Roma è la capitale della pizza al taglio in Italia, ma anche la Calabria si difende egregiamente. A sancirlo è 50 Top Pizza, la guida delle migliori pizzerie che vede ben piazzate in classifica due locali del Cosentino. Il primo posto se lo aggiudica il celebre – ormai ha anche il suo show in tv – Gabriele Bonci. Quella del suo locale romano, Pizzarium, si conferma per il terzo anno consecutivo la migliore “Pizza in Viaggio (da taglio e asporto)” del Paese.
Pizza al taglio: tra le prime 15, due sono in Calabria
Antonio Oliva insieme a Gabriele Bonci
Si resta nella capitale anche per gli altri due gradini del podio. Il secondo posto va all’Antico Forno Roscioli, storica insegna familiare nel centro storico, mentre al terzo si piazza Lievito Pizza, Pane del giovane Francesco Arnesano. Ma è scorrendo la classifica – senza lasciare la Top 15 però – che arriva la Calabria. Dopo indirizzi mitici per i buongustai come La Masardona (4°) a Napoli e altri, al nono posto un nome che ha ormai fatto la storia della pizza al taglio in Calabria: “Oliva Pizzamore“ di Antonio Oliva. Poco più giù, al dodicesimo posto, troviamo Campana Pizza In Teglia, la pizzeria di Daniele Campana a Corigliano-Rossano.
Daniele Campana
La Top 20 d’Italia
Nelle valutazioni si è tenuto conto di molti fattori: qualità delle materie prime, ambiente, pulizia e cura dei dettagli.
Queste le prime 20 posizioni di Le 50 Migliori Pizze in Viaggio in Italia 2022:
Pizzarium, Roma (Lazio)
Antico Forno Roscioli, Roma (Lazio)
Lievito Pizza, Pane… Roma (Lazio)
La Masardona, Napoli (Campania)
Saporè Pizza Bakery, San Martino Buon Albergo – VR (Veneto)
Sancho, Fiumicino – RM (Lazio)
La Pia Centenaria, La Spezia (Liguria)
Tellia, Torino (Piemonte)
Oliva Pizzamore, Acri – CS (Calabria)
Granocielo, Avezzano – AQ (Abruzzo)
PorzioNi di Pizza, Napoli (Campania)
Campana Pizza In Teglia, Corigliano-Rossano – CS (Calabria)
‘O Fiore Mio Pizze di Strada, Bologna (Emilia-Romagna)
Grotto Pizzeria Castello, Caggiano – SA (Campania)
Per chi arriva in Calabria da nord, in treno o in auto sulla trafficatissima Statale 18, l’estate si annuncia con il paesaggio maestoso del Tirreno. Le montagne precipitose e la costa alta e luminosa del golfo di Policastro, che si apre subito dopo Maratea e si allarga ad arco verso sud per 150 km fino a Capo Vaticano. Oggi questa è la geografia di una affollatissima striscia continua di marine, villette standardizzate, alberghi e villaggi turistici.
Tutto cresciuto a dismisura e incastrato tra le spiagge, la ferrovia e la statale lungo la costa tra Praia a Mare, Scalea, Diamante, Santa Maria del Cedro: la Riviera dei Cedri, questo dicono i depliant.
Ma i cedri dove sono?
Sì, ma i cedri? Si fa fatica a credere che tra queste zolle di cemento addossate alle spiagge congestionate riesca ancora a crescere qualcosa.Dove crescono i cedri? Dov’è la terra per coltivarli?
Poco sopra il caos delle marine, sopravvive un po’ della antica campagna assolata. Una terra di muretti a secco e fiumare, un tempo costellata di ulivi, agrumeti e vigneti, di villaggi rurali e borghi aggrappati alle creste appenniniche. Il paesaggio è bello e fragile, rotto in modo irreparabile dalla modernità distruttrice. Rimangono i paesini e le frazioni rurali della costiera più alta, spopolati e inariditi dall’abbandono e dagli incendi di stagione appiccati per far posto al pascolo e alla speculazione.
Rabbini durante i festeggiamenti della Sukkoth
La bellezza tra il cemento
Da queste parti si costruiscono ancora seconde e terze case a frotte. Ma incredibilmente qui resta ancora qualcosa dell’antica bellezza, della natura benigna. E c’è quello che resta del retaggio di una storia e di una cultura insieme antica e modernissima.
A ben guardare qualcosa si è salvato e ancora dura. Anzi prospera, in pochi anfratti e fazzoletti di terra, irrorati da pochi rigagnoli e da qualche residua fiumara, come il Corvino, che scende al mare fino a Diamante.
I paesi del cedro
A Diamante, Buonvicino, Santa Maria del Cedro si coltivano i cedri. Proprio le cedriere, colture agrumicole specializzatissime, sono un ponte tra due mondi.
Già: qui, per qualche settimana all’anno, oltre al dialetto locale si parla l’ebraico.
Quasi tutta la produzione italiana del “Citrus Medica”, e dei suoi derivati (compresa la materia prima della celebre Cedrata Tassoni dei caroselli di Mina), si concentrava nei recessi più riparati di questa zona fino agli anni 60-70. Per la precisione, lungo il tratto di costa tirrenica che va da Santa Maria del Cedro sino a Cetraro.
La Riviera dei Cedri, appunto. Ma quest’area oggi significa turismo di massa, cemento spalmato ovunque, casino estivo.
Il cedro: in Calabria meglio che in Asia
Si ritiene che il cedro provenisse dall’India, e che da lì avesse raggiunto il Mediterraneo in seguito all’invasione della Persia di Alessandro il Grande (325 a.C.). Proprio in Calabria, l’agrume ha trovato un microclima stabile: sole tutto l’anno, acqua abbondante e terreni terrazzati dove crescere al riparo dei venti.
Ma c’è da dire che forse le piante di cedro hanno radici ancora più antiche, in Calabria. Infatti, la cultivar autoctona del “Cedro Diamante” corrisponde esattamente alle caratteristiche del frutto rituale degli ebrei, l’etrog. In questo caso, l’agrume deve essere di un verde puro, sodo, liscio e lustro.
Alessandro Magno: si deve a lui l’arrivo dei cedri nel Mediterraneo
Il cedro di Calabria a misura di ebrei
Il frutto deve essere spiccato dal ramo all’altezza del peduncolo, e deve provenire esclusivamente da piante allevate per talea. Al contrario, quelli cresciuti direttamente dalla terra, sarebbero considerati impuri.
Per gli ebrei ortodossi di tutto il mondo il cedro Diamante è lo stesso descritto nella Thora (Lev., XXIII – 39). L’etrog è il frutto “dell’albero più bello”, necessario agli israeliti – insieme alla palma, al mirto, al salice – per celebrare Sukkoth, la Festa dei Tabernacoli, la festa del raccolto e della gioia, secondo quanto Dio prescrisse a Mosè durante l’Esodo.
Una coltura antichissima
Nell’alto Tirreno cosentino la coltura del cedro risale alla presenza in zona di comunità ebraiche sin dai primi secoli dell’era cristiana. Gli ebrei della diaspora tornarono periodicamente in Calabria nel corso del medioevo. Furono definitivamente cacciati, o costretti all’abiura e alla conversione, durante l’età di Filippo II. La loro espulsione definitiva risale al 1541.
Per questo i contadini calabresi che hanno ereditato il cedro agli ebrei, dedicano alla crescita delle piccole piante di agrumi lunghe cure e sacrifici quasi religiosi.
Un rabbino impegnato nella raccolta dei cedri
Come si produce
Nelle cedriere servono quattro anni di laboriose potature, a partire dalla talea, per portare il fragile fusto del cedro a fruttificare. Si lavora solo a mano, tra le piante basse e profumate. Si sta carponi e si ripulisce periodicamente il terreno dalle zizzanie.
D’inverno le piante che soffrono il freddo trovano riparo dietro i cannicci. Una pianta di cedro, anche se bene accudita, vive al massimo 20 anni e ogni anno produce non più di 60-80 frutti.
Lo sforzo, tuttavia, è ripagato dal raccolto: il cedro di Diamante è il migliore del mondo e fa della sua rarità (non più di 6.000 quintali nelle annate migliori) e della qualità originaria un alto valore aggiunto. Coi suoi scarti e i derivati si preparano ancora oggi liquori, bibite e canditi artigianali di primissima scelta.
L’arte del candito
Anche la canditura tradizionale del cedro, divisa tra la macerazione in salamoia per due mesi nelle botti di gelso e la successiva canditura delle scorze asciutte con sciroppo di zucchero, si svolge ancora secondo le regole d’arte ebraiche. Questa lavorazione è detta “messinese” o “livornese”.
Fino agli anni ‘70 il prodotto locale dopo il raccolto veniva commercializzato solo da pochi incettatori e grossisti. Nelle tasche dei produttori locali restava ben poco.
Una cedriera in tutta la sua bellezza
Gli anni del boom: meglio che in Israele
Poi dopo gli anni ’70, con la rinascita di Israele, la produzione calabrese di cedro fu “riscoperta” dalle comunità di ebrei ortodossi di tutto il mondo, che abbandonarono la qualità più scadente e commerciale del cedro di Portorico, coltivato intensivamente anche in California con abbondante uso di pesticidi.
E c’è da dire che neppure in Israele riescono a ottenere un prodotto di qualità così elevata.
Negli ultimi anni in questa zona la coltivazione del cedro rituale ha stimolato un commercio “transculturale” che in tempi di globalizzazione selvaggia e di turismo aggressivo è un esempio di economia sostenibile. Ciò accade quando, assieme ai prodotti, si scambiano anche valori e tradizioni di culture differentie complementari.
Culture a confronto
Le ricadute economiche e antropologiche di questo fenomeno sono curiose ed evidenti. Tra luglio e agosto la Riviera dei cedri sembra un pezzo del quartiere Lubavitch trapiantato nel caos strombazzante delle vacanze all’italiana di Diamante e Santa Maria del Cedro.
Arrivano i rabbini ortodossi. Sono i Rodal, i Lazar, i Peres, i Maghyar, i Levy, gli Havinery, i Basherijevitch di Amburgo, Londra, Odessa, New York, Tel Aviv, Buenos Aires. Barbe lunghe, cappelli a falda, peyot (i lunghi riccioloni che cadono dalle tempie) e soprabiti neri, nonostante il caldo.
I volti sembrano usciti da una galleria di ritratti di Robert Visnjach, facce da Khassidim e da kibbutzim. Arrivano qui per acquistare e controllare di persona la raccolta dei piccoli cedri che sono indispensabili agli ebrei ortodossi per celebrare degnamente Sukkoth, che cade a settembre.
Rabbini in posa a Santa Maria del Cedro
I rabbini nelle cedriere
I rabbini vanno nelle cedriere al mattino presto assieme ai contadini. Cominciano a lavorare all’alba in religioso silenzio.
Il sacerdote va avanti lentamente e con cura scrupolosa ispeziona le piante una per una. Anche gli attrezzi devono essere puri.
Il coltivatore lo segue con in mano una forbice da potatura, che servirà solo per quello scopo, e una cassetta di legno foderata di paglia. Ci si intende senza parlare. Il sacerdote si ferma a guardare i frutti da vicino, uno per volta. Ispeziona anche il tronco del l’alberello: il fusto deve essere sempre dritto e liscio, privo di segni e di insetti. Se li avesse, la pianta sarebbe impura e i frutti inservibili.
Passato l’esame del fusto si possono raccogliere i cedri tra i rami bassi e le lunghe spine lanceolate. I frutti sono selezionati rigorosamente: non ci possono essere scarti. A questo punto il rabbino si sdraia per terra e guarda i frutti dal basso, scrutandoli tra le foglie senza mai toccarli prima della valutazione definitiva.
Se infine decide di coglierli li indica al contadino, che li spicca con la forbice.
Poi, più da vicino ma senza mai toccare il frutto, esamina ancora la buccia liscia e verde: la forma deve risultare perfettamente ovoidale a imitazione del cuore.
Dopo la scelta
Solo dopo questo vaglio, il piccolo agrume – non più di 300 grammi, il peso di un cuore umano – è avvolto nella stoppa ed è riposto nella cassetta di legno. Il coltivatore per ogni cedro buono scelto dal rabbino otterrà la somma stabilita.
