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  • Guida Michelin 2026, cinque ristoranti in Calabria con le stelle

    Guida Michelin 2026, cinque ristoranti in Calabria con le stelle

    La Calabria presente con cinque ristoranti nella Guida Michelin 2026, lo scorso anno erano sette. Le conferme: Abruzzino Oltre (Lamezia), Gambero Rosso (Marina di Gioiosa Ionica), Hyle (San Giovanni in Fiore), Qafiz (Santa Cristina d’Aspromonte), Dattilo (Strongoli). Escono dalla Guida: Abruzzino (Catanzaro) e Luigi Lepore (Lamezia).

  • GENTE IN ASPROMONTE | Da… Zero a l’Espresso, nonostante la Regione

    GENTE IN ASPROMONTE | Da… Zero a l’Espresso, nonostante la Regione

    Nel cuore della Piana di Gioia Tauro, ai piedi del versante più tropicale dell’Aspromonte, c’è un manipolo di quattro coraggiosi che, qualche anno fa, ha deciso di tornare sui passi della propria diaspora e rientrare.
    Siamo a Taurianova, terra di agricoltura e antico insediamento dei Taureani, un tempo popolato dai Calcidiesi di Zancle e dai Bruzi della Colonia Tauriana, prima di soccombere a una delle più feroci incursioni saracene. Quella del X secolo d.C.
    Per arrivarvi da Gioia bisogna passare tra distese di ulivi e agrumeti, rotonde, centri commerciali e sfacciati esempi della più bieca speculazione edilizia. Ogni volta che mi ci dirigo, mi pare di varcare un confine impalpabile oltre il quale si apre una terra avulsa, soggetta a proprie regole non scritte, che parla un dialetto diverso dal mio.
    Da una parte il mare, col suo grande porto, dall’altra la montagna, con i suoi muraglioni verdi.

    A volte ritornano

    Federica Ferrazzo, Martino e Andrea Latella, Rocco Buonanno sono i proprietari di Osteria Zero e, assieme a Pasquale Polifroni, anche i ritornati di questa puntata.
    «Siamo uno degli ormai tanti esempi di ritornati. Facciamo parte di quel gruppo di persone che ha deciso di rientrare con la speranza di potercela fare. Come molti, abbiamo alle spalle un passato di emigrazione. Siamo stati fuori, ci siamo formati, abbiamo costruito il nostro bagaglio culturale, fatto di competenze e sudore. Abbiamo lavorato. Ma non volevamo vivere fuori dalla nostra terra. Il nostro obiettivo era lavorare bene e farlo a casa nostra. Il progetto Osteria Zero (Osteria Zero – Taurianova) è nato così», attacca Martino con un gran sorriso e tanta voglia di raccontare.

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    Un’anteprima della Guida Espresso Ristoranti d’Italia 2024

    Insieme a sua moglie Federica, suo fratello Andrea e l’amico Rocco hanno messo in piedi un progetto di ristorazione che lo scorso novembre a Milano è stato premiato con l’inserimento nella Guida de l’Espresso ai migliori 1000 ristoranti d’Italia 2024. «Un po’ come essere a Sanremo giovani», scherza Martino.
    Ma andiamo con ordine. Torniamo al 2016. Federica, Rocco e Martino, anni nella ristorazione come dipendenti, fanno il salto indietro. Andrea, un passato in Francia come sommelier, imbocca la stessa strada. «Fino ad allora avevamo sempre lavorato per altri, pensando di poter arrivare ad ottenere soddisfazioni che in realtà non sono mai arrivate. Noi, però, avevamo un sogno», spiega Martino.

    Il progetto Osteria Zero

    «Osteria Zero nasce dalla volontà di rientrare in Calabria e proporre la nostra idea di ristorazione. Molti pensano che il nome del ristorante sia ispirato alla filosofia del “km 0”. Invece no. Il punto è che abbiamo deciso di ripartire da capo. Da zero. Con un nuovo percorso, un nuovo modo di guardare a noi stessi e alla Calabria. Un nuovo assetto mentale. Volevamo far capire alle persone che anche qui in Calabria è possibile fare impresa. Ci vuole coraggio e determinazione perché è una terra da cui parti svantaggiato. Ma, se ci credi, pian piano le difficoltà si possono superare e si può lavorare anche bene. Alla fine i calabresi apprezzano quando rientri e cerchi di fare qualcosa per la comunità e i suoi territori», mi dicono.

    La luce di mezzogiorno entra obliqua dalle grandi finestre del locale. Di fronte alla telecamera accesa, i ragazzi iniziano a raccontare una storia di passione. I loro sguardi trasudano orgoglio, devozione e fiducia.
    «Offriamo una cucina fondata sulla stagionalità dei prodotti della nostra terra. È una cucina semplice dove all’ingrediente buono del piccolo produttore applichiamo le tecniche che abbiamo appreso in giro, nei vari ristoranti dove abbiamo lavorato. Cerchiamo di rappresentare al meglio i produttori e di valorizzare ingredienti e materie prime. Col tempo, abbiamo dimostrato che si può mangiare in un determinato modo senza dover spendere una fortuna», spiega Rocco che, assieme a Martino, è il secondo cuoco dell’osteria.

    La rete di piccoli produttori

    «Il fulcro della nostra attività si basa sul rapporto diretto con i produttori. Il territorio offre prodotti straordinari, spesso poco conosciuti, che affondano le radici in una cultura contadina millenaria», continua Rocco.
    Rocco, Martino e gli altri intrecciano fili, tracciano percorsi, riannodano sentieri che dalla montagna arrivano in pianura. Le loro vie del gusto partono dall’Aspromonte. «Per noi l’Aspromonte è una miniera di risorse: piante selvatiche, erbe aromatiche, grano, legumi, ortaggi cui attingiamo in abbondanza e proponiamo a una clientela disabituata a determinati sapori ed assuefatta a una certa massificazione culinaria. Noi puntiamo sui piccoli produttori: con loro collaboriamo e studiamo nuovi abbinamenti. Prendi il cavolo rosso locale. Dall’esigenza di smaltirne un grande esubero è nata l’idea di un gelato alla senape di accompagno. O il fagiolo di Canolo che andiamo ad acquistare direttamente in montagna. O il grano jermano. Abbinamenti moderni, a volte spericolati che però ci hanno premiato».

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    Andrea Latella, sommelier di Osteria Zero

    In effetti, insieme a Osteria Zero è venuta emergendo una rete di produttori che parte da Zomaro, passa da Cittanova, dove esiste ancora un punto di macinatura a pietra, e arriva a Taurianova. Passando, come vedremo tra poco, anche dalla Locride.
    «I fornitori che operano in montagna fanno un grande lavoro. Siamo ancora troppo pochi quelli che sanno di avere a disposizione una grande risorsa come l’Aspromonte che è valorizzata poco, forse al 10%, e che spesso è vissuta solo come spazio ricreativo temporaneo per le gite della Pasquetta o della domenica. La verità è che chi sta lassù, produce e crea impresa è un eroe. Come Antonello Stilo che a Canolo, dal nulla, ha creato una grande realtà in cui si lavorano i grani antichi, il latte, i formaggi, i salumi, tra cui spicca il conosciutissimo prosciutto di San Canolo. E come Antonello tanti altri che ci credono», aggiunge Martino.

    Fiducia e divulgazione, per una nuova cultura culinaria

    «Diamo loro una fiducia che ci viene pienamente restituita. Chi vede passione e impegno, ripaga in termini di adesione, affiancamento e supporto. Credo che sia il valore aggiunto e la diversità di fare impresa in Calabria, qualcosa che non sempre si può riscontrare quando gestisci un’attività altrove. Ci si aiuta. Questo è il bello. Qui da noi ci si aiuta», continua Rocco.
    Le sue parole hanno un’eco antica. Riportano a un meridionalismo dove il mutuo soccorso incarnava la prima strategia di sopravvivenza: “i vicini devono fare come le tegole del tetto, a darsi l’acqua l’un l’altro”.

    «Se noi ce la facciamo, vincono anche i piccoli produttori con cui lavoriamo. Questo è il senso del nostro impegno per il territorio». Che non si misura solo in termini di crescita economica, ma anche di divulgazione di un nuova cultura culinaria capace di coniugare tradizione e modernità. «A chi viene in osteria e vede un ingrediente insolito proviamo a raccontare cosa è, da dove viene, che uso se ne può fare, qual è la sua storia e che percorso ha compiuto per arrivare nel piatto. La cultura e la storia del nostro territorio passano anche da qui. E questo e il modo a noi più consono di svelarlo».

    Le peripezie di Osteria Zero con la Regione Calabria

    Il percorso, però, non è stato semplice. A raccontarmelo è Federica: «Non avevamo un capitale a disposizione da investire per tirare su l’impresa, per cui ci siamo rivolti alla Regione Calabria. Abbiamo presentato il progetto e avuto accesso ai finanziamenti. Abbiamo firmato all’inizio del 2017. A distanza di quattro anni siamo stati costretti a chiudere i nostri rapporti con la Regione per chiedere il mutuo in banca con cui siamo riusciti a partire».
    Domando maggiori dettagli. «Il fatto è che dal 2017 i soldi ci sono arrivati nel 2021, subito dopo la pandemia. Con tutte le difficoltà del caso. Ci risultava impossibile spendere i fondi secondo le regole e i tempi dettati dal progetto», chiarisce Federica. «Per evitare grane successive, abbiamo dovuto rinunciare e restituire la cifra con tanto di mora», rincara Martino.

