Si terrà tra tre giorni, giovedì 9 marzo, il Consiglio dei ministri a Steccato di Cutro. Che il summit dell’Esecutivo fosse prossimo era ormai cosa nota, dopo le dichiarazioni della presidente Giorgia Meloni a riguardo. La conferma ufficiale è arrivata, però, soltanto negli ultimi minuti, con una nota di Palazzo Chigi. Nessun dettaglio al momento su sede e orario dell’incontro. Né, tantomeno, sui temi all’ordine del giorno della riunione.
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Cutro, una croce oltre ogni fede per ripartire
Le località che si affacciano sullo Jonio calabrese hanno caratteristiche spesso identiche. Per esempio le strade e le traverse interne portano i nomi delle capitali europee e il mare a tratti scompare tra “non finiti” e palazzine a tre piani. «Ma qui costruiscono come a Milano, però siamo sul mare», sussurra tra la meraviglia e l’indignazione una giornalista della Rai al suo cameraman.
Steccato di Cutro una settimana dopo. Stracolma di gente. Accorrono dalle parrocchie vicine. Isola Capo Rizzuto, Cutro, Botricello per citarne solo alcune. È terra di confine anche questa, la provincia di Catanzaro termina per fare posto a quella di Crotone.Un popolo in cammino
C’è un popolo in cammino dietro a una croce a Cutro. È una croce costruita sui resti del barcone. Li ha raccolti il parroco di Steccato di Cutro e affidati alle mani sapienti di un artigiano e artista locale, Maurizio Giglio. C’è silenzio. Un silenzio a tratti surreale, un ritorno in quei luoghi tragici come se fosse doveroso esserci per non dimenticare. Un atto che non è solo pietà e preghiera ma è indignazione per quello che è accaduto. La meditazione all’ultima stazione della Via Crucis esterna questo sentimento chiaramente e senza mezzi termini: «Mentre i governi discutono, chiusi nei palazzi del potere, il Sahara, le foreste balcaniche e i mari si riempiono di scheletri di persone che non hanno resistito alla fatica, alla fame, alla sete. Quanto dolore costano i nuovi esodi!».

Non è l’unico monito lanciato, se ne rintracciano diversi nelle meditazioni lungo il percorso. Egoismo, indifferenza, maltrattamenti, sfruttamento le parole che più si rincorrono. Un campionario di brutalità e barbarie del nostro tempo. Sono atteggiamenti appesi a quella croce. Come a non voler dimenticare, come a voler fissare quanto accaduto. Ci sono i vescovi di Cosenza e Lamezia oltre a quello di Crotone. Con loro l’Imam della zona. C’è la preghiera finale sulla spiaggia di Steccato di Cutro. Una spiaggia affollata che si appresta ad accogliere una notte di luna piena. A largo le vedette dei Vigili del Fuoco e della Guardia Costiera continuano le ricerche. Zainetti, un paio di scarpe da tennis, una bottiglia d’acqua. Restano lì a memoria, ultimi resti della vita che si respirava su quel barcone.
La croce di Cutro
Sembra l’Africa questo pezzo di costa. Piccole dune raggiungono il mare. Più in là si intravede Isola Capo Rizzuto. La morfologia non lascia spazio all’interpretazione. Il Mediterraneo non può dividere quelle terre che prima erano unite, incastrate come un puzzle. Ci sono i pescatori di uomini, i primi ad aver prestato soccorso mischiati alla folla. Uno porta una piccola croce fatta con due canne incrociate. La gente lo ferma, i giornalisti pure. È generoso nel racconto, non è vanto il suo, non c’è protagonismo.

La spiaggia accoglie tutte e tutti in un silenzio, con lo sguardo verso l’orizzonte, alle terre altre, al di là del mare. Quelle terre sognate da generazioni di pescatori di Steccato. Lì ci fermiamo, attoniti a pensare e riflettere. Al centro una croce, simbolo oggi di credenti e non credenti. Ripartire dalla vergogna inchiodata a quei resti può sicuramente aiutarci. Ripartiamo da qui.
Andrea Bevacqua
Docente e attivista -

La morte porta Consiglio: Giorgia Meloni e ministri a Cutro
Mentre ancora il mare restituisce i corpi di due bambini, Giorgia Meloni annuncia che il prossimo Consiglio dei ministri si terrà a Cutro. Con colpevolissimo ritardo chi ci governa si accorge della tragedia e del peso insostenibile della sua assenza sul luogo del dolore. «Venga come madre», invoca Carmine Voce, sindaco di Crotone. Verrà, forse, indossando la veste ufficiale, con al suo fianco il ministro per il quale quella umanità disperata è un fastidioso carico residuale, dimostrando che lo Stato può essere «il più gelido degli gelidi mostri», come annunciava senza sbagliare Nietzsche.
Giorgia Meloni e il Consiglio dei ministri in Calabria
Un Consiglio dei ministri a Cutro non è un gesto simbolico per dimostrare di esserci. Dopo le parole non rinnegate del ministro dell’Interno e dopo non aver avuto il coraggio di partire tempestivamente per guardare in faccia l’orrore generato da una politica di negazione dell’accoglienza, risulta un oltraggio per le associazioni che si sono impegnate per fornire assistenza, uno schiaffo per i moti spontanei di solidarietà venuti da tutta la comunità, perfino per le donne e gli uomini in divisa che di notte e senza mezzi adeguati hanno recuperato dal mare poveri corpi. Insomma, uno scherno per la Calabria.

