Non sono stato al PalaMilonedove c’è tutta la fila di bare. Dovevo tornare a Cosenza e poi, lo ammetto, mi ha frenato una sorta di pudore. Forse sabato ci andrò. A Crotone ho partecipato ad un’assemblea affollata e costruttiva alla sede dell’Associazione Sabir. Due ragazzi superstiti della tragedia hanno ascoltato ciò che dicevamo. Due afghani che hanno perso due nipoti nel mare di Cutro.
Frenetica indifferenza
È una tragedia immane che in qualche modo si materializza nei racconti dal vivo di chi l’ha vissuta e di chi sulla spiaggia ha raccolto i corpi di tutte le età. In quei corpi straziati c’è tutta la disumanità di chi li ritiene “carichi residuali”, ma anche tutte le colpe della nostra frenetica indifferenza. Può essere frenetica l’indifferenza? Si, lo è.
Perché di quelle persone non sappiamo niente e niente vogliamo sapere. I mezzi per conoscere ciò che succede in Afghanistan li abbiamo. Internet ci informa di tutto. Ma soprassediamo. Potremmo sapere ma preferiamo non esporci a queste informazioni che potrebbero turbare la quiete delle nostre giornate. Ci interessa più la copertina di Vogue con un presidente in guerra in posa con la moglie.
Bare bianche
Le donne afghane non possono posare per nessuna copertina. Le donne afghane non hanno diritti, nemmeno uno. E vogliono scappare portandosi le proprie bambine per strapparle alla barbarie di una vita nascosta. Si tenta di andare via dalle guerre, dalla povertà, dall’oppressione della tirannia.
Ci sono bimbi siriani, in quelle bare. Sono nati in guerra e in guerra muoiono. O sotto le bombe o sotto l’acqua. Per un ministro della Repubblica Italiana quelle mamme e quei bimbi sono colpevoli di partire. Un modo elegante per sostenere che se la sono cercata.
Porterò dei peluche, fra tre giorni a Crotone. Li darò ad una bara bianca. Vittima della barbarie degli uomini e della mia frenetica indifferenza.
Una manovra sbagliata e poi lo schianto. Il mare non perdona, specie quando è molto agitato. A forza 7, come abbiamo appreso dai primi lanci di agenzia, subito rimbalzati sui tg. Foce è una spiaggia di Steccato, a sua volta frazione di Cutro, poco meno di 10mila anime in provincia di Crotone. Uno di quei luoghi che qualcuno ogni tanto ricorda come meta turistica e qualcun altro associa a un campione di scacchi del XVI secolo.
Ma dal terribile 26 febbraio questa zona sarà ricordata anche come teatro di una strage di migranti. Di cui emergono alcuni dettagli inquietanti: sessantaquattro persone sono morte non per un incidente, ma per “presunta” colpa degli scafisti. E, ciò che è peggio, vicino a quella meta pagata cara: ottomila euro per migrante.
Soccorritori e forze dell’ordine in azione
Strage di Cutro: gli indagati
Tre turchi, due pakistani di cui un minorenne, e un siriano: sarebbero loro gli scafisti responsabili del viaggio della speranza finito in tragedia.
E questa tragedia sarebbe dovuta al panico scatenato non dalla tempesta ma da alcune luci a riva: pensavano che fosse la polizia e avrebbero tentato una folle inversione di rotta. Proprio questa manovra avrebbe causato l’incidente.
Usiamo i condizionali per mero garantismo. E per lo stesso garantismo non facciamo nomi: queste cose spettano all’autorità giudiziaria.
Ma quattro superstiti, interrogati dalla polizia il 27 febbraio, non hanno dubbi. Identificano gli scafisti e ricostruiscono nel dettaglio quei minuti concitati.
Strage di Cutro: il caicco marcio
I primi testimoni sono tre stranieri: due bielorussi e un romeno. Pescatori che si trovavano sulla spiaggia alle 4 del mattino e hanno visto tutto: gli sos lanciati con le luci dei cellulari, la barca che si rovescia e si spacca e le persone che finiscono in mare.
Nel gergo nautico si chiama caicco: è un’imbarcazione di medie dimensioni, nata come peschereccio e poi usata per le crociere.
Ma il caicco, piuttosto comodo per un numero di passeggeri ridotto, può diventare una trappola quando a bordo ci sono dalle 140 alle 180 persone, a seconda delle ricostruzioni. Ed è pericoloso quando è in pessime condizioni. E quello naufragato a Crotone era addirittura marcio, come ha riportato qualche media.
Il relitto visto dall’alto
Strage di Cutro: la partenza
Non si scappa solo dai drammi epocali, come le guerre. Ma anche dai drammi quotidiani, come la miseria e la mancanza di prospettive. Le storie di questi migranti sono simili: partenza dal paese di origine. Arrivo e permanenza in Turchia con un solo desiderio: raggiungere l’Italia, il primo approdo in quell’Europa considerata da molti la salvezza. Uno di loro è rimasto a Teheran un anno. Vi ha lavorato alla meno peggio e poi ha tentato la sorte in Turchia. La prima volta gli va male: le autorità lo arrestano e lo costringono a restare in un campo. Poi, dopo il terremoto, i controlli saltano, lui riesce a scappare e si imbarca. Un altro proviene dall’Afghanistan, altro teatro tragico. Resta in Turchia un anno, dove lavora come può. Poi si imbarca.
I soldi del “biglietto” sono versati, di solito, a qualche agenzia compiacente che attiva l’organizzazione.
Una tutina da neonato: l’immagine simbolo della tragedia
La parte finale dell’imbarco è uguale per tutti: permanenza in una “safe house”, un covo lontano da occhi indiscreti, in questo caso nei pressi di Istanbul. Poi un viaggio via terra a bordo di pick up e finalmente l’imbarco a Cesme: è il 22 febbraio.
Strage di Cutro: il contrattempo
La nave, racconta uno dei testimoni, sembra bella: è rivestita di vetroresina di color bianco. E sarebbe persino confortevole.
Peccato solo che il motore sia andato. Infatti, dopo poche ore, gli scafisti sono costretti a chiedere aiuto. Arriva la seconda imbarcazione, il caicco, su cui salgono lo scafista siriano e i migranti. E il viaggio riprende, da una bagnarola all’altra.
Ma queste bagnarole sono preziose, per gli scafisti e per chi li manovra. Infatti, racconta un testimone, i quattro accompagnatori si sarebbero impegnati solo a “sbarcare in sicurezza” i migranti. Quindi non a chiedere soccorso se le cose si fossero messe male.
Di più: gli scafisti avrebbero dovuto portare indietro la barca. Questi dettagli, se confermati, spiegherebbero tanto. Troppo, forse.
Strage di Cutro: vietato comunicare
Gli scafisti, per fortuna, non sono violenti. Ma rigidi sì: vietato fare filmati a bordo. Vietato, soprattutto, comunicare finché non si arriva a destinazione.
Per precauzione, l’equipaggio della bagnarola utilizza uno Jammer, un disturbatore di frequenze che blocca i segnali dei cellulari.
I migranti potranno telefonare solo per dire che tutto è andato bene e, quindi, per sbloccare le somme che finiranno nelle casse dell’organizzazione.
È successo anche questo, a cento metri dalle coste di Cutro: vocali lanciati dai migranti poco prima del naufragio. Una beffa nella beffa: la costa vicina ma impossibile da raggiungere e il messaggio rassicurante (ai parenti rimasti in patria e all’organizzazione) e, pochi minuti dopo, il disastro.
Un momento dei soccorsi
Strage di Cutro: il linciaggio
Sono le prime ore del mattino del 26 febbraio. Impossibile sbarcare in sicurezza. Ma impossibile anche restare in mare.
I passeggeri vedono la costa e protestano. Gli scafisti hanno paura e tentano di tornare al largo. Poi, quando si accorgono che la bagnarola imbarca acqua, gonfiano un gommone e mollano i migranti alla loro tragedia.
I carabinieri del Nucleo radiomobile arrivano alle 4,30, soccorrono i primi superstiti e portano a riva i primi cadaveri.
Un migrante li avvicina e identifica uno degli scafisti: un turco, che è il principale indiziato. Occhio agli orari: una pattuglia di terra della Guardia Costiera arriva alle 5,30, circa un’ora dopo. Giusto in tempo per consentire ai militari di sottrarre lo scafista al linciaggio dei superstiti.
Siamo garantisti, d’accordo: ma si può pretendere altrettanto da chi ha visto annegare i propri cari a pochi metri dalla costa? E cosa si può provare nei confronti di chi non ha lanciato l’allarme perché una bagnarola è più importante della vita dei passeggeri?
I detriti del caicco in spiaggia
Strage di Cutro: gli interrogatori
Tutti i testimoni concordano su quel che è avvenuto in quelle ore terribili. E tutti riconoscono gli scafisti dalle foto.
Già: i migranti non potevano scattare foto a bordo. Ma loro, gli scafisti, si riprendevano con la massima tranquillità.
Ancora: i carabinieri hanno trovato addosso al primo indiziato – quello sottratto al linciaggio – passaporto, carta d’identità, patente, cinquecento dollari in banconote e quattro carte di credito. Bastano a distinguerlo dal resto dei passeggeri?
Per tre persone gli inquirenti hanno emesso il fermo. Gli altri sono ricercati. E il resto è cronaca e polemica. E lacrime.
«Potete respingere, non rimandare indietro», scrive Erri De Luca in Sola andata. Respingere sì, anche far morire, ma indietro non è possibile perché si scappa da un inferno che nel calduccio delle nostre case, nell’opulenza della nostra società, non possiamo nemmeno immaginare. Si muore in mare a poca distanza dalle nostre coste, come avvenuto poche ore fa. E la notizia giunge nel mezzo del pranzo domenicale, magari appena rientrati da una bella messa, commentando com’è stato bravo il parroco nell’omelia.
