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  • I cosentini sul podio nei campionati di cucina: ma non chiamateli chef

    I cosentini sul podio nei campionati di cucina: ma non chiamateli chef

    L’arte di arrangiarsi, tipica delle nostre latitudini, è stata la carta vincente che ha portato sei cosentini sul podio dei Campionati Italiani di Cucina 2022 a Rimini. Medaglia d’argento per Daniele Mannarino e Danilo Liparoti (categoria Mistery box); medaglia di bronzo per Domenico Trentinella, Biagio Girolamo e Luca Grillo (categoria street food) e Eugenio Caloiero (categoria singoli).
    Un ottimo risultato per la Federazione Provinciale di Cosenza. Medagliere amaro, invece, per la Calabria che si classifica al nono posto, ben distante da un podio tutto “terrone” con i primi tre classificati Campania, Sicilia e Puglia.

    La competizione

    La sesta edizione dei Campionati della Cucina italiana, nata dalla collaborazione fra Italian Exibition Group e la Federazione italiana dei Cuochi, ha ospitato nelle ultime edizioni più di 500 concorrenti tra team italiani ed esteri. La manifestazione è riconosciuta dal circuito Worldchefs. La prossima sfida della FIC saranno i campionati mondiali, il tanto prestigioso Bocuse d’Or.
    Sebbene caratterialmente distanti anni luce dallo chef stellato Adam Smith, interpretato da Bradley Cooper ne Il sapore del successo, i cuochi cosentini vivono la cucina con la “cazzimma”, l’inventiva e l’amore viscerale per il proprio lavoro tanto da indentificarsene con l’obiettivo di soddisfare ed emozionare i propri clienti.

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    Bradley Cooper nel film “Il sapore del successo”

    Cucina al buio

    Una sfida nella sfida per i cosentini Danilo Liparoti e Daniele Mannarino che hanno conquistato il secondo posto nella finalissima con una mistery box dedicata ai piatti crudisti, vegetariani e vegan.
    Ma come si fa ad essere i secondi cuochi d’Italia per inventiva? «Con sacrificio, passione e determinazione».

    “Linguino”, cuoco per dovere

    Daniele Mannarino è quasi un figlio d’arte. I suoi genitori erano titolari di un alimentari e pasta, pane e scatolette sono sempre stati i suoi “giocattoli”. Ha iniziato a cucinare a sette anni. Non per passione, ma perché doveva preparare il pranzo ai genitori.
    «A convincermi furono le lacrime di mio padre il giorno della firma dell’iscrizione alle scuole superiori. Avevo scelto l’Industriale ma lui mi convinse a iscrivermi all’Alberghiero, per lui avevo talento”. E visti i risultati, come dargli torto.

    Tante le esperienze professionali maturate, dall’esordio a 14 anni in un villaggio a Soverato ad oggi che di anni ne ha trentasette. È stato cuoco a Rimini, Firenze, Stoccarda ma il cuore l’ha lasciato lo scorso anno in una struttura cinque stelle lusso, tre forchette Gambero Rosso di Seby Sorbello a Zafferana Etnea (Catania).
    «È stata la mia esperienza formativa più importante», anche se il suo punto di riferimento rimane il titolare dell’Osteria Francescana, Massimo Bottura.

    Nella cucina di Mannarino non può mancare un piccolo orto di aromi e spezie, perché «a fare la differenza è sempre la qualità della materia prima».
    I suoi piatti forte sono tutti a base di pesce, primi piatti in particolare; da qui il suo soprannome “Linguino”.
    «La cucina inizia nella testa, passa dal cuore e finisce nelle mani. Il tutto condito – dice – da una giusta dose di amore, territorio e passione».

    Il lato oscuro dell’essere cuoco è lo «stress piscofisico, i sacrifici, il rinunciare agli affetti più cari: amici e famiglia». «È una scelta di vita – spiega – non può essere altrimenti». E sull’esito del Campionato non ha mai avuto dubbi. «Mi aspettavo di vincere sia per la mia propensione a creare piatti nell’immediatezza, sia per le qualità di Danilo, il mio compagno di squadra».
    Mannarino è già proiettato all’edizione dei Campionati 2023, resta solo da scegliere la categoria tra singoli, squadre o street food.

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    Daniele Mannarino e Danilo Liparoti

    Il sacro fuoco dei fornelli

    Ha sempre saputo che nella vita avrebbe fatto il cuoco. La sua prima frittata Danilo Liparoti l’ha preparata a cinque anni, rimediando anche una scottatura. Ma non si è arreso. Anzi. Testardo e determinato ha iniziato a lavorare a 13 anni e mezzo, nonostante le lacrime della madre che ora è la sua supporter numero uno.
    Malgrado i 24 anni d’età ha più di quindici competizioni culinarie alle spalle e nove anni di esperienza nelle principali località turistiche calabresi, italiane con una parentesi in Svizzera. A segnarlo maggiormente il periodo livornese. Entrato in cucina da 17enne aiuto cuoco di brigata è diventato quasi subito il capo cuoco.
    «Una soddisfazione- ricorda – ma allo stesso tempo una grande responsabilità. Non è facile dare ordini a persone più grandi di te».

    Per Danilo cucinare «è sperimentazione, essenzialità, colore. Il blu su tutti». Blu come il mare, blu come il pesce, ingrediente base per le sue specialità di antipasti e primi piatti.
    Oltre a materie prime di qualità e aromi (il finocchietto è il suo ingrediente segreto), nella cucina di Liparoti non manca mai la buona musica. «La cucina è passione, se non si sta bene d’umore non si conclude nulla».
    Per Liparoti non esistono esperienze negative: «Ogni volta si impara qualcosa di nuovo». Come quella volta che dopo un piatto tornato indietro ha passato giornate a rifarlo finché non è uscito perfetto: «Perché la soddisfazione passa dal sacrificio».
    «A Rimini la gara si è svolta in un contesto corretto e leale ma il livello della competizione è stato altissimo. E sentire il proprio nome accoppiato ad una medaglia è stata un’emozione indescrivibile».

    La determinazione di Danilo la si legge negli occhi. Il suo sogno è avere un giorno una struttura tutta sua. Il suo chef di riferimento? «Sicuramente Cannavacciulo».
    La sua strada da sei anni si è incrociata con il suo compagno di gara Daniele Mannarino. Oggi entrambi sono le punte di diamante del Fellini Restaurant di Cosenza che con la sua cucina raffinata e ricercata ha conquistato i palati dei cosentini dopo appena sei mesi dall’apertura.

    Cucina di strada

    È stato cuoco del Fellini Restaurant anche Mimmo Trentinella, terzo classificato nella categoria Street Food insieme a Luca Grillo e Biagio Girolamo. (FOTO 4)
    E se è praticamente impossibile avere una foto dei piatti della competizione a causa dei diritti esclusivi della FIC, per il suo street food Trentinella condivide la foto di una delle tante prove fatte prima di arrivare a Rimini.
    Mesi e mesi di ricerca per sfornare un pan brioche di semola farcito con crema di melanzana cotta sottovuoto al microonde insaporita con aglio e menta, stracotto di maialino nero, cipolla caramellata di Tropea, ‘nduja e caciocavallo Dop; il tutto pastellato e fritto. (FOTO 5)

    «Lo street food – spiega Trentinella – è sempre stato un mio pallino, sin da ragazzo». Negli anni Mimmo ha viaggiato molto in Europa per il suo lavoro. «Ad attrarmi sono sempre state le cucine di strada tipiche dei mercati inglesi, polacchi e francesi che, poi, è anche un modus operandi tipico di una parte del Mezzogiorno d’Italia, basti pensare alle pizze fritte campane o agli sfincioni siciliani». Le regioni del Sud hanno tutte un grande potenziale.

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    Luca Grillo, Biagio Girolamo e Mimmo Trentinella

    Cuochi e chef

    Trentinella è diventato cuoco per una sorta di sfida con la sua famiglia: lui uscì di casa ed entrò nel primo ristorante aperto. E lì capì quale sarebbe stata la sua strada.
    A 42 anni Mimmo è meno disincantato di tanti suoi colleghi. È pragmatico e lavora con un obiettivo ben chiaro nella testa: «Tramandare la passione per la cucina ai più giovani che oggi sembrano aver perso mordente».
    Guai a chiamarlo chef. Come il compianto Tonino Napoli dice: «Siamo tutti cuochi, cucinieri. Chef significa capo, cuoco è colui che fa da mangiare con amore».

  • Cibo, riti e affari: le “mangiate” delle ‘ndrine

    Cibo, riti e affari: le “mangiate” delle ‘ndrine

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    C’è un menu degli uomini di ‘ndrangheta? Sì, ed è tutto sommato assai simile a quello sulle tavole calabresi nei giorni di Pasqua e Pasquetta. Le ‘ndrine, del resto, hanno sempre pescato a piene mani nella tradizione. Il cibo e le riunioni conviviali hanno sempre avuto un ruolo importante nelle dinamiche di ‘ndrangheta. Sono le cosiddette “mangiate”.

    Accordi ed equilibri a tavola

    Le più o meno affollate tavolate sono sempre state le occasioni dove le cosche di ‘ndrangheta hanno spesso stabilito accordi, creato alleanze, imbastito affari. Le cosiddette “mangiate” sono delle vere e proprie riunioni di ‘ndrangheta. Dei summit mafiosi, seri nei contenuti, ma intervallati da un bicchiere di vino rosso locale. E da succulenta carne di maiale, di capra, di agnello.

    Vale tanto sul territorio calabrese, quanto fuori dalla regione. Le ‘ndrine, infatti, ripropongono le medesime dinamiche. Che ci si trovi a Polsi, prima o dopo la processione della Madonna della Montagna. Oppure in Canada, dove da sempre è egemone il gruppo di Siderno. Oppure nell’Europa centrale – Svizzera, Olanda, Germania – dove i clan della Piana di Gioia Tauro e del Catanzarese sono egemoni. Ma anche in Australia, dove la ‘ndrangheta è capace di eleggere sindaci.

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    La processione in onore della Madonna della Montagna di fronte al Santuario di Polsi

    Dai traffici di droga ai candidati da sostenere, oppure le vicende da chiarire. Nell’inchiesta “Nuova Narcos Europa”, sui traffici del potente casato dei Molè di Gioia Tauro, convivono i metodi moderni delle nuove leve del clan, con l’arcaicità delle “mangiate” per dirimere questioni. Le “mangiate” possono essere risolutive. Oppure stabilire la fine di qualcosa o qualcuno. Anche nel maxiprocesso “Rinascita-Scott” c’è traccia delle “mangiate” organizzate dai membri della famiglia Lo Bianco, egemone nel Vibonese.

    Capretto e agnello al “battesimo”

    C’erano capretto e agnello sulla tavola quando Antonino Belnome entrò nella ‘ndrangheta. È lo stesso Belnome a raccontarlo, una volta divenuto collaboratore di giustizia. Per anni è stato uomo forte dei clan in Lombardia. Capretto e agnello arrostiti, mentre si fa entrare un nuovo uomo nell’organizzazione. Tradizione e futuro convivono perfettamente, come sempre, nella ‘ndrangheta.