Un momento dei soccorsi Cosa decideranno nel corso di quel Consiglio che si terrà poco distante da dove la notte del 26 Febbraio donne, uomini e bambini sono morti annegati perché crudelmente si è voluto da tempo trasformare i soccorsi in operazioni di polizia? Quali provvedimenti saranno assunti? È possibile che il ministro Piantedosi non possa esigere ulteriori espedienti per rendere ancora più difficile le operazioni di salvataggio da parte delle navi delle Ong. Pare, infatti, che la Meloni stia accarezzando l’idea di mettere momentaneamente da parte le spietate norme salviniane verso i migranti.
Opportunismo politico e senso dell’umanità
Non si tratta di un sussulto di umanità, più probabilmente di opportunismo politico: dalla spiaggia di Cutro ancora si odono le urla di quanti sono morti annegati e il clima non sarebbe favorevole al governo. È probabile tuttavia che venga ribadito che l’obiettivo resta quello di «non farli partire» e che chi ci prova deve assumersi la responsabilità delle conseguenze.
Oppure verranno a Cutro a spiegarci quanto sarà bella l’autonomia differenziata per la parte della Calabria che è in fondo a ogni classifica, nella regione più povera del Paese, dove la qualità e perfino la durata media della vita è inferiore rispetto al resto d’Italia?
La Via Crucis dei cittadini comuni dopo la tragedia di Steccato di Cutro Intanto cresce la rete di associazioni sorta attorno alla mobilitazione successiva alla tragedia del 26, una moltitudine di persone provenienti da storie ed esperienze differenti e tuttavia accomunate dall’impegno di non voler smarrire il senso dell’umanità.
Saranno queste persone a organizzare una manifestazione nazionale sabato 11 Marzo al fianco della comunità di Cutro. Saranno loro a fare la differenza. -

Freddo, lacrime e silenzio: diario di una domenica troppo dannata
Il risveglio, quel 26 febbraio, uno dei tanti risvegli: uno sguardo annoiato al tablet per aprire la testa al mondo e alle notizie dopo un sobrio festeggiamento, la sera prima, del mio compleanno. E qualche bicchierino di troppo che annebbia la testa; entrano immagini già viste tante volte: di mare e di pezzi di legno, di pezzi di legno e di mare. Ennesima tragedia di migranti che non ce l’hanno fatta. Accendo la radio ed entrano parole: Steccato, Cutro, Crotone. Steccato, Cutro, Crotone. Capisco che la tragedia si è consumata in questa regione. Testa annebbiata: ennesima tragedia, che differenza fa se è accaduta in questa terra? In una località dove vado spesso e dove ho pure insegnato? I morti sono tutti uguali! Perché questi dovrebbero colpirmi di più? E i morti a migliaia di chilometri di distanza? Non sono forse degne di dolore quelle morti? Non sono forse inappropriate tutte le morti che cercano vita e salvezza? Se è così, se ogni vita ha lo stesso valore, quella tragedia e quei carichi possono continuare a residuare nella coscienza.

Il relitto visto dall’alto a Steccato di Cutro Tragedia di Cutro: il carico residuale
Quei carichi possono continuare a residuare nella coscienza. È una delle tante tragedie. È il solito scandalo. Mi apro e mi chiudo in una comoda celebrazione del valore della vita; e pure scandalo riesco a provare per quelle ennesime morti ingiuste; mi rigiro nel letto (è domenica) e ogni tanto sorseggio la mia tisana appena preparata.
Un momento: è accaduto qua… E che vuoi che conti? La vita è vita a ogni latitudine. E anche la morte è morte a ogni latitudine. Carico residuale di morte. Ma forse non può essere così se questi carichi residuali sono a poche decine di chilometri; sono bambini, giovani uomini e donne, Cazzo! Sono qui e residuano a poca distanza.
«Al momento si stima una ventina di morti e un numero imprecisato di dispersi, forse cento» – dice la radio. Forse i chilometri contano: se non riesco a provare qualcosa di più per i morti in prossimità, se non riesco a scacciare il mio torpore assuefatto neanche di fronte a corpi che muoiono così vicino, forse ho un problema, più di un problema.