Ma la morte a un passo non scuote più a sufficienza e la distrazione cui siamo precipitati consente a chi ci governa di dire che il problema sono le partenze. Meloni e Piantedosi hanno trovato la soluzione: restino a casa loro. È il mantra della destra da sempre, che ha trovato spazio nell’ipocrisia anche dei governi che di destra non volevano essere, ma che avevano ripudiato la solidarietà e messo in tasca gli affari con i governi tagliagole dei paesi da cui questa umanità sofferente prova a scappare.
Bufale e aridità
Non importa che la percentuale di migranti ospitati nel nostro Paese sia molto più bassa di quella presente nel resto d’Europa, né che spesso l’Italia sia soprattutto un luogo di transito. Quel che conta è costruire abilmente un racconto che accechi gli animi prima che gli occhi, consegnandoci un’orda pericolosa che spinge alla porta sbarrata della fortezza Italia per espugnarla, contaminarla di culture che sono diverse. Ed ecco la bufala dei presepi in pericolo, della cristianità da proteggere come in una rinnovata battaglia di Lepanto, del lavoro da tutelare. Mentre il crudele mondo della realtà ci sbatte in faccia storie didisgraziati schiantati dal lavoro nei campi del meridione d’Italia, tornati indietro ai tempi del caporalato, sfruttati per una manciata di euro. Morti di fatica, morti di freddo, morti bruciati per scampare al freddo.
Migranti morti a Crotone, vittime predestinate
I migranti sono le vittime predestinate di un meccanismo che colpisce solo gli ultimi. Sopra di loro ci sono gli scafisti, ma anche loro sono pesci piccolissimi in un mare dove girano squali famelici, intoccabili, anzi nemmeno nominabili, anzi forse con cui si fanno pure buoni affari. Una piramide criminale che sta dietro al fenomeno migratorio in cui nemmeno la ‘ndrangheta vuole entrare – come ha spiegato Anna Sergi su ICalabresi –pur se quei disgraziati vengono sbarcare e certe volte a morire proprio in Calabria.
Per ogni governo e per questo in corso ancor di più, è più facile pensare a improbabili blocchi navali, magari da realizzare fornendo noi stessi le navi a quei paesi canaglia i trafficanti di uomini operano. È più facile criminalizzare la solidarietà, consegnare all’opinione pubblica le Ong come complici dei trafficanti. Il difficile è rassegnarsi al fatto che le migrazioni sono un fenomeno sociale vecchio quanto il mondo: si è sempre tentato di andare via dai luoghi dove non si poteva più vivere, per una guerra, per la fame, per una dittatura. E oggi vengono da noi, perché ci piaccia o meno, da questa pare c’è il mondo ricco.
«In Emilia Romagnale mafie sono figlie adottive». Così, appena pochi giorni, fa, il procuratore generale di Bologna, Lucia Musti, definiva la presenza della criminalità organizzata in quella regione. Terra di affari l’Emilia Romagna. Ma anche terra di omicidi e di faide.
La statua di Peppone a Brescello (RE)
Nicolino Grande Aracri: da Cutro all’Emilia Romagna
Se oggi si può parlare di presenza della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, molte delle responsabilità sono in capo a Nicolino Grande Aracri. Il boss venuto da Cutro, in quei luoghi, avrebbe ricreato nell’economia, ma anche nella politica, le medesime dinamiche della casa madre. Lo chiamano “Il Professore” o “Mano di gomma”.
Quando, nel gennaio 2015, i carabinieri lo arrestano, nel corso di una perquisizione domiciliare rinvengono anche una spada simbolo dei Cavalieri di Malta. È la maxi-inchiesta “Aemilia” a mostrare e dimostrare, in tutta la sua ampiezza, la capacità della ‘ndrangheta non solo di penetrare tutti i territori, ma anche di entrare in stanze apparentemente inaccessibili. Da Cutro, paese in provincia di Crotone, Grande Aracri infatti avrebbe costruito un impero in Emilia Romagna, ma si sarebbe mosso in ambienti impensabili, se non si considera la ‘ndrangheta come l’organizzazione criminale più potente d’Italia e tra le più potenti in Europa e al mondo.
Una guardia svizzera in Vaticano
Le ingerenze di Grande Aracri, infatti, sono da registrare negli ambienti massonici, ma anche in Vaticano e fino alla Corte di Cassazione. Un’inchiesta mastodontica, quella che svela gli affari della ‘ndrangheta crotonese in Emilia Romagna, con cui gli inquirenti scoprono lucrose operazioni finanziarie e bancarie che alcuni soggetti avrebbero messo in atto per conto di Grande Aracri, ponendosi come intermediari tra questi e altri soggetti estranei all’associazione al fine di consentire l’avvicinamento a settori istituzionali anche per il tramite di ordini massonici e cavalierati.
Ancora una volta la ‘ndrangheta si mostra per quella che è: non solo una banda armata, ma un’organizzazione che ha come proprio principale scopo quello di tessere relazioni sociali e istituzionali al fine di arricchirsi e condizionare i territori su cui opera.
Grande Aracri e la massoneria
Nicolino Grande Aracri in un’immagine di qualche anno fa
Come emerge dalle intercettazioni agli atti dell’inchiesta “Kyterion”, Nicolino Grande Aracri sarebbe stato molto ben inserito in ambienti massonici, ottenendo anche l’investitura a “Cavaliere”. È lo stesso boss originario di Cutro a confermarlo in una conversazione captata: «Io ho avuto la fortuna di capire certe cose…sia dei Templari…sia dei Cavalieri Crociati…di Malta…la Massoneria di Genova…». Sono gli stessi soggetti intercettati nell’inchiesta a dar peso al legame tra massoneria e criminalità organizzata: «E lì ci sono proprio sia ad alti livelli istituzionali e sia ad alti livelli di ‘ndrangheta pure».
Il meccanismo è quello che nasce con la “Santa”. Grazie alla massoneria, alcuni soggetti, pur se non affiliati alla ‘ndrangheta, sono in grado di assicurare al sodalizio entrature nelle sedi istituzionali più disparate come quelle della Chiesa e della magistratura, per garantire – è scritto negli atti processuali – “pressioni e capacità di intervento circa le vicende processuali degli affiliati”.
Le amicizie romane di Grande Aracri
Grande Aracri avrebbe cercato di aggiustare un processo a Roma per far annullare la decisione del Tribunale del Riesame di Catanzaro che aveva confermato l’arresto del cognato. Quella sentenza fu effettivamente annullata con rinvio dalla Cassazione, ma gli inquirenti non riusciranno ad accertare il coinvolgimento di un magistrato.
Sempre per aiutare il cognato, Nicolino Grande Aracri avrebbe speso (senza successo, tuttavia) anche le proprie amicizie in Vaticano. L’obiettivo è spostare il parente detenuto dal carcere di Sulmona a quello di Siano, a Catanzaro, in modo tale che fosse più vicino ai familiari: la provincia crotonese, infatti, non dista molti chilometri dal capoluogo di regione. Tramite un’amica giornalista, Grande Aracri prova a intervenire in Vaticano.
Il carcere di Siano
La donna, infatti, è in stretto contatto con un monsignore, nunzio apostolico e, nel 1995, “cappellano di sua Santità”. Un prelato che sarebbe capace di smuovere cardinali e non solo. «Il nostro piccolo Giovanni tra una settimana starà vicino casa sua», dice la donna dopo l’incontro, avvenuto in Vaticano. Il monsignore manda anche i saluti alla moglie del detenuto: «Ha detto che è stata generosa e splendida. Gli ha lasciato 500 euro che lui ha preso volentieri per i suoi poveri».
In Emilia Romagna si spara
Non solo affari. Anche sangue. E a fiumi. Nonostante il negazionismo della classe dirigente, in Emilia Romagna la ‘ndrangheta è presente e influente almeno dagli anni ’80. Ma è negli anni ’90 che l’Emilia Romagna si trasforma, sostanzialmente, nella provincia di Crotone. Non solo per la presenza delle cosche che, secondo quanto riferito dai collaboratori di giustizia, sarebbe organizzata in cerchi, con un ruolo predominante da parte di Nicolino Sarcone. Ma anche perché, nei primi anni ’90, in Emilia Romagna si spara. Proprio come se ci si trovasse nell’entroterra calabrese.
Nicolino Sarcone
È il 1992 quando vengono uccisi Nicola Vasapollo e Giuseppe “Pino” Ruggiero. Non a Cutro. Il primo (a settembre) a Pieve Modolena. Il secondo (a ottobre) a Brescello. Proprio sui luoghi di don Camillo e Peppone.
E i mandanti sarebbero proprio due tra i boss più carismatici della ‘ndrangheta in Emilia Romagna: Nicolino Grande Aracri e Nicolino Sarcone, che delle cosche di Cutro sarebbe l’avamposto a Reggio Emilia.
Per Grande Aracri la svolta arriva con la carcerazione di Antonio e Raffaele Dragone, i boss crotonesi a cui era inizialmente legato. La scissione con il clan Dragone comincia a maturare proprio in quegli anni fino a sfociare in una vera e propria faida che raggiunge il culmine quando, nel 1999, viene assassinato a Cutro Raffaele Dragone, figlio dell’anziano capobastone. Seguirà una lunga scia di sangue. Tra il 1999 e il 2004 in provincia di Reggio Emilia cadono uccise dodici persone. Eppure, dovranno passare diversi lustri, con l’inchiesta “Aemilia” prima, curata dal pm Beatrice Ronchi, e con l’inchiesta “Grimilde” poi, per poter parlare, con voci negazioniste più blande, di ‘ndrangheta in Emilia Romagna.