    «Nonostante avessimo effettuato tutte le operazioni di chiusura, restituendo quanto ci era stato dato, ci è mancato poco che la vicenda finisse sul penale. Questo perché alla Regione nessuno aveva mai letto la pec con cui comunicavamo l’avvenuta e comprovata restituzione dei fondi. Ad oggi, dopo il calvario vissuto, non riteniamo Regione Calabria un interlocutore credibile e affidabile. Abbiamo constatato che, al di là di tante belle parole, il supporto e l’affiancamento ai piccoli imprenditori che la Regione dovrebbe fornire è una chimera. Purtroppo la realtà è questa», conclude Federica. Cui fa eco Martino: «Un po’ ti scoraggi. Perché un ente che dovrebbe darti una mano alla fine ti crea soltanto problemi».

    Come facevano gli antichi

    Eppure, a dispetto dei molti ostacoli sulla strada, questa trama di relazioni, merci e persone che attraversa e oltrepassa picchi e vallate, si allarga dal Tirreno allo Jonio. Dalla piana di Gioia scavalco la montagna e giungo sul versante jonico, località Ciminà, già famosa per il suo caciocavallo dop. Mi aspetta Pasquale Polifroni, patron di Aspromonte Vini (Aspromonte Vini – Vini artigianali biologici di Calabria), una delle cantine di vini naturali sponsorizzate da Osteria Zero di cui mi aveva molto parlato Andrea Latella, sottolineandone la qualità, i metodi di produzione e quelli di conservazione.

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    Pasquale Polifroni

    Arrivo in località Vignali, un toponimo legato all’antico passato vitivinicolo. «Anche io sono un ritornato. Dopo gli studi a Perugia, mi sono trasferito con un buon contratto di lavoro a Milano nel campo della concessioni pubblicitarie per i media. Ho condotto quella vita per qualche anno fino a rendermi conto che non la trovavo più soddisfacente. Mi sono licenziato e, con la buona uscita, mi sono preso un anno sabbatico alla fine del quale, dopo una serie di vicissitudini, ho deciso di rientrare. La mia attività di agricoltore è cominciata con i frutti di bosco: lamponi, more e i mirtilli, che ancora produco».
    Il dettaglio che dai racconti dei ragazzi di Osteria Zero mi aveva colpito di Polifroni era l’utilizzo degli orci di creta per la conservazione dei suoi vini. Mentre ci rechiamo verso la vigna, Pasquale si ferma. «Devo mostrarti qualcosa». Lo seguo fino ad arrivare a quella che, immersa nel verde fitto dei campi, sembra un’antica vasca. «Per l’esattezza si tratta di un palmento romano di 2000 anni fa. Il manufatto è composto di due vasche di roccia arenaria costruite su livelli sfalsati e collegate da un piccolo scolo. La prima serviva da pigiatoio e filtro e riversava nell’altra il succo della spremitura che veniva raccolto in vasi di coccio e trasportato a maturare».Dirigendoci verso la viti, attraversiamo la fiumara dei Gelsi Bianchi sulle cui rive insisteva una fiorente produzione di gelso.

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    Palmento romano a Ciminà

    I vitigni autoctoni

    «L’amore per il vino l’ho sempre avuto. Ho cominciato a bere vini naturali – che oggi è la mia nicchia di mercato – e poi ho deciso di impiantare la mia prima vigna: 200 piante per provare a produrre 150 litri di vino. Fosse andata male, avrei registrato una perdita minima. Invece venne fuori un buon prodotto. La mia passione cresceva e mi incamminai su un percorso fatto di visite a fiere, studi dedicati, una formazione da sommelier».
    Pasquale oggi è componente della prestigiosa associazione Vi.Te. che anche nel 2023 ha rappresentato il mondo dei vini naturali al Vinitaly. Mi racconta che è partito tutto così: «Ho iniziato a impiantare 3 ettari di vigna. Solo vitigni autoctoni calabresi: magliocco, mantonico e greco nero. Vitigni millenari, come il mantonico, che esiste da 2.500 anni, è stato importato dai greci ed è uno dei padri della viticultura italiana. Chi ne mastica un po’ sa che il mantonico è il papà del gaglioppo e del nerello mascarese. C’è stato tanto lavoro. I contributi pubblici mi hanno aiutato: i fondi del Programma di Sviluppo Rurale 2014/2020 della Regione sono serviti a impiantare la coltivazione di vite sul terreno che vedi, completamente vergine e fino ad allora adibito a pascolo, e a ristrutturare i locali della cantina».

    La vigna di Aspromonte Vini
    La vigna di Aspromonte Vini

    Dalla Calabria a Milano, ancora una volta

    Sul crinale della montagna, completamente in pendenza, si apre di fronte a noi una distesa di viti non trattate con un’ottima esposizione al sole e alle correnti d’aria che trasportano fin qui la brezza marina. E senza potersi ispirare ad altri né una tradizione familiare alle spalle. Nella zona, ad oggi, Pasquale resta l’unico produttore.
    «Ho chiesto qualche consulenza e ho iniziato una piccola produzione naturale che contempla il solo utilizzo di prodotti biologici: zero pesticidi, disserbanti e prodotti di sintesi, ma solo l’uso di componenti naturali, come lo zolfo e un uso moderato di solforosa. Alla fine ho mandato i vini a Milano a un buyer ebreo che, dopo qualche settimana, ha preso l’aereo e mi ha raggiunto tre giorni. Quando è ripartito, avevamo già chiuso un contratto di distribuzione in tutta Italia».

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    Le anfora di terracotta dove matura il vino

    Da allora le cose sono andate in crescendo. «Oggi produco e poi faccio maturare nelle giare di terracotta, un po’ come si faceva nell’antichità. Come il legno, la creta consente una particolare micro-ossigenazione, ma a differenza del legno e come l’acciaio, non cede nulla, lasciando il vino in purezza. La creta però non fa trasformare l’aceto in vino. La differenza la fanno la qualità delle uve, l’esposizione e la posizione delle coltivazioni, il metodo per tirare su le viti e i procedimenti in cantina. Lavoriamo attraverso fermentazioni spontanee con lieviti indigeni. Il vino ottenuto non viene chiarificato né filtrato e i sedimenti che si possono trovare in bottiglia lo proteggono, conservandone le proprietà organolettiche».
    E che non sia stato facile posso solo immaginarlo. «Il comparto enologico è estremamente concorrenziale e l’Italia è uno dei maggiori produttori ed esportatori mondali. Ho avuto dalla mia la passione, l’amore, la cocciutaggine. E un pizzico di fortuna», chiosa Pasquale.

    Fare impresa in Calabria

    Le storie dell’Osteria Zero di Martino, Rocco, Federica, Antonello o quella di Pasquale sono la testimonianza di come sia possibile fare impresa in Calabria dove, se la fatica è maggiore, le soddisfazioni dei traguardi sono più grandi. A difficoltà oggettive rispetto ad altre regioni italiane – pastoie burocratiche, carenze logistiche, scarsi servizi – imprenditori come loro rispondono con il mutuo soccorso, il coraggio, la determinazione dei sogni. Tra approcci diversi e fortune alterne dove si ha l’impressione che la Regione sia ora madre, ora matrigna.

    Se a questi elementi si affiancassero politiche attive di formazione alla cultura di impresa, di incubazione e accompagnamento, di promozione e valorizzazione delle filiere, attente alla geografia e alle relazioni tra territori, l’energia sprigionata e i risultati che ne deriverebbero potrebbero contribuire sostanzialmente a mutare il volto di una terra dalle grandi risorse.

  • Manfredi Bosco, un cosentino sul tetto d’El Mundo

    Manfredi Bosco, un cosentino sul tetto d’El Mundo

    Manfredi Bosco è uno dei migliori cuochi – «Chef è solo un’etichetta gerarchica in cucina, se mi chiedono cosa faccio nella vita rispondo: il cuoco», ci tiene a precisare – di Madrid. A sostenerlo non è una voce qualsiasi, ma El Mundo, uno dei giornali più importanti di Spagna. Qualche settimana fa, nella sezione gastronomia, ha dedicato a questo cosentino, da qualche anno presidente dell’Associazione cuochi Italiani in Spagna – un lungo articolo. Il calabrese che voleva fare il diplomatico ed è finito a guidare uno dei ristoranti italiani – si chiama Pante – più interessanti della capitale iberica, lo ha definito Luis Blanco. Un traguardo niente male per uno che ha iniziato per caso a pensare di fare il cuoco una ventina o poco più d’anni fa: prestigio a parte, El Mundo ha il sito europeo di informazione in lingua spagnola più letto che ci sia.

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    L’ingresso del ristorante madrileno

    Per una volta, però, un piccolo giornale calabrese ha almeno un vantaggio su un colosso dell’editoria internazionale: Manfredi Bosco è stato mio compagno di classe alle superiori e mio coinquilino all’università. Che volesse fare il diplomatico dopo la maturità non lo ricordo. In compenso, ricordo che da lui negli anni del liceo si facevano mangiate formidabili. Merito di Francesco, suo padre: arrivava a casa con prodotti presi da questo o quel contadino durante i suoi giri di lavoro. Gestiva con alcuni parenti una ditta di liquori – erano loro a produrre l’Amaro Silano Bosco o l’Anice Bosco fino agli anni ’90, più o meno – e si occupava spesso della distribuzione, per cui viaggiava parecchio. E poi era cintura nera di pasta e patate ara tijeddra e abbastanza eretico (e bravo) tra i fornelli da preparare un delizioso morzello catanzarese nel cuore di Cosenza.

    Il tuo primo maestro, quello che ti ha trasmesso la passione per la cucina, è stato lui?

    «Più che per la cucina, per i sapori, per i prodotti del territorio. Però a fare il cuoco non avevo mai pensato: niente alberghiera, ma liceo classico, poi Scienze politiche a Roma. Non avevo le idee molto chiare sul futuro quando ci siamo iscritti alla Sapienza, diciamo così, però mi piaceva l’idea di viaggiare per lavoro. Tant’è che la mia carriera poi è nata proprio per quello».

    In che senso?