I soccorsi sulla spiaggia di Cutro, a tragedia ormai in atto Direzione Crotone
Passa comunque qualche ora, in questo rigirarsi della coscienza e ciondolare domenicale per la casa. Alla fine decido, i chilometri contano perché quei morti e quei dispersi sono nel mio mare, dove faccio il bagno! È la stessa sabbia quella sopra la quale vedo adagiati corpi coperti con teli malamente recuperati. La mia sabbia, quella che ho toccato e che toccherò. Quella che faccio scorrere tra le dita come sono solito fare, a mo’ di annoiato scacciapensiero, tra un bagno e l’altro. Ora accoglie il peso della morte quella sabbia. Sento il bisogno di dare consistenza alla tragedia. Devo recuperarne la dimensione persa nel piattume della pluralità di schermi che ho intorno. Devo andare!
Andare a fare cosa? Non so fare cose immediatamente utili. La mia vita è fatta di insegnamento. Credo di farlo benino, ma ho competenze goffe quando serve aiuto per alleviare il peso di una tragedia. Vabbè vado lo stesso, inutilmente. Ma forse è meglio essere inutili là che qua. O forse no. Ma chi se ne frega, vado!
“Al momento si contano trenta salme e un imprecisato numero di dispersi, forse novanta” – aggiorna la radio. Vado. Andiamo. Qualche telefonata e ci ritroviamo in macchina. Amici-colleghi, amiche-colleghe. Attraversiamo la Sila diretti verso la costa ionica, dove si apre il mare crotonese.
Non sappiamo neanche dove andare. «dove è successo precisamente?» «Steccato di Cutro, conosci?» «No. Metto il gps». Arriviamo a Crotone e prendiamo la famigerata 106, che in quel punto si allarga e sembra moderna. Avanti, subito dopo Crotone, verso Steccato. Vediamo delle luci venirci incontro sul lato opposto della strada: sembra un albero di Natale il corteo di macchine con i lampeggiatori bluastri accessi che luccicano in modo alternato, creando un curioso gioco di luce. Quel corteo veloce ci annuncia che il luogo della tragedia ora è un altro, in direzione opposta.
«Ma che andiamo a fare su quella spiaggia? Forse hanno ormai portato le salme altrove; ormai è quasi buio e certo non ci faranno avvicinare». «Dove le portano le salme?» «al Pala malone, ho sentito, o melone, fai una ricerca, per favore» … «Ahhh PalaMilone». Scrivo quel nome sul gps.
Milone era il più famoso lottatore della antica città di Crotone – era il sesto secolo avanti Cristo – che sette volte vinse le Olimpiadi e che aiutò a sconfiggere l’esercito della vicina Sibari. Ora questo eroe dà il nome a una piuttosto grande cupola di legno e vetro sotto la quale è stipato un numero montante di salme. Non possiamo entrare, ma qualche immagine ce la rimanda il telefonino (cazzo! ancora la vita e la morte a due dimensioni!): bare ancora vuote di mogano e di legno dipinto di bianco, queste ultime accoglieranno i corpi dei più piccini. Non ci fanno entrare. Lo sappiamo, è giusto così. La scientifica deve fare i rilievi di routine.