L’auto di Antonio Dragone dopo l’agguato mortale
Il 19 luglio 2018 la Corte d’assise d’appello di Catanzaro ha condannato Nicolino Grande Aracri ed il fratello Ernesto, entrambi all’ergastolo. Sentenza divenuta definitiva nel giugno del 2019, per l’omicidio del vecchio capobastone di Cutro, Antonio Dragone, avvenuto nel 2004 nelle campagne del Crotonese, del quale Nicolino Grande Aracri era stato il braccio destro.
Gli affari di Nicola Femia
Nicolino Grande Aracri e Nicolino Sarcone sono forse i due boss maggiormente carismatici della ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Ma non gli unici.
Un nome importante è quello di Nicola Femia. Per anni fa girare diversi soldi in quei luoghi, poi lo arrestano e diventa collaboratore di giustizia.
Femia, da ex uomo forte della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, decide di collaborare dopo essere stato pesantemente condannato in primo grado per i propri affari illeciti al nord, fatti soprattutto di gioco d’azzardo. L’impero delle slot machine, soprattutto.
Nicola Femia
Femia ricorda gli anni calabresi e racconta del ruolo avuto da poliziotti, 007 e mediatori nella stagione dei sequestri che ha terrorizzato l’Italia. I protagonisti hanno tanti nomi. Molti, soprattutto se di rango istituzionale, occulti. Altri noti. Come quello del boss Vincenzo Mazzaferro, di cui Femia si definisce “uomo riservato”.
Questo ruolo, gli avrebbe consentito di conoscere la trattativa che le Istituzioni avrebbero imbastito con la ‘ndrangheta, in particolare per la liberazione di Roberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni.
Roberta Ghidini e sua madre si abbracciano in lacrime poco dopo la liberazione della ragazza
Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò: quella liberazione sarebbe costata 500 milioni di lire, in una valigetta che avrebbe fatto il giro della Locride tra le mani proprio di Mazzaferro, appositamente fatto uscire dal carcere di Regina Coeli – in base all’oscuro “accordo” – per assolvere tale ruolo. Una delle stagioni più oscure della storia d’Italia, di cui, al momento, si conoscono solo pochi flash, come quelli, inquietanti, spiegati da Femia: «I Servizi ci mangiavano con i sequestri. Se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendevano i servizi».
Il finto pentimento di Nicolino Grande Aracri
Anche i protagonisti della ‘ndrangheta emiliana si muovono sempre in ambienti torbidi e occulti. E, stando a quanto sostenuto dagli inquirenti, utilizzano anche i metodi più subdoli della ‘ndrangheta d’élite. Nell’aprile 2021, infatti, è dirompente la notizia del pentimento di Grande Aracri. In tanti sperano che la ‘ndrangheta possa aver trovato il suo Tommaso Buscetta. Un boss di altissimo rango in grado di aprire le porte più inaccessibili sulla struttura della ‘ndrangheta unitaria, ma anche sui suoi riferimenti istituzionali.
Il procuratore Nicola Gratteri
L’illusione durerà solo pochi mesi. La collaborazione di Grande Aracri viene gestita dalla Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri, che impiegherà pochi mesi per bollare come inattendibile la scelta e fantasiose le rivelazioni di Grande Aracri e a smascherare la manovra, rispedendolo al 41bis.
Una manovra per incolpare qualche nemico storico, per sminuire i suoi crimini, ma, soprattutto, per salvare la famiglia. La moglie e la figlia, soprattutto. In una relazione depositata, i pm antimafia parleranno anche del “sospetto peraltro che l’intento collaborativo celasse un vero e proprio disegno criminoso”.
Acque agitate a Crotone dopo le ultime nomine del presidente della RegioneRoberto Occhiuto. Non sono andate giù a molti e c’è chi parla di un Sergio Ferrari (presidente della Provincia e sindaco di Cirò Marina) imbufalito.
Già, perché Occhiuto due settimane fa ha scelto come propria consulente Flora Sculco, l’ex consigliera regionale dei “Democratici e Progressisti”, poi candidata non eletta tra le file dell’Udc.
Dovrà occuparsi, riporta l’atto di incarico, di «azione di raccordo politico istituzionale con il sistema delle autonomia locali del territorio della Provincia di Crotone, sui temi riguardanti la verifica della appropriatezza ed efficacia dell’attuazione del programma di governo, con particolare riferimento alla definizione e realizzazione degli obiettivi strategici afferenti il territorio della Provincia di Crotone in materia di comunicazione del territorio». Una bella gatta da pelare per Ferrari: con gli Sculco è agli antipodi.
Occhiuto, Ferrari e Crotone: le ultime parole famose
Soltanto lo scorso settembre Occhiuto a Crotone dichiarava che era un «riferimento per il territorio e gli amministratori locali». Non solo: gli riconosceva – informalmente, è ovvio – il ruolo di «consigliere regionale aggiunto del territorio»
All’indomani delle Provinciali del dicembre 2021, poi, il coordinamento regionale di Forza Italia (che ha a capo il presidente della commissione Bilancio della Camera, Giuseppe Mangialavori) aveva diramato una nota. Dal testo inequivocabile: «La vittoria di Sergio Ferrari segna un nuovo inizio per la Provincia di Crotone e, dopo il trionfo alle ultime elezioni regionali, conferma l’ottimo stato di salute del centrodestra in Calabria (…) è l’uomo giusto per imprimere una svolta e far rinascere la Provincia di Crotone».La nomina di Sculco, però, pare cambiare lo scenario. Tanto che Ferrari è pronto a rilanciare e presentare venerdì un “movimento dei sindaci” definito «apartitico».
Occhiuto e Mangialavori in campagna elettorale
Il casus belli
Alle Regionali che incoronarono Roberto Occhiuto, Sergio Ferrari si accreditò sostenendo i candidati di punta scelti da Mangialavori: Michele Comito e Valeria Fedele. Quest’ultima, senza aver mai messo piede a Cirò Marina, superò le 600 preferenze nel paese di Ferrari. Il sindaco lanciò così la propria candidatura alla presidenza della Provincia. E proprio in quella occasione emerse il forte contrasto con Enzo Sculco, fresco di mancata rielezione regionale della figlia tra le file dell’Udc. Uno smacco non da poco per lui, che del partito è responsabile organizzativo regionale (anche se oltre alla candidatura della prole non risulta abbia organizzato un bel niente in quasi due anni di incarico).
Flora ed Enzo Sculco
Sculco vide fin da subito come fumo negli occhi la candidatura di Ferrari. La bollò come «una scelta esterna, fuori dai partiti della coalizione». E stilò lui stesso una lista provinciale, “Crotone protagonista”. Annoverava solo 5 candidati su 10, di cui tre consiglieri comunali di Melissa, comune guidato dal “cigiellino” Raffaele Falbo ma a maggioranza sculchiana. Basti pensare che tra i candidati c’era anche Maria Carmela Sculco, sorella dello stesso Enzo.
Sfiducia di fatto
Fiutata l’aria, a due giorni dal voto Sculco dichiarò di votare Ferrari. La sua lista ottenne comunque il 5,5%, ma non riuscì ad eleggere nemmeno il favorito Antonio Megna, consigliere comunale di Crotone. Un segnale di debolezza rispetto a Ferrari, che asfaltò il sindaco della città pitagorica Enzo Voce toccando il 63,7%.
Ora Flora Sculco (con tanto di ufficio al decimo piano della Cittadella, si sussurra) dovrà occuparsi del “raccordo politico istituzionale con il sistema delle autonomie locali del territorio della Provincia di Crotone” con riferimento proprio all’attuazione del programma di governo regionale. Ferrari viene, di fatto, sfiduciato. Troppi gli imbarazzi causati dalla macchina amministrativa di Cirò Marina (dal “caso Padel” alle “parentopoli” su cui abbiamo scritto). Anche perché nelle ultime settimane se ne sono aggiunti altri: incarichi in municipio coi fondi Pnrr.
Capodanno col Pnrr
Dopo i colloqui del 27 dicembre, il 31 sono arrivati i contratti di collaborazione per i professionisti. Ma chi sono i beneficiari? Tralasciando la nuova esperta del settore informatica Ramona De Simone – che dal suo profilo LinkedIn risulta commessa da Trony dal 2017 – ci si imbatte in una nuova sfilza di parenti. L’esperta in tematiche ambientali sarà – era l’unica candidata – Anna Lisa Filippelli. È la figlia dell’ex senatore e sindaco di Cirò Marina, oggi consigliere comunale, Nicodemo, esponente del partito “Italia del Meridione” di Orlandino Greco.
Si resta ancora di più in famiglia con il settore giuridico. Lì gli esperti saranno, infatti, marito e moglie: Francesco Scarpelli e Maria De Mare. Lui solo esperto “junior” però, nonostante sia cugino della moglie del vicesindaco Pietro Mercuri.
Ritorno al passato
Come esperto in monitoraggio e controllo c’è Livio Zizza, marito di Caterina Fuscaldo. Che è figlia di Pino, responsabile ufficio segreteria del Comune, e nipote di Giancarlo,presidente del consiglio comunale durante la precedente amministrazione (sciolta per mafia) guidata da Nicodemo Parrilla. Quest’ultimo in Stige ha riportato una condanna in primo grado a 13 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. La Procura ne ha chiesto la conferma nell’appello tuttora pendente.
