Il panino della discordia continua a far parlare di sé. Dopo la “scomunica” di papas Pietro Lanza, arriva la nota stampa della rinomata catena di fast food. Che cita Checco Zalone e Kierkegaard per difendere il suo panino ghiegghiu.
Papàs Pietro Lanza ha scatenato le polemiche sul nome del panino
Terroni di Calabria
«E se non hanno offeso e scandalizzato nessuno le battute ed il gergo nazional-popolare di Zalone al quale non vogliamo minimamente paragonarci, toccando ed unendo tutti col e nel sorriso su temi di stringente attualità, così come nessun calabrese si è mai sentito offeso, anzi, dallo striscione con la scritta Terroni di Calabria col quale qualche anno fa abbiamo inaugurato le nostre sedi a Roma, onestamente non vediamo – fa sapere il management di Mi ‘Ndujo – come e perché possa e debba sentirsi addirittura offesa la grande e gloriosa comunità arbëreshe per un progetto di panino al quale, così come ci siamo da sempre caratterizzati, abbiamo proposto di dare un nome ironico, auto-ironico, divertente, incuriosente e che da oltre 7 secoli non offende nessuno, ma proprio nessuno».
«U ghiegghiu, il panino senza intenti dispregiativi»
«Non soltanto, non vi era – si legge nella nota stampa di Mi ‘Ndujo – e non vi è alcun intento offensivo e dispregiativo nella scelta di uno dei nomi più diffusi e riconosciuti per identificare, ripetiamo ironicamente, la comunità italo-albanese ma quel termine, depurato da qualsiasi strascico negativo di centinaia e centinaia di anni fa, unisce oggi in un sorriso e nel richiamo all’esistenza, in Calabria, di una minoranza linguistica che insieme alle altre arricchisce la stessa forza culturale e identitaria distintiva regionale».
Il dibattito social
«Prendiamo atto – continua la nota stampa di Mi ‘ndujo – dell’interessante dibattito che si è scatenato sui media e sui social, grazie al progetto del nostro panino, su quali siano le migliori strategie ed i migliori strumenti attraverso i quali recuperare eventuali ritardi ed errori del passato per investire meglio e diversamente sulla tutela linguistica e culturale della minoranza linguistica. Nutriamo rispetto e leggiamo con attenzione».
L’interno di uno dei locali della catena Mi ‘ndujo
Restiamo imprenditori
«Ma, attenzione, noi restiamo dei semplici e piccoli imprenditori, certo innamorati della nostra terra, di sicuro appassionati promotori della nostra identità più viscerale, senza dubbio convinti sostenitori del valore culturale, economico e di riscatto sociale della nostra biodiversità e della nostra enogastronomia di qualità, ma pur sempre – scandiscono – dei normali imprenditori».
Alle istituzioni, laiche e religiose, compete e competerà occuparsi con sempre maggiore determinazione della valorizzazione del patrimonio culturale arbëreshe che sappiamo benissimo non coincidere con un panino, ci mancherebbe altro o con l’enogastronomia tipica che però apre porte e finestre culturali, sociali, turistiche ed economiche.
La compagnia di Acri, Bisignano e Luzzi
«Ma i panini nei quali – si legge ancora nella nota stampa – continuiamo a mettere prodotti e nomi dialettali e proverbiali di quella Calabria non oicofobica e che non si vergona di se stessa (come ad esempio i panini Acri, Bisignano e Luzzi tre panini cu i cazzi, proverbio antico che non ha mai offeso nessuno) sono stati e restano anche quegli strumenti con i quali stiamo restituendo tanta dignità e fierezza, anche lessicale e dialettale, fuori e dentro la regione ad intere generazioni di calabresi, terroni e ghiegghi, che con un semplice sorriso, senza pesantezza ed a testa alta sanno chi sono, lo dicono, ci scherzano e vogliono competere col mondo, senza pianti, mugugni, lamentele, divisioni, cliché e tabù di un’epoca che fortunatamente non appartiene loro».
Quel panino ghiegghiu è indigesto, il capo della comunità religiosa arbëreshe chiama a raccolta i fedeli e li invita a protestare. La questione riguarda il nome dato dalla catena di fast food calabrese Mi ‘Ndujo a un nuovo prodotto presentato alcuni giorni fa e che ha ricevuto formalmente il plauso degli amministratori di molti comuni dell’Arbëria. Il progetto nasce con la nobile premessa di voler valorizzare «questa preziosa e importantissima minoranza linguistica – spiegano i soci della catena – che arricchisce ancora di più la capacità attrattiva e l’immagine esperenziale della Calabria che l’Italia e il mondo non si aspettano».
‘U ghiegghiu
Fin qui tutto bene, se non fosse per il nome che – «simbolicamente e scherzosamente», sottolineano gli ideatori – è stato dato al panino: ‘u ghiegghiu. Ossia il non sempre affettuoso nomignolo affibbiato da secoli agli arbëreshë dai litìri (letteralmente latini, nello specifico i calabresi non albanofoni).
«Eleviamo la nostra protesta e chiediamo a chi ha avuto l’infelice idea di ritirarla» è il monito di Papàs Pietro Lanza. «La nostra identità non si può racchiudere in un panino e in un termine ancor oggi usato in modo dispregiativo».
“L’anatema” dal profilo Fb Papas Pietro Lanza contro il panino Ghiegghiu
Ironia o “cattivo gusto”?
Il religioso arbëresh, attraverso la sua pagina Facebook, condanna la scelta di un termine che ricondurrebbe a stereotipi che da sempre hanno un peso sull’immaginario legato al suo popolo e quindi chiede che il nome del panino venga modificato. «Non possiamo avere un panino denominato ‘u ghiegghiu che si prefigge di rappresentare il patrimonio identitario e la presenza Arbëreshe in Calabria. È semplicemente offensivo». Molti fedeli sono già pronti ad aderire alla protesta.
Papas Pietro Lanza chiama i fedeli alla protesta contro il panino ‘U ghiegghiu
Ma c’è anche qualcuno che, in controtendenza, invita il papàs a cogliere l’ironia di questa scelta. Qualcun altro, addirittura, la vede come un’occasione da sfruttare anche per una sana autocritica: «Magari di fronte a un bel panino può nascere una discussione proficua. Chiediamoci piuttosto cosa stiamo facendo noi arbëreshë per preservare e promuovere il nostro patrimonio».
Considerando che la Befana preferisce il chilometro zero, stanotte avrà fatto rifornimento in Calabria. Calze gonfie come palloncini, giocattoli, monetine di cioccolata, carbone di zucchero, ma soprattutto caramelle e gelatine. E non parliamo dei soliti marchi, quelli super pubblicizzati e famosi in tutto il mondo. Oggi la Calabria può offrire una gamma di golosità, con prodotti dop e ingredienti genuini, che ha pochi avversari in Italia: Silagum. Il nome ha certamente meno appeal rispetto alla celebre griffe degli iconici orsetti gommosi, ma è un’azienda che produce 2.500 tonnellate di caramelle l’anno e da trent’anni è una realtà economica della zona industriale lametina, la cosiddetta ex Sir, a lungo un deserto buio di capannoni vuoti.
Lo stand milanese di Silagum a Tuttofood 2021
Silagum, le caramelle vendute in Russia e Stati Uniti
Trenta operai, quasi tutti del lametino, e tre turni di lavoro spalmati su ventiquattro ore, perché l’impianto di estrusione, made in Francia, che fornisce le rotelle di liquirizia, lavora giorno e notte. Cinque milioni di euro di fatturato e un grosso investimento per eliminare la plastica dagli incarti. Le caramelle calabresi sono vendute in Francia, Inghilterra, Finlandia, Russia, Stati Uniti. Sono apprezzatissime in Canada ed esportate finanche in Sud Africa e Giappone.
Primo e secondo tempo
C’è un primo e un secondo tempo nella cronistoria della Silagum. Nata a fine anni Ottanta per iniziativa della Compagnia delle opere, l’associazione imprenditoriale legata al movimento Comunione e liberazione, grazie ai generosi fondi della De Vico (la legge 44), ha rappresentato un esperimento pilota calabrese dell’imprenditoria giovanile.