    «Ho preso un volo per Londra, volevo imparare bene la lingua con un corso intensivo di qualche mese. Londra è cara, difficile mantenersi, e io parlavo poco e male l’inglese. La soluzione più semplice mi è sembrata chiedere un lavoretto in qualche ristorante italiano. Ho cominciato come lavapiatti, poi hanno visto che – anche se ero un principiante – me la cavavo tra i fornelli. Dopo un paio di mesi sono diventato aiuto cuoco. E mi sono reso conto che, oltre a guadagnare soldi miei per la prima volta, mi piaceva stare in cucina per mestiere.

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    Il Big Ben, simbolo di Londra

    Poi lavorare in Inghilterra è tutta un’altra storia, capisci come dovrebbero davvero andare le cose. Lì non ci sono nero o straordinari non retribuiti, ci sono regole e si rispettano. Se ci pensi, pur facendo il lavapiatti, riuscivo a pagarmi una stanza in una delle città più costose del mondo. Certo, quando lavori in un ristorante per il cibo a casa non spendi quasi nulla, però…».

    Se stavi così bene, perché tornartene in Italia allora?

    «Era il 2001, poco dopo l’11 settembre, e i miei avevano il terrore che il prossimo attentato potesse essere a Londra. Pur di convincermi a tornare mi hanno aiutato a entrare nelle cucine del Four Season, un grande albergo di Milano, per uno stage. E lì mi hanno distrutto, non avevo ancora visto come e quanto si lavora in una cucina di veri professionisti. Mi sono reso conto che non sapevo nulla e non è stato semplice. Ti faccio un esempio banale: tu magari puoi credere che tua mamma prepari una besciamella buonissima e segui la sua ricetta, ma in un posto del genere mica puoi servirne una preparata come la fa lei.

     

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    L’Hotel Four Season di Milano

    La cucina è fatta di sapori e ingredienti, ma anche di tecniche per valorizzarli e io ho dovuto impararle da zero. Ho capito pure quanto fosse duro e usurante fare il cuoco, però continuava a piacermi sempre di più. E, dopo le prime difficoltà, imparavo in fretta: a fine stage, con l’estate ormai alle porte, lo chef ha suggerito il mio nome a un collega per la sua brigata, nel mondo dell’hôtellerie funziona spesso così a seconda delle stagioni. Era il mio primo lavoro in Italia, al Palace Hotel di Capri, come cuoco capo partita. Mi occupavo della carne e di varie salse, più qualche turno notturno per il servizio in camera».

    Me lo ricordo eccome: una notte hai chiamato a casa nostra a Roma per dirci che avevi appena preparato una frittata a Brian May dei Queen!

    «Spaghetti e vongole prima, omelette poi, aveva fame. Era arrivato in elicottero, poverino… però non l’ho incontrato, peccato: nell’alta hospitality la riservatezza del cliente è sacra».

    Per uno che due anni prima lavava i piatti mi pare comunque un bel passo avanti, no?

    «Beh, sì, però a Capri è stato davvero un massacro, il Four Season era una passeggiata in confronto. Lì ero una stagista, qui avevo più responsabilità e, in sostanza, ancora nessuna esperienza. Ho visto cosa significhino davvero le gerarchie nelle cucine di un certo livello. Lo chef era Oliver Glowig, un grandissimo che ha conquistato diverse stelle Michelin negli anni; il suo secondo all’inizio mi trattava come uno schiavo, poi però dopo qualche settimana mi ha aperto casa sua: anche quello mi ha fatto capire che la mia strada era in cucina».

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    Oliver Glowig e Manfredi Bosco in una foto scattata qualche anno dopo l’esperienza insieme a Capri

    Finita l’estate sei tornato a Roma…

    «Sì, un lavoro ai Parioli. Gran ristorante, tra i clienti, per dirti, c’era Jack Nicholson quando veniva in Italia. Mi occupavo del pesce stavolta. E poi c’era un collega napoletano che mi ha insegnato tutto sulla pasta. Quando si parla di pasta non esistono maestri migliori dei napoletani, fidati».

    E perché sei andato via da lì?

    «Un’offerta migliore. Una famiglia storica della ristorazione romana aveva deciso di puntare sull’alta cucina con un piccolo ristorante dietro piazza Navona e ho deciso di lavorare da loro. Però le cose non sono andate granché bene, erano altri tempi. C’era attenzione verso questo mondo in Italia, ci mancherebbe, ma non come adesso. Roma non era ancora “pronta” per questo tipo di cucina».

    Sei pure scappato, letteralmente, da quel ristorante…

    «Vero, te l’ho detto che il cuoco è un mestiere duro e usurante, sono andato in tilt. Nello stesso periodo papà, che aveva venduto la ditta poco tempo prima, mi ha detto che avremmo potuto rimetterci a fare i liquori insieme, io e lui. Era il mio sogno da bambino che si avverava: la ditta quando ero piccolo era sotto casa mia, con tutti quegli alambicchi, bellissima. Così me ne sono tornato in Calabria».

    E dalle ceneri dell’Amaro Bosco è nato l’Amaro Manfredi, con cui tu da tempo però non hai più nulla a che vedere. E la cucina?

    «Mai abbandonata del tutto. Ho iniziato a organizzare eventi gastronomici per promuovere i prodotti del territorio, collaborato con aziende locali. Convincere i calabresi a fidarsi dei prodotti della loro terra era quasi più difficile di vendergli i liquori. Non posso nemmeno dar loro torto, di recente sono stato a Cosenza e dal fruttivendolo c’erano delle patate terribili: ma come, con la Sila a due passi, non hai patate buone? Dal punto di vista della cultura gastronomica siamo molto indietro ancora; ricordo che molti macellai avevano carne bovina ben frollata solo perché non riuscivano a venderla prima, assurdo. Se penso alla cura degli spagnoli nell’allevamento dei maiali il confronto è impietoso, il Nero di Calabria ha più pregi che mercato»

    Hai fatto pure qualcosina per la televisione, ricordo un programma con Mengacci. Che ne pensi della cucina in tv e dei cuochi nello show business?

    «Tutto il male possibile. No, dai, qualcosa di positivo c’è: è un modo per dare visibilità a un mestiere a lungo non valorizzato quanto meriterebbe, come succede invece in Francia, e per far conoscere i sapori di un luogo. Ma c’è l’altra faccia della medaglia: oggi, su 50 curricula che arrivano in un ristorante, 40 sono di gente che fa i suoi piatti per Instagram o ha partecipato a una mezza puntata di Masterchef. Qualcuno ha anche talento, ma quasi tutti scappano dopo aver visto come si lavora in una vera cucina. I professionisti con una formazione alle spalle magari non trovano posto, invece. E un’offerta così alta di manodopera ha fatto crollare le retribuzioni in cucina per tutti.

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    Manfredi Bosco prima di prendere servizio nel ristorante sardo di Gordon Ramsay

    Anche io ho iniziato dal nulla, ci mancherebbe, però l’ho fatto dentro una cucina, non sui social o in un talent show. E comunque, a parte tutto, in tv non funzionavo proprio. Troppo riservato, ho fatto giusto qualche puntata di Ricette all’Italiana: mi piace stare ai fornelli, non davanti a una telecamera».

    Però hai lavorato anche con due star della Tv come Carlo Cracco e Gordon Ramsay, che tipi sono?

    «Ramsay non l’ho conosciuto di persona, lavoravo in un suo ristorante al Forte Village ma non c’era mai. Anche con Cracco ho lavorato in Sardegna, veniva due volte a settimana: un professionista pazzesco, non posso che parlarne bene. E che puoi dire di male su uno che era chef a Montecarlo al Le Luis XV di Alain Ducasse, dove un genio come Massimo Bottura era solo uno dei tanti in brigata? Lo guardi lavorare e provi a imparare il possibile».

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    Manfredi Bosco e Carlo Cracco

    In Spagna, invece, come e quando sei arrivato?

    «Una decina di anni fa, ceduta la ditta di liquori. Avevo qualche contatto lì e sono andato a studiare un po’ la loro ristorazione. Poco dopo ho iniziato a lavorare al +39, come il prefisso dell’Italia, il primo ristorante calabrese di Madrid. Tra i soci c’era anche Matías Verón, l’ex calciatore della Reggina. Ho vinto un concorso – Madrid Fusión, una kermesse gastronomica che si ripete ogni anno e pone al centro dell’attenzione cuochi e tecniche di cucina – ed è partito anche il mio lavoro con l’Associazione dei Cuochi Italiani in Spagna. Organizziamo show cooking, eventi pubblici e iniziative nelle scuole per far conoscere i prodotti nostrani, il modo di prepararli, l’importanza della dieta mediterranea».

    Su El Mundo, però, sei finito grazie a un altro ristorante, Pante

    «Ci lavoro da quattro anni ormai. Facciamo cucina italiana, in particolare di Pantelleria, ma ho voluto che nel menu ci fosse sempre anche un po’ di Calabria. Il peperoncino, innanzitutto, ma anche le cipolle di Tropea, la ‘nduja, i fichi dottati.
    Tra i nostri clienti ci sono Carlo Ancelotti, un mio mito da adolescente come Raul, Diego Simeone. Il Cholo, quando ha saputo che ero di Cosenza, mi ha parlato della città: ricordava di esserci stato quando giocava nel Pisa in serie B, anche se aveva dovuto saltare la partita per infortunio».

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    Manfredi Bosco completa uno dei suoi piatti al Pante di Madrid

    Derby al ristorante… tu sei merengue o colchonero?

    «Juventino (ride). Però dopo tanti anni mi sento anche castigliano, è una terra meravigliosa e accogliente da cui difficilmente andrei via a meno di offerte irrinunciabili. Qui c’è un detto, “Se vivi a Madrid, sei di Madrid”, ed è davvero così»

    Hai puntato sulla tradizione – non locale, tra l’altro – nel Paese che negli ultimi anni è stato più all’avanguardia nel mondo della cucina. La tentazione di seguire quel filone non l’hai mai avuta?