L’esperta del settore geologia sarà invece Rosita Prato, nipote dell’ex dirigente comunale (dallo scorso marzo in pensione) Mario Patanisi e sorella dell’assessora – nel 2016 sempre con Parrilla – Assunta Prato.
Ferrari con Siciliani in un convegno di qualche anno fa
Nessuna parentela, invece, per l’esperta in opere pubbliche. L’architetta Vittoria Giardino, comunque, non è nuova in municipio. Risulta, infatti, già beneficiaria di incarichi professionali dal comune di Cirò Marina anche durante la giunta guidata da Roberto Siciliani, che vedeva proprio Ferrari assessore. Siciliani, lo si ricorderà, è stato condannato sia in primo grado che in appello nel filone con rito abbreviato di Stige: 8 anni di carcere per concorso esterno.
Occhiuto e il firma-gate di Crotone
Il commissariamento (o quasi) di Ferrari non è l’unica mossa di Occhiuto a Crotone. Senza Forza Italia (o alcuni filoni di essa) probabilmente il sindaco pitagorico Enzo Voce, espressione del movimento “Tesoro Calabria” di Carlo Tansi, sarebbe già un vago ricordo politico.
Vincenzo Voce, sindaco di Crotone
Subito dopo le Provinciali del dicembre 2021, spuntò fuori un documento nel quale 13 consiglieri richiedevano la convocazione di un consiglio comunale ad hoc preannunciando di voler sfiduciare Voce. Il sindaco “tansiano” replicò in una conferenza stampa che uno dei firmatari lo aveva chiamato per disconoscere la firma, motivo per cui si sarebbe recato in Procura a presentare un esposto per falso.
Si trattava di Andrea Tesoriere, consigliere comunale di “Forza Azzurri”, il gruppo comunale di diretta espressione del governatore Occhiuto, che dopo il “firma-gate” ritirò espressamente la firma.
Stampelle e rimborsi: “Forza Voce”
Un anno dopo arrivò un’ulteriore stampella da parte di Fi, direttamente dall’ex parlamentare Sergio Torromino e dall’ormai ex coordinatore cittadino, Mario Megna, divenuto presidente del consiglio comunale.
Megna, già portaborse della consigliera regionale azzurra Valeria Fedele, è stato recentemente condannato dalla Corte dei Conti (sentenza 235/2022 del 29 dicembre 2022) al pagamento di 13.800 euro per danno erariale al Comune di Crotone. Lo stesso, lo scorso giugno, aveva chiesto l’autorizzazione al settore affari generali del Comune (determinazione 1054 del 24 giugno), per partecipare ad incontri istituzionali a Reggio Calabria presso la sede del Consiglio regionale, chiedendo il rimborso spese per viaggio e vitto.
Megna e Torromino
Piccolo particolare: da portaborse, la sua sede di lavoro, da contratto, è proprio il Consiglio regionale della Calabria. Insomma, Megna ha richiesto il rimborso dal Comune di Crotone per andare a quello che era il suo luogo di lavoro.
Oggi, invece, grazie al sindaco, avrà un compenso da 4.806 euro lordi al mese. E se Mangialavori ha preso le distanze, Torromino ha difeso l’operazione. In ogni caso, “Forza Voce”.
Quando un giorno di dicembre ci si sveglia con i titoli dei giornali della seguente tipologia “Estorsioni a Manhattan: 18 arresti nel crotonese”, ci si aspetta – prima ancora di capire di che notizia si tratti – che gli arresti del crotonese siano collegati ad arresti a New York. Oppure che ci sia evidenza di estorsioni da parte di soggetti del crotonese a Manhattan. Suona un po’ inusuale, ma sicuramente sarebbe una gran notizia. Ma cosa significa che la ‘ndrangheta, un qualche clan di ‘ndrangheta, effettua estorsioni a Manhattan? Il 19 dicembre, una volta uscita la notizia, dettagli su estorsioni a Manhattan non compaiono né sui giornali né nelle carte dell’operazione. Men che meno tra le notizie americane: non ci sono arresti, indagini, niente di niente, a New York.
Il 19 dicembre, gli arresti a Rocca di Neto sono tutti concentrati sulla realtà crotonese. Nel corso di quel giorno, aspettando documenti dalle procure e giornalisti che iniziano a raccontare la vicenda, si comprende che gli arresti a Rocca di Neto sono legati ai clan mafiosi, di matrice ‘ndranghetista, e soprattutto alla famiglia Comito-Corigliano, legata a doppio filo al gruppo mafioso Iona-Dima e al locale di Belvedere Spinello, oggetto di plurime risultanze processuali sin dagli anni ’80, «coordinato e diretto da Iona Guirino dal carcere il quale agiva anche all’esterno mandando direttive (tramite il figlio Iona Martino) ai sodali» come si legge già in una sentenza del Tribunale di Crotone già nel 2006.
Rocca Di Neto, teatro della recente operazione della Dda di Catanzaro
Le relazioni pericolose
Negli atti dell’operazione, riportati su Il Fatto Quotidiano a firma di Lucio Musolino, poi su altri canali nazionali e locali, fino al giorno di Santo Stefano con ulteriori dettagli da Antonio Anastasi su Il Quotidiano del Sud, si legge poi che è proprio al clan Iona di Belvedere Spinello e al clan Corigliano di Rocca di Neto, che farebbero riferimento alcuni soggetti dimoranti da tempo a New York e particolarmente nell’area di Long Island. Si tratta di soggetti attenzionati dall’FBI di New York, per ora a livello investigativo, come Teodoro Matozzo, detto Terry, coinvolto con la criminalità organizzata locale – famiglie Gambino e Colombo si dice – e garante dei servizi in tema di estorsioni a un imprenditore newyorkese.
Uno scorcio suggestivo della Grande Mela, dove la ‘ndrangheta prospera grazie a Cosa Nostra
Matozzo, ponte tra la criminalità locale e alcune nuove (e vecchie) leve calabresi a New York, avrebbe incaricato il gruppo criminale calabrese dei rocchitani di compiere ulteriori estorsioni a danno di imprenditori residenti nello Stato di New York, dopo un’estorsione andata a buon fine. Tale gruppo e il loro piano estorsivo sono diventati dunque oggetto di indagine da parte dell’FBI dal marzo del 2020 – in collaborazione con le nostre procure antimafia tramite I-CAN (Interpol Cooperation Against the ‘Ndrangheta) e avevano portato anche a osservare le relazioni tra altri soggetti negli Stati Uniti, lì dimoranti o in visita.
Estorsioni e unità a New York
Tra questi, Ernesto Toscano, di Rocca di Neto, che grazie a Matozzo aveva iniziato a frequentare New York con vari intenti, alcuni dei quali criminali, come ad esempio cambiare assegni a nome di una società locale appartenente ad alcuni “amici” per liquidità pari a quasi un milione di dollari. Tra chi ha un negozio di compro-oro e cambio-assegni, e chi gestisce imprese di pitturazione o imprese edili, la comunità della zona della Valle del Neto fa cerchia e sostiene i conterranei, vecchi e nuovi. Molti dei soggetti menzionati in questa operazione e indagine hanno business o dimora nelle zone di Franklin Square e Glen Cove, nella Nassau County a Long Island – a est di New York City.
Una mappa di New York e Long Island
Insomma, dicono le carte e raccontano i giornalisti che in questa operazione e indagini collegate, grazie al coinvolgimento dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia americano, si conferma «l’esistenza di un gruppo unitario di ‘ndrangheta operante nell’area di Long Island, direttamente riferibile ai clan Corigliano di Rocca di Neto e Iona di Belvedere Spinello». Ma, dunque, cosa significa che la ‘ndrangheta di Belvedere Spinello e Rocca di Neto, ‘offre’ estorsioni a Manhattan?
La ‘ndrangheta come manovalanza di chi comanda davvero
Di base, significa, che questa ‘ndrangheta viene usata come manovalanza per organizzazioni criminali autoctone – principalmente famiglie di Cosa nostra americana – che si ritengono, o sono ritenute, superiori, al punto da poter commissionare ai rocchitani i servizi di racketeering, cioè protezione ed estorsione. È dunque una ‘ndrangheta riconosciuta in territorio statunitense, sebbene criminalmente – nella gerarchia del crimine organizzato – su un gradino inferiore.
Si parla spesso di ‘ndrangheta globalizzata, come se fosse in qualche modo quasi un “merito” della criminalità organizzata calabrese riuscire a inserirsi in altre realtà criminali e non. E ancora ci si sorprende che l’antimafia italiana e l’FBI facciano operazioni di contrasto comuni (ricordiamo che in realtà ciò accade dai tempi di Pizza Connection con Giovanni Falcome…). Ma da un punto di vista analitico si sa che la globalizzazione del crimine organizzato è effetto collaterale della mobilità del capitalismo: mobile è il capitale, mobile è l’individuo, mobile la comunicazione, mobile è anche l’azione di contrasto.
È dunque da considerarsi normale – nel senso di atteso, previsto e prevedibile – sia che clan mafiosi facciano affari all’estero, sia che le autorità si adoperino per cooperare e stopparne le attività. È da considerarsi normale attività da mondo globalizzato che si utilizzino le asimmetrie giudiziarie e finanziarie tra Stati Uniti e Italia per spostare i soldi da una parte all’altra e ricavarci qualcosa anche illecitamente. Normale è che da New York si telefoni a Catanzaro sperando di riuscire a coordinare indagini e azioni di polizia.
Controllo del territorio a New York
Ma in questo caso a New York ci sono le estorsioni, che non sono “banali” attività criminali da mafia globalizzata. Non si tratta qui solo di iniziative di sfruttamento di contesti diversi e opportunità illecite e di arricchimento all’estero – che pure ci sono. Le estorsioni a imprenditori locali nella città statunitense (effettive o tentate) denotano un certo grado di controllo del territorio – fisico quanto virtuale o settoriale – e soprattutto un gruppo che sul territorio vuole rimanere e si dimostra intraprendente.