Il prezzo è sempre alto, perché dal rischio stagionale dipende anche la qualità e la quantità del prodotto scelto dai rabbini.
Ci si saluta contenti con un arrivederci. Con la lunga consuetudine e la fiducia, si diventa amici.
Infatti, molti rabbini dopo anni portano anche le famiglie in vacanza qui. Tra queste famiglie ebraiche e i coltivatori della Riviera dei cedri si è formato una sorta di intenso comparaggio interculturale.
Una fase della raccolta dei cedri
Fine del raccolto
Quando la raccolta si è conclusa le cassette contenenti i cedri avvolti nella paglia e sigillati uno per uno da un coperchio prendono immediatamente la strada dell’aeroporto di Lamezia.
Quindi i jet riportano a casa i rabbini e, nelle stive, le cassette di legno con i piccoli cedri. Gli agrumi dorati si risveglieranno solo un mese dopo, ancora lustri e profumati. E brilleranno per la festa degli ebrei della diaspora, forse già nel freddo di un altro continente, in una metropoli lontana. Qui restano gli alberelli, assediati dal cemento, tra gli abusi e i condoni edilizi mentre il traffico dell’estate scorre indifferente sulla vena pulsante della Statale.
A noi resta un mondo che non sa più riconoscere la sacralità della natura e i frutti più antichi del lavoro dell’uomo.
Il polpo è una prelibatezza. In Calabria lo si prepara soprattutto ad insalata. Prima si eliminano occhi, becco e vescichetta, poi lo si cuoce in acqua bollente leggermente salata a fuoco molto basso. Non appena diventa tenero, si serve tagliato a tocchetti, con capperi, olive, pomodorini, foglie di basilico e peperoncino.
Una cattiva fama
Nel corso dei secoli, tuttavia, il cefalopode non ha goduto di buona fama. Anzi, era considerato di non facile assimilazione.
Ad esempio, Galeno e i medici della scuola salernitana scrivevano che non bisognava mangiare polpi perché le loro carni legnose e fibrose, resistevano alla digestione e avvelenavano il sangue.
Nei trattati di cucina in cui si davano consigli per vivere bene, si legge che i polpi incitassero alla incontinenza, erano poco nutrienti e particolarmente dannosi per lo stomaco.
Pareri contrastanti
Il polpo ha sempre affascinato gli uomini, che hanno espresso giudizi contrastanti. Aristotele e Plinio sostenevano che fosse un animale sciocco perché per curiosità si attaccava alle gambe del pescatore e si lasciava catturare.
Era talmente tonto e avido da avvinghiarsi a una frasca d’ulivo trascinata dal fondo del mare fino a farsi tirare fuori dall’acqua. Eliano, invece, affermava che i polpi fossero animali intelligenti perché si acquattavano sotto le rocce, assumendone i colori per afferrare le prede. Giovio osservava che fossero talmente ingegnosi da mettere tra le valve delle ostriche una pietra per impedirne la chiusura.
Un busto di Aristotele
Il polpo fifone
Secondo alcuni esperti il polpo era un animale vigliacco, che scappava di fronte alla minaccia, mimetizzandosi o spruzzando un liquido nero per intorbidire l’acqua. Serpetro scriveva che, essendo privo di vertebre, sangue e squame, fosse pavido e fuggisse dinnanzi ai nemici, rifugiandosi nella tana e alimentandosi dei suoi stessi tentacoli. Teofrasto aggiungeva che la sua pelle spugnosa e piena di fori cambiasse colore come quella di un camaleonte per la paura.
Invece no: è tosto
Per altri studiosi il polpo era, invece, un animale coraggioso e, quando raggiungeva una certa grandezza, conseguiva una forza tale da essere considerato una «tigre del mare». L’arcivescovo Olao Magno Gotho raccontava che fosse feroce, crudele, aggressivo e preferisse affrontare il nemico piuttosto che rinunciare al combattimento. Perciò aggrediva grandi pesci e spesso anche marinai, pescatori e palombari. Maier sosteneva che il polpo era il simbolo del coraggio: infatti era raffigurato nelle monete di alcune città della Magna Grecia per esprimere la forza e il carattere guerriero degli abitanti.
Spendaccione o risparmiatore?
Giovanni Fiore, ha interpretato una moneta di Thurio sui cui lati erano raffigurati un delfino e un polpo.
Secondo lui il primo simboleggiava la volontà di girare per il mondo come un pellegrino. Al contrario, il secondo, attaccato tenacemente agli scogli, esprimeva la sedentarietà e la cura per i beni.
Altri autori, invece, affermavano che il polpo fosse un dissipatore di sostanze e un divoratore senza ragione. Gli Egiziani, ad esempio, lo utilizzavano nei geroglifici per indicare chi era incapace di mantenere il frutto della propria potenza. Erasmo da Rotterdam sosteneva che la capacità del polpo di mimetizzarsi era un monito a non mettere al centro la propria cultura e a non disprezzare le altre.
Erasmo da Rotterdam
Il polpo secondo i santi
San Paolo si era comportato come un polpo per evangelizzare e convertire gli ebrei, accettandone leggi e tradizioni.
Per sant’Ambrogio, san Gregorio, san Basilio e altri santi predicatori, l’octopus era invece da disprezzare: un pesce molle senza fede e senza cuore, simile a quegli ignobili adulatori senza scrupoli, sempre pronti a mutar atteggiamento per compiere nefandezze e soddisfare i loro interessi venali.
E secondo i saggi
Eliano e Picinelli asserivano che il polpo fosse così avido e ingordo da non disdegnare gli esseri della sua specie e che mangiasse volentieri i suoi stessi tentacoli in mancanza d’altro cibo.
Invece per Ateneo e Plinio le mutilazioni dei polpi erano dovute ai denti aguzzi di gronghi e murene che, grazie alla loro vischiosità delle membra, sfuggivano i tentacoli. Mirabella pensava che il polpo stampato sulle monete di Siracusa rappresentasse l’eterna lotta tra tirannia e repubblica.
Bronzetti siracusani raffiguranti un polpo
Il cefalopode simboleggiava, infatti, avarizia, ingordigia e superbia. Insomma, i vizi riscontrabili nel tiranno Dionigi che per anni aveva angariato i Siracusani.
D’altro parere lo studioso Testa, secondo cui il polpo incarnava l’immagine della città siciliana. Era infatti immortalato assieme a una stella marina in alcuni piombi di navi mercantili, per simboleggiare che Siracusa fosse stata edificata su uno scoglio ove dimoravano i polpi.
Il mollusco “porcone”
Il polpo era considerato un animale “impuro” perché lascivo e libidinoso.
Secondo gli Egiziani indicava un uomo incapace di staccarsi da una donna. E, secondo loro, solo l’erba pulicaria riusciva a farlo desistere dal coito.
Si diceva che la bramosia sessuale spingesse i polpi ad accoppiarsi ripetutamente. Di più: erano così insaziabili che, anche dopo la cottura, rimanevano ben eretti sulla propria corona di tentacoli.
Il polpo? Meglio del Viagra
Chi mangiava polpi diventava più potente sessualmente. Giovio scriveva che questi molluschi si digerivano con difficoltà, creavano sangue impuro e tormentavano il fegato ma il loro «salsume» svegliava l’appetito di Venere. Il sugo e la carne dei polpi dissalati e bolliti gonfiavano il membro virile e ravvivavano la voglia sessuale persino tra i deboli.
A Venezia i vecchi languidi e «mezzi morti» che desideravano procreare, acquistavano a caro prezzo i polpi essiccati o «invecchiati» dal sale che arrivavano da diversi porti del Mediterraneo.
Anche le donne, per favorire il concepimento, inghiottivano pezzi di polpo ben caldi insieme a pastiglie composte di nitro, coriandolo e cumino.
Le proprietà afrodisiache dei polpi spingevano i sacerdoti a considerarne le carni una minaccia per la salute di corpo e anima: la continua copulazione portava l’uomo alla rovina fisica e morale, così come accorciava la vita agli stessi cefalopodi.
Troppo sesso fa male, anche ai polpi
Plinio e altri scrittori affermavano che vivevano non più di due anni e che le femmine morivano di consunzione dopo la riproduzione.
Il naturalista calabrese Minasi confermava che fosse proprio la brama sessuale a condurre alla morte i polpi prima del compimento di due anni.
Per condannare la diffusa carnalità tra i fedeli, i predicatori cristiani usavano sempre la metafora del polpo che, spossato dai continui rapporti sessuali e senza forze, era preda dei nemici.
Il citato Olao Magno Gotho scriveva che i polpi, per il veemente coito, si debilitavano al punto di farsi portar via dalle loro tane e divorare da fragili pesciolini.
Pitagora proibiva ai suoi allievi di mangiare il polpo perché le sue carni spingevano alla copula. Come se non bastasse, vietava anche il consumo d’ortiche marine perché, bollite o fritte, anch’esse afrodisiache.
I polpi a causa dei continui rapporti sessuali perdevano ogni forza e diventavano pavidi, mentre quando non copulavano erano dotati di vigore e coraggio al punto da assalire gli uomini.
La brama sessuale portava alla morte e il polpo era catturato dai marinai sfruttandone la lascivia. In alcuni villaggi i pescatori calavano in acqua un polpo femmina attaccato a una corda, il maschio si avvicinava per congiungersi e i due cefalopodi, avvinghiati l’uno all’altro, erano tirati sulla barca.
Il polpo era addirittura additato come simbolo del demonio
Polpo, padre dei vizi?
Nel mondo antico il polpo incarnava le cattive abitudini degli uomini e i predicatori cristiani lo additavano come simbolo del demonio. Al contrario, in alcune città marinare era considerato una divinità e, presso alcuni popoli, alla nascita di un bambino per augurio si regalava un polpo alla puerpera.
I polpi erano animali «doppi»: generatori e annientatori, pavidi e coraggiosi, fedeli e traditori, buoni e cattivi.
Un proverbio antico diceva polypi caput per indicare quelle cose e quelle persone che non erano né tutte buone e né tutte cattive.
Il polpo bifronte
Il pensiero mitico va oltre il pensiero concettuale, gli opposti coesistono senza contrastarsi: sono aspetti complementari di una realtà unica. Il polpo indicava una zona di confine tra due mondi, il naturale e il soprannaturale, e tra due nature, la terrestre e la marina. Proprio questa convivenza degli opposti alimentava il suo mito. Era un ossimoro in cui i contrari si contrapponevano e si compenetravano: caos e ordine, visibile e invisibile vivevano l’uno accanto all’altro.
Il pane prodotto dai fornai calabresi è eccellente. Ancora oggi rimane il principe della tavola e tutti gli altri cibi sono semplici sudditi. Un proverbio non a caso diceva: “Non c’è cibo di re più gustoso del pane”. Appena sfornato il suo odore e il suo sapore non sono paragonabili a nessun’altro cibo e, mangiandolo, si ha una sensazione di purezza e di gioia. Il pane è sacro, donato agli uomini dagli dei e per Aristofane non bisognava raccogliere le briciole che cadevano a terra perchè appartenevano agli eroi o ai “daimoni”.
Il prelibato pane di Cerchiara calabra
Il pane di grano era un sogno
In passato era l’alimento più importante nella dieta dei calabresi e, non a caso, si diceva: quannu alla casa c’è llu pane, c’è tuttu e si c’è lla farina, l’ùogliu e llu vinu, ‘a casa è kina (quando a casa c’è il pane, c’è tutto; e se c’è la farina, l’olio e il vino, allora la casa è piena).
Nel Settecento, Swinburne annotava che i contadini, dopo aver zappato tutto il giorno, si nutrivano con pane reso più saporito da uno spicchio d’aglio, una cipolla e un pugno di olive secche. Nello stesso secolo Spiriti, tuttavia, precisava che due terzi dei campagnoli non sapeva nemmeno cosa volesse dire pane di grano: quelli più fortunati utilizzavano farina di germano o granturco ma la maggior parte consumava pane di lupini o castagne. Se il re di Francia desiderava che nei giorni di festa i contadini mangiassero un pollo, egli sperava che quelli calabresi si satollassero di pane bianco con qualche cipolla o un pezzo di formaggio.