Resta una delle poche superstiti di quell’ondata a distanza di trent’anni. Il tutor è stato il patron del cioccolato Agostoni (prodotto dalla fabbrica lombarda Icam), che è ancora tra i cinque soci. Nel 2005 scoppiava il caso Why Notsu intrecci tra potere, fondi pubblici, istituzioni e presunte logge massoniche. L’inchiesta di De Magistris coinvolgeva protagonisti della politica italiana e anche la Compagnia delle opere. Anni di processi e clamori e un finale di assoluzioni.
Il secondo tempo della fabbrica di caramelle inizia proprio nel 2005, quando entra in azienda Claudio Aquino come direttore commerciale. «Ci sono vari step – spiega – per portare un’azienda al successo. Il primo passo è fare un buon prodotto, poi devi metterlo sul mercato, devi saperlo presentare, dargli un vestito giusto». Aquino, oggi alla guida del marketing ma anche amministratore delegato, sulla vicenda Why Not e fondi pubblici taglia corto. Parla la realtà attuale.
Nessun sostegno pubblico
«La Compagnia delle opere ha promosso Silagum all’origine, l’ha favorita creando l’incontro tra i soci calabresi e il nostro socio di Lecco Antonio Agostoni, che resta un sostenitore e un punto di riferimento. Silagum è un’azienda che cammina con le proprie gambe, è una società a capitale privato, che non gode di sostegni pubblici». La fabbrica è ancora lì, nella ex Sir, dove qualche capannone si è animato nell’ultimo decennio. Il trasporto è soprattutto su gomma ma per le destinazioni oltreoceano ed orientali, le caramelle calabresi viaggiano su container, partono da Napoli e non da Gioia Tauro «per scelte logistiche dei nostri clienti» precisa Aquino.
Operai della Silagum nello stabilimento di Lamezia Terme
Silagum: gli inizi con le caramelle al luna park
«Gli inizi – dice Aquino – sono stati tutti in salita, l’azienda produceva per conto terzi, senza marchio. Si faceva fatica – racconta – ad avere un prodotto di qualità perché mancavano know how e personale specializzato. Le caramelle venivano vendute sfuse nei mercati, nei luna park, nelle fiere. Con caparbietà non ci siamo arresi e abbiamo portato avanti il nostro progetto e abbiamo cominciato ad avere un’identità e importanti riconoscimenti». Oggi il marchio Silagum viene esportato in molti Stati, circa il 30% della produzione è destinato ai mercati esteri.
La Calabria dentro
«Abbiamo puntato – commenta Aquino – a farci riconoscere sugli scaffali, prima avevamo un intermediario che rivendeva a marchio suo e non c’era legame con il consumatore. Oggi chi sceglie Silagum sceglie un prodotto di qualità, è questa la nostra forza e il nostro orgoglio». Caramelle profumate e coloratissime, con la Calabria dentro: bergamotti, limoni e arance che provengono da Gioia Tauro e Reggio e poi la liquirizia dop di Naturmed. Siamo molto attenti alle materie prime – precisa Aquino – le gelatine contengono il 20 per cento di succo di frutta e siamo gli unici produttori di rotelle di liquirizia bio».
Caramelle al limone prodotte dalla Silagum
La causa ambientalista
Il futuro? Roseo, quasi come una gelée alla fragola. «Il post pandemia è stato naturalmente difficile – ammette Aquino – siamo una piccola realtà e abbiamo subìto gli aumenti dei costi delle materie prime. Non possediamo la forza delle multinazionali, ma cerchiamo di innovarci. Da poco è stato fatto un grosso investimento per avere confezioni in carta eliminando la plastica. Siamo molto orgogliosi di dare il nostro contributo alla causa ambientalista».
Sulle difficoltà e le lamentele di una Calabria arretrata nella produzione e nei trasporti, il presidente del cda della Silagum non segue la consueta linea di molti colleghi imprenditori: «Se hai in testa una cosa e sai che può funzionare, la fai, anche se sei in Calabria. Al centro dell’attenzione non devono esserci le difficoltà, ma bisogna mettere in risalto le caratteristiche positive e le peculiarità. Anche Sperlari, che è di Cremona, ha le sue difficoltà. Diverse dalle nostre, ma le ha. Le caramelle Silagum sono tra le più buone in commercio ed è su questo che dobbiamo puntare».
Capita sempre più spesso che a Cardeto arrivino turisti. Una volta chi parlava straniero era un emigrante che aveva quasi dimenticato la strada di casa, non i suoi profumi. Oggi succede di incrociare giapponesi, tedeschi: molto spesso si perdono al bivio che sta all’ingresso del paese. A sinistra si va verso l’Aspromonte, a destra si scende verso la sponda destra del torrente Sant’Agata, terra di cardi e di greco antico.
Giovanna, Marcello e Irene, la famiglia de Il tipico calabrese
Un motivo per questo via-vai c’è, un piccolo ristorante a metri zero, perché l’orto è proprio accanto. Si chiama Il Tipico Calabrese, ed è gestito da Giovanna Quattrone e Marcello Manti. Lui faceva il graphic-designer nelle Marche e poi ha deciso di tornare. Lei è la grande custode delle tradizioni di famiglia.
Cardeto su TasteAtlas
Ora che il loro nome è apparso nelle classifiche mondiali di TasteAtlas, con un lusinghiero 4,8 su 5, forse è il caso di rileggere loro storia, esempio di Calabria resistente, attenta alla memoria e alla cultura contadina, con un piede nel futuro. Io l’ho raccontata nel libro A sud del Sud, ma ogni volta si arricchisce di nuovi capitoli.
È Cardeto un paese di castagneti a filiera con pianori a nord e a sud, fagioli, grano e pere dai mille nomi. Solo Marcello vi spiega le differenze fra una e l’altra, e vengono in mente quei frutti che facevano il profumo nelle case dei contadini, buon augurio nel giorno del matrimonio. E del resto in lingua grecanica capra e albero si possono dire in decine di modi, qui servirebbe Gerhard Rohlfs, il glottologo tedesco che faceva da interprete fra i calabresi di valli diverse.
Si mangia tra pezzi di storia contadina
Alcuni riconoscimenti ottenuti da Il Tipico calabrese
Altri oggetti della tradizione
Fisarmoniche in esposizione
Una chiacchierata con i clienti in sala
Oggetti esposti nel ristorante
Una serata all’insegna della musica
Una parete del ristorante
Una parte del museo all’interno del ristorante
L’interno del locale
Altri oggetti tradizionali
Strumenti della tradizione esposti nel ristorante
Entrare al Tipico disorienta: potrebbe essere un Museo, una Biblioteca (Marcello ha una invidiabile collezione di libri sulla Calabria), una sala di musica dove gli strumenti antichi non sono impolverati ma usati spesso. La cucina? Lì Giovanna e Marcello vi tengono per mano stagione per stagione, la ‘nduja è l’unico prodotto non paesano, quei quaranta minuti che ci vogliono da Reggio non sono mai spesi male, anche per via del panorama. A poco a poco Il Tipico è entrato nelle guide di tendenza, premiato più volte da Slow Food. Ora, addirittura, TasteAtlas.
I canti delle donne di Cardeto
Contadine calabresi (foto Alan Lomax)
Resta una storia da ripetersi, fatevela raccontare da Marcello, perché ha una sua magia. Intorno al ‘53 arrivò a Cardeto dalla montagna uno scassato pullmino Volkswagen: a bordo c’erano Alan Lomax, l’antropologo che aveva scoperto Woody Guthrie, accompagnato dall’etno-musicologo Diego Carpitella.
Avevano sentito parlare dei canti delle donne di Cardeto: loro ogni mattina per andare sui campi a lavorare ci mettevano due ore (quindi 4 a fine giornata). Lomax registrò quelle melodie per studiarle, offrendo dei soldi in cambio. Anche oggi c’è qualche vecchietta che dice: «Vu’ ricordati u’mericanu ch’ ‘ndi pavava m’ cantamu? Vi ricordate l’americano che ci pagava per cantare?».