La bara di una delle bambine morte Il freddo della morte nella tragedia di Cutro
Siamo lì; fa freddo. Forse è il freddo di quelle morti. Il web: «Ritrovato un altro corpo. Il numero delle salme è salito a cinquanta». Fa ancora più freddo. Vediamo persone in composto silenzio di fronte al PalaMilone. Depongono fiori, legandoli o incastrandoli su una recinzione di ferro: commemorare sorelle e fratelli sconosciuti che non ci sono più, che hanno fatto irruzione con i loro corpi esanimi nella nostra vita. Altri fiori, qualche bambino con dei disegnini e un orsacchiotto di pezza o una bambolina: «hanno perso tutto quei bambini affogati, anche i loro giocattolini; gliene portiamo di nuovi».
Vediamo tante persone ora. Alcune di queste sembrano stanche. Hanno lavorato tutto il giorno: sono nostre ex studentesse e studenti ora professionisti del sociale. Ci vedono e si avvicinano. Una scoppia in lacrime, in un pianto liberatorio. «Grazie di essere venuti; è stata una giornata faticosa. Troppi corpi, troppi morti. E bambini sopravvissuti da sistemare. Sono escoriati neanche le cremine avevamo». Ci sentiamo utili. Ma è solo un momento.
Restiamo umani
Raccontano; si sfogano. «Troppe cose brutte abbiamo visto!». Si stempera quel freddo. È un calore fatto di umanità: ma, porca miseria, servono i morti per ricordarci che siamo umani? Altri fiori; altra gente. Movimento e agitazione tra le guardie e la polizia che presidiano il cancello del PalaMilone: arrivano le autorità, il ministro, il presidente della Regione. Un corteo di lussuosi macchinoni, un corteo di enormi coccodrilli: stridono di arroganza e cinismo di fronte alla compostezza di chi non può entrare ma è tanto vicino. Si leva qualche grido di protesta verso il corteo. Ma in fondo nessuno se ne occupa.
Siamo lì, dolore diffuso. Fatto di freddo interrotto da improvvise folate di tiepido calore. Una nostra ex studentessa: «È scattata tanta solidarietà, i pescatori sono stati tutto il giorno con la speranza di raccogliere vite, ma hanno raccolto soprattutto morti; i cittadini dei paesi ci vogliono dare tutto».
C’è pure la solidarietà dei loculi tra i paesi perché non basteranno per le salme che non verranno rivendicate dai parenti: chi offre otto posti, chi dieci, chi cinque. Anche questa è solidarietà; anche questa è disgraziata e generosa accoglienza. È venuta ora di rientrare. Attraversare la Sila di nuovo per tornare nelle nostre confortevoli case. Ciascuno di noi in macchina è in silenzio. È il momento di bilanci interiori: ha avuto senso andare? Ero adolescente, a Pizzo, e amavo immergermi in quel mare per raccogliere telline. In una di quelle immersioni ricordo di avere visto una medusa fatta a pezzi da qualche motoscafo; e intorno c’erano tante meduse in cerchio che sembravano impegnate in una danza.
Ercole Giap Parini
Direttore dipartimento Scienze politiche e sociali Unical
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Crimmigration: se essere altri passa per delitto
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Le urla di dolore si sentono ormai in tutta Italia mentre il numero dei cadaveri ritrovati dopo il naufragio di Cutro cresce e si avvicina alle tre cifre. In quella che passerà alla storia anche come la strage di Crotone c’è sicuramente un mai-visto-prima. E non solo per l’orrore degli eventi in sé, ma anche per ciò che si è appreso dopo gli eventi: le notifiche di soccorso mancate, il rimpallo tra Frontex e Guardia Costiera, gli interventi (alcuni a sproposito) della magistratura, la confusione tra interventi di polizia e interventi di sicurezza in mare. Senza dimenticare i commenti dei politici. Posticci, artefatti, qualcuno forse sincero, qualcuno addirittura criminale, laddove il crimine commesso si può ipotizzare come vilipendio della vita umana e della capacità, anzi del diritto umano, di auto-determinazione.
Ignoranza e razzismo
È quasi criminale in questo senso il commento del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che ha affermato davanti alla tragedia: «Io non partirei se fossi disperato, sono stato educato alla responsabilità di non chiedermi cosa devo chiedere io al luogo in cui vivo ma cosa posso fare io per il Paese in cui vivo per il riscatto dello stesso».
In questa affermazione il ministro sembra confondere il diritto all’auto-determinazione e alla partenza in caso di “disperazione” (dal conflitto, dai disastri naturali, dalla povertà) con la prospettiva – spesso vuota – di una certa parte di neoliberisti ossessionati dalla retorica dell’individualismo e fortemente concentrati sull’idea che individualismo escluda ogni forma di debolezza o dipendenza.
Matteo Piantedosi Ma in questo commento, e in altri simili tra cui quello della presidente del Consiglio Giorgia Meloni che ha ricordato come il governo stia cercando di aiutare questi migranti a non partire e cadere vittima di trafficanti e criminali organizzati vari con decreto flussi e corridoi umanitari del caso – c’è solo tanta ignoranza su come funzionano effettivamente i traffici criminali verso le coste del Sud, inclusa la tratta di umani. E c’è una buona dose di razzismo.
La crimmigration? Paura dell’altro
Il razzismo di cui si parla qui non riguarda i colori della pelle – non sempre e non solo, almeno – ma passa da una parola apparentemente neutra – quella di ‘migrante’.
Il termine migrante, quando non seguito da specificazioni, attiva istantaneamente una serie di pregiudizi, culturali, razziali, sociali, che spesso fanno dimenticare o passare in secondo piano l’umanità dietro questa etichetta.
Carola Rackete, capitano della nave Seawatch impegnata nel salvataggio di migranti Si è parlato di fondamentalismo culturale, oppure di razzismo istituzionalizzato, all’interno di un fenomeno più ampio dove il potere costituito usa i cardini e gli strumenti del sistema penale per affrontare un problema di controllo dei confini e della migrazione.
È la cosiddetta crimmigration – “crimmigrazione” – ed ha risultati simili ovunque nel mondo: si deumanizzano le vittime e si giustifica il loro trattamento – chiamato “di sicurezza” ma effettivamente “punitivo” – come risposta legittima, meritata e appropriata alla “violazione della legge” legata alla violazione dei confini.Brandire una bandiera di legalità astratta, dunque, aiuta a criminalizzare le ONG in mare, ad arrestare la Carola Rackete di turno e chi come lei si appella al diritto naturale alla vita e non al rispetto dei confini imposti da uno stato cieco, si ribella a chi chiude i porti, e rifiuta di far finta che il diritto universale e internazionale non imponga il salvataggio delle vite umane a prescindere dalla volontà dei vari governi della fortezza-Europa.
Il nebuloso concetto di sicurezza nazionale, come europea, sta al centro della crimmigration. Ma di base la crimmigration – al suo cuore – è solo la paura dell’altro.L’ossessione della sicurezza
Crimmigration è un termine coniato in criminologia nel 2006 che descrive la progressiva criminalizzazione di rifugiati, migranti richiedenti asilo, e in genere migranti che arrivano per mezzi considerati illegali, grazie a due processi interconnessi.
- L’aumento di politiche di controllo della migrazione alle frontiere (per esempio bloccando le navi delle ONG all’arrivo nei porti). Queste politiche sarebbero volte a ridurre i flussi migratori, quasi per magia. Ma è provato che non portano a una diminuzione della migrazione in sé, quanto in realtà aumentano soltanto le possibilità di immigrazione clandestina (ergo criminalizzata).

Militanti di Casa Pound contro l’immigrazione clandestina - La retorica della migrazione come cancerogena per le società riceventi è diventata cavallo di battaglia di partiti populisti che ricorrono all’istigazione all’odio quando i numeri e i dati non sono facilmente interpretabili a loro favore: ricordate il muro tra Messico e Stati Uniti paventato dall’ex-presidente USA, Donald Trump?