Galanti aggiungeva che il pane scarseggiava a causa delle continue carestie e quello disponibile era in genere duro e rancido: si preparava poche volte l’anno e, nelle famiglie più povere, solo a Natale e a Pasqua.
Pane secco da grattare o bagnare
Infornato ogni tre mesi e conservato sopra graticci appesi al soffitto, dopo qualche tempo diventava talmente duro da dover essere mangiato bagnato nell’acqua o raschiato col coltello. Cento anni dopo dopo Franchetti confermava che i contadini calabresi vivevano con un pane tanto secco che per mangiarlo dovevano grattare col coltello nel cavo della mano e versarselo in bocca a bricioli o nelle minestre di erbe cotte nell’acqua con un po’ di olio e sale «quando ne avevano».
Pastore fra le strade di San Giovanni in Fiore
Nei grandi centri urbani il pane prodotto dai fornai era riservato a nobili e galantuomini e una signora ricca era chiamata «donna di pane bianco». Dal 1878 al 1883 nella provincia cosentina, in una situazione alimentare notevolmente migliorata, si consumava pane di frumento in 93 paesi, in 5 qualche volta e in 53 mai. Nel 1812, un relatore dell’inchiesta murattiana comunicava che nei villaggi della Calabria Citeriore, specie nei circondari di Celico, Spezzano, Aprigliano, Rogliano, Scigliano e Carpanzano, il pane era di castagne o di segale, nel resto della provincia di frumentone e solo a Cosenza, Rossano, Corigliano e Cassano, di grano.
I contadini consumavano u mursiellu, detto altrimenti agliu o agghiu e, per il resto della giornata, si sfamavano mangiando pane di frumentone, segale, lupini o castagne. Padula annotava che il massaro, il più agiato tra i contadini, coltivava il grano per venderlo ai galantuomini e si saziava di pane bianco solo nei giorni solenni dell’anno. La moglie infornava il pane una volta al mese e lo appendeva al soffitto per lasciarlo indurire, così da consumarne di meno: pani tuostu mantena casa, ma ci volevano denti di ferro per frantumarlo e quindi lo si mescolava con la minestra. Pasquale confermava con amarezza che i campagnoli erano soliti lasciare ammuffire il pane per risparmiare legna e offrire al palato cibo meno appetitoso. Il pane della «gente mezzana» era di frumentone e segale, quello dei «buoni possidenti» di grano e quello dei contadini di frumentone, castagne o avena.
Si consumava generalmente pane di granturco e di segale nelle zone di montagna e di grano misto a orzo negli altri territori. I contadini lo condivano con olio e sale e, a volte, come companatico utilizzavano sarde salate, olive o peperoni. La sera cenavano con una minestra calda di verdure o legumi. In media un colono mangiava 1.400 grammi di pane di granone o di segale, una minestra di patate e verdure di 900 grammi o di legumi di 400 grammi.
Oggi si presenta morbido e delizioso, ma il pane nero non troppi anni fa era duro e dal sapore forte
Pane di Calabria: così duro da tagliare con l’accetta
I campagnoli più poveri si alimentavano con pane di frumentone o di segale e, in tempo di carestia, di orzo, lupini, cicerchie e fave. Comune era anche il pane di castagne e Dorsa ricordava che il contadino calabrese, parco nel suo vitto, aveva sempre i suoi vàlani, castagne lesse o baloge e i suoi pistilli o mùnnule, castagne disseccate al calore del fuoco che spesso gli «servivano di pane».
Le donne del cosentino portavano le castagne al mulino per farne farina, ma il pane che se ne ricavava dopo qualche giorno diventava così duro che per tagliarlo si utilizzava l’accetta. Uno studioso affermava che un pane di castagne del diametro di quattro pollici richiedeva almeno un’ora di masticazione e faceva molta pena guardare la povera gente costretta a nutrirsene. Anche il pane di segale, pur se alcuni sostenevano che era sostanzioso, era duro, nero, viscoso, disgustoso e di difficile digestione.
Il pane che provoca nausea, febbri maligne e cancrene
Col pane di segale si preparava un pane leggero e di facile digestione ma bisognava fare attenzione perché la contaminazione con lo sperone di segale o grano cornuto (alcune spighe prendevano la forma dello sperone di un gallo o di un cornetto nero) rendeva il pane nauseante e nocivo. Uno studioso del Settecento scriveva che la claviceps purpurea della segale spesso aggrediva anche il frumento e da quel pane dal sapore disgustoso provocava confusioni, nausea, stanchezza, ubriachezza, diarrea, febbri maligne, dolori alle braccia e alle gambe e persino cancrene.
Ramage ricordava che i giornalieri dei paesi silani, vivendo nella «più nera miseria» e nutrendosi per lo più di pane fatto con farina di castagne, durante l’inverno emigravano in massa in Sicilia e in altre regioni «alla ricerca di cibo». Nel circondario di Cirò una sarda salata con due pani, una cipolla e un pugno di olive in salamoia, formavano il pranzo quotidiano di un bracciante che maneggiava la zappa almeno otto ore al giorno. Secondo Padula i giornalieri si saziavano con pane di segale, frumentone, castagne e orzo o con una mistura di veccia, fave e lupini. Non bevevano vino se non quello ricevuto in dono e si cibavano di carne in occasione della macellazione del maiale o quando «suonava in tasca una lira di più».
Minestre di foglie cotte nell’acqua marina
Per rinfrancare le forze cavavano dalla tasca un cantuccio di orribile pane da mangiare scusso o accompagnato da agli e peperoni. I braccianti del Tirreno se la passavano peggio: si saziavano con una minestra di «foglie» cotte nell’acqua marina e pane di granone mentre il pane bianco, detto pane de buonu, sempre presente nelle mense dei ricchi, era prerogativa dei malati.
Un colono del Vallo di Cosenza d’inverno mangiava a colazione e a cena pane di granturco e fichi secchi e a pranzo minestra di fagioli o patate; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di grano, una sarda, una fetta di formaggio o un pezzo di carne salata e a pranzo una minestra di fagioli, patate o cavoli conditi con olio e sale.
Solo in occasione di lavori particolari come lavendemmia e la mietitura si saziavano con pane di grano, carne affumicata, castrato o altro. Un colono, piccolo proprietario o affittuario dei paesi silani, in inverno a colazione e a cena mangiava pane di granturco o di castagne e una cipolla con olio e sale, a pranzo minestra di fagioli o patate; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di segale o di grano, formaggio e sarde, a pranzo minestra di fagioli freschi, patate e cavoli.
Il pane del litorale jonico
Un giornaliero del litorale jonico in inverno a colazione e a cena consumava pane di granturco, olive in salamoia o pesce salato, a pranzo minestra di verdure; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di grano, cipolle e formaggio, a pranzo una minestra di verdure. Nei giorni festivi si beveva il vino e si univa alla minestra la pasta fatta in casa. Pastori e vaccari per tutto l’anno mangiavano a colazione pane di granturco e ricotta, a pranzo minestra di verdure e a cena pane di granturco e formaggio.
Verso la fine dell’Ottocento, durante il viaggio di circa un mese sulla nave che portava negli Stati Uniti, gli emigranti mangiavano carne e pane bianco e ciò creava meraviglia tra chi considerava tali cibi un lusso, tanto che, per indicare un uomo sfinito e ammalato, si diceva che si era «ridotto a pane di grano».
Si legge spesso sui social che sin dai tempi antichi la Calabria ha qualità che nessun’altra terra al mondo possiede: la gente più ospitale, l’aria più pulita, l’acqua più buona, il mare più bello, i paesi più ameni e i prodotti della terra più squisiti. La Calabria, insomma, è una terra benedetta da Dio. E, non a caso, gli storici antichi scrivevano che dopo il diluvio universale Aschkenaz, attratto dalla bellezza del paesaggio, dalla mitezza del clima e dalla fertilità della terra, si fermò nella regione. È bello essere fieri della propria patria, ma ciò non deve spingerci a falsificarne la storia.
Chi si loda s’imbroda
Gli stessi eruditi calabresi si rendevano conto che le eccessive lodi per la propria regione potevano svilire l’attendibilità delle loro narrazioni. D’Amato avvisava il lettore della modestia del suo lavoro. E, se lo studioso poteva cogliere «molto di riprensibile», esso era frutto della dolcezza e benevolenza per una terra che amava. Fiore ammetteva che l’affetto da cui si era rapiti alle glorie della patria non poteva che essere «vizioso», poiché lo storico, come Mida, tramutava in «oro di lode» tutto ciò che toccava.
Il compito, quindi, era quello di intingere la penna non tanto nell’inchiostro dell’affetto, quanto in quello del vero. Marafioti riconosceva che lo scrittore doveva anteporre il certo all’incerto. E si scusava con i lettori se non sempre aveva potuto verificare che coloro di cui scriveva fossero nati e vissuti a Cosenza. Dio, che conosceva ogni cosa, avrebbe avuto il pensiero di dare «ad ognuno il proprio luogo e a lui avrebbe dato il perdono degli errori».
Calabresi d’adozione
Spiriti non negava che molti personaggi celebri da lui descritti erano nati nei paesi vicini e che molti avrebbero potuto criticarlo per averli considerati cosentini. Egli precisava, però, che i paesi della provincia, quantunque lontani dal capoluogo, costituivano comunque le membra di quel corpo che era Cosenza! Rimproverava coloro che, per rendere grande la città, avevano annoverato tra i cosentini uomini come Guido Cavalcanti, nato e vissuto a Firenze, figlio di quel messer Cavalcante posto da Dante nella bolgia degli eresiarchi.
Un ritratto di Guido Cavalcanti
Fiore lamentava «l’altrui rapacità» che aveva rubato alla Calabria i suoi «notabili» figlioli. E forniva con onestà un lungo elenco di personaggi celebri che per ambizione erano stati considerati falsamente calabresi: tra questi nientemeno che i guerrieri Agamennone ed Aiace, il legislatore Caronda, lo storico Erodoto, l’oratore Lisia, il poeta Ennio e l’imperatore Ottaviano Augusto!
L’olio calabrese e il marchese di Seminara
In Calabria tutto è bello e tutto è buono. Ma se oggi i produttori calabresi producono olio di ottima qualità in passato era pessimo. Didier scriveva che gran parte della popolazione faceva provvista di pane per un mese e lo mangiava condito con olio rancido. Come si potevano accettare queste privazioni quando viaggiando si attraversavano per giorni interi immensi «boschi» di ulivi e campi di grano?
Domenico Grimaldi, marchese di Seminara, nel Settecento scrisse un importante trattato per cambiare radicalmente il modo in cui si coltivavano le olive e le modalità di raccolta, spremitura e conservazione. L’olio calabrese era in genere nauseabondo. Per chi era «sensibile alla gloria della nazione», era doloroso sentire i forestieri burlarsi del gusto grossolano dei calabresi che giornalmente usavano un olio che altrove era utilizzato per lampade e fabbriche di sapone.
Il nobile riteneva che fosse necessario abbattere pregiudizi come quello di non potare gli ulivi e di non spremere le olive appena raccolte altrimenti l’olio avrebbe perso in quantità e qualità. Bisognava, inoltre, sostituire i vetusti e dispendiosi frantoi calabresi con quelli ad acqua alla genovese. E, per dare l’esempio agli altri proprietari, Grimaldi chiamò alcuni operai liguri per impiantare a Seminara un moderno trappeto.
I proprietari si rivolgono al re
Egli annotava che i calabresi, avviliti e sfiduciati, per secoli erano stati poco industriosi e non avevano perseguito nessun’arte, provvedendo ai soli bisogni necessari della vita. Riteneva ottimisticamente che i suoi consigli sarebbero stati comunque raccolti. Non era credibile che i proprietari degli uliveti si fossero «congiurati» a voler restare barbari rigettando tutte le novità «ancorché ne vedessero dimostrato l’utile».
Istruzioni sulla nuova manifattura dell’olio introdotta nella Calabria. Napoli, Raffaele Lanciano, 1773.