Il giro del mondo
Poco prima della pandemia, nel gennaio 2020, Anna Lomax, figlia di Alan, anche lei antropologa, è tornata sulle tracce del padre, ha incontrato Marcello e gli ha consegnato i nastri originali. Ha detto: «Ora capisco perché mio padre tornava senza soldi in America». Dentro il ristorante c’è una targa, i canti di Cardeto – come quelli dei pescatori della tonnara di Vibo – sono così di nuovo a casa dopo aver fatto il giro del mondo.
Grazie a quel 4,8, è il momento di fare un brindisi in musica.
Musulupare, stampi di legno impiegati nella preparazione del musulupo, formaggio tipico del periodo pasquale, festività molto sentita dalle comunità grecaniche
L’uva coltivata dai gestori del locale
I frutti prodotti da Marcello e Giovanna
Reggio Calabria vista da Cardeto
L’insegna del locale
Saggezza popolare sui muri del ristorante
Marcello all’opera nell’orto
Antipasti sul tavolo dl ristorante
Marcello mostra orgoglioso i prodotti del suo orto
«Ci tornerò presto. Voglio tornarci. Devo. Ci penso da quando sono rientrato. È una strana sensazione: col corpo sono qui, ma la mia mente è sempre lì». È una soleggiata domenica di dicembre quando incontro lo chef Filippo Cogliandro, Ambasciatore dei Sapori, dei Colori e della Creatività della Calabria nel mondo, un lungo impegno insieme a Don Ciotti, patron del Ristorante L’Accademia, che aderisce all’Alleanza Slow Food dei cuochi, la rete di oltre 700 professionisti della ristorazione che sostengono i piccoli produttori custodi della biodiversità, impiegando i prodotti dei Presìdi. «Sono i prodotti della mia terra a raccontare il mio amore per la Calabria e per le sue tradizioni. Far incontrare eccellenze di diversi presìdi Slow Food serve a innovare la tradizione, costruendo una rete di scambio, di tutela, di opportunità».
Filippo Cogliandro
Di lui si conosce la storia della sua lotta contro il pizzo. Ma quello che racconto oggi è il suo impegno per i Sud. Perché il luogo dove Filippo vuole tornare è il Gambia, il più piccolo dei Paesi africani continentali. «Poco dopo il mio rientro sono arrivate le foto dei banchi che abbiamo acquistato per aiutare la scuola islamica del villaggio di Jiffarong nel distretto di Kiang West. È stata una grande emozione. Tubabo (uomo bianco in wolof, nda) – il sottoscritto! – ha fatto un buon lavoro».
Filippo è l’emblema di ciò che significa fare rete: contattare e mettere in contatto persone, aziende territori e sviluppare nuove opportunità. Il suo viaggio alla scoperta del Gambia, assieme ai suoi cuochi gambiani, sponsorizzato da Olearia San Giorgio, presidio Slow Food del reggino, ne è prova.
La Notte dello Chef Afro-solidale
La sua storia inizia diversi anni fa: «Fui contattato dall’associazione Destino Benin, che mi propose di realizzare qualcosa assieme per raccogliere fondi a favore del Benin. Da quell’incontro nacque l’idea della Notte dello Chef Afro-solidale, una sorta di contest cui aderivano i cuochi di Reggio che avevo coinvolto. Organizzavamo un menù degustazione di dieci portate che comprendeva una quota di partecipazione per gli ospiti. Ogni cuoco era chiamato a presentare un proprio piatto. Io acquistavo la materia prima e la mettevo a disposizione di chi l’avrebbe trattata. Tutto l’incasso delle serate veniva devoluto a Destino Benin che lo utilizzava per portare avanti i propri progetti di solidarietà e cooperazione.
Ogni anno veniva eletto lo chef afro-solidale dell’anno, i cui piatti erano stati scelti e/o preferiti agli altri. Poi la pandemia non solo ci ha bloccati, ma ha impedito che il residuo dei fondi donati all’associazione potesse essere speso. Quel residuo sono i soldi che poi sono stati utilizzati durante la mia missione per acquistare quei banchi per i 92 bambini della scuola di Jiffarong, il villaggio di Salihu, perché le scuole arabe non ricevono fondi statali e la loro attività si basa sulla possibilità delle famiglie di finanziarle. Cosa non sempre scontata».
Il Gambia e il sistema scolastico
Il Gambia, a maggioranza musulmana, solo nel 2017 ha abbattuto la dittatura che lo opprimeva. Oggi è una Repubblica nuova e fragile che chiaramente ha bisogno di tutto. Il suo sistema scolastico è basato su quello inglese. Esistono asili statali laici, privati e islamici, ma solo i primi sono oggetto di finanziamento pubblico. Nonostante l’articolo 30 della Costituzione preveda un’istruzione libera, obbligatoria e accessibile a tutti, nella pratica il governo non è riuscito a renderla gratuita fino al 2013 per la scuola primaria, al 2014 per la scuola media e al 2015 per la scuola secondaria.
Accanto al sistema scolastico laico statale ne esiste anche uno islamico con oltre 300 mandrasa dove, oltre alle normali materie scolastiche, vengono insegnati i valori islamici e le sure del Corano a memoria. Le statistiche riportano che, nel 2014, approssimativamente il 15% dei bambini ha completato lì i cicli scolastici obbligatori. Una percentuale importante che dà il polso di come avvenga l’istruzione nei villaggi rurali lontani dalla capitale Banjun.
Filippo Cogliandro, Abdou Dibbasey e Salihu Barrow
Il rapporto di Filippo Cogliandro con l’Africa e col Gambia è figlio di una storia precedente. Nel 2013 Abdou Dibbasey e Salihu Barrow sbarcano in Italia. Li attende la trafila di tutti i richiedenti asilo, dato che il Gambia è sotto la dittatura di Jammeh: la richiesta di protezione, l’audizione in Commissione Territoriale, il programma di accoglienza. I ragazzi iniziano il loro percorso di inserimento fin quando, su richiesta della struttura, Filippo attiva dei corsi professionalizzanti di cucina per gli utenti stranieri che di lì a poco sarebbero usciti dai programmi e avrebbero dovuto trovare lavoro. Saper cucinare li avrebbe facilitati.
«L’obiettivo era dunque quello di trasmettere gli elementi basici della cucina italiana ed europea. Dalla pasta fresca alle salse base. Fu un’esperienza bellissima. Abdou e Salihu si erano dimostrati molto interessati. Poi, quel centro di accoglienza venne chiuso e gli utenti distribuiti in tutta la Regione. Saliou ed Abdou, che erano arrivati in Italia insieme, che avevano condiviso quel viaggio e che, fin dal Gambia, si sostenevano a vicenda,furono separati. Mi scrivevano dicendo che volevano rientrare a Reggio e volevano farlo insieme. Ma non esisteva altra possibilità che chiedere il loro affidamento. E questo feci. Iniziammo le procedure. Nel frattempo, Abdou divenne maggiorenne ed era sul punto di dover lasciare il centro dove risiedeva. La mia proposta fu quella di fargli un contratto di apprendistato. Salihu che, invece, era ancora minorenne, mi fu affidato per quattro mesi fino al compimento dei suoi diciotto anni. Anche lui mi chiese di poter diventare un cuoco e anche a lui proposi un contratto di apprendistato.
Abdou Dibbasey e Salihu Barrow
Ancora oggi sono qui con me, sono i miei cuochi e non hanno solo imparato a cucinare, ma anche a gestire un’azienda di ristorazione: analizzare i costi di approvvigionamento, gestire la sala, occuparsi della parte finanziaria. È la dimostrazione di due cose importanti: la prima è che se vuoi, se ti impegni, ce la fai; la seconda è che stringere alleanze permette di raggiungere obiettivi importanti. Abdou e Salihu sono la ragione che mi ha portato in Gambia, sono stati i miei compagni di viaggio e sono i primi mattoni del ponte che sto costruendo».