    «Giura di rinnegare padre sorelle e fratelli fino alla settima generazione e di dividere centesimo per centesimo, millesimo per millesimo con i tuoi nuovi compagni e senza macchia d’onore o peggio di infamità a carico tuo e a discarico della società”. A quel punto dovevo dire “lo giuro” e tutti quanti dissero “lo giuriamo anche noi”» è scritto nel suo memoriale. E poi il taglio sulla mano e il sangue rosso che fuoriesce. Rosso come il vino con cui poi si accompagnano capretto e agnello.

    Bruciare santini e immagini sacre fa parte dei rituali di affiliazione alla ‘ndrangheta

    Il valore delle “mangiate” nella ‘ndrangheta

    Uomo della ‘ndrangheta lombarda, Belnome: «Non si poteva mangiare finché non si diceva ‘buon appetito’» spiega. Ed è proprio da una delle inchieste più note sulla ‘ndrangheta al Nord, che arriva una delle definizioni più lucide del valore delle “mangiate” in seno alla ‘ndrangheta. L’operazione “Fiori della notte di San Vito” scatta nel giugno del 1994: l’inchiesta della Dda di Milano porta all’iscrizione di quasi 400 persone. Tutte accusate, a vario titolo, di associazione mafiosa, traffico di armi, omicidio, spaccio e traffico di stupefacenti, rapine, estorsione, usura, minacce, favoreggiamento.

    Ricostruisce le dinamiche e gli affari delle cosche nelle province di Milano, Como, Lecco, Varese, Pavia e Brescia per circa un ventennio, dal 1976 al 1994. E proprio in quell’inchiesta, si legge: «Gli incontri denominati “mangiate” assumono particolare interesse investigativo, poiché permettono di documentare importanti momenti di crescita dei singoli affiliati (concessioni di doti) piuttosto che ricostruire gli equilibri interni delle strutture indagate». Anche negli incontri conviviali documentati ormai circa 30 anni fa, il piatto preferito era la carne di capra.

    In Calabria e ovunque

    Le indagini degli ultimi anni raccontano come sia ancora viva questa ritualità in Calabria e in Lombardia, ma non solo. Un’inchiesta sulle cosche di Giffone, infatti, ricostruisce una “mangiata” a base di carne di capra anche in Svizzera, a Zurigo. Siamo nel maggio 2020.

    E anche una delle ultime inchieste sulla ‘ndrangheta nel Lazio, quella che ha sconvolto i territori di Anzio e Nettuno, c’è traccia di questo tipo di ritualità. Un’indagine che ha fatto emergere le figure di Bruno Gallace, Nicola Perronace, Giacomo Madafferi che fanno riferimento alle ‘ndrine di Santa Caterina d’Aspromonte e di Guardavalle.

    Anzio vista dall’alto

    Proprio Belnome parla delle “mangiate di ‘ndrangheta” in quei territori: «Si mangiano alcuni determinati prodotti tradizionali del tipo capretto, e poi ci sono delle… tutte dei rituali, delle funzioni, delle regole, delle circostanze dove in quella mangiata poi scaturisce sempre in una riunione di ‘ndrangheta […] E ci sono rigide dove c’è il capo tavola che libera la tavola”.

    Il cibo delle ‘ndrine

    Pranzi (soprattutto) e cene dove il menu tipico è la carne di capra. Ma non solo. Anche l’agnello e il maiale. Le cosiddette “frittolate” nei tanti poderi di campagna a disposizione delle cosche. Lontani da occhi indiscreti. Almeno questa è l’intenzione.

    Ma, negli ultimi mesi, sono sempre più ricorrenti i maxisequestri di ghiri. Uno degli ultimi, ingente: diversi ghiri vivi in gabbia e ben 235 surgelati in freezer in oltre 50 pacchetti. I ghiri sono considerati animali di specie protetta. E molto gettonati sulle tavolate di ‘ndrangheta. Sempre in ossequio alla tradizione, dato che se ne cibavano anche già i legionari romani.

    I carabinieri di Reggio sequestrano centinaia di ghiri surgelati a Delianuova

    Bolliti nel sugo o arrosto, la consumazione del ghiro sarebbe una celebrazione di potere. Preparare e consumare i piatti a base dei roditori, nell’immaginario ‘ndranghetista, significherebbe legarsi a un patto indissolubile. Dalle intercettazioni captate dagli inquirenti, infatti, diversi pasti in cui doveva essere rinsaldata la pace tra famiglie e sodalizi sarebbero stati a base di ghiri.

    Una caccia diffusa in tutta la Calabria: in provincia di Cosenza, sul versante ionico (Rossano), ma anche sull’Altipiano della Sila (San Giovanni in Fiore) e sulla fascia tirrenica (Orsomarso). In provincia di Crotone nella zona di Castelsilano (Sila Piccola). Ma è nelle Serre, dove si incrociano le province di Catanzaro, Vibo Valentia e Reggio Calabria, che si trova la tradizione più radicata, nel territorio di Guardavalle, Santa Cristina dello Ionio, Nardodipace, Serra San Bruno, Stilo e Bivongi.
    E, in caso di dono, d’obbligo donare il roditore ancora provvisto di coda. Solo dalla coda, infatti, è possibile riconoscere che si tratta di un ghiro e non di un topo.

  • Aiko, Giuseppe e le api: miele e sushi da Tokyo ad Aprigliano

    Aiko, Giuseppe e le api: miele e sushi da Tokyo ad Aprigliano

    «Scusi, sa dove si trova la Apricus
    «Chi?!?»
    «Gli apicoltori!»
    «Ma chi, Aiko? La giapponese? Seguitemi, vi accompagno»

    Quando anche Google Maps si era arreso al dedalo di viuzze di una delle tante contrade di Aprigliano, dal finestrino della sua auto un uomo fa segno di seguirlo, superando quello che sembrava un confine oltre il quale il mondo finisce. E invece la strada si fa sterrata, costeggia un burrone e poi si affaccia sulla vallata.

    Bisogna rallentare, fermarsi. È una terrazza naturale sulla valle del Crati con l’eco del fiume che gorgheggia in basso, il verde interrotto dalle macchie bianche dei fiori di erica, il contorno delle montagne incastrato nel blu del cielo. Aiko e Giuseppe ci vengono incontro con larghi sorrisi, indossano gli scafandri gialli. Sembrano astronauti sbarcati su un nuovo pianeta. Poco più giù ci sono le arnie colorate disposte le une accanto alle altre. «Questo è il nostro mondo. È qui che trascorriamo le nostre giornate. È la vita che abbiamo scelto, seguendo quello che più ci piaceva» – dice Aiko.

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    Un amore calabro-giapponese nato in Irlanda

    Aiko Otomo è una cuoca e apicoltrice giapponese naturalizzata in Calabria. Nella prima parte della sua vita viveva a Tokyo e faceva l’infermiera. Nel 2001 si trasferisce in Irlanda per imparare l’inglese. Qui incontra Giuseppe De Lorenzo, anche lui è in Irlanda per studiare. «Ci siamo innamorati e quindi da quel momento in poi non ho più imparato l’inglese, ma l’italiano», dice con il candore di una bambina. Le loro vite s’intrecciano, tornano in Italia, prima in Emilia Romagna, poi si trasferiscono in Sardegna. Aiko tiene dei corsi in cui insegna a preparare il Sushi, che va tanto di moda in Italia in quegli anni. Giuseppe è un’insegnante. Ma la passione comune è quella per la natura.

    «Cercavamo un posto in cui impiantare un apiario – racconta Giuseppe – quindi cinque anni fa abbiamo deciso di tornare in Calabria dove io avevo questi terreni ereditati dai miei nonni. Si trovano in una posizione ideale per il nostro progetto, ci siamo detti che era il luogo giusto. Tornare in Calabria, fare qualcosa di bello nel mio paese di origine, è perfettamente in linea con la nostra idea di puntare sulla biodiversità, preservare questa terra, perché la Calabria ne ha bisogno».

    Per godere dello spettacolo della vita negli alveari è necessario equipaggiarsi e poi superare ogni reticenza, avvicinarsi, mettere il naso nella routine delle api, lasciarsi ipnotizzare dal bombito che prima è ronzio e poi diventa musica. Ma bisogna stare attenti, «oggi le api sono nervose, forse per via del vento», avverte Giuseppe. Nella vallata le fronde degli alberi ondeggiano, ma il lavoro negli alveari prosegue nonostante tutto. «Adesso è un paradiso, ma quando siamo arrivati era una discarica: c’erano carcasse di auto rubate e spazzatura, abbiamo bonificato e trasformato il terreno e oggi qui produciamo tre tipi di miele, cera, polline e propoli».

    Sushi calabrese ad Aprigliano

    Quando Aiko non si occupa delle api, è ai fornelli. Sperimenta, contamina la cucina giapponese con ingredienti calabresi. Partecipa ad eventi in cui presenta percorsi gastronomici originalissimi: il morsello giapponese, il sushi con erbe spontanee o formaggi dei caseifici locali, una rivisitazione dei dorayaki con il fagiolo poverello di Mormanno e le fragole di Curinga, ravioli al vapore col suino nero di Calabria, yakimeshi con la cipolla di Tropea, shumai di maiale con lo zafferano di Castiglione. «Semplicemente cucinare non mi diverte – dice – a me piace farlo utilizzando ingredienti nuovi, magari sperimentare utilizzi inediti di prodotti a km 0 o anche meno».

     

    Quando è quasi ora del tramonto in pochi minuti sull’erba è servita una colazione a base di tè verde con riso integrale tostato e matcha e deliziosi dorayaki con crema a base di borragine, una pianta che cresce spontanea a queste latitudini.
    L’ospitalità calabro-nipponica viene amplificata dalle loro risate e dai loro sguardi d’intesa. «Ci piace vivere qui, abbiamo trovato un equilibrio e il nostro ritmo è quello della natura» – dice Aiko. «Il suono delle api è magico, è rilassante, molti credono abbia proprietà curative. A un certo punto non si riesce più a farne a meno».

    Apicoltori idealisti

    Il legame col Giappone resiste attraverso la cucina, la passione per la calligrafia, gli amici che vengono in Italia a trovarla e i ciliegi, che fioriscono anche da queste parti e la fanno sentire a casa.
    «Io e Aiko ci siamo innamorati dalle api e siamo impegnati a curarle. Non è semplicemente un lavoro, ma una missione. Vogliamo dare il nostro contributo perché sono a rischio estinzione» spiega Giuseppe. «L’apicoltura è essenziale per la vita sulla terra. Le api stanno morendo e hanno bisogno del nostro aiuto, per questo è necessario difenderle».

     

    Un impegno che si concretizza anche attraverso iniziative e progetti di sensibilizzazione sull’importanza della biodiversità. La prossima tappa di questo percorso sarà il 20 maggio, in occasione della Giornata mondiale delle api. Tra Rogliano e ad Aprigliano si terranno convegni, seminari, corsi di apicoltura, jam session, degustazioni di miele, passeggiate nella valle del Savuto e fra le sorgenti del Crati.
    Il sole sta calando, le api si rintanano nelle arnie per riposare, cominciano a vedersene sempre meno intorno alle piante. Sembra che tutto finisca e invece è solo il momento di raccogliere nuove energie.

  • STRADE PERDUTE| Mare, ruderi e vino: Cirella nel calice del Papa

    STRADE PERDUTE| Mare, ruderi e vino: Cirella nel calice del Papa

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    Dov’è Cirella? A monte, a riva, in mezzo al mare? Cos’è, Cirella? Un luogo a sé stante, mi pare, un punto che si separa dal resto senza spocchia ma con un’aria quasi offesa, impermalosita. Formalmente frazione di Diamantela chiassosa Diamante, la mondana Diamante estiva, coi suoi cliché logori altalenanti tra murales, peperoncino e inezie di recentissimo parto – Cirella ne conserva forse l’anima più eletta, più regale, mantenendo con grazia un basso profilo che altrove s’è dimenticato (ammesso che vi sia mai stato).