Nel 1771, dopo aver perfezionato il frantoio genovese a Seminara e averne mostrato i vantaggi, dovette constatare con amarezza che le sue proposte non erano gradite ai conterranei. I vecchi «trappetai», incoraggiati dai padroni, screditavano il nuovo oleificio. E il «popolaccio», sedotto e intimorito «non ardiva a domandare l’abolizione delle antiche manifatture». I proprietari degli oliveti, resi vieppiù animosi dalla propria propaganda, portarono la «stravagante» protesta sino al re, implorando che non venissero imposti i nuovi frantoi consigliati dal Grimaldi.
L’olio calabrese? Buono solo per lampade e saponi
La caparbietà nella conservazione di certe abitudini mentali interessava più i proprietari che i contadini. Sentendosi minacciati dal cambiamento, i signori difendevano le tecniche tradizionali che da sempre avevano garantito la loro egemonia. Nel Settecento Galanti annotava che le olive prodotte in Calabria continuavano ad essere raccolte con le scope e lasciate macerare in trappeti desueti, cosicché l’olio prodotto risultava rancido, puzzolente e non commerciabile.
Qualche anno dopo, De Salis Marschlins scriveva che i «mulini da olio» della regione erano simili a quelli del Marocco. E che i contadini coglievano le olive addirittura nel mese di giugno, quando il frutto era marcio e dava poco e cattivo olio. Bartels confermava che la lavorazione delle olive era allo stato arcaico: l’olio calabrese era giallo e maleodorante. Persino quello che altrove era usato per far ardere le lampade, era più puro.
Carl Ulisses von Salis-Marschlins
Nell’Ottocento De Tavel osservava che gli ulivi di Calabria erano alberi d’alto fusto che davano ricchi raccolti. Tuttavia, l’olio prodotto era di pessimo sapore e veniva venduto alle fabbriche estere, soprattutto ai saponifici di Marsiglia e Trieste. Tucci commentava che i contadini, rispettando l’adagio «l’ulivo tanto più pende tanto più rende», raccoglievano le olive da terra e le spremevano, sporche di fango, guaste e puzzolenti in «grossolani» trappeti. Ottenevano un olio «che solamente può servire per i lumi, non essendo bono per gli usi di cucina e molto meno per mangiarlo crudo».
Olive ammucchiate
Un funzionario napoleonico confermava che i proprietari lasciavano imputridire le olive sul terreno e nei trappeti spremevano sia quelle buone che quelle guaste col risultato di produrre un olio «imperfetto». Pilati scriveva che un terzo delle olive veniva mangiato dopo averle seccate al sole o al forno, gli altri due terzi spremute e l’olio venduto in gran parte a mercanti spagnoli e genovesi.
Rilliet asseriva che le olive raccolte erano gettate in un truogolo, nel quale girava una macina che schiacciava il frutto e lo riduceva in pasta che posta su graticci di vimini era sottoposta alla pressa. L’olio che si produceva in Calabria lasciava molto a desiderare, perché un antico pregiudizio i proprietari ammucchiavano le olive in una cantina e non procedevano alla macinazione che quando la fermentazione era già cominciata e così l’olio era meno pregiato di quello di altre regioni e «non serviva che al basso ceto ed all’illuminazione».
Olive nere al forno
Rebuschini era convinto che il cattivo odore dell’olio fosse causato dalle olive che si raccoglievano una volta cadute ed eccessivamente mature si imbevevano del sapore del terreno. Se a ciò si aggiungeva il sistema primordiale di «fabbricazione» generalmente usato, si capiva perché l’immensa produzione di olio della Calabria era destinata alla combustione quando avrebbe potuto dare uno dei migliori oli del mondo.
Sistemi primordiali
Lombroso notava che le olive si facevano maturare sugli alberi finché cadevano e si lasciavano ammonticchiate nei magazzini prima di essere spremute: con questa pratica barbara si ricavava un olio di pessimo odore e peggior sapore, buono solo per le fabbriche di sapone. Per Rebuschini l’olio calabrese aveva gusto e odore cattivo perché le olive erano raccolte una volta cadute e perché il sistema primordiale di «fabbricazione» forniva un prodotto buono solo per la combustione.
In una inchiesta agraria del 1876 si legge che nella provincia di Cosenza le donne raccoglievano le olive quando cadevano al suolo, le trasportavano dentro sacchi all’opificio oleario dove, conservate dentro cellette in muratura, a volte rimanevano ammonticchiate anche per tre o quattro mesi e l’olio che se ne ricavava «per quanto era più grasso e pastoso, per altrettanto era di odore e sapore nauseabondo».
L’olio calabrese tre secoli dopo Grimaldi
Ci sono voluti circa tre secoli prima che i proprietari calabresi ascoltassero le raccomandazioni di Grimaldi. Oggi gli olivicoltori selezionano le olive, le raccolgono prima della loro completa maturazione e, con grande passione e perizia, producono un olio di altissima qualità. Il marchese di Seminara sarebbe felice vedere uscire dai frantoi della sua regione l’olio puro dal colore verde intenso contaminato da inebrianti profumi di piante e minerali.
In occasione delConcours Mondial de Bruxelles – la kermesse patrocinata dalla Regione e ospitata a Rende dal 19 al 22 maggio: coinvolti oltre 320 giudici, 8mila i vini da 50 nazioni – la Calabria potrà “raccontarsi”, come da formula di marketing territoriale alquanto abusata: se negli anni scorsi i vini calabresi facevano registrare presenze molto basse, in questo 2022 ne vedremo iscritti al Concours oltre cento. Tuttele degustazioni saranno alla cieca: in campo circa 70 commissioni composte ciascuna da 5-6 degustatori, con valutazioni fatte sui tablet per evitare qualsiasi margine d’errore. I giudici non assaggeranno più di 40/45 vini per mattinata.
Vini, attenti all’autocelebrazione come per gli amari calabresi
Saranno giorni di degustazioni, divulgazione ed eventi collaterali. L’occasione, però, è anche propizia per fotografare – senza l’illusione dell’esaustività – il movimento vitivinicolo calabrese, che per la sua crescita esponenziale degli ultimi vent’anni è difficilmente etichettabile o riducibile in griglie precostituite.
Di certo si è arrivati a un apprezzamento sempre maggiore – per qualità e quantità di aziende e bottiglie ma anche per la presenza di personalità eccelse tra produttori e divulgatori locali, come vedremo, oltre che di enologi che hanno tracciato la strada come Donato Lanati per Librandi – in modo meno “drogato” di quanto sia accaduto nell’ultimo lustro nel mondo degli amari, tra continui exploit e premi non sempre “prestigiosi” come da formula. Il rischio è l’autoreferenzialità provinciale e anzi ombelicale riassumibile in un celebre post de Lo Statale Jonico («È calabrese la città calabrese più bella della Calabria»); ma questo è un altro discorso. Luoghi comuni a parte, ecco dunque un alfabeto minimo e semiserio (e soprattutto in continuo aggiornamento) su vini e produttori calabresi.
Archeologici
Acroneo è un brand acrese legato alla famiglia Bafaro: «La produzione dell’archeo-vinoAcroneo è frutto di uno studio accurato delle fonti letterarie, iconografiche e archeologiche. Ogni aspetto è curato nei minimi dettagli, per ricostruire il processo di vinificazione antico, si tratta di archeologia sperimentale». Arkon, un Magliocco in purezza da 15,5° affinato in anfora interrata, territorio San Demetrio Corone, sarebbe l’ideale con il garum, la salatissima salsa al pesce degli antichi romani antesignana in un certo senso della sardella. Ammesso che sappiate riprodurla.
Artigianali
Chi sono i Vac? Vignaioli artigiani di Cosenza, sigla che vale anche per Vignaioli dell’Alt(r)a Calabria, guidati da Eugenio Muzzillo (Terre del Gufo). I magnifici dieci (gli altri sono L’Antico Fienile Belmonte, Rocca Brettia, Elisium, Tenute Ferrari, Manna, Ciavola Nera, Cerzaserra, Azienda Agricola Maradei, Cervinago) propugnano una filosofia davvero bio e puntano sul vitigno autoctono a bacca nera che trova a 500 metri slm il suo habitat ideale.
Fabio Lento, Ciavola Nera: è uno dei vini calabresi “targati” Vac (foto Facebook)
Bruzio, orgoglio
Proprio il Magliocco rivive oggi nella Dop Terre di Cosenza, denominazione che in un decennio è passata da 10 a 60 aziende consorziate e un milione di bottiglie prodotte. Merito di un lavoro commerciale e comunicativo che trova le sue basi in un fondamentale libro di Giovanni Gagliardi e Gennaro Convertini su Il vino nelle terre di Cosenza (ed. Rubbettino 2013, con le formidabili foto di Stépahne Aït Ouarab). Il Consorzio è oggi presieduto da Demetrio Stancati dell’azienda agricola Serracavallo (Bisignano, CS).
Creativi/1
Restiamo in ambito letterario e nelle Terre di Cosenza con il MaglianicoSerragiumenta, etichetta che gioca con l’Aglianico la cui fortuna è stata decantata – è il caso di dire – dal potentino Gaetano Cappelli in un gustoso libro per Marsilio che celebra il vitigno del Vulture. In questa bottiglia di rosso “da meditazione” dell’azienda agricola di Altomonte (CS) troverete il 60% di Magliocco e il 40% di Aglianico: sempre che riusciate a meditare accanto a un arrosto di carne o un tagliere di formaggi a lunga stagionatura, piuttosto che vedere i draghi. Esperienza comunque da consigliare, vista la qualità del vino.
Creativi/2 (pure troppo, forse)
Dgp? Una volta che sarà corretto il simpatico refuso sull’etichetta (Denominazione Geografica Protetta, un ibrido tra Dop e Igp) varrà tantissimo questo stock di bottiglie firmate Colle di Fria, tipo il Gronchi rosa o la moneta da 1000 lire del 1997 con i confini dell’Europa sbagliati (valore su eBay: 3mila euro).
Eretici
Incurante della polizia del pensiero unico, Dino Briglio Nigro con la sua barba marxista spinge il suo Sputnik 2 (azienda L’Acino, San Marco Argentano, CS), una magnum di Magliocco in purezza (14°) dall’etichetta orgogliosamente sovietica. Dell’altrettanto eretica azienda presilana Spiriti ebbri(citata nientepopodimeno che dal compianto Gianni Mura in una delle sue ultime classifiche del meglio dell’anno su Repubblica) consigliamo invece il Cotidie (rosato e bianco).
Dino Briglio Nigro appartiene alla categoria degli eretici tra i produttori di vini calabresi
Governativi
La Tenuta del Castello di Roberto Occhiuto (antica cantina dell’alto Jonio cosentino di cui sono proprietari anche Paolo Posteraro e Valentina Cavaliere) aggiorna in un certo senso, restando nel centrodestra e in zona ionica, l’impegno da 4 generazioni dei Senatore (Cirò Marina) o quello di Dorina Bianchi (Pizzuta del Principe, Strongoli). Una versione calabrese della passione dalemiana con la sua cantina umbra La Madeleine.
Indipendenti
FrancescoDe Franco (azienda ‘A Vita, vedi anche alla lettera R) ha da poco celebrato, il 14 maggio, il Sabato del Vignaiolo, la giornata pensata in tutta Italia dalla Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti «per raccontare al pubblico e agli appassionati le realtà territoriali dei 1400 soci Fivi»: 18 appuntamenti organizzati da nord a sud da altrettante delegazioni locali, tra banchi d’assaggio, degustazioni guidate e abbinamenti gastronomici.
Magno, anzi maximo
Con un punteggio di 99/100, il Megonio 2019 Librandi a inizio anno è risultato il miglior vino italiano in assoluto secondo la guida Vitae 2022 edita dall’Ais (Associazione italiana sommelier). Il rosso Igp Calabria richiama nell’etichetta il quadrumviro romano attivo nel II secolo d. C. nella città romana di Petelia, oggi Strongoli. Per molti calabresi però, con i rossi Gravello e Duca Sanfelice, è stato per decenni sinonimo di vino rosso di fascia altissima.