Un ponte tra la Reggio e il Gambia: Sud chiama Sud
Si tratta del ponte tra Reggio e il Gambia. Abdou è il più giovane cuoco extracomunitario dell’Alleanza Slow Food in Italia; insieme lui e Salhiu, Filippo visita il Gambia in qualità di ambasciatore di Slow Food Calabria. L’idea è diffonderne i valori e l’attività ed entrare in relazione con il Convivium Slow Food Gambia. L’incontro con la referente, Ndeye Corr-Sarr, getta le basi per esplorare opportunità di scambio tra i prodotti calabresi e gambiani.
Un momento del viaggio di Filippo Cogliandro in Gambia
«Non mi aspettavo un’accoglienza tanto calorosa. Ho incontrato le massime autorità del Paese: il Presidente della Repubblica Barrow, il ministro degli Esteri, quello dell’Istruzione, il Presidente dell’Assemblea parlamentare e quello del partito di maggioranza. Proprio il Presidente Barrow mi ha detto: “Se volete davvero aiutarci, fate in modo che i nostri ragazzi non lascino il Gambia. Se vanno via i giovani, scompare il futuro“. Vorrei tornare lì e aprire un punto di ristorazione che sia attività imprenditoriale e centro di formazione per chi vuole fare cucina. E voglio che Abdou e Salihu, che desiderano fare ritorno, possano mettere a disposizione le competenze che ho trasmesso loro e fare ciò che io ho fatto con loro: formare e addestrare altri ragazzi. Per questo il viaggio è servito anche a prendere i primi contatti con le scuole alberghiere del luogo.
Filippo Cogliandro e Adama Barrow, Presidente della Repubblica del Gambia
Lo stesso ministro degli Esteri ha accolto con grande piacere la mia proposta e sta valutando la possibilità di creare un consolato onorario a Reggio che sia punto di riferimento per i gambiani che risiedono in Calabria, Sicilia, Puglia. Un primo passo per aprire nuove opportunità di interscambio commerciale tra Reggio e Gambia, dove esiste un buon artigianato, ma manca la piccola industria e non vi sono processi di produzione moderni».
Gli emigrati gambiani giocano un ruolo importante. Già con le loro rimesse e il loro sostegno dall’estero inviano aiuti in patria che spesso sono impiegati migliorare la vita dei loro villaggi. A Jiffarong, ad esempio, stanno realizzando la delimitazione dello spazio cimiteriale assediato dagli animali selvatici. Persone come Abdou e Salihu potrebbero portare, oltre al denaro, le competenze.
Le prospettive future
«Proseguiremo con la realizzazione del tetto della scuola di Jiffarong, sostituendo il vecchio in lamiera con un nuovo coibentato. Noi compreremo i materiali e le famiglie degli studenti lo realizzeranno. Entro fine anno, prima dell’inizio della stagione delle piogge, doneremo i 2000 euro necessari che stiamo raccogliendo, cosicché i ragazzi possano frequentare la scuola in condizioni più dignitose. Tubabo tornerà per continuare a seminare. Perché questo primo viaggio mi ha cambiato la vita e mi ha insegnato la solidarietà. Una solidarietà che ho visto praticare da chi ha nulla o quasi.
Considera questo: con i soldi che Abdou mandava a casa, il padre acquistava le batterie di alimentazione per gli impianti solari della sua casa. E, sapendo che i suoi vicini l’elettricità non ce l’avevano, inviava loro un suo cavo con la lampadina di modo che la luce arrivasse anche a loro. La bella storia di emigrazione del figlio era un dono di Dio e questa fortuna doveva essere condivisa. Oggi guardo le loro storie e rivedo, pur nella loro diversità, le storie di emigrazione italiana in Australia, America, Francia, Belgio, Svizzera. Lasciare il proprio paese è sempre dura, anche se oggi Internet ci consente di mantenere un contatto stabile».
Un piccolo primato di Natale tutto calabrese: Gambero Rosso ha premiato il panettone tradizionale dell’Antica Salumeria Mazzuca di Amantea.
La notizia è fresca, fragrante come un dolce appena sfornato: la prestigiosa rivista, sinonimo da decenni di gastronomia di qualità, ha inserito il panettone artigianale amanteano tra i primi della sua selezione.
La quale è avvenuta in maniera particolare, cioè attraverso un assaggio “alla cieca”. In pratica, i gourmet assaggiano i prodotti senza conoscerne la provenienza e li valutano.
L’assaggio del panettone
Un’emozione dolce
L’aspetto più particolare (un “primato nel primato”) è che questo panettone proviene da una città di mare.
I segreti di questo piccolo successo? Gli ingredienti: «Abbiamo usato le bacche di vaniglia del Madagascar e il burro di Normandia, che è più gustoso perché ha un quantitativo di panna. E poi canditi di alta qualità», spiega Alfonso Mazzuca, che gestisce da anni l’esercizio di famiglia nella centralissima via Margherita.
A dirla tutta, non è la prima volta che l’Antica Salumeria ha ottenuto riconoscimenti: «Produciamo panettoni da circa quattro anni e siamo stati premiati per quello al cioccolato».
Il riconoscimento di quest’anno è arrivato a sorpresa: «Ho inviato le prime produzioni di novembre a vari amici in tutt’Italia, come faccio sempre», prosegue Mazzuca.
Il bancone dell’Antica Salumeria Mazzuca
Poi la sorpresa: «Mi hanno contattato da Gambero Rosso per comunicarmi che avrebbero inserito il panettone nel loro test alla cieca». Ed ecco il bel risultato.
Piccola tradizione, grandi soddisfazioni
Iniziò tutto nel ’36, quando Alfonso Mazzuca, il nonno dell’attuale titolare, si spostò da Gallo, una frazione del vicino San Pietro in Amantea, per sposare un’amanteana.
Fu allora che nacque la salumeria. Che, a partire dal ’92, si è specializzata nella gastronomia artigianale di alta qualità.
Il riconoscimento di Gambero Rosso corona anni di sacrificio e dedizione. Per chi lavora tanto e duro, il miglior regalo di Natale.
La quadara (il calderone) è una questione da prendere sul serio a Dipignano e in Calabria. Se non altro perché ospita la cottura di parti molto saporite del maiale, quadrupede culto e prelibatezza immancabile nella cucina e nell’immaginario dei suoi abitanti.
Dipignano è sempre stato, nei secoli dei secoli, il paese dei quadarari, i calderai, maestri abilissimi nella lavorazione del rame. Probabilmente sin dal 1300.
Calderoni nella bottega-officina di Roberto Farno a Dipignano
Roberto Farno: ultimo dei calderai di Dipignano
Oggi cosa resta di questa antica tradizione? Non poco, nemmeno tanto. Innanzitutto le mani grandi e callose di Roberto Farno, ultimo superstite di un mestiere in estinzione. La sua bottega è a Motta, parte bassa del comune a pochi chilometri da Cosenza. Abbastanza lontano dalla città per raggiungere e superare i 700 metri di altitudine. Roberto si cimenta anche con il ferro, che gli è «costato tre ernie». I cancelli li fabbrica e poi li prende di peso. Alla lunga persino Ercole avrebbe qualche problema alla schiena.
Suo padre è il “mitico” Franchino Farno. È stato calderaio, comunista e uomo incline all’ironia. Roberto ha appreso questa arte come i suoi fratelli più grandi, oggi «radiatoristi e meccanici alla Riforma», storico quartiere di Cosenza. Rame e stagno, eccoli i due metalli intrecciati in una lunga storia di fatica e passione. Roberto racconta l’apprendistato iniziato a 16 anni e le prime tappe. In giro per i paesi il padre e i fratelli preparavano un piccolo fuoco per fondere lo stagno in piazza. E lui richiamava l’attenzione «iettannu ‘u bannu», diffondendo la voce per le viuzze.
Roberto Farno (foto Alfonso Bombini)
Le mani del calderaio (foto Alfonso Bombini)
Nell’economia domestica, fino a qualche decennio fa, non poteva mancare una quota da destinare all’involucro interno di pentole e calderoni. Oggi è tutto cambiato. In cucina il rame è utilizzato dai grandi chef. Il calore si diffonde in maniera uniforme a tutto vantaggio di una buona cottura. I costi, però, sono elevati. Roberto Farno ci parla del listino prezzi dei calderoni: per 80 cm di diametro in rame si spendono fino a 600 euro, in acciaio 250 e in alluminio appena 60. Ci sarà una ragione se il prezzo varia così tanto. Qualche commessa arriva da proprietari di ville e da chi ama creazioni uniche. Poca cosa ormai.