    Cirella nuova sta giù, lungo la riva del mare. Tra lei e la vecchia, sta il taglio feroce della SS18 (intendo il tratto nuovo, perché un tempo si passava in mezzo a Cirella nuova), che ha lasciato miracolosamente incolume una tomba romana. Un ponticello porta le scuse del taglio e conduce alle rovine di Cirella vecchia – ahimè fin troppo immortalate – che fanno da guardia dalla cima della collina. E questo tutti lo sanno.

    Ci torno per guardare a 360° quel cortometraggio naturale che la postazione offre. Una sorta di balconata su una piccola porzione di Magna Grecia: a nord la pianura, fino a Scalea, dove la cementificazione selvaggia ha messo a tacere per sempre chissà quanti reperti archeologici. Restano ancora alcuni spazi coltivati, nemmeno piccoli. Non so se sperare che restino così o che vi si faccia più attenzione (quell’attenzione che dalle nostre parti è poi spesso controproducente).

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    I ruderi di Cirella vecchia e, a destra, il Convento dei Minimi

    I ruderi di Cirella vecchia e il Convento dei Minimi

    E poi non solo la pianura, ma anche tutta la teoria di varchi tra le montagne, che millenni fa portavano – non proprio dritti dritti – a Sibari. Sono le cosiddette vie istmiche. E da queste parti ne arrivavano almeno tre, alla faccia della viabilità attuale: la più certa è quella che da San Sosti si inerpicava nella gola del Torrente Rosa (dove oggi sorge il santuario della Madonna del Pettoruto, già tempio dedicato ad Hera) fino a raggiungere il Valico del Palombaro (tra il Monte Alto e la Montéa) e ridiscendere verso la località Pantanelli (ancora oggi meta di scampagnate per gli abitanti di Grisolia e Maierà) e da qui finalmente a Cirella vecchia attraverso Grisolia.

    Altra via istmica era una semplice variante della suddetta: arrivati al Valico del Palombaro procedeva ad ovest anziché a nord, aggirando il Monte Carpinoso (quella sorta di grande carapace brullo alle spalle di Maierà) lambendone le pendici, per giungere ugualmente a Cirella vecchia, attraverso quella bellissima stradina che ancora oggi conduce ripida dai ruderi fino a Vrasi, passando vicino all’antico al Convento dei Minimi e a qualche vacca placida.

    La terza via costituiva ancora un’altra variante: sempre arrivati al suddetto Valico si scendeva a sud-ovest verso la località Serrapodolo, nell’entroterra di Buonvicino, e da qui si raggiungeva la costa di Diamante.
    Che poi perché “del Palombaro”? Vi si rifugiavano i colombi, ad un’altitudine del genere? Dubito. Vi era stata costruita una colombaia, in mezzo al nulla? Idem. E dubito pure che c’entri qualcosa col significato dialettale, anzi gergale, del verbo derivato dal palummo (digressione impercettibile: in proposito penso sempre a come la rondine, in inglese, possa significare esattamente il contrario: insomma: si può “colombare” solo ciò che si è prima “rondinato”). Ma torniamo a noi.

    Ovviamente non dovete immaginare delle strade rotabili: si tratta e si è sempre trattato di sentieri, a tratti anche scomodi e ripidi, buoni da fare a dorso di mulo o, più probabile, a piedi di fianco al mulo già oberato. Lungo queste vie si trasportava di tutto, a seconda del periodo storico: il ferro, il sale, l’olio, il vino, eccetera. Il vino, appunto. Mica vero – come qualcuno ha pur scritto – che il vino calabrese dei secoli passati fosse poi così cattivo. Anzi, esattamente il contrario. E almeno in un’eccezione che coinvolge proprio Cirella, i cui vini hanno goduto da sempre di fama indiscussa (e meritata).

    Il Chiarello era il vino di Papi e cardinali

    Chiarello, il vino dei Papi

    Questa faccenda mi va di spiegarla un po’ meglio, perché merita. Una traccia sta tra le celebri pagine degli almanacchi editi nell’Ottocento da Borel e Bompard, quando dicono che «gli zibibbi o uve passe (…) di Calabria sono i migliori del regno e di tutto il resto dell’Italia. Quelli delle isole di Cirella e di Dino sono eccellenti».
    Ma l’eccellenza è il Chiarello: addirittura Strabone (†23 d.C.), ricordò «il borgo di Cirella (…) nel contado del quale si producono due qualità di vino (…) chiaro e rosso. Il primo è detto Chiaretto per il suo splendore e per il suo corpo e perché, quanto a chiarezza, potrebbe gareggiare con l’oro. (…). Si conserva per due o tre anni e merita di essere detto il modello unico d’ogni vino più eletto; (…) è gradevolissimo al palato e allo stomaco, scende rapidamente nelle prime vene e fino ai reni, è molto nutriente, genera sangue buono e sottile, conduce alle loro vie naturali i residui degli umori, provoca il sudore e l’urina e scaccia la renella. Non prende alla testa, bensì vivifica tutti quanti i sensi e meravigliosamente spinge a profonde speculazioni l’ingegno dei vecchi e anche di coloro che hanno la mente intorpidita. Rallegra il cuore e l’animo».

    Praticamente una teriaca, più che un vino. E se faceva miracoli non poteva non interessare chi di miracoli se ne intende: divenne infatti oggetto di particolare riguardo nei palazzi vaticani. Nel 1492 il re Ferdinando d’Aragona scrisse al poeta Pontano di aver inviato in dono – al pontefice appena salito al soglio – 24 botti di vino tra cui 9 del Chiarello di Cirella. Una cinquantina d’anni dopo Sante Lancerio – “bottigliere” di papa Paolo III (Alessandro Farnese, †1549) – inviava una lettera al cardinale Guido Ascanio Sforza, in cui faceva cenni di plauso a “La Centula”, al “vino di Ciragio”, a quello “di Pesciotta” ma soprattutto al “vino Chiarello“.

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    La scogliera di Cirella

    Il preferito di Sua Santità

    Attenzione, papa Farnese e Lancerio non erano degli sprovveduti: giudicarono ben 53 vini e il secondo disse del Chiarello: «È molto buono et era stimato da Sua Santità e da tutti li prelati della corte (…). Bisogna che sia di colore acceso più che l’oro et odorifero assai, ché non odorando sarebbe di Grisolia od Orsomazzo [sic]. E non ha bevanda pari, ma volendolo salvare alla stagione d’autunno, bisogna si pigli alla barca nella primavera e mettisi in luogo fresco e che non senta travaglio, e pigliarlo crudo, odorifero e grande, che il caldo lo maturerà».

    Superiore ai vini di Francia per Torquato Tasso

    Ad elogiarlo ci si misero pure lo storico Gabriele Barrio, l’abate Pacichelli e addirittura Torquato Tasso (†1595), il quale dichiarò che il vino di Cirella era «uno degli onori d’Italia, superiore ai vini di Francia».
    Insomma, il “chiaretto” a Roma cominciava a pagarsi «a grandissimo prezzo» ed era divenuto distintivo di un certo privilegio sociale, tanto che veniva definito quale vino “da signori” e non “da famiglie”. I maggiori consumatori di questi vini calabresi restano dunque le alte gerarchie ecclesiastiche: la corte pontificia consuma da mille a milleduecento botti di vino calabrese.
    E insomma fu proprio lo Stato Pontificio, dal Rinascimento in avanti, a emanare molte delle norme inerenti alla produzione e alla vendita di questo vino. Tuttavia né gli storici locali, né i vaticanisti, né gli storici dell’enologia si erano mai imbattuti in un certo documento che incrociai anni fa tra le carte della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.

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    Il bando pontificio cinquecentesco a tutela dei vini di Cirella, custodito presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma

    Si tratta del Bando contra quelli che adulterano o misticano vini & vendono per chiarelli altri vini che quelli del loco di Cirella, emanato nel 1589 dalla Camera apostolica: già durante il trasporto dei vini via mare avvenivano troppe mistificazioni al fine di “vendere per Chiarelli altra sorte di Vini, che quelli, che realmente si raccogliono (sic) nella Terra di Cirella & suo Territorio e distretto, quali ab antiquo, se sogliono chiamare Chiarelli”. La cosa più curiosa è l’incredibile severità delle pene previste, tenendo presente che si tratta pur sempre di vino: «cento scudi d’oro, perdita delli Vini & barche & altri vascelli (…) altre pene corporali, da imporsi, & moderarsi à nostro arbitrio». C’è da credere che facilmente si addivenisse a forme di compromessi e a corruzioni diverse.

    Il declino del Chiarello

    Tutto ciò può probabilmente esser letto come motivo del declino dei vini cirellesi: una attenzione eccessiva verso di essi da parte delle autorità avrà convinto commercianti e produttori a rinunciare all’esportazione di questi vini. Fine del Chiarello?
    Davanti alla vera e propria isola di Cirella e dopo la scenografica scogliera, incredibilmente preservatasi (il basso profilo…), sono tuttora visibili i resti delle celle e delle tubature di cui scrisse Ferdinando Ughelli nel 1722: «Vi erano duecento tubature nei campi e anche di più erano le celle vinarie presso il mare, alle quali attraverso le tubature i vini venivano condotti».

    Fino a qualche anno fa il vino locale – e che vino – si trovava nella piccola cantina della signora, lungo la strada che porta all’antica chiesetta in mezzo al borgo. Oggi la cantina è chiusa, e ne resta traccia solo per la fatidica esortazione dipinta sul muro esterno (cito a memoria) «Vuota il bicchier che è pieno, riempi il bicchier che è vuoto. Non lo lasciar mai pieno, non lo lasciar mai vuoto».
    Oggi può chiacchierarsi però con un anziano (e bravissimo) cuoco, quando chiude la cucina e si mette a fumare in sala, guardando la tv, davanti agli ultimi clienti (tutti talmente soddisfatti da non essere minimamente infastiditi dal fumo). E ti racconta che mette le favette nere per cambiare il terreno e dargli più azoto, così da far venire le verze più buone. E che i cinghiali si sono rotti il muso nel suo orto pur di scavare per cercare l’acqua vicino ai paletti di cemento.
    Ecco cosa succede, a cercare acqua e non vino a Cirella…

  • Vino, orto e poi genetica: ecco i segreti di Bivongi, paese dei centenari

    Vino, orto e poi genetica: ecco i segreti di Bivongi, paese dei centenari

    Puntini sulle mappe. Minuscole aree geografiche lontane tra loro, abitate da popoli diversi, con caratteristiche climatiche e sociali differenti, ma unite nello strano destino di una longevità fuori dall’ordinario. L’arcipelago di Okinawa in Giappone e le valli del Gennargentu in Sardegna, e ancora le spiagge del Costa Rica e la parte più meridionale della California. E in mezzo Bivongi, il piccolo centro appoggiato alle Serre reggine, che in questa particolare classifica viene fuori con il titolo di paese della longevità.