Trump ad Alamo, in visita a un sito di muro al confine tra Texas e Messico E così stereotipi che troppo spesso non hanno fondamento scientifico diventano verità incontrovertibili; diffuse paure dell’altro diventano ossessioni per la sicurezza e repulsione dell’altro; erronee comprensioni di come funziona il crimine, soprattutto quello organizzato, assegnano etichette di criminali un po’ a caso.
Gli altri (non) siamo noi: il complotto dello straniero
La paura primaria dei migranti – così etichettati, ricordiamo, nel tentativo di essere “politicamente corretti” e mostrarsi neutri – va a toccare corde profonde quanto irrazionali: lo straniero diverso (non come noi); i migranti poveri che commettono crimini, stupri, furti (non come noi); i migranti che rubano il lavoro agli Italiani (non come noi). C’è chiaramente un’errata percezione dei migranti come ‘altri’ e ‘diversi’ che passa da un’errata percezione di noi, e del riconoscimento del noi negli altri.

Il ministro Salvini durante un’iniziativa della lega di qualche anno fa Questa distorsione è costituente e costitutiva del modo di presumere che il “migrante” che arriva per vie illegali e/o disperato a chiedere asilo e soccorso, sia “povero”, “ineducato” e soprattutto inferiore. Questa distorsione risponde a una logica che in criminologia si chiama “complotto dello straniero” oppure alien conspiracy theory, che immagina l’ordine sociale dipendente dalla omogeneità e dalla staticità del concetto di sicurezza. Dico immagina perché l’ordine sociale può solo utopisticamente considerarsi mai tale. Bisogna rovesciare il paradigma con i dati alla mano: non è l’arrivo di migranti che crea ‘disordine’ e ‘insicurezza’, ma la cattiva gestione del sistema accoglienza, la criminalizzazione ingiustificata di chi attraversa i confini per motivi umanitari – che sia migrante o capitano di nave a bandiera ONG, e soprattutto l’aizzare le folle all’odio dell’altro anziché promuovere l’empatia e la compassione umana universale.
La crimmigration ferma la solidarietà
Oltre a consolidare queste basi concettuali, la crimmigration ha poi ulteriori effetti nefasti: per esempio, la solidarietà interrotta. Quella delle ONG criminalizzate, quella dei morti in mare per soccorsi che non arrivano in tempo, quella della burocrazia dei visti più becera che si affida ad algoritmi e non a principi di umanità nel fare scelte che cambiano la vita delle persone.

L’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano La solidarietà interrotta di stelle cadenti come Mimmo Lucano, in attesa di processo di appello dopo essere stato condannato in primo grado per illeciti amministrativi visti con le lenti di una forma di associazione a delinquere mirata all’accoglienza e al fare dell’accoglienza un modo per salvarsi anche a casa propria, passando forse dalla disobbedienza civile. La solidarietà interrotta causata dalla crimmigration passa da uno step fondamentale: chi aiuta i diversi non riconosce e non salvaguardia il noi e questo, di nuovo, fa paura, sebbene sia proprio dal riconoscimento dell’altro che, dicono i filosofi, appare lo specchio di chi siamo noi.
L’insostenibile pesantezza della compassione
Ma tutto questo – solidarietà criminalizzata, paura del migrante ‘diverso’ e politiche di crimmigration che interrompono la solidarietà – dovrebbe correggersi, o auto-correggersi, di fronte a tragedie come quella di Cutro. Dove altro si vede l’umanità e l’uguaglianza degli uomini – migranti – se non in queste morti? E invece no. Invece guardiamo le bare che si accumulano, e la compassione collettiva (quella individuale è intima) rimane superficiale.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di fronte alle bare nel PalaMilone Diceva Milan Kundera: «Non c’è nulla di più pesante della compassione. Nemmeno il proprio dolore pesa tanto quanto il dolore che si prova con qualcuno, per qualcuno, un dolore intensificato dall’immaginazione e prolungato da cento echi».
E nell’insostenibile pesantezza della compassione per l’altro, ecco che emerge chiaramente l’insostenibile leggerezza scelta da alcuni uomini e alcune donne del nostro governo, umani solo a metà. - L’aumento di politiche di controllo della migrazione alle frontiere (per esempio bloccando le navi delle ONG all’arrivo nei porti). Queste politiche sarebbero volte a ridurre i flussi migratori, quasi per magia. Ma è provato che non portano a una diminuzione della migrazione in sé, quanto in realtà aumentano soltanto le possibilità di immigrazione clandestina (ergo criminalizzata).
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Il cuore di Antonia per i bambini morti a Cutro: siete piccoli fantasmi
«Addeso siete fantasmini». Così c’è scritto in uno dei molti bigliettini che, insieme a mazzi di fiori, lumini, poster adornano il piazzale antistante il PalaMilone a Crotone.
A scriverlo è stata Antonia e credo si tratti di una bimba molto piccola. Ha scritto quella frase, per me la più potente, rivolgendosi idealmente ai piccoli e alle piccole che sulla spiaggia di Steccato di Cutro hanno trovato la morte.Antonia ha ragione, molta più ragione di quanta ne abbiamo spesso noi adulti: quei bimbi e quelle bimbe sono ora fantasmini e i fantasmini non fanno paura. Aleggiano allegramente coi loro lenzuolini al più facendo qualche piccolo dispetto. Una delle verità che probabilmente un giorno dovremo raccontare ad Antonia è che i migranti, siano essi madri, padri, sorelle, fratelli, figli e figli, fantasmi lo sono anche prima di morire ché anzi da vivi fanno ancora più paura.
Fantasmi in fuga dalla paura
Eppure i e le migranti (come quelli morti a Cutro) proprio dalla paura scappano: dalla paura di morire, di essere perseguitati, vessati, costretti a vivere in condizioni inumane, degradanti e crudeli. Cercano rifugio dalla paura perché nella paura non si può vivere. E l’Europa ha paura di loro, l’Italia ha paura di loro anche se non sono tanti, anche se non incidono sui nostri livelli di benessere, anche se non ci rubano il lavoro. Ed è così che l’Europa sta dimenticando o ha già dimenticato quella promessa/premessa che ci eravamo fatti nel secondo dopoguerra: dare rifugio a chi fugge dalle persecuzioni e non respingere nessuno verso quei luoghi in cui la vita può essere messa in pericolo.
Potrei elencarvi tutte le convenzioni internazionali, i regolamenti e le direttive comunitarie e anche gli articoli della Costituzione repubblicana che parlano di rifugio, di asilo, di protezione sussidiaria. Sono una costituzionalista e studio ormai da venti anni il diritto dei migranti. Di tutto questo apparato normativo e dei princìpi che lo ispirano chi detiene il potere politico ormai si disinteressa e anzi si fa bellamente e disumanamente sfoggio dell’ignoranza.
Eppure…
Ma c’è un eppure e ad Antonia io un giorno spero di poterlo raccontare. A Crotone, negli abbracci delle/dei mie/i assistenti sociali, nelle lacrime e nella rabbia di operatori e operatrici del sociale, nella compostezza dolorosa della gente che quei corpi hanno voluto omaggiare, ho risentito il Tito di Fabrizio De André: «nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore».
Donatella Loprieno
Docente Dispes, Università della Calabria -