Il museo del Rame
Un pezzo di storia di Dipignano e dei suoi calderai vive ancora nel Museo del rame e degli antichi mestieri. È un viaggio a ritroso tra utensili e strumenti della bottega artigiana, fatiche e vita grama, oggetti quotidiani e libri. Compresi quelli scritti da Franco Michele Greco che ha ricostruito il cammino di una comunità.
Il tempo dei calderai nel Museo del Rame e degli antichi mestieri a Dipignano (foto Alfonso Bombini)
Ammascante, la lingua dei calderai
I calderai erano un po’ alchimisti, custodivano gelosamente i segreti del mestiere. A tal punto da inventare una lingua, l’ammascante. Che significa, appunto: parlata mascherata. E i calderai erano mascheri, varvottari, erbari, mussi tinti. Tutti sinonimi.
Esiste pure un vocabolario grazie alle ricerche del glottologo John Trumper e della linguista Marta Maddalon, entrambi professori dell’Università della Calabria. Oltre 400 lemmi catalogati e spiegati con tutta la ricchezza di idee che solo due studiosi così attenti potevano restituire e donare alla memoria collettiva. Parole di questa lingua hanno contaminato il gergo dei calderai sardi a Isili. E altrove. Segno che gli artigiani di Dipignano hanno girato in lungo e in largo per l’Italia nei secoli passati.
Franco Araniti, poeta che scrive pure in Ammascanti (foto Alfonso Bombini)
Franco Araniti, poeta e scrittore di Gallico (Reggio Calabria), ha fatto tesoro di questo vocabolario. Arrivato a Dipignano per amore, non è più andato via. Uno “straniero” che scrive versi anche in ammascanti. Parole poi musicate dal Collettivo Dedalus in un album valso al gruppo musicale il secondo posto al prestigioso Premio Tenco.
Araniti, da attento osservatore, ha notato come questa lingua sia sopravvissuta pure nelle comunità dipignanesi in Canada. Dove, prima dell’avvento di Watt’s up, si scambiavano sms farciti di ammascanti. Un piccolo matrimonio tra nostalgia del paese natale e tecnologia. Manca solo una quadara sul fuoco. Magari a Montreal o Toronto qualcuno in giardino non rinuncia al suo pezzo di Calabria. Alla sua porzione di frittole.
Ancor più dell’agone calcistico è una bibita tutta calabrese a dividere le città di Cosenza e Catanzaro. Una bevanda semplice, che si ottiene aggiungendo caffè alla gassosa, determina una quasi fideistica adesione a due brand o “parrocchie”: la cosentina Moka Drink e la catanzarese Brasilena. Impossibile cercare di stabilire quale sia la più buona, ricercata o ancora la più datata. Ma un fatto è certo: in quanto ad “acque gassose” entrambe le città vantano, insieme a Reggio Calabria, una tradizione che affonda le proprie radici nella seconda metà dell’Ottocento.
Il derby delle bolle: “Brasillena” contro “Moka drink”
Derby calabrese: in principio era Reggio contro Cosenza
Nel 1879 erano soltanto tre le fabbriche calabresi che producevano “acque gassose”: due in provincia di Reggio Calabria e una a Cosenza, tutte classificate come produzioni “di minore importanza” e che davano lavoro a un manipolo di operai. Catanzaro non conosceva ancora una produzione locale di bollicine.
Il successivo ventennio fece registrare per le bibite frizzanti con proprietà toniche e rinfrescanti un discreto successo, preludio al boom dei decenni che verranno. Alla metà del Novecento la gassosa era diventata un must, l’alternativa innovativa ad acqua e vino. Con quest’ultimo la gassosa formava un’abbinata “vincente” che accontentava persone poco avvezze all’alcol o serviva a camuffare vinacci di terza o quarta scelta.
Questa tendenza ottocentesca ad “aggiustare” vini poco gradevoli era incoraggiata un po’ dovunque da pubblicazioni come la Rivista d’igiene e sanità pubblica del 1895. Qui apprendiamo che la produzione delle prime acque artificialmente gassate avvenne nel corso del Settecento, ma per molto tempo furono considerate un bene di lusso per l’alto costo.
Acquafrescaio a Napoli
Bollicine e progresso
Poi negli anni ‘30 dell’Ottocento nella Francia funestata dal colera si diffuse «la credenza che l’acqua di Seltz, ed in generale tutte le bevande gassose, giovassero assai contro il morbo asiatico» al punto che «si pensò a svilupparne grandemente l’industria». Il prezzo scese notevolmente e la produzione s’incrementò, anche per la convinzione che «le acque gassose devono essere considerate come bevanda di notevole importanza dal lato igienico».
L’aggiunta della gassosa al vino era addirittura incentivata: «Infatti un vino debole acquista così una certa sapidità per la quale il gusto è meglio soddisfatto». Ma soprattutto «si è osservato che i casi di ebbrezza sono tanto meno frequenti, quanto più si fa uso di acque gassose mescolate al vino» e per questo, come sosteneva il batteriologo Francesco Abba: «il crescere del consumo dell’acqua di Seltz è cagione ed indizio di progresso nella civilizzazione».
Il giro di affari cresce
A fine Ottocento le fabbriche di acque “gassose” o “gazose” iniziarono a diffondersi capillarmente anche in Calabria. Nel 1891 la provincia di Reggio contava sette fabbriche, nelle quali lavoravano sedici operai e che quell’anno avevano prodotto nel complesso 197,69 ettolitri di acque gassose. Quattro di queste erano attive a Reggio e impiegavano 10 operai. Le altre tre fabbriche sorgevano a Bagnara Calabra, Gioia Tauro e Palmi e vi lavoravano due operai ciascuna.
Le fabbriche nella provincia di Cosenza erano quattro: due a Rossano che davano lavoro a quattro operai, una a Cosenza con tre lavoratori e una a Castrovillari che contava un solo impiegato. Nel Catanzarese nel biennio 1890/1891 erano attivi quattro impianti per la produzione di acque gassose che impiegavano in tutto otto operai. Oltre alle due del capoluogo che davano lavoro a quattro operai, erano in funzione altre due fabbriche, una a Monteleone e un’altra a Nicastro che impiegavano due operai ciascuna. La produzione catanzarese complessiva si aggirò in quel biennio sui 123.87 ettolitri di bevande gassose.
Il giro di affari continuò a crescere nel giro di pochi anni anche se non è facile disporre di dati esaustivi considerato che la produzione di acque gassose era spesso affiancata nell’ambito della stessa fabbrica ad altri generi: dolciumi, spiriti, materie vinose e confetture.
Pubblicità di D’Atri da Indicatore postale-telegrafico del Regno d’Italia 1902-1903
Gassose d’antan
Nel 1902 a Castrovillari il proprietario del Gran Caffè Unione, un certo Alberto d’Atri, oltre a commerciare armi e altri articoli da caccia era noto come “Fabbricante di Acque Gassose”. Negli anni successivi gli elenchi dei produttori calabresi, spesso piccoli artigiani che inseguivano la fortuna nei settori più disparati, si fanno più fitti. A Castrovillari nel 1918 operava la “Società Riunite”, a Cosenza si dedicavano alla produzione di bollicine Agostino Deni e Giovanni Gallo, a Scigliano Luigi Virno.
A Catanzaro operavano Raffaello Camistrà, Giuseppe Castagna, Demetrio Quattrone e Luigi Turrà. Antonio Scerbo era titolare di un’industria a Marcellinara. Nel 1924 a Catanzaro operavano i fabbricanti di gassose Giuseppe Corace e Nicola Taranto, a Nicastro Vincenzo e Fedele Ferrise e Santo Riommi, a Cutro Ferdinando Mancuso, a Sambiase Rocco De Silvestro, a Soriano Pasquale Vari mentre a Limbadi Vincenzo Musumeci.