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    Bivongi, il paese dei centenari ai piedi delle Serre reggine

    Il festival dei centenari a Bivongi

    Passato alle cronache per un filotto di oltre 30 concittadini che hanno oltrepassato il solco del secolo di vita negli ultimi 15 anni, Bivongi vanta, in percentuale rispetto al numero di abitanti totale, la maggiore incidenza di ultracentenari sulla popolazione. Un record figlio di tanti fattori e che il minuscolo comune – 1300 abitanti, la maggior parte dei quali, ovviamente, anziani – si tiene stretto, e che ha anche imparato a sfruttare, con serata a tema, riunioni di ascolto e un vero e proprio festival, che nello scorso settembre ha registrato la sua prima edizione.

    L’esercito dei 90enni

    E se lo scorrere del tempo e i due anni di pandemia, hanno inevitabilmente ristretto il numero dei più longevi, si contano ancora a decine quelli che hanno da tempo passato la soglia dei 90 e si preparano alle tre cifre. Una particolarità oggetto di numerosi studi scientifici e che ha portato il centro dello Stilaro anche sulle pagine del National Geografic. Una particolarità che porta con sé anche il lato oscuro dei tanti casi di demenza senile che si sono registrati negli anni. Un risvolto amaro e che è diventato a sua volta materia di studi sulla neurogenetica: studi che incrociano i dati del pesino della Locride a quelli di La Plata nella provincia di Buenos Aires, dove risiede buona parte della popolazione bivongese emigrata nell’ultimo secolo.

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    Ritmi lenti e vita tranquilla: l’ambiente ideale per superare i cento anni

    In vino “longevitas”

    Tanti i fattori che determinano il particolare attaccamento alla vita degli abitanti di questo paesino affacciato alla fiumara. A partire ovviamente da quelli genetici: studi statistici su alcune famiglie storiche del paese, hanno dimostrato la particolare longevità di alcuni “ceppi” parentali, già dal diciassettesimo secolo. E poi il clima e l’alimentazione: è facile sentirsi raccontare da uno dei vecchietti del posto che il vero segreto della longevità sta nel vino, che da questa parti è cosa estremamente seria e da quando ha strappato il marchio Doc è riuscito a ritagliarsi anche una buona fetta di mercato.

    E ancora la qualità dell’acqua – nei dintorni del paese esistono diverse sorgenti attive – e le particolarità geologiche del terreno: si è scoperto infatti che il sottosuolo di Bivongi – in passato centro importante nel panorama minerario nazionale – è ricco di molibdenite, un particolare minerale, comune anche nella Sardegna dei centenari, che nasconderebbe qualità salvifiche.

    Ipotesi e leggende che si intrecciano a studi più strutturati; e anche se non esiste una ricetta magica che consenta di vivere più a lungo, certo le caratteristiche sociali e il tenore di vita degli abitanti hanno dato una mano. A Bivongi come a Okinawa e come in Sardegna, si registrano piccole comunità che vivono vite interconnesse tra loro e con l’ambiente che le circonda. Vite condite da ritmi lenti e ripetitivi: l’orto da curare, la passeggiata fino alla piazza, l’immancabile partita a tresette. Sono gli uomini a vivere di più in media, anche se la più anziana del paese, l’unica attualmente a sforare le tre cifre, è un’arzilla signora di 102 anni. Il paese, abitato per lo più da anziani, è riuscito a trovare nuovo slancio dalla statistica che mette Bivongi sul tetto dei paesi longevi.

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    Superati i cento anni non può mancare un giro in 500

    Caffè alzheimer

    Manifestazioni, cerimonie, feste e convegni con i più avanti negli anni al centro del progetto e il centro anziani che diventa punto di incontro tra generazioni. Come l’oratorio, dove ormai da cinque anni, vanno avanti i caffè alzheimer. Incontri con base mensile – ma che durante le fasi più acute della pandemia sono stati sospesi – dove la comunità di vecchietti del posto si confronta tra loro con il supporto di medici e psicologi per affrontare i tanti problemi che saltano fuori con la vecchiaia.

    Un modo per tenere la mente sveglia in un paesino dove la longevità fuori dal comune che registrano le statistiche, si accompagna ad un numero non trascurabile di casi di demenza senile. Anche in questo caso una particolarità tutta bivongese finita nel primo studio a livello mondiale sulla demenza frontotemporale. Uno studio portato avanti dal centro di neurogenetica di Lamezia che ha messo in evidenza come la popolazione bivongese presa in esame presentasse una maggioranza schiacciante di casi di questa patologia, rispetto alle percentuali di “comune” alzheimer registrati nel resto del pianeta.

  • Underkitchen, tutto il mondo in un piatto. E a casa tua

    Underkitchen, tutto il mondo in un piatto. E a casa tua

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    Il nuovo concorrente di Glovo e Deliveroo non utilizza i rider, consegna a domicilio piatti internazionali low cost e – soprattutto – parla cosentino. Si chiama Underkitchen ed è una start up tecnologica a valore sociale. Vende on line piatti di cucina globale. Per ora solo in Italia ma, potenzialmente, ai clienti di tutto il mondo. L’idea è di quattro imprenditori che hanno già all’attivo sperimentazioni nel mondo del gusto e che dopo aver analizzato le criticità del mercato hanno messo su un progetto partito il primo marzo.

    Underkitchen non si serve di riders per consegnare le pietanze nelle case

    Leonardo Stancati e Carlo Schiavone, rispettivamente Cto e Ceo della società ed entrambi della città dei Bruzi, hanno voluto subito legare il progetto al territorio calabrese. La sede operativa si trova nel cuore di Cosenza, a due passi da corso Mazzini. È qui il “cervello” del progetto, il terminale degli accessi al sito, degli ordini e delle spedizioni, in costante collegamento con le cucine. Ma c’è di più: presto potrebbero essere i futuri chef cosentini e calabresi a realizzare i piatti.

    L’idea originaria del progetto, infatti, prevedeva il coinvolgimento dell’istituto alberghiero “Mancini” con cui dall’inizio erano state condivise le linee guida. Poi la pandemia ha bruscamente interrotto la collaborazione, ma dirigente e docenti dell’istituto restano interessati a portarla avanti.
    Intanto, a un mese dal suo esordio, Underkitchen ha già raggiunto numeri molto soddisfacenti e, nonostante il respiro internazionale, una grande fetta di utenti è proprio cosentina.

    Underkitchen: il mondo a casa tua

    È un sito, ma anche un’app, che permette di ordinare specialità internazionali preparate dalle mani di cuochi specializzati e le spedisce a casa. In pratica funziona così: scegli un piatto tra quelli proposti – dal guacamole di Cancun al Jerk chicken giamaicano, dalle polpette in salsa teriyaki giapponesi al gulasch ungherese – scorrendo un menu che va da un capo all’altro del mondo, attraverso i piatti più iconici della gastronomia internazionale.

    Ordini, paghi ed entro 24 ore arriverà a casa tua un box termico con tutto il necessario (in confezioni sottovuoto) per mettere in tavola in pochi minuti, scaldandolo nel microonde o in acqua bollente, il piatto fumante. I prezzi sono bassi, dai 16 ai 35 euro per pacchetti da cinque monoporzioni, ma ci sono anche i last minute per ulteriori sconti. Il valore aggiunto lo dà il fatto che le ricette si preparano nelle cucine delle scuole alberghiere italiane.

    Così c’è una ricaduta positiva sulla formazione degli studenti, che acquisiscono competenze professionali specifiche da sfruttare nel mondo del lavoro. A portare a termine il progetto pilota sono stati i laboratori di cucina di Multicenter School di Pozzuoli, che è anche tra i soci fondatori.

    Cibo sostenibile e a basso costo

    «Siamo molto contenti perché la risposta è stata molto positiva: in questo primo mese hanno ordinato 3500 piatti», spiega Stancati. «Abbiamo avuto da parte dei nostri clienti un riscontro molto positivo e i numeri premiano la qualità delle preparazioni e della materia prima». Merito anche di una grafica accattivante del sito che riproduce il city board, il tabellone dell’aeroporto che indica tutte le destinazioni: in questo caso sono le città di provenienza delle ricette.

    Polpette in salsa teriyaki

    Il rimando al viaggio è costante. Underkitchen vuole trasmettere insieme al piatto la narrazione dei luoghi attraverso la musica, il cinema, la storia, l’iconografia che li rende riconoscibili e desiderabili. «A premiare è anche una politica di prezzi contenuti, i piatti costano un terzo rispetto ai nostri concorrenti – spiega Stancati – ed arrivano a casa tua, entro 24 ore dall’ordine. Il nostro è un modello di food delivery sostenibile, sociale ed inclusivo, che taglia fuori le multinazionali del settore. Infatti non sfrutta i riders, ma utilizza operatori di logistica internazionale per portare a domicilio prodotti abbattuti freschissimi. E c’è di più: difendiamo la cultura gastronomica mondiale, non alimentiamo la diffusione del cibo spazzatura. Anzi, promuoviamo piatti che rappresentano il patrimonio di un paese e la sua cultura».

    Underkitchen: da Cosenza alle grandi città 

    L’obiettivo adesso è ampliare la rete delle scuole alberghiere, a partire proprio dalla Calabria. Nella sede cosentina arrivano ordinazioni da Milano, Genova, Roma, Bologna, Napoli, Torino. Dopo l’assaggio i consumatori ricevono l’invito a inviare recensioni vocali pubblicate poi sul sito, molto più gradite delle tradizionali foto dei piatti che rischiano di restituirne la bellezza ma non l’emozione.

    Nei laboratori della scuola alberghiera di Pozzuoli gli studenti realizzano i piatti nelle ore di alternanza scuola-lavoro, con la supervisione degli chef esperti di cucina internazionale. «Non forniamo piatti-pronti, che comportano costi di produzione e logistica che finiscono per ricadere in termini di costi sull’utente finale – aggiunge il Cto – ma un prodotto preparato con materie prime di alta qualità e messo sottovuoto (mantiene così intatte le caratteristiche organolettiche e nutrizionali di un prodotto fresco), abbattuto artigianalmente, e consegnato in un packaging rigenerabile in cinque minuti».

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    Il cibo passa dall’abbattitore prima di essere confezionato e spedito

    Presto anche all’estero

    Stancati e Schiavone, insieme ai soci Giorgio Scarselli (titolare dello storico ristorante Il bikini di Vico Equense) e Armando Aruta, adesso puntano all’Europa, ma seguendo una rotta diversa: il progetto Underkitchen porterà la cucina italiana oltralpe, contando sempre sulle professionalità presenti negli istituti alberghieri.
    “Cheap flights, great food” (Voli economici, grande cibo, ndr) è il refrain pubblicitario. E quest’attesa di un nuovo viaggio fa già venire un certo languorino.

  • BOTTEGHE OSCURE| ‘Na tazzulella ‘e Cuse’: i primi caffè di Cosenza

    BOTTEGHE OSCURE| ‘Na tazzulella ‘e Cuse’: i primi caffè di Cosenza

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    Nel 1806 la Calabria Citra era in subbuglio. Tra i dominatori francesi e i rivali borbonici erano botte da orbi e si combatteva villaggio per villaggio. Non era certamente un periodo roseo per progetti e affari, ma non secondo Michel Voizot, misterioso «francese abitante in Cosenza». Insieme al cosentino Bonanno, Voizot costituì una società col proposito d’impiantare un caffè in città. Il luogo prescelto fu una bottega lungo Strada del Ponte, la via che da Piazza Piccola porta al Ponte di San Francesco. Il locale avrebbe servito non soltanto caffè ma anche liquori. A tal proposito Voizot, versò 200 ducati, mentre il cosentino Ignazio Bonanno ne aggiunse altri 100, così da coprire le spese e le riparazioni già fatte nel “cafè”, l’acquisto di oggetti e mobili per arredarlo e le «mercanzie di zuccaro, cafè, ed acquavite».