    «Sinceramente no. Ho un immenso rispetto per cuochi come David Muñoz e per il successo del suo ristorante al World’s 50 Best Restaurant così come per l’Osteria francescana di Bottura (vincitore in precedenza del prestigioso riconoscimento, nda), ma perché so quanto abbiano lavorato duramente prima di arrivare lì, passando prima dalla ristorazione più tradizionale.
    Io però in un ristorante, anche il migliore del mondo, dove una cena dura 4 ore non andrei, non è il genere di esperienza che mi attira. La vedo così: il cliente da Manfredi Bosco viene per mangiare bene e quando va via deve pensare al piatto che gli ho servito come a quelli che gli preparavano sua mamma o sua nonna, rivivere quelle sensazioni. Non è semplice, specie in un paese straniero che non conosce davvero la tua tradizione, ma se ci riesco ho raggiunto il mio obiettivo».

  • Cosenza Wine District: la Villa Vecchia si trasforma in cittadella del vino

    Cosenza Wine District: la Villa Vecchia si trasforma in cittadella del vino

    Torna venerdì 30 giugno alla Villa Vecchia il Cosenza Wine District, una grande festa del vino calabrese nel centro storico del capoluogo bruzio. Spazio dunque agli incontri tra consumatori, winelovers e produttori, con oltre quaranta cantine del panorama regionale  presenti all’appuntamento. A organizzare la manifestazione sono Saturnalia aps e Feed It, col supporto di due partner istituzionali: il Comune di Cosenza e la Regione Calabria – Dipartimento Agricoltura.

    Cosenza Wine District, una cittadella del vino calabrese

    Cosenza Wine District è nato lo scorso anno come evento collaterale in occasione del Concours Mondial de Bruxelles che ha fatto tappa in Calabria.  Nel giro di pochi mesi è diventato un grande momento di confronto e valorizzazione del vino calabrese, capace di focalizzare l’attenzione anche sul segmento dell’enoturismo. Un filone di sviluppo importante, quest’ultimo, capace di attrarre tanti appassionati verso le esperienze da vivere nelle cantine o attraverso i consorzi della rete regionale del vino.

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    Il pubblico nell’edizione dello scorso anno

    La Villa Vecchia di Cosenza dunque si trasformerà ancora una volta in una cittadella del vino calabrese. Lungo i suoi viali sarà possibile scoprire la ricchezza e la varietà interpretativa dei vitigni autoctoni della Calabria. Produzioni che ormai hanno saputo conquistare i mercati, ma anche le giurie dei più importanti concorsi nazionali e internazionali.

    Non solo vino per nuove collaborazioni

    Ma l’appuntamento al Cosenza Wine District sarà anche con l’arte. In programma esibizioni di musicisti – grazie alla joint venture con il festival Alterazioni – e performance di arte di strada per una serata evento unica nel suo genere. Il tutto accompagnato dal migliore street food della regione.

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    Alcuni stand della passata edizione del Cosenza Wine District

    La manifestazione vuole focalizzare l’attenzione degli appassionati di tutto il Sud attorno alle potenzialità del vino calabrese. Si pone come spazio multiforme per far dialogare i protagonisti della scena enologica con i settori affini come il food, l’intrattenimento e le arti in genere, generando cosi forme nuove di collaborazione per realizzare sviluppo sui territori.

    Cosenza Wine District: le rivendite per partecipare

    Per partecipare all’evento è necessario acquistare un ticket che dà diritto all’ingresso e alla degustazione di sei vini a scelta libera. È già partita la prevendita su eventbrite o presso i rivenditori ufficiali nel territorio cosentino:

    • Fresco foodbar
    • Cheers
    • Tennis Club Cosenza,
    • Quipò più di un bar (Mendicino),
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  • Cibo e benessere, appuntamento a Villa Rendano

    Cibo e benessere, appuntamento a Villa Rendano

    Secondo appuntamento, oggi pomeriggio alle 17.30 a Villa Rendano, con il ciclo di incontri dal titolo Giugno, il mese del benessere. A promuovere l’iniziativa è il Comune di Cosenza, con il coordinamento dell’assessore alla salute, Maria Teresa De Marco, e la collaborazione della Fondazione Attilio e Elena Giuliani, presieduta da Walter Pellegrini. Si parlerà di “Intolleranze e allergie alimentari”.

    A Villa Rendano per parlare di benessere: i relatori

    Dopo i saluti istituzionali del sindaco Franz Caruso e dell’assessore De Marco, nella storica dimora del pianista calabrese si alterneranno al tavolo dei lavori alcuni apprezzati professionisti come l’allergologo Saverio Daniele e lo specialista in pediatria Salvatore Chiappetta.
    Interverranno, inoltre, la biologa nutrizionista Antonella De Luca, la testimonial Rossana Del Santo, la psicologa e psicoterapeuta Anna Scaglione e il docente dell’Istituto d’istruzione superiore “Mancini-Tommasi”, Carmelo Fabbricatore. A moderare i lavori, Anna Laura Mattesini.

    La città della prevenzione

    Anche stavolta a Villa Rendano l’obiettivo di Giugno, il mese del benessere sarà quello di aprire, con il contributo dei qualificati relatori presenti, un’importante riflessione su una delle problematiche sanitarie più attuali e diffuse e sulle quali è imprenscindibile avviare un percorso di tempestiva ed attenta prevenzione. L’amministrazione comunale mira a fare di Cosenza la città della prevenzione e del benessere, individuale e collettivo, attraverso la promozione di corretti ed equilibrati stili di vita.

  • Pesce spada, l’imperatore dello Stretto

    Pesce spada, l’imperatore dello Stretto

    Piovene scriveva che la maggior parte dei calabresi aveva una cultura montanara più che marinara. Contemplavano il mare dalle alture dei loro paesi, senza esservi mai stati vicini. La pesca non si praticava molto in Calabria per la mancanza di porti. Solo in alcuni centri come Parghelia e Scilla l’attività di mare era sviluppata.
    Galanti ci informa che i marinai di Scilla erano trecento e veleggiavano su feluche a due alberi che trasportavano merci fino a duecentocinquanta cantaia. Ciascuna imbarcazione aveva un equipaggio di venticinque marinai che partivano in ottobre per vendere e acquistar prodotti di vario tipo.

    Commerciavano soprattutto stoffe, alici salate, mandorle, pasta di “rigorizia”, uva passa, manna, limoni, essenza di bergamotto e “portogalli”.
    Una volta nei porti dell’alto Adriatico, soprattutto Venezia e Trieste, vendevano le loro merci. Inoltre acquistavano prodotti importati specialmente dalla Germania e dalla Svizzera per rivenderli in Puglia e in Calabria.

    La pesca e il problema del sale

    Lungo i villaggi della costa c’erano poche imbarcazioni e la pesca si esercitava solo nei mesi in cui il mare era calmo. D’inverno si vedevano solo barche che provenivano dalla Sicilia, dalla Puglia e dalla Campania. Malpica annotava che i pescatori di Sorrento si stabilivano a Schiavonea, portando con sé mogli e figli, all’inizio dell’inverno e andavano via al cominciare dell’estate. Con le loro agili barche, non avevano timore ad affrontare il mare tempestoso, ma spesso la pesca era infruttuosa e portavano a casa solo debiti.pesce-spada

    L’attività della pesca, ricordava Galanti, era poco sviluppata anche perché risultava difficile smerciare il pesce fresco in quanto il trasporto richiedeva molto tempo. Si mangiava pesce quando la distanza lo permetteva. Il mare era ricco di acciughe e sarde, ma il sale fossile, ottimo per salare le carni, non era adatto per conservarle. La carenza e il costo eccessivo del sale rappresentava un serio problema. A Crotone, ad esempio, quando la pesca dei tonni era abbondante, molti pesci venivano bruciati o ributtati in mare perché era impossibile salarli o venderli.

    Pesce spada, l’imperatore dei mari

    Oltre al tonno, la pesca più importante e spettacolare in Calabria era quella del pesce spada. Nel 1862, Lombroso scriveva che erano numerosi i pescatori che si dedicavano alla sua cattura. Erano divisi in piccole società di 10 o 20 membri e il loro linguaggio era «d’antichissimo conio greco».
    Il pesce spada (xiphias gladius), l’imperatore dei mari, era una “bestia” lunga da sei a otto piedi. Il peso variava dalle due alle trecento libbre e, talvolta, raggiungeva i quattro quintali. La spada attaccata alla testa del corpo filiforme ne faceva un mostro.

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    Pescatori a Scilla

    Nel 1791, Stolberg annotava che, nel mare di Scilla, lottavano incessantemente con i «cani di mare». Un giorno le onde avevano scaraventato sulla spiaggia un pesce spada e un pescecane. Il primo aveva infilzato il secondo, ma non riuscendo a ritrarre la “sciabola” e impossibilitato a nuotare liberamente, era morto insieme a lui. I marinai raccontavano che il pesce furioso per la ferita dell’arpione a volte si lanciava contro le barche sfondandole con la spada. Per questo stavano sempre in guardia, soprattutto se l’animale era di taglia considerevole e la ferita leggera.

    Il pesce spada e l’incantesimo in greco

    Alcuni studiosi sostenevano che il pesce spada arrivava sulle coste della Calabria nel mese di giugno per poi spostarsi sulle coste della Sicilia. Altri scrivevano che a partire dal mese di aprile fino alla fine di giugno, entrando nello Stretto, seguiva la costa sicula per poi costeggiare la Calabria. Il pesce spada si muoveva sempre sulle orme della femmina, che non perdeva mai di vista e un viaggiatore notava che questo sentimento naturale comportava quasi sempre la rovina dell’uno e dell’altra.