In provincia di Reggio nel 1918 era attiva l’industria di Spataro a Bova Marina, di Francesco Laganà a Motta San Giovanni, di Giovanni Belordi e Antonio Lazzaro a Sambatello, di Giuseppe Mittica a Sant’Ilario dell’Ionio, Matteo Laganà a Radicena, Mariano Ursino a Roccella, Domenico Spagnolo a Rosarno. A Gallina nella fabbrica di Pasquale D’Ascola si producevano insieme “Gassose e Birra” e lo stesso avveniva a Siderno negli impianti di Raffaele Pellegrino e Vincenzo Cremona.
Il dato significativo riguarda il 1924, anno in cui si registrò una produzione considerevole. Tra i beni soggetti a dazio, le acque gassose erano associate alle acque minerali da tavola e raggiungevano una produzione di 2.717 ettolitri in provincia di Cosenza, per un reddito generato di 22.515 lire, 2.810 ettolitri ed un reddito di circa 20mila lire in quella di Catanzaro, e 2.402 ettolitri con un reddito di circa 24mila lire in quella di Reggio Calabria.
Vuoti a rendere
Negli anni ‘50 del Novecento fabbriche e fabbrichette si moltiplicano, dai centri più grandi fino ai piccoli paesi. La gassosa si è ormai ritagliata un posto sulle tavole e nei bicchieri dei calabresi, con l’immancabile bottiglietta di vetro “vuoto a rendere”.
A Cosenza spopolavano le gassose di Gallo, di Bozzo, di Spadafora e di varie altre piccole fabbriche, in genere a conduzione familiare, che avevano sede in quella che era allora considerata la parte nuova della città.
Marchio di Fabbrica per le bibite di Annino Gallo a Cosenza depositato nel 1933
Prima della Seconda guerra mondiale, stando all’Annuario generale d’Italia e dell’Impero italiano, la fabbrica di acque gassate di Annino Gallo aveva sede in corso Umberto, quella di Antonio Spadafora in via Monte Santo, quella di Sante Filice in corso Mazzini e quella di Alfio Deni di Agostino in via Rivocati.
Alcuni marchi di gassose cosentine (foto L. Coscarella)
Nei decenni successivi molte si spostarono, altre aggiunsero nuovi prodotti al loro listino, qualcuna chiuse del tutto, qualche altra continua ancora la sua attività mutando col tempo forma e denominazione. Quella di Gallo è rimasta particolarmente impressa nei ricordi, anche perché il suo laboratorio, oltre alle semplici gassose, produceva anche bibite al limone, cedrate e, più in là, la mitica gassosa al caffè.
Il marchio di fabbrica, che non poteva che rappresentare un gallo stilizzato, venne depositato nel 1931 da Annino Gallo per una generica “Bibita Gallo” e comparve poi con nuove forme sui tappi e sul vetro delle mitiche bottigliette di gassosa. Più in là comparve anche la marca “3 galletti”, mentre tra la concorrenza si diffondeva anche la gassosa della fabbrica di Eugenio Bozzo. Qualunque fosse la marca, in cantina e in famiglia la gassosa divenne per alcuni decenni ospite fisso della tavola, sia in cantina, accompagnando i famosi tre quarti di vino, sia in famiglia, soprattutto nelle ricorrenze.
Le idee sono come germogli, ha detto qualcuno. Se poi partono dalle proprie radici e, infilate in un panino, fanno il giro, arrivano alla Capitale e cercano di oltrepassare i confini, allora sono destinate a durare. È la storia di Marco Zicca e del marchio Mi ‘Ndujo, partito da Cetraro alla conquista dei palati italiani ed europei.
Come inizia la tua storia?
«Sono nato a Cetraro. Non sono mai stato particolarmente brillante a scuola, quindi inizialmente mi sono messo a fare il pizzaiolo, poi, essendo già molto intraprendente, ho aperto un circolo per far giocare a carte e biliardino. L’altro passo è stato prendere in gestione con la mia famiglia un ristorante solo d’inverno, così nel frattempo la mattina andavo a scuola. A diciannove anni, la prima occasione concreta: il ristorante Miramare (oggi conosciuto come Frittura al metro). Non avevo nessuna esperienza, ma mi sono lanciato e dopo circa due anni le cose hanno cominciato a ingranare bene».
Sempre da solo?
«Con la mia famiglia. La tradizione calabrese di gestione familiare, che poi ha continuato ad accompagnarmi nelle mie scelte. Le difficoltà sono tante e senza la famiglia non si possono gestire».
In che anno hai cominciato a pensare di cambiare?
«Nel 2006 ho ricevuto la proposta di un amico, voleva aprire un piccolo locale all’interno del centro commerciale Metropolis di Rende, ma non poteva gestirlo personalmente. Ho pensato che fosse comunque importante mantenere un’alternativa al ristorante sul mare e così ho deciso di occuparmene io. Mia sorella mi ha dato una mano. Era Panino Genuino, l’antenato di Mi ‘Ndujo, nel 2007».
Il centro commerciale di Rende da dove è partita l’avventura di Mi ‘ Ndujo
Era già partita l’idea.
“Sì, contemporaneamente ho aperto in Polonia, tramite un ragazzo che aveva lavorato da me a Cetraro. Ma lì non ha funzionato, perché il centro commerciale del luogo aveva già problemi economici. Quindi ho provato anche a Bergamo, ma lì i ragazzi che lo gestivano hanno fatto troppi errori. Così mi sono riempito di debiti e ho dovuto ricalcolare tutto. È stato un periodo complicato».
Come ne sei uscito?
«Ho capito che mi mancavano le basi, allora sono andato a studiare per un anno in una scuola di formazione a Bologna, con la mia Fiat Multipla scassata, avevo sempre paura di restare per strada. Mi serviva capire come funzionassero il marketing, le competenze gestionali, conoscere le strategie imprenditoriali e la gestione del personale. Ho capito gli errori che avevo fatto».
E hai ripreso il cammino da Cosenza…
«Sì, abbiamo cominciato a lavorare bene, con una scelta molto attenta a tutti i prodotti del territorio, dalle carni al caciocavallo e alle patate silane, fino alla farina biologica. Le polpette di melanzane le produce un laboratorio di Crotone, quelle di sopressata il Salumificio Menotti secondo la ricetta di mamma Tonia. Grazie all’incontro con Coldiretti, si è sviluppata una collaborazione con tutti i produttori locali che si sono occupati del rifornimento. Niente roba congelata, solo fresca. Persino le bibite, come il chinotto».
Patate della Sila e polpette di melanzane: due cibi tipici calabresi che la catena propone ai suoi clienti oltre ai panini
Quando è arrivata la svolta per Mi ‘ndujo?
«Con Roberto Bonofiglio. Ci siamo conosciuti perché volevamo investire in bitcoin. Io non ne capivo niente, ma mi ha convinto. Poi parlando gli ho proposto di investire nella ristorazione e ha accettato volentieri. Lui inizialmente voleva provare nel Nord Europa, ma abbiamo ricominciato dal “piccolo”. Aprendo un punto Mi ‘Ndujo a Cosenza, su corso Mazzini, le cose sono andate subito molto bene. Da lì tutto è cresciuto molto velocemente e in poco tempo abbiamo aperto a Quattromiglia, a due passi dall’uscita dell’autostrada. In banca pensavano che fosse un azzardo, quindi ci abbiamo messo soldi nostri. Invece ha funzionato ancora».
Nel frattempo quante persone avevi impiegato?
«Già erano una quarantina. Poi ne abbiamo preso altri per gli uffici e quelli del Miramare per l’estate. Ma volevo provare altri territori. Ho pensato prima a Reggio, poi a Catanzaro. Alla fine ho deciso per Roma, che sicuramente, con qualche ora di macchina in più poteva offrire più prospettive di sviluppo. Pensavo ai quattro McDonald’s qui e mi chiedevo: ma perché non posso provare a fare la stessa cosa nella Capitale?».
Il progetto di Marco Zicca conquista anche le pagine di Vanity Fair
E quindi a Roma com’è andata?