Piantedosi, Occhiuto e il passato che dimenticano
Credo e spero che in breve tempo si accerterà se la strage di migranti avvenuta nelle acque di Cutro poteva essere evitata, individuando gli eventuali colpevoli di mancato soccorso. Ma, a fronte della sensibilità umana e della responsabilità civile di chi ha prestato invece soccorso alle vittime del naufragio, una cosa assai grave è apparsa con certezza fin da subito: la grave inadeguatezza culturale e politica di chi ci governa.
Le parole di Piantedosi
Nel caso del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, già prefetto di Bologna e di Roma, non c’è da sorprendersi dell’oscenità delle sue dichiarazioni, trattandosi della stessa persona che quattro mesi fa, nello scorso novembre, sostenne la necessità di organizzare «sbarchi selettivi», consentendo di sbarcare solo a donne, bambini e persone in cattive condizioni psico-fisiche, respingendo invece i migranti in buona salute, cinicamente definiti: «carico residuale».

La bara di una delle bambine morte Non contento di questa sua esternazione, Piantedosi ha replicato nei giorni scorsi il suo raccapricciante punto di vista sui migranti, affermando che «la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli», attribuendo dunque la colpa della strage di Cutro alla “irresponsabilità” dei genitori migranti. Infine, in risposta alle critiche che sta ricevendo, Piantedosi non trova ora di meglio, in audizione alla Camera, che rivendicare con orgoglio il suo passato di “questurino”.
L’ignoranza del fenomeno
Ora, è evidente che il pregiudizio politico e l’avversione altezzosa nei confronti dei migranti si accompagna alla più completa ignoranza della drammaticità del fenomeno migratorio. È del tutto chiaro che le condizioni tragiche e disperate da cui spesso fuggono i migranti non consentono di scegliere le modalità di partenza e anche quando non si fugge da guerre e dittature sanguinarie le motivazioni che spingono a lasciare il proprio paese sono talmente forti da affrontare ogni rischio. Ma questo non appartiene soltanto alle migrazioni contemporanee. Basterebbe conoscere anche superficialmente la storia dell’emigrazione italiana, per capirlo.
I migranti di “casa Piantedosi”
Gian Antonio Stella, sul Corriere della Sera di mercoledì 1° marzo, ha ricordato a Piantedosi gli innumerevoli naufragi delle navi che portavano gli emigranti italiani nelle Americhe e le traversie inenarrabili patite da tante madri che cercavano di raggiungere coi loro bambini i mariti emigrati all’estero. Ma temo che sia un esercizio pressoché inutile. Se Piantedosi volesse conoscere un po’ di storia dell’emigrazione, gli basterebbe rivolgersi ai suoi compaesani di Pietrastornina, il paesino irpino da cui proviene, che nel 1911 contava oltre cinquemila abitanti e oggi ne ha poco più di un migliaio. E scommetto che gli sia ignota la storia di un altro paesino campano, non lontano dal suo, Castelnuovo di Conza, che detiene il primato nazionale del più alto numero di residenti all’estero in rapporto alla popolazione: oltre tremila in giro per il mondo e solo cinquecento a Castelnuovo.
Precedenti illustri
Quanto ai genitori che emigrando mettono in pericolo la vita dei loro figli, gli si potrebbe raccontare la storia di una donna di Oppido Lucano, Felicia Muscio, che con la sua piccola bambina, per raggiungere il marito già emigrato, nel 1897 si mise in viaggio alla volta di Iquique, nel nord del Cile, affrontando un viaggio pazzesco, che la portò prima in nave a Buenos Aires, poi in treno fino alle Ande; e infine, attraversando la Cordigliera, a dorso di mulo con la bimba in braccio, superando spazi immensi senza conoscere una parola di spagnolo, riuscendo in ultimo a raggiungere lo sposo.