Il Megonio Librandi, fresco vincitore del titolo di Miglior vino d’Italia sulla guida Vitae 2022
New York Times
Un altro rosso, stavolta di Odoardi (vai alla lettera Q), a fine 2021 è stato collocato nel gotha dei 20 migliori vini al mondo al di sotto dei 20 dollari: parola di Eric Asimov, tra le firme più influenti del New York Times e autorità planetaria del settore vino, entusiasta per 149 – L’inizio, una «miscela rossa, incentrata sull’uva Gaglioppo, che è affumicata, tannica e un po’ selvaggia, come la Calabria, ma concentrata e deliziosa».
La sede del NYT
Pionieri e volti nuovi
Dopo anni di premi e soddisfazioni, il 2022 ha portato al guru Nicodemo Librandi il dottorato di ricerca honoris causa in Scienze agrarie, alimentari e forestali all’Università Mediterranea di Reggio Calabria. E se Roberto Ceraudo, fondatore dell’azienda Dattilo a Strongolioggi anche ristorante stellato grazie alla figlia Caterina, è diventato intanto ambasciatore dell’Accademia dell’olio di Spoleto, è un volto nuovo eppure già noto quello del “benemerito della vitivinicoltura italiana per il 2022”: si tratta di Giovanni Celeste Benvenuto (vai alla lettera Z), abruzzese figlio di calabrese che ha trovato a Francavilla Angitola (VV) il suo eden: è stato premiato nella cerimonia di apertura dell’ultimo Vinitaly.
Qualità/quantità
Il rischio di articoli come questo è tanto di ridurlo a un elenco di aziende quanto di dimenticarne imperdonabilmente qualcuna: dunque, per qualità, evoluzione e presenza sul mercato (in qualche caso anche nei settori Horeca e Gdo) bisogna citare, con la già menzionata Serracavallo, almeno Ferrocinto, Fratelli Falvo, Terre Nobili di Lidia Matera, Tenuta del Travale di Raffaella Ciardullo, i gemelli rendesi Giraldi&Giraldi, Chimento, Colacino, i decani Eugenio Cundari e Giuseppe Calabrese nel Cosentino; Baroni Capoano e Casa Comerci nel Vibonese; Sergio Arcuri, Ceraudo, Enotria, Ippolito, Iuzzolini, Russo & Longo, Cantine San Francesco, Santa Venere, Tenuta del Conte e Termine Grosso nel Crotonese oltre naturalmente a Librandi e ai rivoluzionari cirotani che trovate alla lettera seguente; Criserà, Lavorata e Tramontana nel Reggino; Dell’Aera e Le Moire nel Catanzarese e il già citato Odoardi nel Lametino, con Statti e Lento.
Rivoluzionari
La “revolution” dei Cirò boys, intanto diventati lord, potrà dirsi conclusa quando arriverà la tanto agognata Docg, o almeno si avvierà l’iter: a oltre 10 anni dal cambio del disciplinare, l’idea della denominazione di origine controllata e garantita non è mai tramontata e anzi è quanto mai attuale. Intanto i più visionari tra i vignerons calabri – capitanati da Cataldo Calabretta e Francesco De Franco (lo abbiamo trovato alla lettera I) – continuano con la loro missione nel distretto più importante della vitivinicoltura calabrese, tra i più longevi e produttivi del Mezzogiorno, un unico paesaggio che ingloba anche Crucoli e Melissa: duemila ettari circa (dati Arssa 2002) ovvero il 20% della superficie vitata dell’intera Calabria. Con il Gaglioppo re assoluto e incontrastato.
Spumanti
Le bollicine erano il grande tabù della vinificazione calabrese: poi arrivarono, quasi 15 anni fa, Almaneti e Rosaneti di Librandi. Due etichette ormai storiche cui aggiungere quantomeno il brut Dovì di Ferrocinto, Chardonnay in purezza da un vigneto a 600 metri slm esposto a nord, forte di 36 mesi di affinamento sui lieviti.
Viola
Il Moscato di Saracena è tra i vini calabresi più apprezzati
Un discorso a parte merita la famiglia Viola che da un quarto di secolo a Saracena (CS) con il suo Moscato al governo ha riportato al top nazionale la tradizione cinquecentesca del vino dolce, menzionato dalle fonti storiche sulle tavole pontificie almeno dal XVI secolo. Merito dell’intuizione di Luigi, maestro elementare in pensione, e della passione dei figli.
«Per sapere se il vino è buono non occorre bere l’intera botte»: Oscar Wilde lo diceva riferendosi all’incostanza delle letture, noi prendiamo la frase in prestito per ribadire che per apprezzare il vino calabrese non serve citare tutte le aziende (qui un elenco accurato). Di certo ci abbiamo provato: e la difficoltà di essere esaustivi già la dice lunga su quanto sia in crescita il settore.
Produrre alcool ha rappresentato da sempre un lavoro pericoloso pure in Calabria. Quanti nel corso dei secoli s’improvvisavano produttori dovevano fare i conti con due temibili nemici. Le leggi governative punivano gli alambicchi clandestini con sanzioni e arresti. C’era poi il rischio che il prodotto distillato “fai da te” provocasse intossicazioni da metanolo, ponendo gli improvvisati lambiccanti a serio pericolo di vita. Ciononostante, vuoi per bisogno, vuoi per ignoranza oppure perché si seguiva alla lettera l’adagio popolare secondo cui “un bicchiere non fa mai male”, la Calabria dei secoli passati vanta una radicata tradizione di distillerie e alambicchi più o meno legali.
Prega e distilla
Nel 1775 venne colto con le mani nel prezioso liquido un frate della Riforma a Cosenza e arrestato per aver prodotto acquavite tra le mura del monastero senza le dovute autorizzazioni. È proprio nella quiete dei conventi calabresi, dove i frati univano il lavoro alla preghiera, che si producevano i migliori prodotti dolciari ed enologici. Il nostro, affezionato, don Vincenzo Padula, ci racconta che le famiglie ne facevano provvista annuale. Da un suo “pezzo” del 1864 veniamo a conoscenza dei risvolti sociali dovuti all’istituzione della legge sul dazio-consumo nel neonato Regno d’Italia. La legge prevedeva un’imposta su diversi beni, tra cui vino, aceto, alcool e acquavite.
Alambicco di rame per produrre Gin funzionante nel 1945 (Pagina Facebook Distilleria Fratelli Caffo)
Per la vendita di quest’ultima nel comune di Bisignano si sarebbero dovuti pagare 14 carlini ogni due barili solo se superava i 59 gradi sull’alcolometro di Gay-Lussac. Tuttavia il letterato di Acri non mancava di osservare che «considerando che ciascuna famiglia ha il suo botticello di vino, e distilla ogni anno la sua provvisione di acquavite, noi chiediamo quanto vino, quant’acquavite si può mai vendere in piazza, perché il governo ne percepisca almeno ciò che basti a pagare gli agenti destinati alla riscossione».
Alambicchi in ogni comune
È lo stesso Padula a darci notizia che, sempre nel 1864, i «giovani intelligenti ed arditi» Raffaele Fera e Giovanni Noce avevano impiantato a Cosenza «una fabbrica di potassa con una distilleria, dando così un valore alle ceneri ed alle vinacce, che tra noi si buttano», ma che questi non avevano trovato appoggi e capitali. Le vinacce erano infatti semplici scarti della produzione del vino, e generalmente erano «mescolate al letame dopo che i maiali ne avevano mangiati i vinacciuoli». Nel 1879 veniva invece impiantata la distilleria a vapore dei fratelli Bosco e si riuscì a distillare circa 5mila ettolitri di vinacce.
Nel Cosentino si distillava dovunque. E infatti le inchieste governative attestavano che «in ogni comunello vi sono degli alambicchi semplici e pochi a serpentino», che spesso servivano per recuperare «qualche botte di vino guasto». Una macchina distillatrice introdotta nel Rossanese nel 1883 giaceva «inoperosa».E leggi restrittive avevano distrutto la produzione di alcool mediante alambicchi nel circondario di Castrovillari.
Nei dintorni di Cirò, oltre al rinomato vino, si produceva ottima acquavite. Nel 1849 gli alambicchi operativi erano 10. Come testimonia lo storico Giovan Francesco Pugliese, agli inizi del secolo erano molti di più, ma «dopo che l’acquavite si estrae in più luoghi, ed i rosolij ci vengono a migliaia di bottiglie a vil prezzo se n’è diminuito il numero». L’anice, «anisi di Cirò», restava comunque molto «stimato e ricercato». Il suo consumo, però, era ritenuto «pruova di cresciuta intemperanza, e di debilitati stomachi». Secondo lo storico, infatti, «non si beve caffè senza spirito».
Il primato di Reggio
Nell’Ottocento le distillerie e le fabbriche di liquori in Calabria erano tante, sparse nei territori delle tre province. Ma solo in poche riuscivano a emergere. In genere le fabbriche di liquori e quelle di “spirito”, cioè le distillerie, erano due produzioni separate. E solitamente le prime erano associate a quelle in cui si producevano dolci e confetture. Il primato ottocentesco nel campo della distillazione spetta alla provincia di Reggio Calabria. Intorno al 1890 vi operavano ben 22 fabbriche di “spirito”, 20 classificate come fabbriche che «distillano materie vinose e vino», le restanti due come «distillerie agrarie».
Fabbriche di spirito in provincia di Reggio Calabria, da Annali di Statistica, 1893
Le prime utilizzavano 24 alambicchi a fuoco diretto, le altre, invece, alambicchi composti. Tutte insieme giungevano a produrre migliaia di ettolitri di prodotto grazie a 87 operai sparsi nei diversi comuni. In particolare erano operanti 4 fabbriche a Palmi, che impiegavano insieme 17 operai; 3 a Gallico, Gioia Tauro e Seminara, e una a Bagnara Calabra, Bivongi, Campo di Calabria, Laureana di Borrello, Reggio, Rosarno, Sambatello, Tresilico e Villa San Giovanni. Si contavano poi innumerevoli fabbriche di liquori, dolci, frutta candita, torroni etc.
San Giorgio Morgeto (RC), castello e fabbrica di liquori e profumi
Catanzaro e Cosenza
Nel Catanzarese, nello stesso periodo, erano 15 le fabbriche di “spirito” operative, sparse da Borgia a San Vito sullo Jonio, da Casino a Sambiase, da Cessaniti a Palermiti, Cirò, Nicotera, Monteleone. Negli opifici disseminati in questi comuni lavoravano 18 alambicchi a fuoco diretto. Impiegavano 72 tra lavoratori e lavoratrici.
Nella provincia di Cosenza operavano, tra il 1892 ed il 1893, 21 fabbriche di “spirito”, ma di queste «soltanto 2 attive classificate fra quelle che distillano materie vinose e vino». Entrambe sorte a Cosenza, avevano due alambicchi che lavoravano «a fuoco diretto, producendo 219,95 ettolitri di spirito da 55° a 65°, corrispondenti ad ettolitri 128,44 di alcool anidro, ottenuto dalla distillazione di 9,544 ettolitri di vinacce». Le due fabbriche cosentine impiegavano complessivamente otto uomini. Tra le fabbrichette “miste” di liquori e dolciumi, spiccava a Rossano la ditta “Fratelli Bianco” che dava lavoro per una parte dell’anno a 24 operai.
La Stregaccia di Rossano
Testata del 1919 della fabbrica De Florio da www. grappa. com
La città bizantina è stata sempre una zona di fermenti imprenditoriali. Nel campo dei liquori, alla ditta dei fratelli Bianco si aggiunse presto quella dei De Florio. Le due realtà finirono per fondersi intorno agli anni ’20 del Novecento, dando vita – come ci ricorda Martino Rizzo – alla Fratelli Bianco & De Florio. La punta di diamante della produzione era un liquore chiamato Stregaccia ma si producevano ed esportavano anche all’estero biscotti, torroni, confetti e dolciumi in genere. Sciolta nel 1936, la ditta si trasformò in Fratelli De Florio & C. e rimase attiva fino al 1973.
Amari e altri tonici
Pubblicità fabbbrica liquori Bosco, Cosenza, 1903
Nel 1920 il Silanus era la specialità dell’azienda Bozzo&Filice operante a Donnici, alle porte di Cosenza. La ditta, «premiata fabbrica di liquori con distilleria a vapore», produceva anche «Cognac distillato da puro vino, pari ai migliori francesi».