    Il marinaio che li scorgeva ne approfittava: i suoi colpi cadevano prima sulla femmina, giacché dal momento in cui questa era colpita il maschio non pensava più a fuggire.
    Brydone raccontava che i pescatori dello Stretto, alquanto superstiziosi, pronunciavano frasi in greco come «incantesimo» per attirare il pesce spada vicino alle loro barche. E che se per disgrazia l’animale li sentiva parlare in italiano, si tuffava di botto sott’acqua per non comparire più!

    Come catturare il pesce spada

    In realtà la pesca del pesce spada era molto complessa e sperimentata nel corso dei secoli. Per catturarlo i marinai usavano i luntri, barche con un albero dall’altezza notevole terminante con una piattaforma, dove stava il giovane incaricato ad osservare i movimenti del pesce.

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    Un luntro dipinto da Renato Guttuso

    Queste imbarcazioni, lunghe diciassette-diciotto piedi, avevano la prua più larga e più alta della poppa per facilitare i movimenti del lanciatore: scelto fra gli uomini più forti e abili, era armato di una fiocina, la cui asta, fatta di legno durissimo, era lunga almeno dodici piedi. Il dardo terminale, che i locali chiamavano freccia, era lungo sette-otto pollici e provvisto di due orecchie mobili di ferro.
    Una volta entrata nel corpo del “mostro”, la freccia non poteva essere estratta che dalla mano dell’uomo
    .

    Sulle coste della Calabria, alcune persone si arrampicavano sulle rocce e sugli scogli che costeggiavano la riva per avvistare il pesce e segnalarlo con urla e bandierine ai compagni sulle barche. Il lanciatore, in piedi sulla prua, con l’arma in mano, cercava di tenere l’animale sotto tiro. Quando era alla portata della lancia, aspettando il momento favorevole, lo infilzava e lasciava libera la corda. Il pesce spada ferito, perdendo le forze risaliva in superficie, i pescatori lo avvicinano con un gancio di ferro all’imbarcazione e lo portavano a riva.
    La caccia al pesce spada attirava e affascinava studiosi e viaggiatori che annotavano in maniera dettagliata la tecniche per catturarli. Citiamo le descrizioni di Polibio, Grasser e Bartels.

    Polibio

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    Un antico mosaico sulla cattura del pesce spada

    A questo proposito racconta Polibio il modo con che si pescano i pesci spada intorno al promontorio di Scilla. Posta in sito acconcio una barca, la quale serva come di spia, si cacciano in mare molti schifi a due remi, in ciascuno de’ quali sono due uomini, uno per governarlo co’ remi, e l’altro in prora armato di un’asta per ferire il pesce. Al segno che da l’esploratore, che viene il pesce spada, il quale suole con un terzo del corpo star sopra l’acqua, lo schifo gli si appressa, e quello che tiene l’asta, gliela caccia da vicino nel corpo, e subito ritirandola ne rimane la punta fitta nel pesce, perché sendo fatta a guisa di amo, è attaccata all’asta in maniera che facilmente si lascia nella ferita, lanciata che è.

    A quel ferro è congiunta lunghissima cordicella, la quale tanto vanno allentando, ferito che è il pesce, fin a tanto che dibattendosi, sforzandosi di fuggire, si stanchi; allora lo tirano al lido, ovvero lo raccolgono nello schifo, se pure non è troppo pesante, e grande. Se avviene che l’asta cada in mare, non però si perde; perciocchè essendo fatta di quercia la tira bensì sott’acqua, ma fa insieme che dall’altro capo l’abete, come più leggero, s’innalzi, ed agevolmente si possa ripigliare. Avviene anche talvolta, che quello dei remi nello schifo sia ferito dalla grandezza della spada che ha il pesce, e dalla forza con cui la vibra, ond’è che questa pesca sia pericolosa non meno della caccia de’ cinghiali.

    Jacob Grasser (1606)

    Nei pressi del mare c’è un torrione o una guardiola, dove ad un uomo di vedetta vien dato l’incarico di segnalare l’arrivo dei pesci spada. Fa parte della natura di questi pesci tenersi con un terzo del corpo fuori dell’acqua. Quando ciò avviene, i pescatori si distribuiscono in tutta la zona con le loro imbarcazioni, in modo che in ogni singola imbarcazione si vengono a trovare due persone: una con due remi alla guida della barca, l’altra a prua con in mano una fiocina. Appena la vedetta indica il punto dove si trova il pesce, la barca vicina lo raggiunge a remi, mentre un pescatore veloce lo colpisce con la fiocina che viene subito tirata indietro per cui il ferro, che è provvisto di una punta ricurva a mo’ di amo, resta conficcata nel pesce e nella ferita.arpione-pesce-spada

    Quest’uncino è fatto in modo che la punta ricada all’ingiù. Al ferro è fissata una corda di una certa lunghezza che permette al pesce, ancora convinto di poter sfuggire alla cattura, di voltolarsi e muoversi con una certa libertà sino a stancarsi. Quindi lo trascinano a riva o, se non è troppo grande, ché talvolta se ne trovano di una lunghezza superiore a dieci cubiti, lo tirano sulla barca […] Il pesce spada è così violento ed irruente che spesso con la lunga spada riesce a ferire il rematore. È per questo che la pesca è pericolosa come una caccia al cinghiale, ed è anche difficile pescarlo con le reti dal momento che con la spada riesce a strapparle. Appena lo si è pescato, lo si fa a pezzi e lo si mette sotto sale come un tonno. Dicono che la sua carne sia molto delicata ma un po’ difficile da digerire.

    Johann Heinrich Bartels (1786)

    Secondo il racconto di Strabone si utilizzavano due imbarcazioni, una delle quali provvista di un albero su cui sedeva un uomo che aveva il compito di avvistare il pesce. Una volta avvistato il pesce che spuntava con le pinne dalla superficie del mare, l’uomo allertava i suoi compagni indicando loro come raggiungerlo. Subito una seconda imbarcazione si metteva al suo inseguimento mentre un uomo con una fiocina in mano si portava d’un balzo sulla prua.pesce-2

    Appena il pesce, che nel frattempo si era messo a giocare con l’ombra della barca, giungeva a tiro, l’uomo gli lanciava, ferendolo, la fiocina fissata ad un bastone legato a sua volta ad una corda. Nella fuga il pesce trascinava con sé la fiocina col bastone, e, quando le forze lo abbandonavano, veniva recuperato con la corsa e caricato sulla barca. Questa, all’incirca, la descrizione di Strabone; ed è questo anche il modo in cui si opera ancor oggi – con una piccola innovazione che rende più semplice l’operazione. Per attirare ed osservare il pesce, si manda avanti una feluca di una certa dimensione ad un albero, seguita da due piccole imbarcazioni. Appena si avvista il pesce, una di queste imbarcazioni viene mandata avanti con un piccolo equipaggio e un fiociniere. Lo strumento, una punta di ferro fissata ad un bastone, è rimasto immutato.spada-ponte

    Mentre il pesce, ferito, fugge via, la corda fissata al bastone della fiocina viene allentata; e, appena ci si accorge che il pesce ha perso le forze, ecco sopraggiungere la seconda imbarcazione al seguito della feluca, la cosiddetta barca della morte, che insegue il pesce finché questo ce la fa a fuggire, e lo recupera appena muore. Questa pesca si pratica di norma nei mesi di giugno, luglio e agosto.

  • Manna: l’oro bianco della Calabria tutto per il re e gli stranieri

    Manna: l’oro bianco della Calabria tutto per il re e gli stranieri

    La Calabria era una delle maggiori produttrici di manna. Pregiatissima e purissima, simile alla cera e dolce come il miele, la preziosa manna si esportava all’estero dove si vendeva come dolcificante naturale e regolatore intestinale.
    La raccolta della manna incuriosì i viaggiatori stranieri più di ogni altra attività produttiva della regione. Le loro informazioni sull’industria sono ricche di dettagli: i luoghi e il periodo in cui si raccoglieva, chi erano i proprietari degli alberi, quanti erano e quanto guadagnavano gli operai, le tecniche di estrazione e di produzione, i tipi di manna e le sue proprietà in campo medico, come si commercializzava e quanto profitto si ricavava dalla sua vendita.

    La manna migliore in Calabria? Sullo Jonio

    Duret de Tavel, Auguste de Rivarol, Orazio Rilliet, Gerhard vom Rath, Francesco Lenormant nell’Ottocento scrivevano che la manna più pregiata si raccoglieva dall’olmo o frassino selvaggio delle montagne vicino Corigliano e Rossano, al di sotto della zona dei faggi e delle querce. L’albero poteva fruttificare regolarmente all’età di dieci anni e la sua produzione continuava per trenta o quaranta, pur diminuendo molto negli ultimi anni.

    Incisioni su un albero per la raccolta della manna

    Verso la fine di luglio i contadini praticavano con un falcetto tagli orizzontali nel tronco dell’albero profondi circa un centimetro. Quindi sistemavano ai piedi foglie di acero o di fico d’india per raccogliere il succo vischioso che scendeva da ciascuna apertura. Questo succo qualche volta trasudava naturalmente sul tronco e sui rami, senza la necessità di provocarne lo stillicidio intaccandone la corteccia. La manna gocciolava da mezzo dì alla sera, sotto forma di un liquido incolore e trasparente. Si raccoglieva la mattina, quando il fresco della notte l’aveva disseccata dandole consistenza.
    Il succo che restava attaccato sul tronco e sui rami, conservandosi più puro, dava la qualità superiore, chiamato in commercio “manna in lacrime”. La “manna comune”, più ordinaria e meno ricercata, era quella che si raccoglieva sullo strato di foglie steso a terra per accoglierla nella sua caduta.