    Le origini del caffè a Cosenza

    Monsieur Voizot ne rimaneva gelosamente il gestore e si occupava in prima persona dell’acquisto degli oggetti, riservandosi l’80% dei guadagni. A Bonanno rimaneva il 20%, e ciò in considerazione che il francese rimaneva il conduttore dell’esercizio. Il cosentino non poteva minimamente interferire nella gestione e nella realizzazione dei prodotti, sui quali monsieur Voizot pretese espressamente di «conservarsi il segreto». Il locale era ben arredato, dotato di mobili, oggetti in legno, vasi di creta, vetri, stagno e altri oggetti.

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    Una delle vedute di Cosenza pubblicate dall’editore Sonzogno ne “Le cento città d’Italia”. Supplemento mensile illustrato n. 11289 del “Secolo” del 31 maggio 1897 (Collezione Barone)

    Circa un anno dopo la società fu sciolta. Voizot e Bonanno cedettero l’attività a Raffaele Zampelli o Zampella, «napolitano commorante pure in Cosenza», che per 150 ducati acquisì «il detto cafe ammobigliato con tutti li suddetti oggetti». Un altro napoletano, che di cognome faceva pure Zampella, a partire dal 1803 fece la sua fortuna a Cosenza con il Caffè che diventerà prima Gallicchio e poi Renzelli.

    Pietro Zampella, come evidenziano i documenti storici pubblicati nel volume che racconta la storia del Gran Caffè Renzelli, aveva rilevato «una nuova bottega di Sorbetto, Cafè, Dolci, Rosoli, ed altro» posta nei locali di palazzo Cavalcanti, sulla Giostra Nuova, aperta nel 1802 dal cosentino Francesco Caruso.

    Nobiltà e clero

    A Cosenza e dintorni la moda del caffè cominciò a diffondersi in pianta stabile a partire dalla fine del Settecento. Erano i personaggi più nobili e in vista a ricercare gli oggetti utili a prepararsi un buon caffè o a offrirne una tazza fumante ai propri ospiti. Agli albori del secolo successivo non c’era palazzo che non avesse l’occorrente per preparare caffè o cioccolata in tazza. La pratica era diffusa anche negli ambienti ecclesiastici.

    La chiesa di Sant’Agostino alla Massa nei primi del ‘900

    Nel 1806, ad esempio, nel Convento degli Agostiniani di Cosenza il “Padre maestro” intratteneva i propri ospiti con caffè o cioccolato, tanto che vi erano conservati «due molini di Cafè; una cioccolatiera di landia; due caffettiere rotte; una zuccariera; sei chiccare» oltre che piattini di caffè e «un cocchiarino di argento per uso di cafè».

    Chicchi crudi e cicculatera

    La moda del caffè si diffuse rapidamente tra tutte le classi sociali. La materia prima veniva commercializzata ancora “cruda” e doveva essere tostata, o “abbrustolita” come si diceva correntemente. La procedura avveniva per piccole quantità direttamente in casa, sulla brace o su poco fuoco. Gli strumenti per farlo erano rudimentali, simili a cilindri girabili grazie ad una lunga asta, oppure a padelle chiuse e dotate di un sistema a manovella per girare i chicchi all’interno.

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    Utensili per la preparazione domestica del caffè

    Dopo la tostatura, che richiedeva attenzione e un continuo movimento dei chicchi perché fosse uniforme, il caffè veniva fatto raffreddare e quindi macinato. I macinini a mano li conosciamo tutti, sono ancora oggi diffusi almeno come soprammobili. La fase finale di cottura della bevanda domestica avveniva nella cicculatèra, nome che più in là indicherà nel dialetto anche la macchinetta cosiddetta “napoletana” (che in realtà sarebbe stata inventata però dai francesi a inizi Ottocento, ma tant’è).

    Il boom del caffè a Cosenza

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    Un prezziario storico del caffè Gallicchio

    Il caffè da tostare a casa poteva essere acquistato dalle famiglie anche presso il locale stesso. Il celebre Gallicchio di Cosenza, ad esempio, nel suo listino del 1888 ne vendeva di diverse qualità: Portorico sopraffino, Rio fino verde, mezzo fino, S. Domingo fino e Moka, la maggior parte dei quali veniva importata dall’America del Sud. L’Ottocento vide a Cosenza un proliferare di caffè, grandi e piccoli, alcuni dalla lunga attività altri di breve durata, e così anche l’inizio del Novecento.

    Tra i “caffettieri” di Cosenza figuravano Annibale Biondi, Carmine Cesario, Francesco Ficca, il Caffè di America di G. Funari, G. Nappa, il Caffè Buvette di Angelo Noce, il Gran Caffè di Giuseppe Pranno, il Progresso di Nicola Rajola e il Caffè del Popolo di Domenico Viafora. Alcuni pensarono di mettere il proprio marchio a mo’ di réclame sulla stampa locale, come Francesco Palumbo che su L’Unione del 1919 pubblicizzava la vendita, tra i vari prodotti del suo negozio in piazza Duomo n. 2, di «Caffè Genuino Brasiliano delle migliori qualità».

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    1919, pubblicità di Francesco Palumbo su L’Unione

    Non solo una bevanda

    Caffè non è solo materia prima torrefatta, macinata e poi messa in vendita in grani, polvere oppure somministrata sotto forma di bevanda. Anche nella città dei Bruzi il caffè è, ed è sempre stato, luogo d’incontro, socializzazione, costruzione di un’opinione e creazione di ciò che si definisce sfera pubblica. Ce lo dice ormai da anni il sociologo Massimo Cerulo (Andare per Caffè storici, Il Mulino 2021) che inserisce il Gran Caffè Renzelli (ex Gallicchio) come ottava tappa del suo singolare viaggio in quei locali che hanno almeno un secolo di vita, hanno ospitato al loro interno importanti eventi sociali-politici-culturali della storia d’Italia, mantengono parti degli arredi originali, sono tuttora aperti al pubblico.

     

    Il Gallicchio e i suoi avventori

    I Caffè cosentini erano però anche il teatro di scontri verbali o fisici, che si spingevano sovente fino alle lame. Una domenica di marzo del 1895, sul far della sera, scoppiò un acceso diverbio tra i tavolini del Gallicchio, su corso Telesio. Un gruppo di giovinastri avvinazzati riempì d’insulti alcuni studenti del Regio Liceo intenti a prendere un caffè. Dalle parole ai pugni il passo fu assai breve e a farne le spese furono ovviamente i liceali. Vista la carenza cronica di agenti di pubblica sicurezza la rissa fu sedata dai gestori del locale con l’aiuto di qualche cliente e passante.

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    Il Gran Caffè in piazza Arcivescovado in una foto dei primi del ‘900

    Le adiacenze del Gallicchio diventavano spesso ricettacolo di strilloni, monelli, perdigiorno, ambulanti e mendicanti che «fanno un chiasso del diavolo, bestemmiando, lanciando parole oscene e scurrilità, importunando i clienti, mostrando i propri cenci e la propria ineducazione» denuncia la Cronaca di Calabria nel marzo del 1905. Agli albori del ‘900 i frequentatori del Gallicchio appartenevano varie tipologie.

    I già citati liceali rappresentavano una clientela “mordi e fuggi” e non osavano nemmeno avvicinarsi alle due sale – la rossa e la verde – chiamate così per via dei colori prevalenti in ciascuna e separate dal resto del locale da una balaustra che, come scrive Luigi Rodotà in Visioni e voci della vecchia Cosenza (Pellegrini, 1966) «sembrava un reticolato insormontabile che c’impediva d’entrare liberamente nelle due sale perché frequente da persone più grandi di noi».

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    Il Renzelli su Corso Umberto in una foto di Malito degli anni ’20

    Cesarino ‘o pallista e le fake news

    A tarda sera gli immancabili viveurs d’ancienne régime davano il “cambio” tra i tavolini del bar al fior fiore degli esponenti della vita intellettuale cosentina: pezzi grossi della cultura, della politica, del giornalismo e delle professioni. Erano serviti e riveriti da un tale Cesarino detto “’o pallista”, un cameriere napoletano abbigliato col frac che «correva da un tavolo all’altro recante sul vassoio la fumante tazza di caffè, il gelato o la granita».

    Per soli due soldi di mancia propinava le ultime di cronaca cittadina, clamorose fake news ante litteram che in pochi si prendevano la briga di verificare. Tra questi, probabilmente, il docente e scrittore Nicola Misasi, frequentatore assiduo del Caffè «ascoltava distratto le sue fandonie con quel caratteristico sguardo assorto e pensoso mentre seguiva la spire azzurrognole del suo mezzo toscano».

    Bar d’antan

    Decisamente più “popolare” nei prezzi e nella clientela era il Caffè Raiola, “rifugio” di studenti, viaggiatori ma soprattutto commercianti che addolcivano la propria sosta con caffè, cappuccini, bocconotti, savoiardi o, nel periodo natalizio, con i torroncini alla martiniana. Dalla piccola saletta puntellata da pochi tavoli si udiva l’inconfondibile ohè giuvino’ del famoso banditore Micarano, re di Piazza Piccola, che annunciando l’arrivo del pescato prometteva affari e delizie.

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    Micarano

    Sempre in Piazza Piccola, all’angolo del palazzo Valentini, aprì alla fine del 1908 il Gran Bar. Il locale fu uno dei primi a veder zampillare l’acqua dello Zumpo in una vaschetta incastonata in un elegante bancone sormontato da specchi lucidi, dove vennero serviti i primi espressi fumanti della città. L’ascesa del Gran Bar fu repentina al pari del suo declino. Senza fronzoli né paillettes e sotto un lume praticamente inesistente era il Caffè Luciano, ritrovo degli abitanti del rione Santa Lucia. Qui il caffè si preparava ancora nella classica cuccumella napoletana.

    Al Caffè del Popolo in Piazza san Domenico «l’odore del caffè e dei liquori si confondeva a quello del fumo che saturava le due maleodoranti salette» frequentate da operai e artigiani, soprattutto muratori, che si sfidavano a scopone e a briscola. Ai Rivocati c’era poi il Caffè dei Cacciatori, davvero essenziale, al pari del Caffè della Stazione in via Sertorio Quattromani, un locale definito dalla stampa d’epoca “inquietante”, “tenebroso”, “luogo d’ogni sorta di traffico”, obbligate e rapidissime soste. In piazza Ortale c’era infine il Biondi, un Caffè mattutino frequentato soprattutto da contadini che nelle piovose albe invernali si scaldavano con un caffè corretto all’anice prima di scaricare le bestie ricolme di ortaggi.

    Cosenza e gli altri caffè: Vittoria, Moncafè, Sesso e Cimbalino

    Una svolta interessante, dal punto di vista economico, avviene a metà del Novecento con le prime torrefazioni cosentine. L’Archivio centrale dello Stato, tra i Marchi e brevetti, conserva quello della Torrefazione Vittoria, che nel 1960 aveva come simbolo un volto baffuto coperto da un sombrero e con una tazzina di caffè accostata al viso. La ditta, di Giovanni e Gaspare Aiello, aveva sede in via Panebianco e si occupava di caffè crudo e torrefatto.