Felicia Muscio Ma, ripeto, per uno come Piantedosi, è fatica sprecata cercare di fargli capire cosa sono le migrazioni: per lui – ma, temo, per l’intero governo – purtroppo l’odissea di Felicia Muscio sarebbe di fatto riconducibile alla cosiddetta «migrazione economica», dunque oggi, in quanto tale, andrebbe respinta nel luogo d’origine, come i «carichi residuali» di cui sopra.
Anche Occhiuto ne sa poco
Mi si potrebbe obiettare che il ministro Piantedosi è un caso limite, o che il suo lessico da “questurino” tradisce più miti intenzioni, o che altri governanti sono più avveduti e competenti. Mi piacerebbe fosse vero, ma nei giorni scorsi anche in Calabria ho ascoltato dai governanti cose sconcertanti. Il presidente della Regione, Roberto Occhiuto, ad esempio, intervistato al TG3 il 27 febbraio, ha detto che «quando partivano i calabresi verso il Canada, l’Argentina, la Germania, andavano verso Paesi dove questo fenomeno era governato, oggi questo fenomeno non è governato».

Roberto Occhiuto e il suo slogan della campagna elettorale Chi glielo racconta a Occhiuto che Stati Uniti, Argentina e Brasile hanno accolto milioni di italiani perché ne avevano bisogno? Chi glielo spiega che in quell’alluvione migratoria c’era di tutto e che “governarla” era piuttosto complicato? E delle baracche che ospitavano i calabresi in Svizzera, in Germania e in Belgio, ne sa qualcosa? Invece di parlare di vicende che probabilmente conosce poco, perché non cerca di fare i conti con le sciocchezze e le insipienze del suo governo nazionale di riferimento?
Ripartire dalla Costituzione
Intanto, io credo che non ci resti che partire dai fondamentali, ricordando a chi ci governa che l’articolo 10 della nostra Costituzione si conclude con queste parole: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge».
Vittorio Cappelli
Storico delle migrazioni, Università della Calabria -

