano accomunate da un’alimentazione che, per gli effetti benefici sulla salute poteva considerarsi una delle migliori del mondo.

    La dieta mediterranea

    La “dieta mediterranea” ebbe il consenso di medici e consumatori, fino a essere riconosciuta dalla stessa Unesco quale patrimonio dell’umanità. Nelle motivazioni si legge che essa rappresenta un modello alimentare rimasto costante nel tempo e nello spazio, un sistema nutrizionale che favorisce l’interazione sociale, rappresenta i costumi delle comunità, promuove il rispetto per il territorio e garantisce la conservazione di antichi mestieri.

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    Ancel Keys a Nicotera

    Per i popoli del Mediterraneo l’atto del mangiare non è solo una questione di sostentamento. È anche un modo per condividere e socializzare, rafforzare rapporti di parentela e vicinato, incoraggiare incontri e ospitalità, creare convivialità e allegria.
    Oggi molti lamentano che la dieta mediterranea, per via del forsennato processo di globalizzazione, stia scomparendo a vantaggio della diffusione di fast food, luoghi amati soprattutto dai giovani, in cui mangiano frettolosamente pietanze a base di grassi animali.

    Si assumono più calorie e se ne bruciano di meno, sono ridotti i consumi di cereali, legumi, verdure e ortaggi e sono aumentati quelli di carne, uova, salumi, formaggi e dolci. Le tradizioni gastronomiche, strumento fondamentale di protezione identitaria e di coesione sociale delle comunità, sono sempre più trascurate. I cibi semplici e poco elaborati, alla base di un sistema dietetico secolare, sono sostituiti da alimenti di cui s’ignora provenienza e storia.

    Cibo e salute in Calabria

    Non abbiamo una documentazione sufficiente per stabilire quanto in passato l’alimentazione incidesse sulla salute dei calabresi. Alcuni sindaci nelle inchieste governative affermavano che la popolazione, nonostante un regime alimentare povero e monotono, cresceva sana e vigorosa. Le cifre sulla salute dei giovani in occasione della visita di leva, però, erano drammatiche: circa la metà era riformata e rivedibile per bassa statura, deficienza di sviluppo toracico e debole costituzione.

    I medici sostenevano che la gente di campagna era consapevole che mangiare sobriamente fosse un bene per la salute ma la loro dieta vegetariana non era una libera scelta, né una conseguenza di considerazioni mediche o religiose. La predominanza di pietanze a base vegetale non era frutto di un comportamento virtuoso dettato dall’esperienza ma conseguenza del bisogno, della costrizione e della miseria. «O ti mangi sa minestra o te jietti da finestra», o ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra, «è miegliu nivuru pane ca nivura fame», è meglio pane nero che nera fame, sottolineavano due proverbi calabresi.

    Abitudini e desideri

    Non sempre le abitudini alimentari corrispondono al gusto degli individui: diverso è mangiare un cibo abitualmente, altro è apprezzarlo. I contadini consumavano verdura, legumi, ortaggi e cereali ma desideravano carne, pesce, formaggi e dolci. In alcune zone si diceva «carne de puorcu e cavuli all’uortu, chini nun si mangia si trova muortu, pa salute ci vò puru ‘u salatu e cu mangia erba, pecora diventa», per sottolineare quanto fosse necessaria la carne per una buona alimentazione.

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    La carne era cibo destinato ai più abbienti, i contadini calabresi la mangiavano di rado

    Occupati nei duri lavori campestri, i campagnoli preferivano la carne poiché meglio soddisfaceva il bisogno di proteine e, non a caso, dicevano carne fa carne. La gran parte della popolazione non era soddisfatta di quello che mangiava e immaginava l’esistenza di paesi della cuccagna, luoghi in cui consumare carne e pesce in abbondanza, mondi difficili da raggiungere, al pari di quegli alberi della cuccagna a cui, durante le feste, erano appesi polli, capretti, salumi e formaggi.

    Altro che triade

    Molti studiosi affermano che la dieta dei calabresi, come quella di altri popoli del Mediterraneo, si basava sulla “triade” grano, vino e olio. In realtà, gran parte della popolazione non consumava mai pane di grano, per condire usava soprattutto la sugna e beveva il vino solo durante le feste. I contadini seguivano una dieta poco variegata: a colazione, pranzo e cena utilizzavano sempre gli stessi alimenti, con piccole variazioni durante le solennità.

    Per amor di patria, alcuni autori hanno inventato una gastronomia calabrese che con le sue pietanze originali avrebbe rappresentato un fattore centrale per la costruzione di una solida appartenenza culturale. Genuina, semplice ed essenziale, a parte alcune contaminazioni, la cucina regionale sarebbe rimasta sostanzialmente fedele a degli ingredienti e a un’arte culinaria risalente ai tempi della Magna Grecia.