Amaro Magna Sila (Enoteca Stanislao Felice, Cosenza 1928-1929, Archivio Centrale dello Stato, Marchi e Modelli)
Preparato con erbe medicamentose colte sui monti dell’altopiano silano, si affermò alla fine degli anni ’20 l’amaro Magna Sila, veicolato da un marchio finalmente a colori su cui si leggeva: «Per le sue proprietà toniche è un potente ricostituente dell’organismo. Efficacissimo nelle convalescenze di lunghe malattie. Utilissimo nelle languide e stentate digestioni, nei bruciori, dolori di stomaco, coliche nervose e nelle flatulenze».
Tra Ottocento e Novecento Catanzaro poteva vantare invece il rinomato Cassiodoro. Era il prodotto di punta della Pasticceria, Vini, Liquori di Paolino Michele Potortì che metteva in bella mostra i premi conseguiti e gli encomi del Ministero dell’Agricoltura. Il «sublime liquore», cui si diede il nome del celebre politico, letterato e storico di Scolacium (Squillace) era presentato come un piccolo miracolo in bottiglia: «Tonico, ricostituente, antifebbrile, aperitivo, stomatico, digestivo». Una panacea, insomma.
«Distillare è come imitare il sole che evapora le acque della terra e le rinvia sotto forma di pioggia» affermava Dioscoride Pedanio, medico del I secolo d.C. Nonostante i fervori creativi non è tutto “oro” ciò che viene distillato. Sull’altopiano silano è attestata da decenni una produzione oscura, contrastata dalle norme ma validata e vivificata dalla tradizione.
Il giornalista e scrittore Amedeo Furfaro (Quante Calabrie, 2013) definisce quella della paisanella una «pratica produttiva popolare avente requisiti di antigiuridicità». Questo per due motivi fondamentali. La distillazione a livello casalingo ha sempre comportato l’evasione automatica di un tassa sulla produzione. E poi produrla in casa, senza controlli, esponeva a un forte rischio d’intossicazione da metanolo, sostanza altamente nociva e in alcuni casi mortale.
Alambicchi silani: i segreti della paisanella
Ciononostante la grappa era il corroborante per antonomasia dei contadini, dei mandriani, dei cacciatori e di quanti e quante si spaccavano la schiena dall’alba al tramonto. Trangugiare d’un sol colpo uno o più bicchierini permetteva di scacciare oltre al freddo e alla stanchezza gli affanni dell’esistenza per abbandonarsi a un profondo sonno ristoratore. I segreti della produzione della paisanella sono custoditi gelosamente dai montanari, al pari di quell’umile teoria di oggetti utili a darle vita.
Un vecchio alambicco silano per la produzione al livello familiare (Foto di Francesco De Rose nel libro di Furfaro)
Secondo Furfaro (La paisanella, la grappa calabrese fuorilegge in Calabria Sconosciuta, 1987) occorrevano un fusto o marmittone (detto anche quararella), completo di cupola (cappiellu), cannuccia e treppiede (tripitu). La prima fase consisteva nel cambio della cosiddetta fezza (la zavorra del vino) dalle botti. Ciò avveniva nei mesi di marzo o aprile. Verso settembre, poi, la si riponeva nel fusto mescolata ad alcuni litri d’acqua.
Il composto ottenuto veniva quindi portato a ebollizione a fuoco molto lento, aggiungendo man mano altra acqua dalla cupola, con la premura di cambiarla non appena diventava tiepida. Giungeva infine tanto agognato il momento in cui era possibile raccogliere, goccia dopo goccia, il prezioso fluido dalla cannuccia.
Paisanella: da San Giovanni in Fiore a Longobucco
Il “codice” dei vecchi distillatori silani ammette pure delle varianti. Colore, sapore e gradazione venivano opportunamente dosati a seconda dei gusti del produttore, che poi era spesso anche consumatore principale. A tal proposito a San Giovanni in Fiore si ravvisava una paesanella meno aromatizzata rispetto a quella che si produceva a Longobucco. Ad attenuare l’acidità del distillato contribuivano scorze d’arancia, pere, gusci d’uovo, fichi secchi e a volte qualche tozzetto di pane duro, mentre i lambiccanti più raffinati v’immergevano cedro o limone.
Il primo “prodotto” della distillazione veniva generalmente “ripassato” più volte nello stesso alambicco o in un altro più piccolo in rame o in lamiera e, senza aggiunta ulteriore d’acqua, si poteva ottenere una gradazione superiore ai 40 gradi. Nonostante il suo essere fuorilegge, la paesanella che veniva prodotta in casa dai contadini tra i monti della Sila aveva un valore d’uso non indifferente. Essendo una produzione limitata e appannaggio dei ceti più umili, il distillato assurgeva spesso a dono da inviare a coloro i quali non lo producevano, cioè i borghesi. Così, divisi ma uniti nelle fragorose sbornie silane a base di paesanella, il povero e il ricco si davano alcune volte la mano, molto più spesso le lame.
I viaggiatori del Settecento e dei secoli successivi hanno alternato nei loro diari impressioni contrastanti su questo lembo d’Italia chiamato Calabria, esaltandone alcune straordinarie bellezze e denunciandone le brutture. Quando la regione non veniva saltata a piè pari perché terra di ruberie, truffe e raggiri, assalti e uccisioni, in molte occasioni, per edulcorare a se stessi le delusioni, nei romantici diari di viaggio si attenuavano le profonde ed evidenti precarietà che la Calabria rappresentava e racchiudeva, nella medesima forma di paradigma delle negatività italiane di oggi.
Edward Lear, disegno di viaggio in Calabria, 1847
È pure vero che i frettolosi visitatori dimenticavano una certa quantità di eroi, soprattutto nel secolo risorgimentale. Così come pochi riuscivano a cogliere, in quei medesimi periodi, le tracce dell’antica bellezza magnogreca che pure ha interessato l’intera Calabria. Una storica frase dell’archeologo Lenormant, nel suo passaggio nei pressi dell’antica Sibari, rimane tutt’oggi memorabile: «Non credo che esista in nessuna parte del mondo qualcosa di più bello della pianura dove fu Sibari. Vi è riunita ogni bellezza in una volta: la ridente verzura dei dintorni di Napoli, la vastità dei più maestosi paesaggi alpestri, il sole e il mare della Grecia».
Un viaggio tra slanci e ritardi
Sarà la nostalgia di un passato affascinante, il richiamo di radici profonde e lontane quanto attuali, il senso di impotenza e disagio a spingermi a scrivere. L’obiettivo è scorgere, nelle pieghe di un tessuto urbano e sociale lacerato, slanci e sprazzi di vitalità che pure esistono e stanno emergendo. Scavare nelle macerie della nostra malconcia modernità alla ricerca della bellezza che sopravvive. Parlare dei nuovi eroi che la tengono attiva con iniziative che superano ogni difficoltà in una diversa forma di risorgimento sociale calabrese. Ritardi e slanci, quindi.
Eroi nel Crotonese
La chef Caterina Ceraudo nell’orto della sua azienda agricola
La Regione Calabria si presenta alla Bit di Milano con ambizioni, premesse e promesse che pretendono di farla sembrare la Florida, ma il turismo che interessa la nostra terra è ancora di scarso livello culturale, con modeste ricadute socio-economiche. Però, proprio nei padiglioni milanesi della Bit, si accende una luce su una delle nostri giovani eroine: Caterina Ceraudo. Chef stellata, da tempo stupisce tutti con i suoi piatti che affondano le radici nella tradizione calabrese, nei prodotti di questa terra, con rivisitazioni che conquistano. Suo padre Roberto Ceraudo con sana testardaggine calabra ha realizzato dal nulla e conduce una azienda agricola bellissima, tutta ecologica, nei pressi di Strongoli.
Caterina Ceraudo, Piatto Sottobosco, omaggio alla Sila
Alla stessa maniera hanno fatto, poco vicino, gli altri nuovi eroi: i Librandi. Da generazioni rinnovano una cultura enologica di rara qualità, che include l’aver saputo rigenerare persino il vitigno calabrese per eccellenza, quel Gaglioppo capace di conservare l’origine della bellezza greca. E lo fanno in un contesto – tra Crotone e Cirò – saccheggiato dalla malavita, dall’abusivismo sulle coste, dalla moria progressiva dell’ex tessuto industriale crotonese. I Librandi hanno superato, da soli, la logica dell’assistenzialismo. Di generazione in generazione hanno acquisito prestigio: dai sei ettari iniziali oggi ne coltivano 232, con una produzione di 2,3 milioni di bottiglie e un nome noto nel mondo.
I Librandi in un vigneto dell’azienda di famiglia
La Sila che attira i turisti e quella che li respinge
Per rimanere nell’ambito della nuova stagione del cibo, quest’anno la stella Michelin è toccata anche al lavoro certosino di ricerca e bellezza, tra odori e sapori dei boschi della Sila, di Antonio Biafora, del ristorante Hyle, a pochi chilometri da San Giovanni in Fiore. Nella stessa località ha sede anche il Consorzio Tutela Patata della Sila, una sfida vinta contro infiniti luoghi comuni avversi all’idea che al Sud si possa fare associazionismo e prodotti della terra di qualità ed ecologici.
Lo chef stellato Antonio Biafora tra i boschi della Sila
Tuttavia, a queste eccellenze e a una natura esuberante e di rara bellezza dei boschi di pino laricio fa da contrasto la povertà dei tessuti urbani dei principali centri silani. Fuori dalle cinture storiche, presentano una drammatica precarietà edilizia, estetica, mancanza di elementi minimi di decoro. Sono densi di provvisorietà, esito di ritardi culturali e miopia urbanistica. Certo non sono capaci di attrarre alcun turista intelligente. E non aiutano affatto il prestigio di Biafora, tantomeno della Patata della Sila, così come di altre eccellenze silane.
San Giovanni In Fiore, Luca Chistè 2020
Errori pubblici e privati
Quanto accaduto negli ultimi cinquant’anni ai centri urbani calabresi, dietro al fallimento di ingenti investimenti pubblici con aree produttive vuote e fantasmagoriche, è frutto di una totale mancanza di strategie capaci di uno sguardo che non fosse oltre la soglia di casa. Così, più si scende verso Sud e più la cultura urbana e della manutenzione si fa chimera.
Rifiuti nel centro storico di Cosenza (foto Alfonso Bombini)
Ma qui in Calabria, oltre questa assenza, si tratta di una diffusa condizione di disinteresse civico, di totale disattenzione verso qualsiasi segno di rinascita che si opponga al decadimento. E, se non fosse per il virtuosismo di iniziative private e di alcuni illuminati amministratori, il disagio e il divario verso altre realtà sarebbero ancora maggiori.
Un’altra Calabria è possibile
Questo, però, è anche un viaggio di speranza, di fiducia. Per accendere luci dove ci sono e smetterla con la cultura del lamento, ma seguire nel realizzare un panorama diverso dentro ai ritardi e alle devastazioni. Costruire una geografia positiva, capace nei prossimi anni di ribaltare le negatività e invertire la rotta, può tradursi in una ulteriore spinta per non sprecare l’occasione del Piano di Ripresa e Resilienza, che ha il Sud come obiettivo principale perché a Bruxelles lo sanno che è qui il punto nevralgico dell’Italia.
Luci e ombre a Reggio Calabria
Tra le ombre lunghe di Reggio Calabria, oltre il suo magnifico lungomare in cui una stupenda installazione dell’artista Edoardo Tresoldi conferisce a questo luogo la magia dell’Arte urbana, la città, nelle pieghe del suo tessuto più densamente abitato, esplode in un dedalo di conflitti urbani e diffusa marginalità. Con un aeroporto scalcinato indegno di tale nome, più verso la collina i pezzi di università che contrastano il degrado; un Museo del Mare mai finito, megalomane progetto dell’allora sindaco Scopelliti; fiumare abusivamente abitate e intasate di cemento.
I Bronzi nel Museo di Reggio Calabria
Poi ci sono i Bronzi, felicemente ritrovati, in un Museo Archeologico che merita molto di più di ciò che ha e che può offrire. Per esempio qualcosa di più dell’inadeguato, recente, marchio per i 50 anni del ritrovamento delle due bellissime sculture, realizzato come sempre senza una sana competizione tra i migliori graphic designer italiani, ma affidato in modo superficiale a qualche miope “sguardo” localistico.