Matozzo e i suoi sodali, per quanto nati in Calabria, questo controllo sembrano avercelo o mirano a consolidarlo perché sono americani sia nello spazio di azione che per la loro rete relazionale. Vengono definiti gruppo di ‘ndrangheta per origini e per collegamenti alla Calabria, ma di fatto sono molto di più. È il loro essere non solo calabresi, ma anche e soprattutto newyorkesi, a renderli capaci di sfruttare al meglio le varie sfaccettature dei possibili scenari illeciti.
Più americani che calabresi
Non è il loro essere ‘ndrangheta – qualunque cosa questo implichi – a renderli capaci di offrire servizi di racketeering; è grazie alla dimestichezza con l’economia legale della città americana e ai contatti con le famiglie criminali di Cosa nostra americana che questo gruppo di migranti riesce a cooptare calabresi sbarcati oltreoceano con visto turistico da impiegare in non meglio precisate attività, tra cui verosimilmente lavoro in nero e/o manovalanza criminale in varie aree della Grande Mela. Ad esempio, parrebbe che il gruppo avesse ideato la possibilità di estorcere imprenditori grazie anche all’attività (legale) della moglie di Matozzo, riconosciuta dalle Camere di commercio newyorkesi.
Le cinque famiglie di Cosa nostra amaericana (foto Marianne Barcellona, Irpimedia)
C’è poi un altro dato da considerare in questa vicenda. L’elemento interessante per l’analisi dei fenomeni criminali in questo caso riguarda soprattutto l’assetto criminale della città americana. A New York – come già detto – non può entrare la ‘ndrangheta dalla Calabria a gamba tesa, o chiunque altro, se non per offrire servizi necessari per il crimine organizzato, ma di “derivazione” o su “commissione” di gruppi locali già radicati – protezione, estorsione, distribuzione di sostanze stupefacenti. Esiste un brand più forte, quello di LCN (La Cosa Nostra – americana) con le cinque famiglie, Gambino, Genovese, Colombo, Bonanno, Lucchese che sopravvivono (a fatica, comunque) grazie a un’identità acquisita e consolidata da decenni, a cui gli altri, italiani e calabresi arrivati oggi come 40 anni fa, si legano.
In trasferta è un’altra cosa
I cinque cognomi – intorno a cui FBI e NYPD (New York Police Department) organizzano il loro lavoro da oltre quarant’anni – sono ormai cognomi tipici dei casati reali, non più indicativi della loro leadership (non c’è un Genovese a capo o nelle fila della famiglia Genovese per dire) ma chiaramente riconoscibili da esterni e interni. Che un gruppo di calabro-americani possa offrire servizi di protezione ed estorsione ad affiliati di una o più delle cinque famiglie, conferma che i clan calabresi – quelli in Calabria – sanno giocare la partita, sanno adattarsi ai campi da gioco, vogliono giocare fuori casa, ma non sempre sono i campioni in carica nelle trasferte.
E ci fa riflettere sul fatto che anche quando si tratta di attività che riguardano il territorio – tipo le estorsioni – la presenza e la partecipazione della ‘ndrangheta all’estero è dipendente dagli assetti criminali locali: sono effetto della globalizzazione la mobilità e la fama della mafia calabrese, ma non il successo oltremare.
Dall’alba della civiltà al 1582 tutti i popoli hanno cercato invano di sincronizzare le date del calendario ai cicli delle stagioni. Solo Luigi Lilio vi riuscì. Quello di Lilio era un compito arduo da svolgere. Ai suoi tempi mancavano le leggi dei modelli planetari, i metodi della fisica e gli strumenti della matematica che vedranno la luce pochi anni dopo grazie a Keplero, Galileo e Newton. Lilio non aveva a disposizione queste conoscenze, ma riuscì ad elaborare un calendario così preciso da sfidare i secoli. A Cirò è stato realizzato un museo dedicato a Luigi Lilio dove sono riprodotti i più importanti documenti della riforma del calendario.
Il museo di Cirò dedicato a Luigi Lilio (foto Giovanni Bosi)
Lilio, medico a Napoli e professore a Perugia
Lilio nacque nel 1510 a Psycron, oggi Cirò. Dopo aver compiuto gli studi di medicina a Napoli si trasferisce a Roma ed è accertato che vent’anni dopo era professore di medicina a Perugia. Non sappiamo dove e quando morì, ma sicuramente prima del 1576. Medico, dunque, ma anche edotto di matematica e di astronomia, come del resto era normale che avvenisse per l’istruzione universitaria dell’epoca. Tra le discipline che l’aspirante medico doveva studiare c’erano l’astronomia e l’astrologia per via degli influssi che gli astri potevano avere sulle malattie. Sono poche le vicende note della esistenza di Luigi Lilio, tanto che in passato non sono mancati dubbi sulla sue origini calabresi.
Il calendario giuliano “sbagliava” il giorno di Pasqua
Luigi Lilio, busto di realizzato da Giuseppe Capoano, 2012
Nel corso dei secoli la discordanza tra le date del calendario giuliano, in vigore dal 46 a.C., e l’equinozio di primavera, impone la necessità di correggere le regole adottate per registrare il tempo. Di questo problema soffre in particolare la Chiesa Cattolica, che già dal Concilio di Nicea del 325 aveva legato al novilunio e all’equinozio di primavera il suo mistero fondamentale: la Resurrezione di Cristo. I Padri del Concilio di Nicea avevano stabilito che la Pasqua di Resurrezione si dovesse celebrare nella domenica seguente alla XIV Luna (plenilunio) del primo mese dopo l’equinozio di primavera.
Nella metà del 1500 il calendario giuliano aveva segnato come giorno dell’equinozio di primavera il 21 marzo, ma gli astri l’avevano indicato l’11 marzo cioè circa 10 giorni prima. In considerazione di ciò, la Pasqua si celebrava nel periodo astronomicamente sbagliato. Appare ormai improcrastinabile la riformulazione del calendario, ma era un compito arduo da svolgere. Si trattava di correggere il computo per registrare il tempo e contemporaneamente evitare che l’equinozio astronomico di primavera rimanesse indietro, rispetto al calendario civile, com’era successo nel corso dei secoli.
Le meccaniche celesti
Le difficoltà astronomiche da risolvere riguardavano sia il moto apparente del sole sia il moto relativo della luna. Si trattava di sincronizzare il tempo civile con gli indicatori celesti, mantenendo un vincolo inamovibile: la data dell’equinozio di primavera, convenzionalmente fissata in modo perenne il 21 marzo. Il moto dei pianeti, però, è tutt’altro che regolare ed uniforme. In particolare, non è uniforme il cammino della terra attorno al sole. E, di conseguenza, nell’ottica precopernicana, non è neppure uniforme il moto apparente del sole rispetto al nostro pianeta. Il calendario è la rappresentazione degli aspetti periodici di questo moto; quindi finché esso si basa su regole precise e invariate nel tempo, è destinato a sfasarsi rispetto ai fenomeni celesti e ogni tanto deve essere “aggiustato” se lo vogliamo sincronizzato con le stagioni.
Dieci giorni di ritardo per il pianeta Terra
La Terra non presenta solo il moto della rotazione e della rivoluzione, ma è soggetta anche ad altri movimenti meno appariscenti; uno di questi, detto della “precessione degli equinozi”, consiste in una specie di moto di trottola che fa oscillare l’asse di rotazione con un periodo di circa 26mila anni. Il moto orbitale della Terra è riproducibile solo nel suo complesso, ma una formalizzazione accurata deve considerare la variabilità di tutti i termini descrittivi, causata da altre oscillazioni proprie della Terra, dalle perturbazioni gravitazionali degli altri pianeti e dal rallentamento della rotazione per effetto delle maree.
A metà del XVI secolo aver trascurato tutto ciò comportava un ritardo di circa 10 giorni della reale posizione della Terra rispetto al calendario giuliano allora in uso. In breve, l’anno del calendario civile era considerato di 365, 25 giorni, più lungo dell’anno tropico di cui era incerta la reale misura. La Terra era rimasta indietro di 10 giorni nella sua orbita intorno al Sole, rispetto a quanto era previsto nel calendario giuliano.
La Chiesa non sapeva quando fosse Pasqua
Può non essere ovvio come questo problema debba riguardare la religione cristiana. In effetti, l’interesse astronomico della Chiesa discende dall’aver connesso la celebrazione della Pasqua alle fasi lunari e all’equinozio di primavera. Il non saper proporre un metodo esatto per la determinazione della data della Pasqua, rischiava di compromettere ulteriormente l’autorità della Chiesa cattolica in quel periodo storico molto difficile, scosso dallo scisma dei Protestanti e dei Calvinisti. Roma avvertiva il pericolo di un’ulteriore frattura con la Chiesa d’Oriente. Si doveva trovare un metodo indiscutibile, di validità perenne e di facile comprensione anche per chi non avesse specifiche competenze scientifiche.
Il calendario in ritardo
Nel 325 d.C., per fare fronte al dilagare dello scisma di Ario, papa Silvestro I e l’imperatore Costantino indissero in Bitinia (attuale Turchia) il primo importante Concilio cristiano: quello di Nicea. Il calendario era all’epoca in ritardo di tre giorni rispetto alle stagioni e ciò provocava nei cristiani sconcerto nel fissare la data della loro festa principale, la Pasqua. Per evitare il pluralismo liturgico nelle comunità cristiane, si fece strada l’idea di legare la Resurrezione del Cristo all’anno solare e al calendario di Cesare, utilizzando l’equinozio di primavera come data astronomica per la determinazione della Pasqua. Si stabilì una data fissa per tale avvenimento celeste, che invece è leggermente variabile: il 21 marzo.