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    Il peperoncino, oggi simbolo della cucina locale, per millenni non ha fatto parte del menu dei calabresi

    In realtà, gran parte degli alimenti considerati tipici della cucina calabrese non esistevano. Sono stati introdotti lentamente nel corso dei secoli dopo resistenze, scontri e patteggiamenti. Il processo di globalizzazione che oggi sconvolge le diete alimentari si è verificato più volte in passato: non si può pensare ad una gastronomia regionale senza i prodotti giunti da Africa, Medio Oriente, India e Asia. Patate, pomodori, mais, fagioli, zucche, peperoncini e altri cibi introdotti dalle Americhe hanno letteralmente sconvolto l’alimentazione dei calabresi, come era successo secoli prima, con la dominazione araba.

    Nostalgia, l’altra faccia della medaglia

    Nei libri di cucina regionale si coglie spesso una nostalgia per i cibi semplici, sani e genuini del passato. I sapienti contadini sapevano come utilizzare ciò che la terra offriva e pianificavano le produzioni in modo da avere ciò che era necessario durante l’anno. Molti rimpiangono quel mondo in cui si rispettava la stagionalità delle coltivazioni, i prodotti si acquistavano nei campi vicini, i cibi non erano viziati da conservanti o coloranti, le verdure non trattate con pesticidi, il grano non geneticamente modificato, gli animali non imbottiti di antibiotici, l’acqua, la terra e l’aria non inquinati.

    In realtà nelle terre situate lungo le fertili pianure in estate si respirava un’aria putrida e malsana che costringeva la popolazione a vivere sulle aspre e inospitali montagne. Lì i contadini avevano la necessità di far durare le riserve di cibo il più a lungo possibile per affrontare gli inverni. E se legumi e cereali duravano nel tempo, a febbraio molti altri prodotti germogliavano, ammuffivano, diventavano rancidi e infracidivano. Gli alimenti da conservare erano essiccati, affumicati, salati o posti in luoghi elevati o sotterranei, con risultati spesso deludenti, mentre quelli immersi in olio, aceto, grasso o miele producevano muffe e perdevano le qualità nutritive.

    Molti pensano ingenuamente che i contadini, poco avvezzi alle novità e utilizzando sempre gli alimenti prodotti nei campi, abbiano creato quella che noi chiamiamo cucina tradizionale. In realtà, gran parte dei piatti proposti nei recenti trattati di gastronomia regionale non esisteva e le fonti storiche che dovrebbero dimostrarne la presenza affermano esattamente il contrario. La “cucina calabrese” è un concetto recente. Affermatesi soprattutto a partire dagli anni Sessanta, le cucine regionali, figlie della crescita e del benessere, si sono sviluppate per contrastare l’egemonia dell’industria agro alimentare.

    Resistenza, ma non solo

    La scoperta e la difesa dei cibi perduti, accompagnate spesso da ricordi nostalgici e ricerche storiche discutibili, non sono tuttavia solo un atto di resistenza contro il dispotismo del mercato globale. Ricettari di cucina, guide gastronomiche e sagre paesane sono aumentati anche e soprattutto per conquistare uno spazio nel mercato locale e, allo stesso tempo, attrarre turisti con la promessa di una cucina sana e dimenticata.

    I pochi piatti della povera dieta dei contadini col passare del tempo si sono moltiplicati come il miracolo dei pesci e la Calabria è celebrata come terra dalle grandi tradizioni culinarie. I piatti del passato vengono abilmente confusi con quelli inventati dai nuovi ristoratori. E così nella regione sono considerati piatti tipici codine di aragosta alla crema di cedro, cernia con funghi e patate, filetti di pesce castagna al vino, orate al cartoccio con olive, pesce spada all’acqua pazza, razza in tegame e, come si legge in un recente libro a cura di Slow Food, frittelle di lattuga di mare e lagane con i murici.

    Aragosta o stoccafisso?

    Leggendo alcuni libri sulla gastronomia calabrese si rimane stupiti dalla ricchezza e dalla varietà delle ricette. In un volume dedicato alla cucina di mare, tra antipasti, focacce, zuppe, fritture e grigliate si presentano ben 226 piatti, tra cui aragosta alla griglia, cernia al forno con olive e capperi, murena alla brace, ricciola con pomodoro e capperi, orata al cartoccio con patate e olive, sarago in crosta di sale e gamberoni.

    Nei ricettari di cucina si legge che si preparavano sarde, alici, sardelle, anguille, lampughe, palamiti, pettini, dentici, mormore, saraghi, orate, sauri, occhiate, spatole, spigole, triglie, cernie, seppie, calamari, polpi, totani, tonni, pescatrici, razze e altre specie di pesci pregiati che i contadini calabresi non avevano mai visto e di cui non conoscevano il nome.
    Il pesce fresco era una rarità e, persino nei pochi villaggi delle coste, gli abitanti mangiavano “baccalame”, pesci secchi, affumicati e salati provenienti dall’estero. Nella stessa Nicotera, come si evince dall’inchiesta condotta da Keys, si faceva largo uso di stoccafisso e baccalà, cucinati fritti, lessi o cotti in padella con cipolla, peperoncino e olive.