    Guai a chi la tocca

    I viaggiatori scrivevano che la manna era una delle più pesanti e inique corvée che il suddito doveva al sovrano. E «guai a quel contadino nella cui casa fosse stata trovata una quantità anche minima». Il re dava in appalto la produzione della manna a una Compagnia. Questa vessava i disgraziati campagnoli, «costretti a svolgere la raccolta in condizioni e con una sorveglianza davvero barbare».
    Nel 1786, Johann Heinrich Bartels, illuminista tedesco di Amburgo, annotava sulla produzione della manna nella provincia di Cosenza:

    «Con la manna prodotta in gran quantità in questa zona, specialmente nella parte orientale della provincia, si alimenta, com’è noto, una ricca attività commerciale. Solo il Re può però racoglierla, non i feudatari. Ad essi spetta il compito di provvedere alla raccolta materiale all’epoca prestabilita, nei mesi di luglio e agosto. La raccolta dura sulle cinque settimane. Durante tutto questo tempo tutti coloro che vengono chiamati dal feudatario per raccogliere la manna sono tenuti a mettere da parte i loro affari privati e a lavorare solo per il Re. Nel caso trasgrediscano a questo divieto, sono passibili di pene durissime.

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    Un produttore di manna dei nostri giorni

    Per tutto questo ricevono un risarcimento di 3 carlini al giorno. A dire il feudatario riceve per ogni uomo che impiega 5 carlini, ma ne trattiene due per sé. Per volere del Re la raccolta della manna viene sempre data in appalto. Per evitare furti, il governo è tanto geloso di questo prodotto che per tutto il tempo della raccolta si vedono in giro per i boschi gli sbirri, la cosiddetta Guardia, coi fucili spianati pronti a far fuoco su chiunque si azzardi da quelle parti senza l’accompagnamento di una persona abilitata. I raccoglitori possono mangiare quanta manna vogliono, ma pagano con la vita il minimo furto».

    Le incisioni sugli alberi

    Bartels descriveva poi nei dettagli le tecniche di produzione della manna in Calabria: «Il modo in cui viene prodotta la manna è duplice, in parte richiede la mano dell’uomo, in parte no. Nel primo caso si fanno delle incisioni sul tronco dell’albero dalle quali fuoriesce la manna che viene raccolta in piccoli recipienti. Le incisioni sono orizzontali e si fanno a poca distanza l’una dall’altra, da un pollice e mezzo a due. La lunghezza dell’incisione forma con l’altezza un rettangolo equilatero. L’incisione che si produce con un coltello a forma di piccola falce ha una profondità di mezzo pollice. Ai piedi dell’albero, per raccogliere la manna che fuoriesce dalle incisioni, si sistemano le grandi foglie spinose dei fichi d’India, una pianta che cresce in quantità sui bordi delle strade, e fa da siepe come da noi il roveto, foglie che seccando diventano concave.

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    Fiori di frassino, l’albero che produce tra le migliori qualità di manna

    Per evitare che la manna goccioli per terra, sotto la prima incisione si fa una fessura alla quale si attacca una foglia sui cui gocciola la manna prima di finire nel recipiente a terra. Si comincia ad incidere l’albero dal basso e poi a poco a poco si procede verso l’alto, e, se la stagione lo permette, si fanno delle incisioni anche sui rami grandi. Se all’epoca della raccolta piove o il tempo è mite, la raccolta è meno abbondante del solito in quanto la mancanza di caldo rallenta la fuoriuscita della linfa e la pioggia lo lava via. Il colore rassomiglia alla cera che gocciola da una fiaccola e ha un sapore dolce di miele. Nel secondo caso l’uomo si limita a raccogliere quel che viene fuori col calore del sole».

    La manna in Calabria: falsi miti e segreti

    L’illuminista concludeva soffermandosi sugli aspetti economici della questione, tra convinzioni da sfatare e misteri contabili. «È sbagliato però credere che la manna sgorghi dalle foglie: sgorga, come nel primo caso, dal tronco, e scivola lungo il tronco o, nel caso le foglie ne ostacoli il corso, lungo le stesse foglie. Scorre liquido e puro come acqua e, quando il vento lo raffredda, si fissa in palline che o restano attaccate al tronco o si fermano sulle foglie – da qui la leggenda che sgorgherebbe dalle foglie. Come potete facilmente immaginarvi, gli insetti, le formiche, le lucertole, le api ecc. ne vanno ghiotti. La manna ricavata col solo aiuto del sole è, a detta di tutti, la migliore. È così che la producono gli orni e i frassini, anche se in quantità ridotta.

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    Manna raccolta ai piedi di un albero

    La manna ricavata dall’orno è di colore bianco, simile a cera bianca, quella ricavata dal frassino va più sul giallo. Mi hanno assicurato che questa manna si vende a 7 talleri l’oncia, o a 50 talleri per 6 once. Per me sarebbe stato più importante avere il dato preciso della quantità complessiva della manna raccolta e delle entrate del Re; ma, a quanto pare, in questo paese queste informazioni vengono custodite con uno zelo tale che di fatto se ne preclude l’accesso ad uno straniero Quanto grande sia il profitto lo potete dedurre da questo dato: soltanto a Campana e a Bocchigliero, due piccole località della Calabria Citeriore se ne raccoglierebbero 30.000 libre all’anno».

  • Puma d’oro e d’amuri: così il pomodoro si è preso la Calabria

    Puma d’oro e d’amuri: così il pomodoro si è preso la Calabria

    Al pomodoro, chiamato anche mela insana e mela aurea, erano attribuite proprietà afrodisiache e, secondo alcuni, era impiegato in filtri magici per favorire relazioni amorose. In diverse zone del Sud era consuetudine chiamarlo puma d’amuri o puma d’oro, probabilmente ricollegandolo al mitico pomo d’oro destinato alla più bella tra Venere, Giunone e Atena.

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    Giudizio di Paride, dipinto da Pieter Paul Rubens intorno al 1638

    In passato, però, i pomodori avevano una cattiva reputazione per le proprietà organolettiche. Nel Seicento, studiosi come Benzo, Durante e Mattioli scrivevano che davano scarso nutrimento. E che, una volta maturi, si potevano consumare solo se conditi con pepe, sale e olio, perché «dolciastri e disaggradevoli».
    Soderini, in un noto trattato del 1851 su orti e giardini, nonostante i pomodori ormai si coltivassero ovunque, sosteneva che non fossero buoni da mangiare «ma solo si poteva cercarne d’avere per bellezza».

    Il pomodoro si fa largo

    Ma ignorando le raccomandazioni dei botanici, spinti dalla fame e dal bisogno, superando qualsiasi diffidenza o paura, i contadini piantavano i pomodori. E alcuni cuochi cominciarono a utilizzarli nei loro piatti. Per conferire un bel rosso alla «zuppa alla mosaica», i cuochi consigliavano di usare salsa di pomodoro setacciata e in inverno pomodori secchi tritati o «quelli in bottiglia». Alcuni suggerivano un «timpano» formato da strati di pomodori crudi e vermicelli freschi con sale, pepe e olio, strutto o butirro.piante-pomodoro-semina

    Nel Settecento si faceva la conserva di pomodori «solida» e «liquida». Quella solida si otteneva bollendo i frutti maturi in una caldaia con chiodi di garofano, pepe, cannella e sale. Una volta tolti semi e bucce, si facevano ribollire sino a ridurli a una pasta densa con la quale si formavano dei «bastoncelli».
    Quella liquida si preparava lessando i pomodori, riducendoli a marmellata e mettendoli in barattoli di terra verniciati e ricoperti d’olio.

    Reggio esporta, Catanzaro fa polpette

    In Calabria il pomodoro si seminava in diversi territori tanto da essere citato in una statistica del 1805 come l’unica pianta «americana» messa a coltura nella regione.
    Negli anni seguenti i contadini cominciarono a coltivare i pummadori in maniera intensiva. I più comuni erano quelli a «frutto piccolo rotondo», utilizzati per la salsa, e quelli «a pruno» che si appendevano e duravano sino a primavera. Si usava anche spaccarli a metà, coprirli di sale, seccarli al sole e infilzarli formando delle corde. Oppure tagliarli, salarli, metterli in un vaso per quattro giorni, passarli al setaccio, aggiungere chiodi di garofani, lasciarli al sole e, una volta asciutti, metterli in vasi vetrati.

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    Pomodori in essiccazione sotto il sole

    Verso la metà dell’Ottocento, negli orti di Reggio Calabria la coltura predominante era quella dei pomodori, sia perché si prestavano bene alla rotazione dei terreni, sia perché si vendevano in gran quantità nella vicina Sicilia.
    In un noto manuale di cucina del 1819 il pomodoro era utilizzato nelle «polpette alla catanzarese», simili agli odierni involtini di carne. Si consigliava di scegliere un pezzo di manzo e levare accuratamente «pelli» e nervi. Quindi, tagliarlo a fette sottili e stendervi un impasto di lardo tritato, provatura «marzolina» a dadi, pepe, noce moscata, zibibbo senza «pipini» e prezzemolo. Le fettine si arrotolavano, si legavano con un filo e si cuocevano in una «cazzarola» con lardo, prosciutto, cipolla, erbette e un pezzo di butirro. Una volta colorite, alle «polpette» si aggiungeva un po’ di farina, mezzo bicchiere di vino bollente e si copriva il tutto con brodo di carne o sugo di pomodoro. A fine cottura, occorreva scolare, togliere il filo e sistemare gli involtini nel piatto coperto con salsa ben «disgrassata» e passata al setaccio.