Il Concilio di Nicea
I padri conciliari eliminarono due giorni dall’anno per risistemare l’equinozio al 21 marzo, ma non furono in grado di correggere il difetto fondamentale del calendario giuliano che rimase più lungo rispetto all’anno solare. Mentre attraverso i secoli scorreva placidamente il calendario giuliano, la data dell’equinozio di primavera si allontanava lentamente rispetto alla misura reale dell’anno tropico.
Diversi pontefici, non pochi concili e molti studiosi versati nelle discipline matematiche e astronomiche nel corso dei secoli avevano tentato invano di conciliare i due periodi del mese lunare e dell’anno solare.
Ruggero Bacone nel 1267 aveva fatto osservare al papa Clemente IV un errore di 9 giorni dell’equinozio di primavera segnato nel calendario. Il problema della non rispondenza del calendario giuliano con i cicli delle stagioni era noto persino a Dante Alighieri che lo ricorda nel XXVII Canto del Paradiso (142-143): «Ma prima che gennaio tutto si sverni per la centesma ch’è là giù negletta».
Nemmeno Copernico riuscì nell’impresa
Al tempo del Concilio Lateranense, con Leone X, molti si adoperarono per risolvere la desiderata riforma. Tra questi, emerse come figura di spicco l’astronomo tedesco Paolo di Middelburg. Chiamato in causa da quest’ultimo, anche Copernico espresse il suo parere. Per Copernico non era possibile arrivare ad un calendario perfetto poiché l’anno solare era variabile.
Niccolò Copernico, padre dell’astronomia moderna
Tutti gli studiosi che nel corso di tredici secoli si occuparono di trovare una soluzione al calendario, pur avendo dissertato abbondantemente sulla durata dell’anno, non riuscirono a trovare un metodo sicuro che desse una data stabile e duratura all’equinozio di primavera dal quale dipendono la Pasqua e tutte le altre feste mobili. Il calendario giuliano continuò, pertanto, ad essere utilizzato senza alcuna modifica. E man mano che passava il tempo aumentava sempre più il divario tra il calendario civile in uso e il ciclo delle stagioni. Nel frattempo si giunse al Concilio di Trento.
Il Concilio di Trento (1545 – 1563) affrontò anche il problema della riforma del calendario. Durante le sue fasi pervennero alla presidenza varie proposte di astronomi e matematici ma, per la vastità dei temi trattati, si decise di delegare la soluzione del problema alla Santa Sede.
La riforma di Lilio arriva in Commissione
Subito dopo il suo insediamento papa Gregorio XIII nominò una Commissione costituita da astronomi, giuristi e teologi a cui affidò il mandato di valutare e approvare un progetto di riforma del calendario.
La proposta di riforma elaborata da Lilio arrivò alla Commissione, che aveva come primo matematico il tedesco Cristoforo Clavio, insieme ad altre e venne giudicata la più efficiente ed anche la più facile da applicare. Però non fu lui a presentarla, poiché presumibilmente era già deceduto. Compare invece il nome del fratello Antonio, anche come membro della Commissione stessa, ed è l’unico laico che fu chiamato a farne parte. Dei nove membri della Commissione Pontificia tre erano calabresi: Antonio Lilio (fratello di Luigi), il cardinale Guglielmo Sirleto di Stilo e il vescovo Lauro di Tropea.
Basilica San Pietro in Roma. Mausoleo di Gregorio XIII. Antonio Lilio genuflesso porge al papa il libro dei calcoli di suo fratello Luigi
Una testimonianza significativa del ruolo svolto da Antonio è la sua immagine scolpita nel bassorilievo del monumento dedicato a Gregorio XIII, situato nella basilica di San Pietro a Roma, nel quale Antonio Lilio, genuflesso, porge al pontefice il libro del nuovo calendario.
La riforma del calendario era di difficile soluzione essenzialmente per la difficile misurazione dell’anno tropico. Se l’anno tropico avesse un valore costante, le regole di Lilio garantirebbero la correttezza della datazione per sempre. In effetti era questo il problema più importante da risolvere: non tanto il riallineamento tra calendario e reale posizione della Terra sull’orbita, quanto poter disporre di un sistema di calcolo stabile, invariante al trascorrere del tempo.
La riforma di Lilio diventa calendario
La nuova formulazione calendariale di Lilio venne inviata in forma di Compendium ai principi cristiani, Università e Accademie più rinomate d’Europa, con l’invito di esaminarlo, correggerlo o approvarlo. Gli esperti in matematica ed astronomia esaminarono la proposta ed inviarono i loro commenti al papa. I giudizi degli esperti, trentaquattro rapporti, furono quasi tutti positivi. Papa Gregorio XIII il 24 febbraio 1582 con la bolla Inter gravissimas promulgò il nuovo calendario.
In generale, la semplicissima regola delle intercalazioni adottata dalla riforma liliana è la seguente:
un anno comune contiene 365 giorni; 366 giorni l’anno bisestile;
il giorno in più viene aggiunto alla fine di febbraio;
ogni anno dell’era cristiana dopo il 1582 se è divisibile per 4 è un anno bisestile;
la regola vale anche per gli anni di fine secolo che sono bisestili solo se divisibili per 400.
La bolla papale Inter gravissimas
Ti addormenti il 4 ottobre e il giorno dopo è già 15
Per evitare dunque che si producessero accumuli di errori futuri, si decretò di cancellare 3 giorni ogni 400 anni. Seguendo queste indicazioni non sono stati o non saranno bisestili gli anni 1800, 1900, 2200 etc.; sono stati e saranno bisestili gli anni 1600, 2000, 2400, 2800 etc. Invece di 100 giorni aggiuntivi ogni 400 anni secondo il calendario giuliano, si aggiungono 97 giorni in 400 anni che portano la lunghezza media dell’anno a 365 e 97/400 giorni. In quanto allo spostamento dell’equinozio di primavera, Lilio propose di eliminare 10 giorni dal vecchio calendario. Si andò a letto il 4 ottobre del 1582, era un giovedì, ci si svegliò il mattino dopo non il 5 ma il 15 ottobre del 1582.
Furono i dieci giorni scomparsi dalla storia dell’umanità.
Dove è il manoscritto di Lilio?
Calendario gregoriano perpetuo, 1583
Lilio, perfettamente consapevole delle problematiche astronomiche discusse nel corso dei secoli, riteneva che un calendario basato su una teoria planetaria come avrebbe voluto Copernico, e inizialmente lo stesso Clavio, sarebbe stato troppo complicato da tradurre in uno strumento che segnasse il tempo e fosse facilmente accessibile a tutti. Elaborò la riforma del calendario prendendo come riferimento il valore medio delle misurazioni dell’anno tropico di 365g 5h, 49m 16s contenuto nelle Tavole Alfonsine.
Come Lilio sia arrivato al valore annuo medio calendariale di 365,2425 (365g 5h 49m 12s) non è molto chiaro poiché il suo manoscritto non è mai stato stampato ed è scomparso senza lasciare traccia.
Le correzioni di Lilio non sono limitate alla sincronizzazione dell’anno civile con l’anno astronomico di quel tempo. Le sue regole di intercalazione permettono di adattare il calendario nel corso del tempo ed anticipano la possibile variazione della durata dell’anno tropico nel corso dei secoli.
L’età della luna
Risolto il problema dell’anno calendaristico, non era così semplice il rimedio di correggere l’altro errore del calendario giuliano: la retrodatazione dei noviluni. È la parte più interessante della riforma. Scopo fondamentale dei riformatori era infatti che, nello stabilire l’epoca della Pasqua, non si tradisse l’intenzione dei padri niceni, cioè che la Pasqua cristiana si celebrasse nella prima domenica dopo il plenilunio che seguiva l’equinozio di primavera.
Mediante due equazioni accordò i due cicli, solare e lunare, propose una tabella di validità ultramillenaria ed un originale e complicatissimo “ciclo delle epatte”. Se si conosce l’età della luna, ossia l’epatta il primo gennaio di un qualsiasi anno, si possono facilmente determinare tutti i giorni di quell’anno nei quali la luna sarà nuova o piena. E, di conseguenza, si determina senza incertezza la data della Pasqua.
Lunario Novo. Uno dei primi calendari gregoriani stampati a Roma nel 1582
Il giorno Sexto Calend. Martij Anno Incarnationis Dominae M.D.LXXXI, corrispondente al 24 febbraio 1582, Gregorio XIII firmò la bolla Inter gravissimas. Il 1° marzo 1582 il testo venne affisso alle porte della Basilica di S. Pietro, alle porte della Cancelleria Vaticana e nella piazza Campo de’ Fiori.
Pure i protestanti adottarono il calendario di Lilio
Il nuovo calendario non fu subito e ovunque accettato da tutti i paesi. Adottarono subito il calendario i paesi cattolici romani. Dopo più di un secolo, le difficoltà incontrate nelle attività legate al commercio e nelle relazioni internazionali convinsero i paesi protestanti ad adottarlo. I più tardivi furono i paesi ortodossi, che accettarono il nuovo calendario dopo la fine della prima guerra mondiale soltanto in materia civile, mentre in liturgia utilizzano ancora il calendario giuliano. La Bulgaria si associò agli altri stati nel 1917, la Russia nel 1918, Serbia e Romania nel 1919, la Jugoslavia nel 1923, la Turchia nel 1927 e per ultima fu la Grecia nel 1928. Fuori dall’Europa il Giappone si allineò nel 1873 e la Cina nel 1911. Rifiutano ancora oggi di adottare il calendario gregoriano gli Ebrei e i Musulmani ma limitatamente ai fini religiosi.