Migranti morti? Giorgia Meloni se ne va in India
Non le è bastato essere donna e madre, nemmeno essere cristiana, per trovare il coraggio di venire Crotone, dove di donne e bambini ne sono morti parecchi.
Giorgia Meloni vola in India e non guarderà mai la fila di bare dei migranti morti tra le onde per cercare di scampare a un inferno che non riusciamo ad immaginare. Lei che rappresenta il governo di questo Paese non andrà sulla spiaggia dove forse ancora ci sono i resti della tragedia. Gli occhi cerulei della finta underdog non si poseranno sulle tracce della morte degli ultimi della terra. Lei aveva mandato avanti il suo ministro, che alla fine era meglio che fosse restato a casa. Le parole di Piantedosi sono risultate raccapriccianti per disumanità al punto da causare imbarazzo pure tra i suoi sodali.Migranti? Per Giorgia Meloni meglio l’lndia
Giorgia Meloni, dopo quelle parole risultate oltraggiose per il comune senso di pietà, si è trovata nella difficile situazione di decidere rapidamente se scendere in Calabria oppure eludere il problema. Immaginiamo le frenetiche riunioni, le febbrili telefonate per decidere velocemente che fare, tra chi diceva che era necessario venire e quanti sconsigliavano la trasferta calabrese. Deve essere prevalsa la scelta di non rischiare, quella spiaggia di dolore, quelle bare, si sono trasformate in un terreno troppo minato per il presidente del Consiglio, ancor di più dopo le parole del suo ministro, ma soprattutto dopo aver invocato blocchi navali, spesso senza avere il coraggio di chiamarli col loro nome.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di fronte alle bare nel PalaMilone Quei luoghi di dolore hanno visto invece Mattarella, ormai impegnato da tempo a ricordare ai distratti della destra che questo Paese ha una Costituzione e anche una storia, col rischio che quell’uomo dai capelli bianchi si trasformi nell’immaginario nazionale in un audace e improbabile attivista di sinistra. Alla fine Giorgia Meloni è volata in India e ha anche portato il suo omaggio al memoriale di Gandhi. Perché essere buoni a parole non costa nulla.
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No alla Calabria tomba degli ultimi: dopo le lacrime, è l’ora della protesta
Dopo il tempo del dolore, che comunque non finisce, deve venire il tempo della mobilitazione e della denuncia politica. Per non rassegnarsi allo sgomento e far sì che quanto accaduto domenica sulla spiaggia di Cutro non si ripeta. Per spiegare che il naufragio e la morte dei migranti non sono state fatalità, ma potevano essere evitate, come sempre più chiaramente sta emergendo.
L’Italia si mobilita
Molte associazioni, così, si sono raccolte in rete e già il prossimo sabato si mobiliteranno in tutta Italia, tenendo manifestazioni in moltissime città. Questi eventi saranno raccontati da Radio Ciroma, emittente cosentina che organizzerà un ponte radio per tenere in contatto le molte piazze. In Calabria l’appuntamento è a Crotone davanti alla Prefettura, per dare un segno di solidarietà alle associazioni della città che hanno dovuto affrontare in prima linea la tragedia della morte dei migranti cercando di far convogliare lì il maggior numero di persone. Tuttavia, a causa di difficoltà logistiche, a Reggio e a Vibo si svolgeranno in contemporanea manifestazioni locali.
Una manifestazione a Crotone per i morti di Cutro
A Cosenza nella sede della Base, si sono riuniti i rappresentati di alcune associazioni, Radio Ciroma, il sindacato Cobas, il Centro antiviolenza Lanzino, Emergency, l’Anpi P.Cappello, il Filo di Sophia e Gaia, fino all’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. L’intento è quello di compiere gli sforzi necessari ovunque ci si trovi per concretizzare l’idea che sta maturando, cioè di realizzare una manifestazione nazionale da tenere sabato 11, proprio a Crotone.
La scelta della città calabrese non è solo legata, come è ovvio, al drammatico naufragio. Simbolicamente vuole rappresentare anche il luogo di partenza di una protesta non solo contro questo governo, ma pure per rivendicare attenzioni verso la Calabria, che come è stato detto «non vuole essere la tomba degli ultimi, né luogo di disperazione».
Difficile, ma non impossibile
I promotori sono consapevoli delle difficoltà organizzative che pesano sull’ipotesi di un incontro nazionale a Crotone, dove è difficile giungere da qualunque punto della regione, figuriamoci dal resto del Paese. Ma già sabato, nel corso delle manifestazioni che si terranno in tutta Italia, si misurerà la volontà di affrontare queste difficoltà, costruendo in rete un percorso che arrivi fino alla prefettura di Crotone.
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Fratelli nella morte, l’umanità da ritrovare dopo la strage di Cutro
Nel PalaMilone ci riscopriamo fragili e impotenti. Una dimensione collettiva e allo stesso tempo intima. La riscoperta agghiacciante dell’umano in una vicenda tutta disumana. È come se il pellegrinaggio continuo, i fiori, gli orsacchiotti lasciati lungo le grate esterne, i silenzi volessero restituire un senso di giustizia a ciò che è accaduto a Steccato di Cutro, alle parole fuori posto, a ciò che forse non riusciremo mai a scoprire di quella notte.
Non è pietismo, non è un lavarsi la coscienza davanti alla morte. Sembra più una inconscia riscoperta di fratellanza e solidarietà. Una ritrovata identità mediterranea, un’appartenenza a un mare che unisce e rende sorelle e fratelli. Quello stesso mare che abbiamo reso una muraglia con le nostre politiche identitarie.
Si percepiscono lontani gli slogan di questi giorni: «sono troppi», «perché partono», «non possiamo accoglierli tutti».Cutro e il PalaMilone come Sarajevo o Kabul
È il tempo del silenzio, della mancanza di parola, della riflessione. Si entra con delle certezze, si esce svuotati alla vista di quelle bare poste sul campo da gioco del palazzetto. È lo stesso contrasto che si afferra a Sarajevo, a Buenos Aires, a Kabul. Campi di calcio trasformati in luoghi di martirio. Gli spalti vuoti di fronte restituiscono quel senso assordante di silenzio e tristezza. Si dovrebbe esultare su quei seggiolini, oggi si rabbrividisce davanti a tutta la scena.

La bara di una delle bambine morte Si fa in tempo anche a scorgere qualche familiare che arriva accompagnato dai volontari della Croce Rossa. È una donna avvolta nel velo e si muove alla ricerca di un nome posto sul legno. Per altri invece c’è solo un numero, un identificativo. Altri parenti arrivati da Londra e dal Nord Europa attendono le ricerche, la restituzione di un corpo. Non è una speranza di vita ma una restituzione di dignità. Una piccola particella di giustizia in un mare di ingiustizia.
In quelle bare ci siamo noi, annegati tra le onde della disumanità. Vittime e complici di un sistema alla deriva dove l’egoismo si incarna nella difesa dei confini, nella separazione tra ciò che è di qua e da quel che c’è di là. È la fortezza Europa che si sgretola giorno dopo giorno. Sabato notte l’abbiamo vista sgretolarsi impietosa sulle nostre coste, sulle sconosciute spiagge di Steccato di Cutro, tra soccorsi mai arrivati, nella desolazione e la solitudine di una rotta che da Est taglia verso Ovest, nel frastuono del sabato italiano.
Al di là del mare
È contrasto anche qui. Le urla delle mamme alla ricerca dei figli dispersi si mischia alle ultime note dei locali della movida delle nostre città. L’ora è la stessa. Quella stessa ora in cui forte è la consapevolezza dell’essere nati dalla parte fortunata del mare. E allora perché sprecare parole sulla necessità di partire? Di cercarsi un futuro migliore? Perché non tacere?
L’uscita dal PalaMilone è solo la necessità di un abbraccio. La consapevolezza che girarsi dall’altra parte non può diventare un imperativo, anzi il contrario.
«Non si può andare avanti così», dice qualcuno. È il momento della denuncia.
È il momento delle responsabilità altrimenti ci rimarrà un’altra strage da ricordare tra le occasioni perdute in cui avremmo potuto fare e non abbiamo fatto.Andrea Bevacqua
Docente e attivista