    Il pomodoro nel… passato

    I pomodori nelle case contadine erano adoperati in minestre, zuppe o insalate, mentre sulle mense dei ricchi erano serviti ripieni di carne o pesce. Dopo aver tolto la pelle e i semi calandoli nell’acqua bollente, si farcivano con carne «passata e pesta» e si cuocevano in un colì di vitello. Erano serviti anche ripieni di salpicón di animelle, erbette e spezie e, una volta infarinati e dorati, rosolati al forno con parmigiano e butirro. Altri cuochi imbottivano i pomodori con un impasto di burro, gialli d’uova, «provatura» grattata, cipolla, acetosa, targone, menta, prezzemolo, sale e pepe, li friggevano e li coprivano con un colì di prosciutto condito con erbe. Altri ancora li riempivano con rognonata di vitello arrostita e tritata, gialli d’uova, formaggio e spezie. Dopo averli infarinati, passati nel pane e parmigiano grattato, friggevano l’intingolo nello strutto e lo servivano con crostini.

    In alcune zone si usava spezzettare la polpa del pomodoro, aggiungere spezie, noce moscata, butirro, ricotta e gialli d’uova, formare crocchette della lunghezza di un dito, infarinarle e friggerle. Certi cuochi mischiavano la polpa del pomodoro con butirro, spezie, parmigiano, pane grattato, polvere di cannella, gialli d’uova, panna di latte, zucchero di canna, corteccia di portogallo e, una volta ridotta a crema si faceva assodare al forno in una casseruola unta di butirro e spolverata con pan grattato. Altri farcivano i pomodori con un colì di gamberi, acciughe ed erbette, condendoli con olio e salsa di tartufi, oppure riempiti con un trito di acciughe, prezzemolo, origano e aglio, insaporiti con sale e pepe, coperti con pan grattato e cotti al forno.

  • Garum di Sibari, la salsa più cara dell’antichità

    Garum di Sibari, la salsa più cara dell’antichità

    Il garum o gáron, intingolo dal sapore particolarmente aspro, era ottenuto dalla lavorazione di alcuni pesci e utilizzato come condimento in diverse pietanze.
    Lungo le coste del Mediterraneo, soprattutto in Libia e Tunisia, esistevano numerose industrie per la preparazione del garum. In genere erano situate vicino al mare. Avevano ampie vasche per l’essiccazione e la putrefazione, ambienti per lo stoccaggio e depositi per la conservazione. Ateneo ci informa che vicino alle isole di Eracle, presso Nuova Cartagine, si trovava la città chiamata Sgombroaria dal nome dei pesci che si pescavano e con i quali si preparava il garón più pregiato.

    Garum: una salsa, tante ricette

    Plinio scriveva che il garum si produceva facendo macerare nel sale intestini e scarti di alcune specie ittiche. Il più gustoso si otteneva utilizzando lo sgombro. Alcuni, però, lo preparavano anche con un pesciolino poco pregiato che i romani chiamavano acciuga e i greci aphye. Marziale raccontava che per fare il garum si usava un vaso della capienza di tre o quattro moggi e sui pesci si spargeva aneto, coliandro, finocchio, appio, santoreggia, sclareia, ruta, menta, sisimbro, levistico, puleggio, serpillo, origano, betonica e argemonia. I pesci si coprivano con uno strato di sale alto due dita, per venti giorni si rimuoveva l’impasto con un palo di legno a forma di remo. Il liquido che colava, l’oenogarum, era conservato in recipienti di terracotta.

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    Garum sul fondo di un’anfora ripescata di fronte all’isola dell’Asinara

    Un testo greco ci informa che il gáron (chiamato anche liculme) era preparato con interiora di pesci («massimamente atherine, o piccioli muli, o menule, o licostomi, o altri piccioli pesci»). Dopo averle salate abbondantemente, si tenevano a lungo al sole rivoltandole continuamente. “Invecchiato” dal caldo, l’impasto era posto in un cophino dal quale colava il gáron.

    Altri preparavano la salsa mescolando alici (in alternativa lacerti e sgombri) in un vaso in modo da farne un pane e aggiungevano due «sestari italiani» di sale per ogni mozzo di pesce. Lasciavano per una notte il miscuglio nel recipiente, lo esponevano al sole e lo rimuovevano con un mestolo. Una volta fermentato, ad ogni «mozzo» di pesce aggiungevano due «sestari» di vino vecchio.

    Nel Geoponica si legge invece che il gáron era prodotto con intestini di piccoli pesci e soprattutto triglie, sardelle e acciughe. Raccolti e messi in vasche, venivano salati ed esposti al sole. Quindi, una volta pronta la salamoia, si filtrava il prezioso liquido con un setaccio e si conservava in appositi contenitori di creta sigillati col coperchio.

    Sibari e l’invenzione del garum

    Alcuni storici come Lampridio sostenevano che erano stati i corrotti Sibariti a inventare il gáron, salsa schifosa e vomitevole. Ateneo confermava che il liquido, fatto di pesci salati e aceto, era un alimento particolarmente putrido e puzzolente. Per Plinio era una salsa pestilenziale e non poteva essere altrimenti, considerato che era il marcio di materie in decomposizione. Seneca ne condannava l’uso, definendolo preziosa distillazione di pesci corrotti, «salsa melma» che bruciava i ventricoli.

    Marziale sosteneva che odore e sapore erano nauseabondi. E, per diffamare un certo Papilo, scriveva che questi, odorando un unguento profumato contenuto in un vasetto, diventava puzzolente come il garum. Apicio, autore del noto ricettario, annotava che la salsa di pesce mandava un «cattivo odore». Tant’è che indicava una serie di accorgimenti per «correggerla» (aggiungere soprattutto miele e gambi di lavanda).mosaico-garum

    Un cibo per ricchi

    Non siamo in grado di stabilire se il garum fosse un intingolo schifoso o se, come sostenevano alcuni, particolarmente dannoso per la salute. Sappiamo, però, che la salsa di pesce era rara e costosa. Isidoro precisava che il liquamen, prodotto da piccoli pesci messi sotto sale, dal gusto simile a quello dell’acqua marina, era utilizzato dal popolino. Il garum, invece, che richiedeva pesci pregiati e una complessa lavorazione, era accessibile solo ai ricchi. Non a caso, Plinio scriveva che, a parte i profumi, era il liquido più costoso del mondo.

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    Quel che resta dell’antica Sibari

    Il prezioso gáron dei nobili sibariti probabilmente affermava la diversità nei confronti delle altre classi sociali. La loro egemonia e superiorità si manifestava anche attraverso mode culturali che apparivano bizzarre e insensate. Il gáron a molti appariva una salsa vomitevole e contraria al buon senso comune, ma per gli aristocratici era l’autorità indiscussa della loro classe a sancire che era gustosa e amabile. Seneca scriveva che il palato dei romani si svegliava soltanto davanti a cibi costosi e li faceva costare cari non un sapore straordinario o una qualche dolcezza del gusto, ma la rarità e la difficoltà di procurarli.

    Pitagora contro

    La dieta dei nobili sibariti, basata su dismisura e stravaganza, era duramente criticata dai pitagorici che predicavano il limite e la semplicità. Il filosofo di Crotone condannava qualsiasi eccesso e raccomandava di non «passare la misura» nel bere e nel mangiare. Porfirio racconta che il filosofo metteva in guardia dall’eccesso del piacere più di ogni altra cosa, perché nessuna passione portava alla rovina e induceva a peccare come la «smoderatezza dal ventre». Incoraggiava i genitori ad alimentare correttamente i figli e spiegare loro che ordine e misura erano nobili, mentre disordine e smoderatezza, turpi. Pitagora ricordava sempre ai discepoli che la terra offriva ogni ben di dio e li invitava a non contaminare il corpo «con pietanze empie». Giambico ci informa che rimproverava duramente quei ricchi proprietari insaziabili che spingevano i cuochi ad inventare «preparazioni culinarie» ricche di «combinazioni di salse» che rendevano l’animo debole e voluttuoso.

    Banchetto_greco

    I pitagorici rifiutavano nella loro mensa i cibi elaborati o grossolani. Legavano il buono da mangiare non solo al gusto ma anche alle proprietà degli alimenti per conservare il corpo sano. Ripudiavano soprattutto quelle pietanze che favorivano la fermentazione e compromettevano l’armonia del corpo, quei cibi che generavano flatulenza e provocavano disordine all’organismo. Predicavano che non bisognava eccedere nei desideri e soprattutto quelli per i cibi ricercati, vesti e panni lavorati, abitazioni eleganti e sontuose, arredi preziosi e schiere di servi e schiavi. L’uomo aveva due tipi di piacere: quello che si compiaceva del ventre e i sensi, paragonabile al canto omicida delle Sirene, e quello che si provava per ciò che era nobile, giusto e necessario, assimilabile all’armonia delle Muse.

    Garum, la rovina delle poleis

    Una vita sobria e sana e una cucina naturale e ordinata avrebbero sconfitto la tryphé (mollezza) che, insieme alla hybris (tracotanza), stavano portando le poleis alla rovina. I pitagorici attaccavano duramente la perversa cucina sibaritica, di cui il gáron era la massima espressione, per richiamarsi a modelli alimentari che avevano da sempre costituito l’identità greca. Plutarco raccontava che i giovani ateniesi condotti al santuario di Agraulo, nella formula di giuramento di fedeltà, alla domanda a quale patria appartenessero, rispondevano: «La terra in cui crescono il grano, la vite e l’olio».

  • Baccalà, l’ex “manzo dei poveri” che fa impazzire i calabresi

    Baccalà, l’ex “manzo dei poveri” che fa impazzire i calabresi

    Per la povera gente delle città e delle campagne il baccalà era un alimento importante e, come i maccheroni, considerato simbolo di benessere e abbondanza. Aveva un gusto gradevole e, se ben cucinato, poteva solleticare il palato dei più raffinati buongustai e stare al pari di qualunque prelibato manicaretto. Preparato in bianco con olio e limone, sotto forma di pasticcio, in tortiera o in casseruola condito con pomodoro, pinoli e uva passa era squisito. Qualcuno scriveva che le stesse divinità dei tempi antichi «lo avrebbero preferito all’eterna ambrosia».