Francesco Vizza Direttore Istituto di Chimica dei Composti OrganoMetallici – ICCOM Consiglio Nazionale delle Ricerche – CNR
Un cittadino dona una casa a un gruppo di ragazzi un po’ cresciuti e con la voglia di rischiare. La sistemano tra mille difficoltà e di tasca loro. Diventa un museo. Con questi pochi ed essenziali gesti nasce nel 2021 Muzé a Pallagorio, in provincia di Crotone. Una collina sullo Jonio, il mare che ha spinto e portato i greci ad occidente.
Una delle stanze del museo Muzè a Pallagorio, in provincia di Crotone
Muzé: museo e comunità
Muzé è un presidio di cultura e idee in terra arbëresh: un pezzo d’Europa, quella del margine, dell’entroterra, dell’osso. Nulla di statico. Migrazioni, spostamento e contaminazione si condensano nel cammino di tre paesi a pochi chilometri l’uno dall’altro: Carfizzi, Pallagorio, San Nicola dall’Alto. La bellezza fonetica e levantina dell’Arbëria crotonese contro il logorio della Calabria dei luoghi comuni: peperoncino in primis. Una specie di etichetta che ritrovi ovunque. Al di là della indiscutibile bontà a tavola, ha un po’ rotto le scatole.
Gruppo musicale arbëresh a San Nicola dall’Alto (foto pagina facebook Fili Meridiani)
Immagini, abiti tradizionali, oggetti del quotidiano accompagnano il patrimonio immateriale e più importante di questo museo a Pallagorio: libri, idee, incontri, persone sedute in circolo, gente che si parla.
Più che uno storytelling (parola accantonata pure da Christian Salmon, uno dei suoi primi utilizzatori) si tratta di viaggio rituale e visuale nel passato. La comunità torna al suo atto fondativo: nel XV secolo il condottiero dell’Albania ancora cristiana Giorgio Castriota Skanderbeg porta il suo popolo in salvo dalla furia ottomana. Elemento chiave della cultura arbëresh, celebrato ogni anno nelle danze circolari chiamate vallje.
Fili meridiani: da Cambridge a Pallagorio
L’idea di Fili Meridiani nasce in piena pandemia dopo una serie di incontri on line sulle piattaforme ormai entrate nel lessico famigliare di tutti. Ursula Basta è un architetto che, dopo gli studi a Firenze, ha vissuto e lavorato alcuni anni a Cambridge. Ha deciso di tornare nel paese dei genitori e dei nonni e lanciare insieme ad altri tre amici questo laboratorio di pensieri e innovazione. Lei ha già in mente il nome. Ispirato dal Pensiero meridiano del sociologo Franco Cassano. Fabio Spadafora ha frequentato Scienze politiche all’Unical. Si è occupato di comunicazione e analisi politica. Ma con una fidanzata di Pallagorio, non lontano dal paese dello scrittore Carmine Abate, non poteva che essere coinvolto nel progetto. Gli altri sono il videomaker e fotografo, Ettore Bonanno e la grafica Francesca Liuzzo. Dei tre solo Fabio non ha origini arbëresh: un cosentino con una madre presilana, cosa che rivendica con orgoglio. Ma la Calabria è una terra di mescolanze, di diversità intrecciate.
I calanchi del Marchesato
Instaruga
Instaruga è un progetto di promozione turistica del Marchesato crotonese. Unisce associazioni, guide e cittadini. Ed è pure una piattaforma digitale. Il nome fa pensare subito a Instagram. Ma non è così. C’è altro. «In‘sta ruga significa “in questa ruga”, dentro il vicinato, dentro i paesi, dentro la Calabria». Così si legge sul portale web di Fili meridiani. Che passano con estrema facilità dalle gjitonie agli algoritmi della comunicazione social.
Alternano escursioni nei calanchi di Cutro oppure scorribande tra le vigne del Cirò. Piccole meraviglie del Crotonese per chi vuole uscire fuori dai percorsi turistici troppo noti e battuti. Alla ricerca di tanti piccoli fili meridiani disseminati nelle calabrie nascoste.
Ha sollevato un polverone a Cirò Marina a inizio estate il “caso padel” lanciato da I Calabresi. Tutto è nato da un permesso per costruire rilasciato alla ditta Signor Padel Srls. Il provvedimento era opera dell’Ufficio Tecnico del Comune di Cirò Marina, guidato dal presidente della Provincia di Crotone, Sergio Ferrari.
Galeotto fu il padel a Cirò Marina
Il terreno su cui costruire l’impianto appartiene ad Antonietta Garrubba, socia unica della srls in questione. Il catasto lo qualifica come uliveto con un reddito agrario di 5,86 euro, perciò non edificabile.
Una svista amministrativa da sanare in autotutela? Probabile. Ma la Garrubba è moglie dell’amministratore unico e legale rappresentante dell’impresa, Giuseppe Farao. E suo marito è stato condannato nel processo Stige in primo grado a 13 anni e 6 mesi per associazione mafiosa e trasferimento fraudolento di valori aggravato dall’agire mafioso.
La cattura di Silvio Farao
Inoltre, lo stesso si è visto infliggere alcune pene accessorie: incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione per 5 anni, interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’interdizione legale durante l’espiazione della pena. Giuseppe è figlio di Silvio Farao, ritenuto uno dei boss della locale di Cirò, condannato in Stige a 30 anni di reclusione e attualmente detenuto. Padre e figlio, è doveroso aggiungere, sono tuttora sotto appello, quindi le loro condanne non sono definitive.
Una revoca tempestiva
A seguito della notizia de I Calabresi, il sindaco annunciò dopo poche ore (il primo giugno scorso) la revoca del provvedimento firmato il giorno prima dall’allora responsabile dell’ufficio tecnico, l’architetto Raffaele Cavallaro.
In effetti, il 3 giugno uscì un altro provvedimento, sempre a firma di Cavallaro. L’atto comunicava l’avvio della revoca del permesso di costruire “incriminato” e la sospensione di ogni effetto, sia per l’errata destinazione d’uso, sia per acquisire «la prescritta documentazione inerente i requisiti dei soggetti richiedenti, dell’impresa e del progettista».
Il ricorso di Farao
Non si è fatto attendere il ricorso al Tar Calabria di Giuseppe Farao, discusso in udienza pubblica lo scorso novembre. Dinanzi ai giudici amministrativi, Farao ha sostenuto che «l’attività amministrativa (del Comune di Cirò Marina, ndr) sarebbe stata sviata dal clamore mediatico verificatosi, in quanto non sarebbe stata altrimenti necessaria l’acquisizione della documentazione antimafia ai fini del rilascio del permesso di costruire» e che «in ogni caso, l’iter amministrativo seguito sarebbe evidentemente illegittimo, essendo stati contestuali la comunicazione dell’avvio del procedimento, la sospensione degli effetti del titolo edilizio e il suo annullamento». Al contrario, il Comune di Cirò Marina ha rivendicato la correttezza della revoca a firma di Cavallaro.
Risultato: Comune condannato (in persona del sindaco in carica) alla rifusione delle spese legali a Farao, pari a 4mila euro più oneri.
Condanna per il Comune di Cirò Marina
Secondo il Tar Calabria (sentenza 2222 dello scorso 7 dicembre, presidente Giovanni Iannini), «il Comune di Cirò Marina non avrebbe dovuto revocare sic et simpliciter il permesso di costruire in ragione della mancata acquisizione della comunicazione antimafia; piuttosto, avrebbe dovuto acquisire tale documentazione, provvedendo solo all’esito e in base alle risultanze di questa» e che «in ogni caso, la concentrazione in un solo giorno della comunicazione di avvio del procedimento, della sospensione cautelare degli effetti del provvedimento e la revoca del titolo costituiscono, come già sottolineato in sede cautelare, violazione del corretto sviluppo del procedimento amministrativo, da cui deriva l’illegittimità del provvedimento impugnato».
Sbaglia ma non paga?
Insomma, secondo il tribunale, il funzionario del Comune ha “toppato” sia nel concedere il permesso di costruire a Farao, sia nel revocarlo.
Lo stesso 3 giugno scorso, giorno del dietrofront con la Signor Padel Srls, il sindaco Ferrari aveva tolto a Cavallaro la titolarità della posizione organizzativa dell’Area urbanistica per «particolari inadempienze amministrative», pur mantenendolo nell’incarico di istruttore. Un incarico fiduciario, espressamente revocabile «per risultati inadeguati», come rilevato anche dall’ex deputato Francesco Sapiain una formale interrogazione parlamentare al Ministero dell’Interno sul caso padel.
Raffaele Cavallaro
Lo stesso Cavallaro, benché privato della posizione organizzativa (e, quindi, del potere di firma), è rimasto nel medesimo ufficio con le medesime incombenze. Né risulta aperto un procedimento disciplinare a suo carico.
Una vittoria di Pirro per Farao
Quella di Giuseppe Farao potrebbe essere, però, una vittoria di Pirro. La necessità della certificazione antimafia non è infatti il frutto improvviso del “clamore mediatico”.
Su questo rilevante punto, il Tar cita un precedente del Consiglio di Stato. E rileva che «il permesso di costruire di cui si tratta non è meramente riconnesso al godimento di un terreno di cui la società ricorrente abbia disponibilità, ma – evidentemente – legato all’esercizio di un’attività imprenditoriale relativa al gioco del padel».