Anche a Reggio si accendono da tempo luci tra le ombre. Nei numerosi ritardi accumulati dalla città dello Stretto si scorge lo slancio di giovani eroi che fanno cultura, innovazione, ricerca. Alcuni – intorno alla docente di UNIRC, Consuelo Nava, attivissima ricercatrice che dirige un produttivo laboratorio di tecnologia sostenibile sulle possibilità di un abitare ecologico in Calabria e nel Mediterraneo – accendono più di una speranza. Nella stessa università, pur in tempesta per le recenti indagini della procura locale, il dipartimento di Giurisprudenza è tra i più innovativi e avanzati nel settore e di recente è stato riconosciuto come Eccellenza dal MUR.
L’importanza della scuola
Proprio sulla tematica del costruire sostenibile, di recente, un ingente investimento statale ha consentito di mettere in sicurezza oltre 700 edifici scolastici calabresi. Le scuole sono di importanza vitale: qui si formano i cittadini futuri, le classi dirigenti e molti di essi rappresentano il segnale negativo di quanto poco interesse si ha per la qualità, il decoro, la funzionalità, diciamolo per la bellezza nelle sue diverse forme attuali. Mi fa piacere, in questo caso, accendere una luce sulla nuova Scuola d’infanzia “Virgilio” di Locri, un esempio di bioedilizia.
La scuola “Virgilio” di Locri, prima del suo genere in Calabria
È la prima in Calabria realizzata secondo una sintesi perfetta tra efficienza energetica, comfort e sostenibilità ambientale. La progettazione esecutiva e realizzazione sono di un’impresa calabrese, la Cesario Legno, con sede a Zumpano, dove tra capannoni anonimi e una natura bellissima, a due passi dal fiume Crati, si progettano case domotiche d’avanguardia.
La Calabria che non si parla e quella che non si rassegna
Da questo viaggio emerge quanto la Calabria sia in parte persa nei suoi diffusi e disarticolati territori, “che non si parlano”. Quanto questa terra di “bellezza e orrore” resti tanto chiusa nelle proprie estese e preoccupanti contraddizioni che ne amplificano il degrado. Ma emerge anche il coraggio di un esteso manipolo di resistenti, residenti, non assuefatti all’oblio, non rassegnati alla sconfitta, che alimentano già una letteratura vasta che include calabresi e non, illustri e meno noti.
Una Calabria di oggi, dunque, ancora diffusamente punteggiata da slanci e ritardi. Dove ad aree industriali dismesse o mai decollate, strade non finite, edifici pubblici fatiscenti, luoghi della perenne precarietà, pontili nel nulla, porti senza navi, aeroporti senza aerei e senza qualità, perenni vuoti senza mai pieni, opere pubbliche faraoniche, si oppongono il desiderio del fare e un anelito al cambiamento diffusi ovunque. Alla scoperta di luci che diradano, nel tempo, le ombre più cupe, segnando una necessaria inversione di tendenza.
Un documento notarile estratto dagli archivi mette in luce aspetti particolari della quotidianità della corte baronale che abitava il castello di Paola a fine Cinquecento. La città di San Francesco è, all’epoca, un centro portuale molto attivo dell’alto Tirreno cosentino, infeudato sin dal 1496 alla casa Spinelli, tra le più influenti e potenti dinastie del Regno di Napoli.
La parabola di questo casato iniziò nella prima metà del XVI secolo, col matrimonio tra una Spinelli dei marchesi di Castrovillari, baroni di Fuscaldo e della Civitas Paulae, e il Vicerè spagnolo Pedro de Toledo.
Il castello dei baroni Spinelli in una stampa d’epoca
Il castello degli Spinelli: da forte a dimora deluxe
Paola, col suo castello e coi suoi 4.000 abitanti (quando Cosenza ne contava 10.000 e Amantea 3.000) divenne la capitale dei numerosi feudi Spinelli in Calabria.
Nato nel periodo normanno-svevo con funzioni militari e difensive, il castello di Paola si era trasformato in palazzo signorile, che sin dalla seconda metà del XVI sec. «somministra sontuosa dimora» al signore feudale e alla sua corte.
Un indizio singolare della vita a dir poco dispendiosa dei baroni è fornito anche un secolo dopo dall’importo della spesa per l’allevamento di ben «70 bracchi nella Canatteria» del castello. Il mantenimento della muta di caccia di pregiati bracchi degli Spinelli necessitava nel 1693 una somma che sorpassava i «due mila ducati annui» (un ducato napoletano si stima avesse il potere di acquisto di circa 50 euro attuali).
Costosi e pregiati: bracchi da caccia
Le ricchezze nel castello
Altri elementi importanti per ricostruire il tenore di vita possono essere acquisiti da un rogito del 1551 (7 agosto) stilato dal notaio Angelo Desiderio di Cosenza.
Il documento, conservato presso l’Archivio di Stato di Cosenza, è un «Inventario del Castello di Paola e degli arredi in esso contenuti».
Il castello, come appare dalla descrizione che ne fa il rogito, era composto da più piani abitativi. Il piano nobile era in basso. Nella «sala subtana» e in una «camera grande» erano situati invece gli spazi di rappresentanza, le camere da letto e alcuni «magazzeni».
Nei magazzini si trovavano stipate, fra le altre «massarizie, quattro pezze di panni nigri di arbascio […] item un materazzo piccolo», e non mancano oggetti alla rinfusa e strumenti disparati della vita quotidiana, come «una pala di ferro […] item una sella foderata di velluto […] item quattro baliggi di cojro, due grandi e due piccole […] item venti candele di cera […] item due redini di cavallo».
A tavola con gli Spinelli
Antica tavola nobiliare
Il notaio passa alla descrizione di un cospicuo elenco di suppellettili di valore, oggetti di uso comune e utensili, arredi e vestiario, ma anche di molte provviste e alimenti che danno una idea concreta e reale dell’esistenza lussuosa condotta dai signori di Paola nel XVI secolo.
A partire dal “superfluo” – e soprattutto dall’abbondanza di carni, vino, provviste e alimenti pregiati di cui vivono i pochi facoltosi e i privilegiati della corte feudale – è possibile restituire una immagine realistica di un’esistenza priva di angustie e ben lontana dagli assilli del quotidiano.
Apprendiamo così che «nelle stanze de supra», si trovano «altri magazzeni» per le derrate e «le cucine», con la «stanza del forno, il cellaro, et la dispensa con vittuvaglie diverse». Fra le vettovaglie e gli alimenti conservati in dispensa, compaiono anche molti alimenti ricchi: «due pezzi di carne salata, item lardo […] item suppréssate […] item una pezza di caso palmeggiano».
Neve ’e Parma: un formaggio speciale
La diffusione del «caso palmeggiano» alle latitudini calabresi e la presenza di questo insolito formaggio padano sulle ricche mense degli Spinelli, è una rara eccezione gastronomica che infrange le rigide consuetudini alimentari della Calabria del Cinquecento. La regione, all’epoca, era grande esportatrice di formaggi ovini in tutto il Mediterraneo. E la dieta popolare era poverissima: cacio pecorino è praticamente la fonte esclusiva di proteine e grassi animali a buon mercato per i ceti meno abbienti.
Tuttavia, va ricordato che nel primo Cinquecento il parmigiano era noto nel Mezzogiorno. A Napoli lo vendevano gli ambulanti, persino nella versione grattugiata. In tal caso, era conosciuto col nomignolo di «Neve ’e Parma» (neve di Parma).
Evidentemente, l’abitudine partenopea di usare il «caso palmeggiano» sui maccheroni, era diffusa tra i ricchi e quindi condivisa anche sulle mense della corte Spinelli.
Il signore della tavola: il parmigiano
Grattacaso, saponi e altri lussi del castello
Lo conferma lo stesso inventario del 1551, che ci fa scoprire assieme alla preziosa forma di «caso palmeggiano», anche il corredo di utensili da cucina che ne completava l’uso.
Infatti, nei magazzini del castello, si trovano «due grattacaso de ferro, una grande et una piccola».
Seguono altri rari beni di consumo. Tra questi, notevole indizio di abitudini igieniche non comuni per quei tempi, la presenza di una cassa di sapone.
Non mancano i pezzi pregiati: nelle camere da letto scopriamo uno «sproviero di raso giallo guarnito di velluto carmosino misto a bianco et frangie […] item un altro sproviero di seta bianca con passamano et frangie di seta carmosina e bianca […] item due segge guarnite di velluto verde […] item due altre segge guarnite di velluto verde […] item la lettiga guarnita di raso con dentro due cuscini di velluto carmosino».
Il guardaroba degli Spinelli
Il guardaroba personale dei signori era costituito da una profusione di vesti e stoffe di lusso, con applicazioni «di frangie di seta verde e oro […] item velluto carmosino […] item seta bianca con passamano».
Il civettuolo guardaroba personale della castellana di Paola, oltre alle molte guarnizioni di «veste complete», i capi di velluto, seta e raso, non manca di completarsi anche con «pelli di martore […] item pelli di lontra». Mentre fra gli addobbi molte delle telerie «sono di oro; item due misali grandi, item quattro altri misali».
La cappella privata degli Spinelli
Fra le non poche suppellettili in oro nell’elenco si contano ben «undici candelieri piccoli», ma anche un oggetto curioso e decisamente superfluo come un «collare di cane arrecamato di oro matto».
Fra i preziosi e gli oggetti d’arte in possesso dei signori di Paola nel 1551 si trovano inventariati fra gli altri «un calice d’argento, item una patena d’argento, item un madonna d’argento». L’inventario fra le gioie conta ancora «molti scrigni con oggetti preziosi […] item reliquiari». Inoltre paramenti sacri e indumenti ecclesiastici completano un quadro di ricchezza di tutto rispetto, probabilmente senza pari anche fra le residenze di altre potenti case feudali della Calabria dell’epoca, come i Sanseverino, i Carafa o i Ruffo.
Un ospite speciale: l’abate Pacichelli
Anche dalla vivace descrizione che fa del castello Spinelli di Paola l’abate romano Giovan Battista Pacichelli, sceso a Paola nel 1693, è possibile ricavare un quadro di riferimento attendibile, seppure limitato al solo campione nobiliare, per certi aspetti della vita materiale.
Il prelato romano annotando nella sua descrizione gli aspetti funzionali e la fisionomia costruttiva del castello Spinelli, descrive una ricca magione. Esso era «partito di più quarti […] e assai commodo», dotato all’ingresso di «un cavalcatore assai largo» e ben illuminato da diverse «fenestre». L’acqua vi veniva condotta per mezzo di un acquedotto di «acqua perenne».
Il castello disponeva anche di una affollata scuderia attrezzata per ben «60 cavalli, e più muli».
Più che una fortificazione militare (la piazzaforte era difesa oramai solo da «qualche cannone di ferro», tra cui uno «crepato»), il religioso racconta un lussuoso palazzo signorile con pochi eguali.
Il visitatore fu condotto «a veder le suppellettili» che impreziosivano il palazzo feudale. Nelle stanze superiori ai trovavano «de tappeti, e de Quadri, scrittori ed altro; una bella tela dipinta da un Forastiero nel volto di un Camerone». La «Cappella nobiliare» esistente all’interno del palazzo era decorata invece con un «Choretto».
Le meraviglie del castello Spinelli
Agli occhi del prelato romano, il castello Spinelli sembrava una vera e propria scatola delle meraviglie. Anche la distribuzione e l’organizzazione interna degli ambienti e delle numerose stanze in cui il grande castello si dipanava, assumono una precisa funzione ed un significato ideologico e culturale non trascurabile. L’articolata distribuzione degli ambienti e la differenziazione degli spazi abitativi è – come afferma Braudel per la società dell’ancien régime – esclusivo «priviligio dei signori». Un privilegio insostituibile poiché conferma lo status dei potenti, rendendo l’idea e l’immagine della magnificenza e del potere immediatamente percettibili a tutti (molto spazio e molto lusso domestico, molto potere).