«Sono andato in avanscoperta. Il primo punto vendita lo abbiamo aperto al centro commerciale Aura, nel quartiere Aurelio. Tante difficoltà anche lì, una cosa è viverla da turisti, una cosa è lavorarci. Era la fine del 2019. Poco dopo è arrivato il Covid e abbiamo dovuto ricominciare tutto, sfidando la paura e cercando di restare in piedi, attivandoci subito con le piattaforme di delivery e facendo riunioni online per studiare ogni giorno strategie nuove di sopravvivenza».
Come siete usciti dalla pandemia?
«Piano piano, ogni piccola consegna che riuscivamo a fare era una conquista. È stato un momento di grande disperazione, ma ci siamo intestarditi, da veri calabresi. Cinque soci più due ragazzi che lavoravano con me. Una volta finita la tempesta, oggi possiamo dire di essere rimasti in piedi».
E oggi quanti Mi ‘Ndujo ci sono a Roma?
«Ne abbiamosei, oltre a quello all’Aurelio oggi ne ho uno in centro, Ponte Milvio, poi al rione Monti, un altro sulla Tuscolana, uno nel centro commerciale Euroma2 e uno in zona Piazza Bologna (storica zona di immigrati calabresi nella Capitale). La Banca Centro Calabria ha creduto in noi, ci hanno fatto un finanziamento importante per aprire nuovi locali. In Calabria sono rimasti tre locali».
L’interno di uno dei locali aperti da Zicca
Pensi di aprire altri punti Mi ‘Ndujo nella regione?
«Sì, ho ancora l’idea di aprire anche a Reggio, sul lungomare e a Catanzaro Lido. Poi Milano, Bologna e Puglia. L’idea adesso è quella di aprire un po’ in tutta Italia. E magari riprovarci all’estero. Oggi siamo circa 120 persone».
Siete anche molto attivi sui social…
«Eugenio Romano, il nostro direttore marketing, si occupa di questo aspetto e poi mia sorella Teresa fa i video, intervistando anche i ragazzi che lavorano per noi. Noi teniamo tanto alla formazione interna continua. Ogni punto vendita ha i suoi corsi settimanali e mensili, vogliamo che tutti si mettano in gioco e crescano insieme».
Hai mai pensato alle fiere per Mi ‘ndujo?
«Al momento non la vedo come una cosa fatta per noi».
Secondo te, dei nostri sapori cosa piace di più ai “non calabresi”?
«La ‘nduja, la salsiccia ma anche cose meno famose come il caciocavallo silano, o i cuddrurìaddri. Ne abbiamo venduto 200 a locale, sono stati un successo, la gente non li conosceva. Poi, in futuro, vorrei introdurre la liquirizia Amarelli, il bergamotto o la rosamarina, anche se il pesce va lavorato in un modo diverso e con quantità e tempi di deterioramento differenti».
Anche Telesio sul web si unisce al rito dei cuddrurìeddri
Eppure ci sono almeno tre posti di Cosenza (li sveleremo alla fine così siete obbligati a leggere fino in fondo) in cui il nostro fritto tipico fa durare le vigilie non un mese (7, 24 e 31 dicembre, ben più raramente il 5 gennaio) ma dodici mesi, o quasi.
Forse non tutti sanno che anche da febbraio a novembre, in un giorno della settimana fissato solitamente nel venerdì – momento votato al pesce o comunque negato alla carne, di qui forse lo scivolamento semantico alle ricette di mare natalizie e di lì a tutto il resto, fritti compresi – su fogli di carta ‘nzivàti vengono annunciati in vetrina, spesso in incerto lettering tracciato rigorosamente a pennarello, banchetti e pentoloni d’olio che vanno in ferie solo quando il caldo si fa insopportabile anche per i forzati dell’unto e della frissùra.
La stessa cosa accade con le frìttule e gli scarafùagli, in poche e selezionatissime macellerie tipo Pilerio – nomen omen – su via Nicola Serra, zona Loreto, una di quelle botteghe dove al posto dell’insegna c’è una minuscola targhetta di latta con la licenza risalente agli anni ‘50/60. Ma non divaghiamo ché la faccenda è seria.
Il mistero della vecchiaréddra
A Cosenza esiste una vecchietta natalizia più iconica della Befana. Sarebbe stato bello, infatti, se il senso di questo articolo fosse stato “Alla ricerca della vecchiaréddra perduta”: o meglio, bisognerebbe risalire alla sua escalation – da circoscrivere al massimo all’ultimo ventennio – e soprattutto alla ricetta originale.
In assenza di fonti, nel range bibliografico che va da La cucina calabrese in 300 ricette tradizionali di Ottavio Cavalcanti (Newton&Compton, 2003) al formidabile e forse sottovalutato Calabria in cucina di Valentina Oliveri (Sime Books, 2014), abbiamo trovato una flebile traccia della dicotomia forma circolare vs. forma allungata soltanto in un remoto volumetto sulle grandi cucine regionali edito dal Corriere della Sera nel 2006.
Crispeddi appena fritte
Ebbene, in un glossario in appendice, alla voce Crispeddi ecco, pur senza menzione della versione con G iniziale, una distinzione di massima: «Due le versioni di questa preparazione: una salata, fatta con pasta da pane lavorata con strutto fino a ottenere panini allungati, farciti con acciuga dissalata e origano, quindi fritti; e una dolce, preparata con ricotta zuccherata e, una volta fritta, servita cosparsa di zucchero».
Niente di più sulla versione circolare e salata né, soprattutto, sulla genderizzazione – come direbbe Michela Murgia – e sulla connotazione anagrafica imposte a Cosenza alla versione salata e allungata con acciuga. Insomma, per ora la genesi anche etimologica della vecchiaréddra resta avvolta nel mistero, oltre che nell’alone di frittura.
Acciughe in una vecchiaréddra
Qualcosa di erotico
Senza avventurarci nella infinita e periodica disputa sulla corretta grafia/dizione del termine maschile (doppia D o doppia L? Serve qualche H?), ma non dopo aver preso posizione optando per la forma basic, diciamo anzitutto che la pronuncia è quella dell’inglese children.
Poi chiariamo una cosa: il cuddrurìaddru – prima ancora della variante vecchiaréddra che è comunque successiva, in virtù di un imprinting tipicamente patriarcale vigente nel mondo bruzio – non è da considerarsi una “devozione” nell’accezione partenopea o comunque meridionale del termine; laddove per “devozione” lì s’intende una tipicità del Natale, ciò che al contrario risulta impossibile nella città blasfema e sboccata dove «rompere la devozione» significa tutto tranne che «rompere una ricetta tradizionale natalizia» (sulla “divozione” nel senso di organo riproduttivo maschile manca un solido corredo filologico, persino nel fondamentale dizionario di Gerhard Rohlfs, il quale su cuddrurìaddru spiegò invece il legame con il greco kollùra = ciambella, nelle varie forme dialettali calabresi che abbracciano diversi cibi a forma circolare, dal pane ai biscotti ai fichi alle focacce e persino ad anelli vegetali o di vimini).
A Cosenza Vecchia si venerano i cuddrurìaddri
Piuttosto, antropologi del cibo dovrebbero chiarire il capovolgimento concettuale nonché formale in base al quale la versione maschile della ricetta (cuddrurìaddru, di qui in poi solo C, per una questione di comodità) abbia forma circolare mentre quella femminile (vecchiaréddra, V) sia allungata: una specie di teoria lgbtqi+ adattata alla gastronomia, notata anche quando si parla di fico, frutto-non-frutto e per di più transgender (noi dicendo «ficu» bypassiamo eventuali dibattiti colti su fica, fic* o addirittura ficə).
E dunque ritorniamo alla disfida della frissùra, che ne contiene altre minori al suo interno, a partire dall’olio da usare: proviamo a fare un po’ di chiarenza (cit.).
Olio, ingredienti, ripieni
Essendo la cucina e in generale “il mangiare” qualcosa di sacro alle nostre latitudini (un infinito per definire al contrario quanto di più concreto esista, per un cosentino: «Hai portato il mangiare?»), tutto ciò che è contenuto in questo perimetro diventa oltremodo serio, appena un gradino sotto il Cosenza ma uno sopra tutto il resto (donne, famiglia, soldi etc.).