    Nel 1961 registrava invece il proprio marchio la torrefazione dell’azienda La Commerciale Cosentina con il suo Moncafè, che aveva come slogan: «Dei caffè più fini la miscela squisita». Il Caffè Sesso, altro storico marchio cosentino, fa risalire la propria attività al 1926, mentre chi scendeva dai paesi delle Serre e arrivava alla Riforma doveva fermarsi per forza di cose al Cimbalino, un bar con torrefazione propria gestito amabilmente dalla famiglia Arnone.

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    Cosenza, Piazza Riforma e il bar Cimbalino negli anni ’50
  • STRADE PERDUTE| Bevi, mangia e prega a Buonvicino

    STRADE PERDUTE| Bevi, mangia e prega a Buonvicino

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    A Buonvicino si arriva in 15 minuti da Diamante. Basta volersi fare questa cortesia e sopportare qualche curva. Quella per arrivarci non è una “strada perduta” ma è una strada che, per chissà quale ragione, ancora troppi si ostinano a non percorrere. Eppure Buonvicino ha ottime carte da giocare e basterebbe farsi guidare da appetiti – è il caso di dire – molto ruspanti, senza arzigogolare troppo di fantasia. Perché c’è poco da girarci intorno: a Buonvicino tanto per cominciare si mangia in maniera straordinaria. E questo è un primo dato di fatto inconfutabile.

    Qui si mangia e si beve bene

    Se c’è una cosa per cui i turisti ricordano la Calabria con ammirazione stupita, questa è solitamente la quantità di portate che si nascondono dietro la vaga dicitura di “antipasto misto della casa”. Bene: a Buonvicino, generalmente, dovete moltiplicare per 2 la quantità già ipertrofica e almeno per 5 la qualità rispetto alla media regionale (e giuro di non essere al soldo della pro-loco locale).

    Non è finita qui: i vini locali hanno sapore, corpo e gradazione che francamente non ho mai trovato altrove (gusti personali, ovviamente ma c’è anche una ragione storica di cui parlerò un’altra volta). I ristoranti disseminati lungo i tornanti che portano al paese possono provarlo con fierezza (e qui mi taccio), qualora a provarlo non bastasse la toponomastica con le contrade Vignali, Ficobianco e Puma: tutto intorno al “food”, insomma. Ma mica da ora…

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    Frontespizio della prima edizione della Cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti (1837)

     

    Il duca Cavalcanti con la passione per la cucina

    Il caso – anzi – la storia vuole che, ad un certo punto, a fregiarsi del titolo di duca di Buonvicino fosse quell’Ippolito Cavalcanti che nel 1837 fu anzitutto autore di quel libro – la Cucina teorico-pratica – che fu il più celebre ricettario d’Italia per almeno 54 anni (nonché il primo a menzionare la ricetta della pasta al pomodoro), ovvero quando fu soppiantato dall’ormai più inclusivo e ‘unitario’ Pellegrino Artusi (col fin troppo popolare La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene).

     

    Ora, parliamoci chiaro, il ‘buonvicinato’ c’entra poco, in quanto Ippolito era tutto campano: di madre, di nascita, formazione e decesso (e lo stesso libro è scritto in due lingue: napoletano e italiano). Vero, al suo bisnonno Lucio era stato conferito da Carlo VI il titolo di primo duca di Buonvicino già nel 1720, e l’omonimo nonno di quest’ultimo ne era già barone ancora prima, ma va anche considerato il fatto che, lasciata la Toscana, i Cavalcanti tra Napoli e la Calabria proliferarono enormemente, ed è quindi difficile stabilire quanto davvero Ippolito abbia solcato i vicoli di Buonvicino.

    I vicoli forse no. I campi e i vigneti forse di più, perché una cosa certa c’è: ai Cavalcanti appartenne il gattopardesco Casino di Contrada Lago, oggi abbandonato dopo un primo tentativo di ristrutturazione e ampliamento da parte di privati. L’imponente portale, sempre chiuso, cela dietro al suo muro di cinta semicircolare diversi corpi di fabbrica, tra cui una cappella intitolata a San Giacomo, che certamente potrebbe dire qualcosa di più anche sulla storia di Ippolito e dei suoi.

     

    L’albero genealogico

    Non c’entra ma c’entra: un piccolo dato genealogico che solitamente sfugge e va invece fissato da qualche parte è che la nonna paterna di Ippolito era Marianna Andreassi de Consiliis – originaria di Oriolo Calabro – il cui nonno Francescantonio era, a fine Seicento, Presidente della Regia Camera della Sommaria, e i cui avi De Georgis furono committenti, nel Cinquecento, dello splendido presepe in pietra di Tursi. Chiusa parentesi.

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    Cartiglio lapideo nella chiesa di San Ciriaco Abate, con voto di Ippolito Cavalcanti (senior) e consorte

     

    Buonvicino è un po’ Napoli

    Buonvicino e Napoli, dunque, e il nesso torna quando intravedi nel centro storico un “vico Speranzella”, che riporta dritto ai Quartieri Spagnoli e alla pizza fritta di Donna Fernanda. Ancora una volta, testa e pancia. Nel bar della piazza mi ero fermato a parlare con due anziani – forse nemmeno tanto – che si contendevano la scena mentre il numero di bicchieri di vino reciprocamente offerti diventava sempre più incerto.

    Gerardo e Angelo mi raccontavano così del maestro d’ascia Francesco Martorello, classe 1906, che batteva i boschi dormendo all’addiaccio in sacchi a pelo fatti di foglie d’albero; della grotta del diavolo, di quella d’u sìettu, della zona della scivulenta detta così perché ci si facevano scivolare i tronchi degli ontani appena tagliati, della grotta di Maladurmì che col suo nome confermava tutto il mio scetticismo di quando altri mi raccontarono l’improbabile etimologia che riconduceva a questa stessa parola il nome della contrada Maladrumi in Sardegna, verso Porto Istana.

    Ma torniamo agli anziani del luogo, meno fantasiosi (forse): mi parlavano dei feudatari della prima metà del Seicento, i De Paula di Malvito (pure avi del gastronomo Cavalcanti), contro i quali la popolazione di Buonvicino si sarebbe armata ferocemente non soltanto per opporsi all’aumento dei balzelli ma anche – immancabile in ogni leggenda che si rispetti – allo ius primae noctis.

    Sanzioni economiche 

    Buonvicino e l’Impero fascista: appena si entra nel centro storico ci si imbatte in una lapide che, lì per lì, dice poco e che invece ha anch’essa un suo primato ben preciso: è tra le meglio conservate delle circa 40 colleghe superstiti in Italia. Risale alla fine del 1935 e ricorda le sanzioni economiche comminate all’Italia da parte della Società delle Nazioni in occasione delle conquiste in Africa Orientale.

    Lapide fascista contro le sanzioni inflitte all’Italia dalla Società della Nazioni (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

    Per disposizione dello stesso Mussolini, tale lapide doveva essere affissa presso tutte le sedi municipali italiane. Dopodiché furono rimosse, abrase, riutilizzate, distrutte e, appunto, ne rimangono oggi pochissimi esemplari. Quella di Buonvicino è tra le più intatte, neppure le lame dei fasci sono state intaccate (solitamente era l’intervento “minimo”): potere della perifericità.

    Non trasferire mai la statua del Santo

    Buonvicino e l’imperscrutabile. Il 17 settembre 2006, festa di San Ciriaco (guaritore ed esorcista vissuto a cavallo dell’anno 1000, patrono di Buonvicino), un masso si stacca dal costone di roccia che sovrasta il paese. Rimbalza da un angolo all’altro del dirupo, ignora il centro storico e si dirige verso la piazza alle porte del paese, laddove è in corso il mercato per la festa.

    Tradotto: persone, bancarelle, automobili. Risultato: nessun danno a persone o cose (e le persone, ok, possono darsela a gambe con una certa prontezza; bancarelle e auto parcheggiate, un po’ meno). Mi fermo ad ascoltare il racconto un po’ più attentamente perché, man mano che i dettagli aumentano, mi ricorda sempre più la trama di altri due o tre racconti analoghi.

    Le chiavi della città donate a San Ciriaco Abate, patrono di Buonvicino

    Pare insomma che la sacra effige del santo fosse stata portata anche quell’anno in processione dalla Chiesa di San Ciriaco Abate fino alla chiesetta costruita nei pressi della grotta che il santo adoperò come eremo, in fondo al vallone nei pressi del paese. Fin lì tutto normale. Se non fosse che quella volta fu deliberatamente lasciata lì e non riportata “a casa sua”. Da qui l’ammonimento del Santo: ira e salvazione, mazze e panelle. Tutti questi dettagli, insomma, m’hanno ricordato la storia di un’immagine sacra, rinvenuta in un bosco, poi trasferita in una chiesa, poi sparita e ritrovata esattamente nel luogo originario, laddove si decise infine di fondare il monastero del Sagittario, in Basilicata.

    La stessa ‘cocciutaggine’ delle statue sacre mi è nota, per il pochissimo che ne so, almeno in due altri casi: a San Bartolomeo ad Alicudi, e alla Madonna del Càfaro ad Albidona (portata in una nuova chiesa e puntualmente ritrovata nella chiesa precedente, e puntualmente riportata nella nuova fino alla frana definitiva di quest’ultima, in cui si salvò solo la statua). Sarà per questo che al bivio della sterrata che conduce alla grotta di San Ciriaco un cartello invita religiosamente a non bestemmiare per le buche, perché “Dio ti sente, il Comune no”.

    Sacro e profano sull’antica via istmica (foto L.I. Fragale, 21.09.2021)

    Enogastronomia e misticismo

    Va detto, Buonvicino riesce a unire sacro e profano, sensi e spirito. Enogastronomia e misticismo, forse, per giunta, tutto in chiave naturalistica: l’enorme statua di San Ciriaco che incombe – protettiva e minacciosa – sul paese, sta fuori da una delle prime curve della martoriata strada che porta alla chiesa della Madonna della Neve, 720 metri s.l.m. (ovvero un dislivello di 320 in pochi tornanti). Ma, quando si arriva lì, si è presi dal guardare a tutto fuorché alla chiesa, trovandosi su un terrazzo naturale a metà tra cielo e montagne dell’Orsomarso. A fare da guardia, due cagnolini, ma proprio cuccioli, che vi seguiranno imploranti (benché non randagi) fino a quando non rimetterete piede in macchina.

    Panorama dalla Madonna della Neve (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

    Ventisei famiglie senza luce e acqua corrente

    Dall’altra parte del bivio “delle bestemmie” si prende invece la strada sterrata, ma abbastanza in piano, per la contrada abbandonata di Serrapodolo, a circa 5 km dal centro storico. È ciò che resta di una delle antiche vie istmiche calabresi: questa si insinua subito fuori dal paese, in mezzo ad un canyon, e procede fino al Varco del Palombaro (quello che portava al santuario di Artemisia, in seguito a quello del Pettoruto, e da sempre alla Piana di Sibari).

    Le poche case abbandonate di contrada Serrapodolo (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

    Per arrivare a Serrapodolo bisogna bagnarsi i piedi un paio di volte e ne vale la pena: oggi ci si incontra al massimo qualche gruppo composto da bue, vacca e vitellino, ma fino al 1968 qui vivevano ben 26 famiglie, mi dicono. Non erano mai state raggiunte dall’acqua corrente e dalla luce elettrica, e lentamente abbandonarono questa vallata e questi paradisi, restituendoli alla loro eternità.