    Il cibo dei semidei

    In una cicalata si legge che era il cibo dei semidei, che solo a vederlo rallegrava il cuore ed era sano perché se i pesci puzzavano dalla testa, era decollatu, ed è giustu, si nnò corrumpiria anchi lu bustu. E in un’elegia dedicata al baccalà si legge che era incantevole a vedersi nel piatto, bianco come il latte, gustoso come nessun altro cibo e ogni giudice lo avrebbe dichiarato il migliore tra tutti. Se Adamo avesse mangiato merluzzo salato non sarebbe stato scacciato da Dio e Giuseppe l’ebreo non sarebbe sfuggito alle voglie della sua padrona se avesse inteso odore di baccalà.

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    Michelangelo: Il peccato originale e la Cacciata dall’Eden nella Cappella Sistina

    Gli esperti raccomandavano che i baccalà da acquistare dovevano essere di grandi dimensioni, avere un colorito bianco e leggermente «paglino» nella faccia interna, la polpa lungo la spina non doveva presentare colorito bruno o rossastro, la pelle doveva essere aderente al corpo e la carne tenera, ben compatta e di buon odore. Gli stoccafissi, a differenza dei merluzzi salati, resistendo ai calori estivi, potevano serbarsi anche per due anni ma accidentalmente bagnati o tenuti ammucchiati in luoghi umidi erano anch’essi soggetti a putrefazione rapida, alla tarlatura e all’impolveramento.

    Sulle ali del gusto

    Per distinguere «anche all’oscuro» un ottimo gadus morhua, bisognava osservare le ali. Sul mercato era possibile vedere tre specie di baccalà: una con le ali al taglio della testa, chiamate orecchie, voltate entrambe verso la coda; un’altra con le ali entrambe rivolte all’insù; la terza con un’ala rovesciata all’insù e l’altra voltata in direzione della coda. I primi erano squisiti e da consumare sempre, i secondi erano scadenti e quindi da non acquistare, i terzi erano mediocri e da mangiare solo in rare occasioni. Le ali voltate verso la coda denotavano che il pesce «non aveva fregato», era grosso e manteneva le sue caratteristiche; quelle voltate in due modi significavano che i pesci presi stavano «fregando» ossia seminando; quelle rovesciate ambedue all’insù erano «il geroglifico che il pesce nella di cui cattura fu trovato», aveva già seminato ed era stanco, magro «esinanito e per conseguenza il peggiore».baccala-shutterstock_428919922-1-1024x501

    Baccalà al posto della carne

    Il baccalà si sostituiva alla carne e, non caso, era chiamato il «manzo dei poveri». I grandi proprietari terrieri, nella stipula dei contratti con i braccianti, oltre al salario prevedevano peperoni all’aceto, formaggio e baccalà. Il merluzzo salato, meno caro del pesce fresco, era alla portata popolino ma non da poter essere consumato frequentemente e, infatti, si cucinava in genere nelle domeniche, nelle feste e a Natale. Un’inchiesta ministeriale confermava che tra le classi povere si consumavano solo aringhe e baccalà ma il loro prezzo, benché basso, non ne permetteva l’uso quotidiano ed era limitato alle ricorrenze.

    Francesco II di Borbone, l’ultimo re delle Due Sicilie

    Il baccalà era venduto specialmente nelle cantine. E qualcuno faceva notare che, pur costando poco, per il volgo non era economico perché, essendo particolarmente salato, spingeva a bere tanto costoso vino. I baccalà offerti dagli osti ai clienti erano spesso piccoli merluzzi di qualità scadente mentre il pregiato baccalà verde, che aveva almeno due piedi di lunghezza, era riservato ai benestanti. Di questo baccalà spesso il volgo acquistava gli orecchiagnoli, alette e spuntature che i signori prenotavano per darle ai gatti. Il merluzzo salato di ottima qualità, era costoso per via dei dazi e i patrioti cosentini, in un manifesto affisso al portone della prefettura, accusavano Francesco II di «scorticare e far morire di fame la popolazione senza pietà» imponendo gabelle sul baccalà.

    Baccalà e religione

    Nell’Ottocento baccalà e stoccafissi erano ormai sulla tavola delle famiglie italiane e in ogni città c’erano decine di botteghe che li vendevano, dissalavano e cucinavano. Nelle feste religiose, soprattutto a Natale, i baccalajoli giravano nei quartieri e nei vicoli con una cesta sulla testa piena di stoccafissi e un secchio in mano con merluzzo ammollato. Quel pesce salato che proveniva da lontano era considerato una prelibatezza. E persino un brigante calabrese come Paolo Zumpano Olivella, gran mangiatore di carne, amava farsi portare alla macchia baccalà fritto dalle sue manutengole.

    Il successo di baccalà e stoccafisso nella dieta alimentare delle popolazioni era dovuto anche alla proibizione della Chiesa di mangiare carne nei giorni di digiuno, che superavano un terzo, e tra i chierici anche la metà dell’anno. I vescovi invitavano i fedeli a nutrirsi durante i digiuni di baccalà e stoccafisso perché sapevano che tanta gente per i loro pranzi utilizzava pesci prelibati che non avevano niente da invidiare alla carne. Il merluzzo salato era il cibo della penitenza e nelle campagne dopo i funerali i parenti cenavano su una tavola senza tovaglia, fiaschi e bicchieri ed era «formalità indispensabile che siasi sempre il baccalà».

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    Stoccafisso e baccalà erano pietanze in uso nella Nicotera studiata da Keys

    In occasione della Pasqua dei morti era uso «in tutto l’orbe rustico» nutrirsi con alimenti semplici e soprattutto merluzzi secchi e salati preparati in vari modi. In alcuni paesi le donne tendevano una corda da una finestra all’altra e facevano penzolare la Quaresima, una pupa di stoffa e di pezza con un fuso in mano e qua e là appesi saracche, sarde e pezzi di baccalà. La Quaresima, che seguiva ai giorni di grandi abbuffate, era rappresentata come una vecchia donna magra che accompagnava il Carnevale morto su un carretto tenendo in mano un baccalà o uno stoccafisso.

    Baccalà o stoccafisso?

    In passato di discuteva molto se era più buono il baccalà o lo stoccafisso. Ancora oggi il baccalà è apprezzato nella provincia di Cosenza e il pesce stocco nella provincia di Reggio Calabria. Nel cosentino in genere era infarinato e fritto o cotto con patate, olive nere, peperoni, pomodoro, alloro, prezzemolo, sale e pepe. Nel reggino il merluzzo secco si mangiava ad insalata con olio, aglio, prezzemolo e limone o cotto con patate, cipolla, peperoni, pomodori e olive in salamoia. Non sappiamo perché in certe province si prediligeva il baccalà e in altre lo stoccafisso. «De gustibus non disputandum est» ammoniva un detto latino e un proverbio popolare aggiungeva: «dei palati uguaglianza non può stare, perciò non s’ha dei gusti disputare».

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    Mammola (RC), una recente edizione della Sagra dello Stocco

    Mangiare stoccafisso invece del baccalà era probabilmente anche un mezzo di coesione, un modo per sancire l’appartenenza al gruppo, per rafforzare i valori comuni e rimarcare l’identità. Per avere un io c’è bisogno di un tu e per avere un noi c’è bisogno di un voi e questa differenziazione passava anche attraverso gli alimenti e la cucina.

    Ricchi e poveri

    La scelta del baccalà o dello stoccafisso era inoltre spesso legata al prezzo più che al gusto. Un medico dell’Ottocento osservava che i labardoni erano acquistati dai benestanti nelle città e il pesce-bastone dai contadini nelle campagne. Il merluzzo secco, detto anche merluccio o merluccia, si conservava meglio di quello salato ma era più difficile da digerire poiché le carni, seccandosi, diventavano coriacee, acquisivano una «durezza offensiva» e, non a caso, bisognava batterlo e macerarlo per lungo tempo nell’acqua prima di cuocerlo.

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    La “puteca” di un baccalajuolo a Napoli

    A volte la preferenza del merluzzo secco o salato dipendeva dai tipi di pesce che i brigantini inglesi, francesi, spagnoli, norvegesi, danesi, olandesi e di altre nazioni scaricavano negli scali italiani. Accadeva che in alcuni porti arrivassero solo aringhe, in altri baccalà e in altri ancora stoccafisso e gli importatori li mettevano all’asta ai negozianti che giungevano da ogni luogo. Il merluzzo conservato che arrivava a Napoli era commercializzato da imprese francesi che trattavano la vendita con i grandi produttori e stipulavano contratti con gli acquirenti partenopei che pagavano i proprietari dei bastimenti e i diritti della dogana. I compratori a loro volta vendevano il prodotto ad altri acquirenti che con bragozzi, brazzere, trabaccoli, peote, feluche, sciabecchi, polacchette e pieleghi lo portavano nei villaggi marini lungo il Tirreno e dell’Adriatico.

    Baccalà alla calabrese

    Imbianchite il Baccalà, spinatelo bene, e disfatelo in scaglie, passate con olio in una cazzarola sul fuoco dell’erbe fine, indi stemperateci due alici, metteteci un pizzico di farina, e bagnatele con un pochino di vino e culì; fate che la salsa stia bene di sale e stretta, poneteci dentro il Baccalà, e fatelo insaporire per mezz’ora fuori del fuoco, indi vuotatene una quarta parte sul piatto, che dovete servire, spolverizzate sopra con pane grattato, mescolato con mostacciolo pesto, e mandole bruscate, e peste finissime, poneteci sopra l’altra terza parte del baccalà, e spolverizzatelo nell’istessa guisa, e così farete del resto; aspergete sopra col resto della salsa, fategli prendere al forno un leggiero colore, e servite subito. Osservate che non bolla nel forno (Ricetta di Vincenzo Agnoletti, 1819)