Capitolo olio: l’attualità di questo strano 2022 ci fa impattare purtroppo su prezzi altissimi per gli oli di semi (girasole, arachidi, misti), un tempo considerati “poveri” e oggi con prezzi da Brunello di Montalcino. E allora, con un colpo di reni autarchico-sovranista possiamo optare anche per un extravergine (evo) locale, come giustamente suggerisce Dino Briglio Nigro, vigneron dalla barba marxista famoso per le sue magnum, non nel senso di armi ma di bottiglie di vino: «Olio d’oliva, sempre, almeno a Cleto dove il più povero ha 50 ulivi». Dunque, chi può lo faccia, magari mettendo da parte gli onanismi cerebrali sul celeberrimo e temutissimo “punto di fumo”.
Altro argomento su cui non esistono disciplinari o ricette depositate – se non nelle agende delle cuciniere cosentine, patrimonio (im)materiale Unesco – è il giusto dosaggio di patate, farina/e, lievito, nonché sui ripieni delle V, e quindi alici, ‘nduja o sardella con relative varianti da bancone dai nomi improponibili tipo “pesciolini piccanti”; ci avventureremmo in un campo più minato della carbonara o dello spritz perfetti. Una cosa è certa: meno patate significa spesa più bassa dunque meno materia prima e più farina insomma qualità più scarsa.
A proposito, le patate: ancora ieri un fruttivendolo (zona Sopraelevata) consigliava con sicumera quelle a pasta gialla di Parenti, sfuse, rispetto a più anonimi ed economici sacchetti. Naturalmente la Ipg silana, forte anche del battage pubblicitario nazionale e della massiccia presenza nella grande distribuzione, la fa da padrona.
Su una cosa si può essere invece d’accordo: in fatto di accompagnamento musicale a tema ci sentiamo di consigliare la bossanova di Enrico Granafei, un must che per i cosentini social è paragonabile soltanto al video virale e poeticissimo “pàranu piume” quando si deve commentare l’arrivo della prima neve, magari con tanto di hastag #jarammalidìtta.
Ma ora è il momento di allargare la visuale, fare un passo indietro e alzare un altro po’ la musica, e soprattutto la fiamma.
Cuddrurìaddri per Carlo V
Il panzerotto è il generico del C come la brioscia con la palla lo è del maritozzo. Non solo: visto che il fritto è qualcosa di ancestrale, a Cosenza il tempio del freet (perché non chiamare con questa crasi lo street food fritto? mah) per eccellenza si trova alla confluenza tra Cratie Busento: luogo germinale della città. In principio fu la friggitoria Sasà, tra l’altro uno dei pochi luoghi o forse l’unico dove potete trovare le birre artigianali sanlucidane Gio Bi, si trova nel punto esatto da cui Federico II passò 800 anni fa imboccando il futuro corso Telesio per andare a inaugurare il Duomo, la porta dell’entrata solenne, tre secoli dopo, di Carlo V al quale magari fu offerto un embrionale C (la V ancora non esisteva…) in segno di ospitalità.
Il Duomo di Cosenza
Poco lontano, su via Sertorio Quattromani, le narici di un piccolo Stefano Rodotà venivano sopraffatte dalle invadenze olfattive di una arcaica friggitoria sotto il livello della strada, dove anni dopo avrà sede Reda, meta prediletta dei panzerotti-addicted di tutte le età soprattutto a cavallo tra gli ’80 e i ‘90.
Sì, perché i cosentini raramente rinunciano allo spracchio (sottocategoria culinaria del chiurito) del panzerotto: sostituisce in un certo senso la michetta al prosciutto del centro-nord Italia ma anche il morzeddu (letteralmente piccolo boccone) dei catanzaresi, i quali ci scusino anche loro per la forma scelta, con S e senza H.
Una short list minima (10 posti)
Si può alimentare questa dipendenza tutto l’anno in altri luoghi simbolo di Cosenza come La Rotonda sul sagrato di piazza Loreto, mentre simili stand in legno vengono montati nel periodo pre-natalizio come emanazione di pizzerie o bar aperti tutto l’anno (vedi Totò pizza su viale Mancini in zona carcere), U paisanu (via XXIV Maggio) in questi giorni parcheggia un’Ape Piaggio dovutamente carenata in versione friggitrice mobile ma in realtà immobile, e con la fila. Poi meritano una menzione la pasticceria Orrico su viale Cosmai (solo su prenotazione, e quest’anno anche con C e V “sospesi” per l’associazione di volontariato Home odv), l’Arte del pane (via Monte San Michele), il Bronx (via Caloprese – piazza Loreto), Pasti e impasti (ex Pizzami, piazza Europa), Comalpi (via Panebianco).
Covid o non covid, a Cosenza si frigge in uno dei chioschi aperti per le festività natalizie (foto Alfonso Bombini)
Infine tra gli eventi interessanti in ambiente mixology si segnala, sabato 10 dicembre dalle 18,30 alle 22, un aperitivo a base di C e V con i distillati dell’Opificio artigianale degli spiriti(via Rivocati) e le creazioni artistiche di Toni Annunziata (La Sal De Color); l’8, il 24 e il 31 dicembre tornano al Gizmo di via Quasimodo a Rende gli Spritzurìaddri (gradita la prenotazione).
L’adesivo che omaggia i cuddrurìaddri apparso in questi giorni sui muri della città
Fuori da questa lista, che poteva arrivare tranquillamente a 100, sia chiaro, restano fuori decine di locali e soprattutto uno che il “freet food” ce l’ha nell’insegna: se Siamo Fritti (via Roma) non sforna né C né V lo fa per una scelta di campo, quasi filologica, una citazione uguale e contraria che rende un tributo al compianto Tonino Napoli: al tempo del Pantagruel di Rende, proponeva anzi imponeva ai clienti i turdiddri come dolce fuori dal periodo canonico. «Perché dobbiamo mangiarli solo a Natale?». Un concetto espresso bene in un adesivo che da qualche giorno inizia a occhieggiare sui muri della città: “Cuddruriaddru everywhere”.
Tonino Napoli
Dove trovarlə sempre
Il bar 667 (via Nicola Serra lato piazza Zumbini) è stato tra i primi a sfruttare l’onda lunga, e oleosa, della frittura natalizia sdoganandola presso i fautori del C o della V senza legacci festivi comandati. Alla vecchia scuola appartiene anche il Bar del Moschettiere, mitologico locale in zona autostazione dove potete trovare una delle ultime zuccheriere con doppio cucchiaino e coperchio automatico rimaste in città, o forse in Calabria o Italia (in Europa sarà già intervenuta l’Ue).
Altro luogo dove si pratica il “freet” è all’inizio di via degli Stadi (angolo Città 2000 / San Vito alto) al minimarket Gran Risparmio, uno di quei posti che mantengono il fascino vintage nonostante il recente cappello della Gdo, in questo caso Carrefour Express. Queste segnalazioni risalgono al periodo pre-Covid quindi forse hanno subìto un rallentamento nell’ultimo triennio, ma basta attendere il passaggio della Befana per verificare il primo venerdì possibile se la tradizione continua. Speriamo di sì.
Vecchiaréddre worldwide
Infine, tornando a cosa bere, per fare i toghi potremmo consigliare un pairing con una bollicina (ormai non ne mancano di ottime anche calabresi) che notoriamente «sgrassa», invece optiamo per una birra artigianale o un vino casarùlo mediamente forte e capace di creare un tappeto alcolemico adeguato per i volumi dicembrini, quando un hang-over lungo un mese (7 dicembre / 7 gennaio, quando il mantra al bar torna a essere “Uvucafé?”) vi renderà all’altezza di una sfida con quelle nonnette di Dublino che nel tardo pomeriggio al pub alternano i bicchierini di whisky con le pinte di Guinness. Ma quelle, benché altrettanto meritevoli di rispetto, ci mancherebbe, appartengono a un altro genere di Vecchiareddre.
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