    Lo Stretto, strozzatura del canyon sulla via istmica (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

     

  • San Giuseppe&Co: Cosenza e la sua fiera a (cacio) cavallo dei secoli

    San Giuseppe&Co: Cosenza e la sua fiera a (cacio) cavallo dei secoli

    La Fiera di San Giuseppe è un appuntamento storico per Cosenza e non solo. E, dopo la pausa imposta dalla pandemia, rispunta la possibilità di rivederla in città, seppure a fine aprile. In passato i paesi della Calabria non erano autosufficienti: non consumavano tutto ciò che producevano e non producevano tutto quello che consumavano. A parte quei fortunati che possedevano un pezzo di terra, la maggior parte degli abitanti comprava nei mercati e nelle botteghe legumi, frutta e verdura oltre che olio, pasta, farina, baccalà, stoccafisso, sarde salate, formaggi e salumi.

    In ogni centro vi erano negozi, forni, trappeti, botteghe e rivendite nei quali acquistare derrate alimentari. Nella Calabria Citeriore del 1826 vi erano 52 acquavitaj, 48 arancisti, 3 biscottieri, 25 caffettierj e sorbettieri, 65 venditori di foglia, 159 fornai, 38 fruttajuoli, 47 venditori di generi al minuto, 45 liquoristi, 75 maccaronaj, 203 macellaj, 386 molinaj, 391 negozianti, 168 panettieri, 541 pescatori e pescivendoli, 324 pizzicagnoli, 164 speziali, 180 tavernarj, 185 veditori privilegiati e 29 verdumaj.

    La fiera? Un privilegio

    Le fiere costituivano un importante momento di scambio dei prodotti ma le autorità rilasciavano la «concessione sovrana» con «prudente moderazione». Le comunità che avevano avuto tale privilegio non volevano che se ne celebrassero altre nei paesi vicini e ciò suscitava malcontenti, proteste e divisioni.

    Nel 1836, il sindaco di San Lorenzo Bellizzi scriveva sulla necessità di liberalizzare le fiere: «Se è vero che ogni terra non produce ogni cosa, e che ogni terra è abbondante di qualche cosa, il commercio è il mezzo efficace a mettere l’equilibrio fra il soverchio e il necessario». E un suo collega qualche anno dopo aggiungeva: «L’esperienza ha dimostrato che le fiere producono degli evidenti vantaggi al commercio, una delle principali risorse della ricchezza dei popoli, mentre donano il mezzo a realizzare ed estrarre i generi indigeni».

    Abuso di potere

    In occasione delle fiere, che duravano in genere due giorni, le Università facevano costruire baracche per esporre le merci e, per garantire l’ordine pubblico, nominavano dei “mastrogiurati” i quali erano spesso contestati dai rivenditori.

    Nel 1476, i mercanti cosentini, ad esempio, protestarono vivacemente contro il mastrogiurato perché durante la fiera della Maddalena commetteva ogni sorta di sopruso: «Considerato lo Mastrogiurato de dicta Città have plenaria iurisdictione in lo tempo e la fiera che si dice Madalena, de cognoscere contra de qualsivoglia persona, de qualsivoglia causa et allo presente se alcune persone che, intra et fora delo Reame haveno ottenuti privilegij de vostra Maiesta, che siano exempli dela iurisdictione de dicto Mastrojurato per la qualcosa commectono multi delitti et insulti, et passano senza punizione, de che soleno evenire multi scandali in preiuditio dela dicta iurisdictione et dele persone offese, et per questo se degni vostra Majesta che dicto Mastrojurato possa gaudere sua iurisdictione secondo è solito et consueto, non obstante ditti privilegij de dicta exemptione concessi».

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    Federico II di Svevia istituì l’antica Fiera della Maddalena a Cosenza che poi divenne Fiera di San Giuseppe

    Squadra antitruffa

    I gendarmi dovevano controllare soprattutto che durante le fiere non si verificassero frodi ai danni dei consumatori. Gli intendenti sollecitavano i controllori a punire senza indugio chi vendeva cibi immaturi, grani infraciditi, pani manipolati con sostanze nocive, pesci freschi e salati putrefatti, carni di animali estinti per malattie e oli e vini adulterati. Alcuni macellai, vendevano carne di animali morti naturalmente che, secondo i sanitari, provocavano gravi malattie fra cui antraci, bubboni e «cocci maligni»; avidi fornai facevano pane con farine scadenti o marce e utilizzavano ogni cosa per accelerarne la fermentazione, renderlo più poroso, soffice e durevole, farlo diventare più bianco e pesante; tavernieri senza scrupoli per aumentare la quantità del vino aggiungevano acqua e per mutare il colore, migliorare il sapore, favorire la conservazione e occultare i difetti introducevano nelle botti «droghe malefiche».

    Botte da orbi

    Oltre che impedire frodi e furti le guardie dovevano prevenire o sedare le frequenti risse quasi sempre dovute all’eccessivo consumo di alcol. Nella fiera di Castrovillari, ad esempio, la tranquillità della fiera era interrotta «dall’unione di persone di molte comuni e di provincie diverse che per le contrarie abitudini o per stravizzi, causati dall’opportunità della fiera spesso apportano disordini e non pochi reati vi consumano». Le fiere erano luogo privilegiato per borseggiatori, mendicanti e ciarlatani come tarantolati e ceravulari che cercavano di raggranellare lecitamente o illecitamente qualche soldo.

    Vagabondi e tarantolati

    Nel 1664, in un trattato sui vagabondi, Frianoro scriveva che gli attarantati fingevano di essere impazziti in seguito al morso del falangio e, per attirare l’attenzione dei presenti, facevano cose bizzarre mentre i compagni chiedevano l’elemosina. Per rendere più veritiera la loro follia sbattevano la testa, tremavano sulle ginocchia, stridevano i denti, facevano gesti insensati, lanciavano grida strazianti, ballavano disordinatamente e si mettevano in bocca un pezzo di sapone vomitando una gran quantità di schiuma come i cani arrabbiati. Erano dei mendicanti, fanatici e «santicchioni» che ostentavano estasi, catalessi, isterie e varie forme di corea per farsi credere ispirati dal fuoco, eccitare la compassione pubblica e ricevere offerte.

    Vecchia raffigurazione di un “sanpaolaro”

    San Giuseppe e sanpaolari

    I sanpaolari o ceravulari avevano cassette di legno dentro cui mettevano vipere, scorpioni e tarantole e, per destare meraviglia tra gli spettatori, appendevano al collo serpenti e si facevano mordere. Alberti scriveva che trattavano le vipere come fossero uccelletti domestici e, per meglio colorire le proprie bugie, affermavano di essere immuni dal veleno perché appartenevano alla «casa di san Paolo» o «per invocationi di diavoli». Dioscoride sosteneva che i «sanpaolari» fossero degli ingannatori perché prendevano le aspidi con le mani dopo averle fatto addentare pezzi di carne. Vendevano unguenti simili alla teriaca dei medici, facendo credere alla gente ignorante che, spargendoli sul corpo, avrebbero allontanato qualsiasi malore e bestia velenosa.

    Mercuri li accusava di essere vagabondi, ubriaconi e puttanieri che rifilavano al volgo farmaci giurando sulla loro efficacia: ciarlatani, buffoni e istrioni raccontavano di avere avuto le ricette segrete dal re di Danimarca e dal principe di Transilvania e il popolo credulone sperperava il denaro acquistando polveri, radici, olii, unguenti, pomate, liquori e sciroppi. Frianoro li catalogava nella categoria dei vagabondi e dei ciurmatori: dicevano di discendere da San Paolo nonostante l’apostolo non avesse mai avuto figli e maneggiavano le vipere a cui era stato tolto il veleno tra lo stupore della plebe ignorante; vendendo pietre miracolose, lamine di metallo, pozioni magiche e cantilene per incantare le serpi raccoglievano danaro senza sottoporsi a nessuna fatica.

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    Antica stampa in cui è raffigurata la Fiera di San Giuseppe

    La Fiera di San Giuseppe e le altre

    Le fiere cosentine più importanti erano quella di San Giuseppe che si teneva il 19 marzo in piazza san Gaetano, quella dell’Annunciata il 25 marzo nel largo San Domenico e quella di San Francesco nei primi due giorni di aprile presso il piano davanti la chiesa. Nella fiera di San Giuseppe si vendevano piante e alberi da frutto, attrezzi agricoli, pentole di rame, vasellame, cordami, cuoio, sapone, lino, lana grezza, biancheria e altri generi. Tra i banchi dei mercanti che provenivano da terre lontane era possibile acquistare anche caffè, the, cioccolata, zucchero, spezie, torroni, confetti, biscotti, liquori, sale, riso e pasta («canaroncini», vermicelli, «maccarroncini», «maccaroni» e «tegliatelle»). Si smerciavano anche ottimi salumi e latticini. Particolarmente diffuse erano le scamozze o scamorze, dalla voce spagnola escamochos, rimasugli di formaggio destinato a fare le pezze grosse di caciocavallo.

    Caciocavalli protagonisti delle fiere calabresi

    I casecavalli

    I casecavalli figuravano tra gli alimenti più richiesti e i mercanti delle varie regioni per venderli dovevano pagare una tassa. I caciocavalli freschi erano squisiti ma quasi tutti si stagionavano e, duri e asciutti, avevano un sapore piccante come il pecorino.
    Kashkaval, kashkavat o qasqawal, caci di latte bovino a pasta filata erano prodotti in numerosi centri della provincia e, nel XIV secolo, tra i formaggi preferiti dagli Ebrei della città. Versato in una tinozza di legno, il latte tiepido di vacca si quagliava con presame di capretto affumicato messo in un pezzo di tela e si sbatteva fortemente con una spatola di legno in modo da separare il cacio dal siero. Il formaggio che iniziava a galleggiare si metteva in una tinozza, si versava acqua bollente e si manipolava a lungo con le mani sino a dare la forma di una pera o di un globo con la testa.

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    Le tradizionali forme di caciocavallo della Fiera di San Giuseppe a Cosenza

    Il balocco dei bambini di Cosenza

    I casecavalli, appesi alle travi con una cordicella, erano soprannominati i “caci degli impiccati” ma, secondo l’opinione diffusa, prendevano tale nome perché, stagionavano a coppie appesi “a cavallo” di un bastone.
    Ogni produttore dava al caciocavallo forme diverse e il generale francese Griois, in Calabria durante l’occupazione napoleonica, descriveva un formaggio allungato chiamato per la forma «cazzo di cavallo». Con la pasta dei caciocavalli si realizzavano i casocavallucci, opere artistiche destinate al «balocco dei bambini», acquistati soprattutto dalle famiglie agiate: da qui il detto metterse ‘ncasocavallucce, cioè avanzare nella condizione sociale; per il popolino casocavalluccio significava anche capitombolo, poiché i latticini a forma di cavallo mal si reggevano in piedi.