La sede del Tar a Catanzaro
Allora, «la fattispecie ricade nell’ambito di applicazione della normativa antimafia che, ad ampio spettro, esige che l’attività economica sia espletata con il corredo della documentazione antimafiache, ove mancante, impone la paralisi dell’attività medesima e la rimozione dei suoi effetti».
In soldoni: la revoca è stata un gran pasticcio, ma la certificazione antimafia serviva prima e serve ancora adesso. Qualora non fosse rilasciata, il Comune di Cirò Marina dovrà fare una nuova revoca.
Cirò Marina, una famiglia in Comune
A Cirò Marina nel frattempo a tenere banco è un altro argomento. Niente a che vedere con i tribunali stavolta, ma c’entra sempre il municipio. È lì dentro, infatti, che si registra il rapido avanzamento di carriera di una dipendente comunale, Maria Natalina Ferrari, sorella del sindaco.
Con decreto 1 del 28 gennaio 2022, da dipendente di categoria C è diventata responsabile dell’Area servizi alla persona con relativa posizione organizzativa per una indennità di 8.246,11 euro. L’ha nominata il vicesindaco Pietro Francesco Mercuri, benché privo di delega al personale.
Né risulta dal decreto che Mercuri avesse avuto una delega dal sindaco per questo provvedimento. Insomma, sembrerebbe un altro pasticcio amministrativo. Che, però, non finisce qui.
Pietro Mercuri con Giorgia Meloni
La supersorella di Ferrari…
Con la determinazione n. 378 del 27 giugno scorso, il responsabile dell’Area Affari generali Giuseppe Fuscaldo ha indetto una selezione per una procedura comparativa per la progressione verticale di una unità di Categoria D, posizione economica D1, riservata al personale interno di Cirò Marina per il profilo di Istruttore direttivo. Una sola candidata ha partecipato alla selezione, come si evince dall’ulteriore determina di Fuscaldo n. 683 dello scorso 20 settembre. Indovinate chi? La sorella del sindaco Ferrari, Maria Natalina, contrattualizzata nel nuovo ruolo dal primo di ottobre.
Il sindaco Ferrari e sua sorella
Il presidente della Commissione valutatrice era Nicola Middonno, segretario generale della Provincia di Crotone (guidata, ricordiamo, da Sergio Ferrari). I componenti erano Giulio Cipriotti, nominato il 3 giugno 2022 responsabile dell’Area urbanistica dal sindaco al posto di Cavallaro, e Nicodemo Tavernese, vicesegretario comunale e cognato del consigliere comunale di Cirò Marina, Giuseppe Russo (ha sposato la sorella di Tavernese), che a sua volta è zio del sindaco per via materna.
… e la nipote del vicesindaco
C’è chi fa rilevare, ancora, che tra i vincitori del concorso per agente di Polizia locale di Cirò Marina (graduatoria finale approvata con determinazione n. 848 del 14 novembre scorso) vi sia anche Morena Pizino, la nipote del vicesindaco Pietro Mercuri.
Insomma, tra pasticci e promozioni il Comune di Cirò Marina torna a far parlare di sé. In paese e non solo.
Come ogni anno Il Sole 24 Ore ha pubblicato il suo report sulla qualità della vita nelle 107 province italiane. E come ogni anno quelle calabresi si ritrovano nei bassifondi della classifica. Fanalino di coda, 107esima su 107, è infatti Crotone. Ma le altre quattro rappresentanti della Calabria non vanno molto meglio. Vibo si piazza al 103esimo, Reggio una posizione più su, Catanzaro 96esima. Cosenza, la meglio piazzata, tiene alto il nomignolo della regione alla posizione numero 95.
Il quotidiano di Confindustria analizza la qualità della vita attraverso sei macrocategorie, suddivise a loro volta in molteplici indicatori. Ma da qualsiasi punto si analizzi la classifica è impossibile non notare come, invece di progredire, i nostri territori registrino un arretramento.
Qualità della vita a Cosenza
Prendiamo il caso di Cosenza, punta di diamante della regione alla luce dei risultati. La provincia bruzia peggiora in 5 categorie su 6. Rispetto all’anno precedente scende di due posizioni in classifica per quanto riguarda Ambiente e servizi (ora è 58esima), Cultura e tempo libero (posizione n°98). Si ritrova 103esima per Ricchezza e consumi, prima era cinque posti più su, e 80esima (da ex 71esima) nella categoria Demografia e società. Precipita di ben 44 posizioni in classifica (ora è 85esima) anche in quella Giustizia e Sicurezza anche per l’incapacità di riscuotere i tributi dei Comuni che la compongono. In questa specifica sottocategoria, infatti, è la terzultima in tutta Italia.
Si registra, al contrario, un bel balzo in avanti nella classifica che riguarda il settore Affari e lavoro. In questo caso la provincia di Cosenza guadagna 16 posizioni rispetto all’anno precedente, grazie anche a una percentuale sopra la media nazionale per quel che riguarda l’imprenditorialità giovanile. Ma anche qui c’è poco da esultare. Cosenza, infatti, anche nella sua performance migliore tra le 6 macrocategorie non va oltre l’80° posto in classifica.
I dati di Catanzaro
A Catanzaro, invece, si può festeggiare per i pochi furti negli appartamenti: solo in altre tre province italiane ne denunciano meno. Va molto peggio nei tribunali però, con la provincia che si piazza al penultimo posto nazionale per durata delle cause civili e i reati legati a stupefacenti; quartultima invece per la quota cause pendenti ultratriennali, con una durata media che è due volte e mezza quella del resto d’Italia. La provincia del capoluogo regionale comunque può essere soddisfatta rispetto al recente passato. Migliora infatti in tre macrocategorie: Affari e lavoro (50°; + 20 rispetto al 2021), Ambiente e servizi (41°; + 10) e, seppur di poco, Cultura e tempo libero (95°; + 2). Sarà, in quest’ultimo caso, per le 8,8 librerie ogni 100mila abitanti, contro le 7,7 della media nazionale.
(foto Antonio Capria)
Reggio Calabria, la più lenta nei pagamenti
A Reggio Calabria invece le fatture si pagano più tardi che in tutto il Paese: se altrove la media è di 10 giorni oltre i canonici 30 usati come indicatore, sullo Stretto il tempo extra sale a tre settimane. Certo, la provincia reggina è tra quelle più soleggiate (15°), ma l’apporto al clima di Madre Natura contrasta con il terzultimo posto nella categoria Ambiente Servizi (l’anno scorso era 25 posti più su in classifica). Reggio è terzultima anche per quel che riguarda Cultura e tempo libero, addirittura un gradino più giù se si parla di Ricchezza e consumi.
Nubi minacciose sull’Arena dello Stretto a Reggio Calabria
Sale invece di ben 40 posizioni (ora è 58esima) nel settore Affari e Lavoro, nonostante sia 101esima per tasso di occupazione. Sale anche di 23 posizioni, piazzandosi 52esima, in Giustizia e Sicurezza. Anche qui pesa parecchio la lunghezza delle cause in tribunale, così come il numero altissimo di cause civili, circa il 40% in più che altrove.
Vibo Valentia non è una provincia per donne
Vibo invece è la migliore d’Italia per imprenditorialità giovanile sul totale delle imprese registrate, ma anche la peggiore di tutte quando si parla di qualità della vita per le donne. Paradossale, inoltre, che la provincia della Capitale del libro si piazzi nei bassifondi quando si parla di Indice di lettura (87°), Offerta culturale (105°) e librerie (7,3 ogni 100mila abitanti, in Italia la media è di 7,7). In più è la seconda provincia del Paese per numero di estorsioni, quella col maggior numero di cause pendenti ultratriennali e con le cause civili che durano di più. Il valore, in quest’ultimo caso, è di 1.453, in Italia si ferma a 561,9.
L’insegna sbagliata con cui Vibo si è celebrata “Città del libro”
Anche il Vibonese, nonostante tutto, può comunque festeggiare per la qualità dell’aria (19°), uno dei dati che gli permette di risalire 14 posizioni, piazzandosi 78° in Ambiente e servizi. E, anche se non esistono o quasi start up innovative sul territorio, anche in Affari e lavoro la classifica segna un sontuoso +49 nel settore Affari e lavoro: ora Vibo è 52esima, l’anno scorso era 101esima.
Qualità della vita, Crotone ancora nei bassifondi
Infine Crotone, che si conferma fanalino di coda nazionale. Da qui sono in tanti a scappare, il decuplo che dal resto d’Italia: la provincia pitagorica è 107esima per saldo migratorio totale. Ma Crotone è anche ultima per Depositi bancari delle famiglie consumatrici e Spesa delle famiglie per il consumo di beni durevoli. È anche il territorio con la percentuale più alta di beneficiari del reddito di cittadinanza.E poco importa che qui le case costino in media 1000 euro in meno al metro quadro rispetto al resto del Paese.
Crotone e la sua provincia sono anche il posto dove si studia meno: ultima per numero di laureati (o con altri titoli terziari), penultima per anni di studio tra la popolazione over 25, quart’ultima per persone con almeno un diploma. Chi non studia, però, ha poco da fare nel tempo libero: pochissime librerie (104°), palestre e piscine (106°), ancor meno spettacoli (107°). In compenso gli amministratori pubblici sono tra i più giovani del Paese (4°), nonostante da queste parti si registri la più bassa partecipazione elettorale d’Italia. Qui almeno, però, le cause civili durano meno della media (57°). E in mancanza di altri svaghi si passa il tempo tra le coperte: in sole tre province italiane le donne partoriscono prima che a Crotone, dove l’età media delle neo-mamme si attesta a 31 anni, contro i quasi 32 e mezzo del resto d’Italia.
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