Gli ambienti di servizio del palazzo – «le stanze di sopra» – con le cucine, il «cellaro», i magazzini e le dispense, risultano ben distinti e defilati dagli altri ambienti in basso, al piano nobile, dove invece si svolgeva la vita domestica della piccola corte, che abitava gli ambienti di rappresentanza costituiti dalle numerose stanze «subtane» e si ritrovava nei «due tinelli» comuni situati «nella camera grande». Questi ambienti, riccamente arredati, di solito ospitavano, secondo la descrizione dell’abate Pacichelli, «corte nobile di molti cavalieri, officiali e inferiore servitù».
L’ufficio del signore
Fra queste stanze, il potente principe Spinelli aveva un suo spazio privato. Era un luogo ben riposto e discreto, necessario all’esercizio privato del potere del principe: la «stanza detta de Burrello». Il «Burrello», ove il signore di Paola riceve i suoi ospiti, prende le decisioni più riservate e disbriga le pratiche del potere, èappuntouna sorta di gabinetto politico.
L’espressione «de Burrello» che compare nel citato inventario del 1551 allude infatti ad una evidente corruzione della parola francese bureau.
A pranzo dai gesuiti
Pacichelli descrive infine in toni entusiastici i cibi e le portate di un banchetto servito in suo onore dai Padri Gesuiti del Collegio di Paola, presso cui fu ospite. In questo frangente, l’abate celebra fra le pietanze il gusto delle «prede di pesce esquisito» che gli furono servite. E ancora riferisce che «nel desinare con le carni più scelte fu copia di fravola, di limoni e di frutti: et alla cena più specie di pesce». Un banchetto raffinato e sontuoso, esaltato dalla «abbondanza de perfettissimi vini e delicatissimi frutti». Come dire il lusso dei ricchi, i privilegi di nobili e clero.
La liquirizia di Calabria è uno di quei prodotti che non temono confronti. Aromatizzata o in purezza, dura al pari dei sassi, gommosa oppure in polvere, la liquirizia calabrese fa oggi sfoggio di sé da New York a Dubai, “regina” di aeroporti e stazioni. La propongono a prezzi anche decuplicati rispetto all’origine. D’altronde è indiscutibilmente “oro nero”. E, in quanto tale, cela una storia grandiosa, avvincente però amara, nonostante le scene accattivanti stampigliate sulle confezioni dal gusto retro.
La liquirizia dell’abate
Per la sua capacità di radicarsi selvaggiamente su terreni complicati, ma anche per la mole di quattrini che fruttava ai latifondisti-produttori una volta lavorata, la radice di Glycyrrhiza glabra stava sempre tra le mascelle e nelle cronache dei molti viaggiatori stranieri che attraversarono la Calabria negli ultimi secoli. Probabilmente il “testimonial” più autorevole è l’abate de Saint-Non, che in Voyage pittoresque… s’insinuò insieme a un drappello d’intellettuali francesi nei conci di liquirizia diCorigliano.
Vue d’une Fabrique de Reglisse à Corigliano. Incisione dall’opera di Saint-Non, 1786
Da questa esperienza fatta nel 1778 ricavò un’incisione raffigurante l’interno di un concio, rappresentato come un antro oscuro nel quale bollivano enormi caccavi contenenti radici di liquirizia semilavorate. Tutt’intorno, tra i fumi prodotti dalla bollitura, i lavoratori erano intenti a spaccare la legna, attizzare il fuoco, mescolare, trasportare…
Come gli schiavi delle Antille
Ogni concio era un cosmo a sé stante. Impiegava gente addetta alle mansioni più disparate tanto da dare l’idea di un vero e proprio centro abitato: «In ogni concio è un fattore, sedici concari, un capoconcaro, un trinciatore, sei molinari, un falegname, due acquajuoli, un pesatore di legna, un fanciullo marchiatore e sedici impastatrici. Accrescete a costoro i mulattieri che someggiano legna, i contadini che scavano la radice, e già un concio vi darà l’aspetto d’un piccolo paese». È il solito autore de Il Bruzio, Vincenzo Padula, ad accompagnarci in un viaggio alle radici di una “bottega oscura” per davvero.
Per sei mesi l’anno, da novembre/dicembre fino a maggio, uomini e donne lavoravano duramente giorno e notte, e le paghe variavano in base alla mansione. Mentre il “capoconcaro” poteva superare le 50 lire al mese, i “concari” e i “molinari” non raggiungevano le 30 lire. Una lira al giorno per un lavoro del quale, sempre secondo Padula, «l’inumano governo che se ne fa persuade a chi visita un concio di trovarsi tra gli schiavi negri delle Antille». Alla modesta paga giornaliera si aggiungeva poi il vitto: quattro chili di olio «per lume e condimento» e una mancia di sei chili di «carne porcina al Carnevale».
Niente mance per le donne
L’avarizia dei proprietari aveva tolto ai lavoratori i due barili di vino che si concedevano all’apertura del concio e altre mance «a Natale ciascuno uomo toccava mezzo chilogramma di olio ed altrettanto di farina per far frittelle; a Capodanno una ricotta; a Carnevale una libbra di formaggio, e due di maccheroni, ed a Pasqua un chilogramma di carne di agnello».
Alle donne, neanche a dirlo, toccava la condizione peggiore. Alle impastatrici, ad esempio, non spettava alcuna mancia. Spesso le donne giungevano ai conci insieme ai padri o ai mariti, altre volte erano «avventuriere». I “concari”, infatti, arrivavano da luoghi lontani e trasferivano lì l’intera famiglia, compresi asini, gatti e galline. Era invece “bandito” portare i maiali. Il lavoro delle impastatrici consisteva nel rimescolare con i polsi la pasta di liquirizia bollente su di un tavolo, ungendosi le mani con dell’olio per non scottarsi e cercando di fare arrivare la pasta alla giusta consistenza.
Il concio è un lutto
A differenza di altri lavori, nel concio non era permesso ridere e cantare. «Il Concio è un lutto», dichiarava a Padula una giovane impastatrice di Longobucco. Donne e uomini vi vivevano separati, anche se sposati: «Qui le mogli si dividono barbaramente dai mariti, e questi per vederle alla macchia pagano una multa». Trovarsi fuori all’orario di chiusura del concio, infatti, impediva di farvi rientro fino alla mattina dopo, e al rientro si doveva pagare una ammenda. La situazione era quasi inumana e i fattori facevano il bello e il cattivo tempo. Ma in molti, soprattutto tra i braccianti che nella stagione invernale vedevano scarseggiare il proprio lavoro, erano disposti a spostarsi anche di decine di chilometri pur di guadagnare qualcosa.
Corigliano, concio di liquirizia dei baroni Compagna. Foto Fb ‘Centro Storico Corigliano’
Gli abitanti dei Casali di Cosenza, ad esempio, lasciavano i propri luoghi per recarsi a lavorare nei conci, non senza difficoltà. Non si stupiva perciò il letterato di Acri che in molti non vedessero l’ora che arrivasse la bella stagione «per pigliare il mestiere del brigante, o del manutengolo». Anzi, lo stesso Padula invitava i padroni ad avere atteggiamenti più umani: «Proseguite pure, miei bei signori Calabresi, a far così inumano governo della povera gente, e poi gridate, ché ne avete ben d’onte, che vi siano briganti i quali vi sequestrino».
Non solo Jonio: la liquirizia in Calabria
Le radici di questa pianta si sviluppavano anche spontaneamente «in terreni pliocenici e quaternari», in particolare sul versante ionico della valle del Crati, del Neto e nel Marchesato fino al fiume Alli. Il circondario di Rossano, con la «vasta pianura volta a tramontana tra Corigliano e Rossano» la faceva da padrona. Ma la pianta era diffusa anche nei territori di Terranova da Sibari, Malvito, Cassano, Spezzano Albanese. Anche in provincia di Reggio Calabria si poteva trovare nei terreni incolti.
Concio dei Longo a San Lorenzo del Vallo. Foto pagina Fb ‘La Peschiera’
Durante l’Ottocento i conci si moltiplicarono e le condizioni di lavoro conobbero un miglioramento. Tra gli stabilimenti più importanti si confermavano quelli di Capo Rizzuto, nei pressi di Crotone, e quelli di Rossano e Corigliano. Fabbriche di pasta di liquirizia a fine secolo si trovavano anche a Castrovillari, Altomonte, Fagnano Castello, Bisignano, Cassano, Cervicati, Cerchiara, San Lorenzo del Vallo, quasi tutte legate allo spirito imprenditoriale delle famiglie facoltose.
Le fabbriche di liquirizia
Nel 1894, secondo i dati forniti da Giovanni Sole, nella provincia di Cosenza erano operative 9 fabbriche di liquirizia. Ben tre erano a Corigliano, di proprietà del principe Nicola Gaetani, del barone Francesco Compagna e di Guglielmo Tocci. Mosse da motori a vapori o idraulici, tutte e tre producevano quasi duemila quintali di liquirizia all’anno e impiegavano 193 operai. A Rossano erano presenti le fabbriche di Giuseppe Amarelli, che da sola dava lavoro a 66 operai, di Giuseppe Martucci e di Gennaro Labonia. A Cerchiara era attivo l’opificio del principe Pignatelli, a San Lorenzo del Vallo quello di Giulio Longo e a Rende quello di Tommaso Zagarese.
La fabbrica di liquirizia Zagarese a Rende. Foto gruppo “Il Senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”
Meritano una menzione le due fabbriche esistenti in provincia di Reggio a metà Ottocento. Una a Gioiosa, del signor Macrì, e una a Stignano, del signor Baracca. Lavoravano la liquirizia che cresceva spontanea nei territori di Bianco, Bovalino e Riace, dove per la raccolta spesso giungevano «vanghieri cosentini».
Regalìzia
Archivio Centrale dello Stato, Roma. Marchio liquirizia Zagarese, 1956
È interessante notare come la liquirizia calabrese venisse soprattutto esportata, mentre a livello locale la regalìzia, come veniva chiamata in dialetto, era consumata pochissimo, salvo qualche panetto che veniva comprato dai ragazzi come «ghiottoneria» e dagli «infermi per espettorante». All’estero era molto ricercata, invece, in Inghilterra, Germania, Belgio, Austria, Ungheria e perfino in Russia e Olanda.
Nota dolente restavano i trasporti. Il barone Compagna di Corigliano beneficiava di tariffe ferroviarie speciali per il trasporto del suo “sugo di liquirizia” da Taranto a Napoli. Ciò voleva dire che dai conci di Corigliano il prodotto doveva giungere con altri sistemi fino a Taranto.
Ancora agli inizi del ‘900, comunque, la coltivazione e lavorazione della liquirizia costituiva in provincia di Cosenza una discreta fonte di reddito. Dai dati di una inchiesta del 1908, ad esempio, si ricava che, lasciando la radice a dimora per più anni, da un ettaro si potevano ricavare tra i 300 e i 500 quintali di radici grezze.
Liquirizia: dall’oscurità al grande schermo
Delle diverse fabbriche di liquirizia operanti in Calabria, solo in poche riuscirono a superare le peripezie del secondo dopoguerra. Se la Zagarese di Rende oggi opera col nome di Nature Med, altre piccole aziende lavorano e commercializzano il prodotto. Da alcuni anni le imprese del settore hanno costituito il Consorzio di Tutela della Liquirizia di Calabria Dop.
Interno del Museo della Liquirizia Giorgio Amarelli, Rossano
La regina indiscussa rimane tuttora la secolare Amarelli di Rossano, la cui epopea familiare e imprenditoriale legata alla liquirizia smerciata (e apprezzata) in tutto il mondo è raccontata nel docu-film Radici presentato nei giorni scorsi al Cinema Citrigno di Cosenza: «Un viaggio reale, in automobile con due amici, che poi si è trasformato in un viaggio nel tempo. E a guidarci è stata proprio la liquirizia. Così, seguendo i solchi segnati nel terreno dai rizomi, attraversiamo secoli di storia, di arte, di cultura, nella terra indissolubilmente legata alle dolci radici sotterranee: la Calabria ferox. Radici come rami sotterranei. Radici come origini di una terra sempre da riscoprire» ha dichiarato il registra Fabrizio Bancale.
La locandina del film-documentario “Radici” di Fabrizio Bancale
Gestisci Consenso
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.