    La Fiera di San Giuseppe nel 2010, un videoreportage di Gianfranco Donadio
  • BOTTEGHE OSCURE | Calabria maiala: l’industria del “porchicidio”

    BOTTEGHE OSCURE | Calabria maiala: l’industria del “porchicidio”

    «Se doppo haver mangiato carne di porco bevissimo dell’acqua vi farebbe molto danno, ma bevutoci vino temperatamente, sarà buona, e salutevole». Il saggio consiglio di abbinare del buon vino alla carne di maiale per ridurne gli effetti dannosi per l’organismo viene da un astrologo e astronomo cosentino. A cavallo tra ‘500 e ‘600 il torzanese Rutilio Benincasa nel suo Almanacco Perpetuo – in cui si occupa sostanzialmente di firmamento, corpi celesti, calcoli pseudoscientifici e nozioni di storia – si premura di dare al lettore «alcuni buoni et utili avertimenti per conservarsi la salute et vivere lungo tempo sani». Non sappiamo quale beneficio per la salute ne abbiano tratto i lettori dell’Almanacco. È certo però che nei secoli passati la gente comune faceva incetta di carne di maiale, che rappresentava una vera e propria “conquista” e occasione festiva per molte famiglie.

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    Maiali neri di Calabria

    Vasci e detti

    L’allevamento del maiale era una delle voci che più contribuivano al sostentamento famigliare. Allevare maialini e poi macellarli, di gennaio in gennaio, significava avere la dispensa piena. Quella del “porco” era un’industria dal basso e le “botteghe oscure” erano in questo caso le stesse abitazioni. A parte le famiglie benestanti che potevano permettersi una stalla, generalmente nelle case il piano superiore era riservato alle persone mentre il piano inferiore a masserizie e animali. Ma a “sua maestà” il maiale veniva generalmente riservato un angolo a sé.

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    La ‘piertica’

    Le famiglie povere invece condividevano il “vascio” con le bestie, porco compreso. Il possesso di maiale rappresentava un vero e proprio spartiacque tra l’inedia e la sazietà, che significava benessere. A tal proposito un proverbio riportato da Luigi Accattatis nel suo vocabolario del dialetto calabrese recita che «amaru chi lu puorcu nun s’ammazza, ca ‘e vide e li desiddera i sazizzi». Oppure un altro avverte che «chine se spùsa sta cuntientu nu jùarnu, chine s’ammazza lu pùorcu sta cuntìentu n’annu».

    I porci del marchese

    Nel 1770 il marchese ed economista Domenico Grimaldi diede alle stampe un Saggio di economia campestre di Calabria Ultra con l’obiettivo di diffondere quelle che oggi definiremmo con un termine abusato “buone pratiche” agricole. Grimaldi, che aveva delle proprietà in Calabria, era consapevole che «fra li maggiori capi d’industria della Calabria, quella d’ingrassare i Majali è una delle più considerabili». Ciò era dovuto al fatto che i suini erano soliti scorrazzare liberi nei boschi e cibarsi di ghiande che rendevano «la carne di questi animali più solida, e più sana, e più durabile dopo salata» rispetto a quella dei maiali nutriti a granturco e che dimoravano nei porcili. Ma se c’era una cosa che non gli andava a genio era il modo di produrre e commercializzare i salumi in Calabria.

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    De’ Majali. Dall’opera di Grimaldi del 1770

    Secondo il marchese non si usava «alcuna diligenza per scegliere la carne […] niuna regola prefissa per salarla e mettersi la giusta quantità di sale […] Di più i Calabresi ignorano la maniera di prosciugarli e unger di tempo in tempo i detti salami». Nonostante l’ottima qualità delle carni, i discutibili metodi di conservazione rendevano disponibile per l’esportazione una bassissima quota di prodotto. I calabresi avrebbero dovuto dunque imitare «il più ricco commercio che fanno i Bolognesi delle loro mortadelle» e incominciare a «estrarre salami dalla Calabria, che fossero gustati nell’Inghilterra, e in altre parti oltramontane, che il profitto farebbe certamente stropicciar gli occhi alli nazionali».

    Maiale al bando

    Nella seconda metà dell’Ottocento i maiali vagavano indisturbati per le vie di città e paesi. Erano una presenza costante nei più immondi tuguri, tanto da far scrivere al solito Vincenzo Padula che «il Calabrese nasce tra porci e porcelle». Nell’articolo L’ostracismo dei porci (Il Bruzio, Cosenza 4 Maggio 1864) il sacerdote-giornalista si spinge in «quei bugigattoli, dove stivate, pigiate e affumicate albergano le famiglie del popolo». Poco oltre quel «fetido pagliericcio, che chiamasi letto, un truogo [trogolo, mangiatoia dei maiali, nda], e presso al truogo un porco».

    Una Calabria non troppo antica dove il maiale viveva in famiglia (foto pagina Facebook Calabria Ieri)

    Padula non manca di sottolineare la stretta simbiosi tra esseri umani e rosee ma talvolta pezzate creature, giacché «il porco in Calabria dorme sotto il letto, scorrazza per le vie, si conduce a passeggiare per le piazze, spinge il grifo [naso grosso] nei caffè, si ferma innanzi alle bettole per raccogliere le bucce di lupini e di castagne che gli buttano i bevitori, e quando bene gli pare entra in chiesa a sentire la predica». Tutto ciò suscitava le sdegnose proteste di quei pochi privilegiati e dei sindaci «dai calzoni di segovia e dagli stivaletti di vitellino incerato» che in nome della civiltà e dell’igiene chiedevano «di mettere i porci cittadini al bando».

    Pentolini di creta

    Tra il serio e il faceto Padula spiega come all’improvviso «i porci si posero sotto il patrocinio di S. Antonio». In effetti Sant’Antonio Abate, protettore degli animali domestici, è spesso raffigurato con un maialetto al suo fianco. Padula annota come in Calabria i frati Cappuccini e Riformati – francescani come Sant’Antonio di Padova – abbiano attribuito a quest’ultimo la protezione dei maiali ma solo per un fatto di omonimia con l’altro santo Antonio.

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    Rende (CS), chiesa di S. Antonio Abate. Il santo con il maialino

    Questo garbuglio di santi e maiali serve a Padula a introdurre un uso devozionale, praticato in alcuni paesi della Calabria fino pochi decenni or sono e legato al suino. «Appressandosi la stagione del porcocidio» i frati andavano di uscio in uscio e lasciavano dinanzi a ciascuno cinque pentolini di creta. Nel trovarli, spiega Padula, «la donna calabrese li bacia per devozione». Dopo una quindicina di giorni un fraticello sarebbe passato a raccoglierne uno solo ma pieno di strutto, un “ben di Dio” che si ricava dalle parti grasse dell’animale.

    Maiale, unica industria

    Padula tuona però contro sindaci, agenti di pubblica sicurezza e paladini della nettezza urbana: in Calabria «togliere la cittadinanza ai porci non si può». Il sacerdote dalla penna affilata adduce tre ragioni a sostegno della sua affermazione. La prima: «Dei nostri cento paesi, novantasette non hanno macelli, né beccai; e se gli hanno, il villano è sì povero che deve rimettere al tempo del porcocidio il desiderio di mangiarsi un po’ di carne fresca». La seconda: «Tra noi l’uomo del popolo, a rompersi tutto il dì l’arco della schiena, è molto se guadagna una lira e la sua donna 25 centesimi».

    Dinanzi a siffatta «spaventevole miseria, effetto di mancanza di lavoro e di arti» a quei disgraziati non rimane altra industria che «allevare un porco» e godere dei suoi frutti. La terza motivazione a sostegno dei suini è pratica: «Lungi dal creare immondezze, le distruggono». In breve: finché in ogni paese non verrà costruito un sistema fognario in pietra, per Padula non cesserà «la necessità delle fogne vive che sono i porci».

    Pubblico mattatoio

    A Cosenza nel 1859 l’aria era poco salubre anche per via della pratica della macellazione delle bestie, maiale incluso. A tal proposito Ferdinando Scaglione annota che «l’abuso generale de’ macellai di sgozzare e di scorticare quasi entro l’abitato gli animali vaccini, pecorini e porcini, riempendo ogni luogo di sporcizia e d’impurità». Bisognava dunque «impedire ogni sorta di putrefazione, sola cagione di miasmi e di febbri tifoidee» e ci si pose il problema della creazione di un pubblico mattatoio cittadino. Tuttavia, ancora nel 1870 il medico Domenico Conti scriveva che «per mancanza di adatto macello sgozzansi gli animali nell’abitato buttandosene gli escrementi o nelle strade o ne’ fiumi Crati e Busento».

    Grastaturi e daziari

    Era colui che interveniva con la sua arte per castrare il maiale. Si riteneva che la procedura favorisse la crescita dell’animale e evitasse alcuni inconvenienti che potevano inficiare la qualità delle carni. Chiamato all’occorrenza, il grastature giungeva nella “zimma” con la sua cassettina di legno contenente gli attrezzi del mestiere, quasi una valigetta da chirurgo viste le mansioni veterinarie che era invitato a svolgere. Attraverso delle piccole lame affilatissime interveniva incidendo, dopo una sommaria pulitura della parte interessata, e quindi, con un altro arnese, castrando il malcapitato maiale. Si trattava di competenze chirurgiche molto rudimentali ma non alla portata di tutti, acquisite non con lo studio ma con la pratica, spesso passata di padre in figlio.

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    Lo ‘scannaturu’ (foto Lorenzo Coscarella)

    Se il grastature godeva del rispetto delle famiglie allevatrici, al contrario l’agente del dazio, chiamato a riscuotere una tassa per ogni animale macellato, si accattivava tutti gli odi. I “porchicidi” non denunciati erano passibili di multe che rappresentavano per le famiglie un danno economico. In breve, l’agente daziario era il guastatore della festa e in molti cercavano di eludere i controlli. C’era chi sottoposto a indagine dichiarò di trasportare due mezzi maiali quando, in realtà, ciascuna metà era dotata di coda e dunque i maiali dovevano essere almeno due. La multa fu inevitabile e salata.

    Cosenza caput… puarci

    Le statistiche circa “l’industria del porco” nella provincia di Cosenza tra ‘800 e ‘900 dimostrano quanto questa fosse diffusa e popolare. Accattatis scrive infatti che solo la città capoluogo «coi suoi mercati settimanali provvede di carne suina anche le altre Calabrie». Il prodotto medio annuale dell’intera provincia era di 249 mila animali. Questi consumavano 100 mila ettolitri di ghiande e 150 mila di castagne. Circa 40mila maiali venivano consumati nella provincia, di cui 4.000 nella sola Cosenza ricavandone prosciutti, costa, gelatina, sanguinaccio, frittule, gambone, soppressata, salsicce, capocollo, lardo, frisuli, grasso. Un maiale tra i 30 e i 90 kg poteva costare tra le 34 e le 100 lire in base al peso.

    Nel comune di Cosenza nel 1908 erano stati macellati 4098 maiali, per un totale di circa 165mila kg di carne suina (a peso morto). I capi di suino consumati erano stati però 8991, quindi gran parte dei maiali giungeva in città dai centri vicini. A Corigliano i suini macellati erano stati 1151, a San Giovanni in Fiore 3742. A Catanzaro, nello stesso anno, erano stati macellati 1080 suini per un totale di 158mila kg di carne, mentre i maiali consumati 3947. Nel suo circondario è possibile conoscere i dati di Monteleone, con 359 maiali macellati; Nicastro con 1648; Sambiase con 860. Per Reggio non si hanno a disposizione dati per quell’anno, visto che i registri furono dispersi durante il terremoto, ma per la provincia le statistiche riportano 451 maiali macellati a Palmi e 67 a Cittanova.