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  • Pasolini e il medico di Paola

    Pasolini e il medico di Paola

    Intellettuale anticonvenzionale, indipendente, unico e ineguagliabile. Cinquant’anni fa moriva Pier Paolo Pasolini, assassinato sul litorale di Ostia nella notte fra il 1° e il 2 novembre 1975. Un poeta, giornalista, regista e letterato che ha lasciato un segno indelebile nella cultura italiana del Ventesimo secolo e che ha scandagliato in profondità i tormenti, le ipocrisie, i vizi e i cambiamenti del popolo italiano.

    Renzo Paris racconta la morte di Pier Paolo Pasolini nel suo ultimo libro - la Repubblica
    Il ritrovamento del corpo di PPP

    Dai campagnoli di Casarsa ai sottoproletari delle borgate romane, fra i popoli umili che più hanno intrecciato le loro sorti al vissuto di Pasolini un posto di rilievo ha la gente di Calabria. Quello fra PPP e la Calabria è stato un rapporto burrascoso ma intenso, sviluppatosi attraverso i reportage, i film, i documentari, anche la poesia, con le parole di Profezia, componimento del ’64 poi diffuso col titolo Alì dagli occhi azzurri, che anticipò il dramma dei migranti nel Mediterraneo e in particolare lungo le coste calabresi.

    “Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
    a milioni, vestiti di stracci,
    asiatici, e di camicie americane.
    Subito i Calabresi diranno,
    come malandrini a malandrini:
    ‘Ecco i vecchi fratelli,
    coi figli e il pane e formaggio!’”

    Pasolini in Calabria: banditi a Cutro

    La complessità del legame fra Pasolini e la Calabria si fonda sul caso scoppiato lungo il vespro dell’estate del 1959, a seguito della pubblicazione – il 5 settembre – della terza e ultima parte di un reportage in Italia, da Ventimiglia a Pachino, da Reggio Calabria – luogo in cui, scrive, gli piacerebbe «vivere e morirci, non di pace, […] ma di gioia» – a Trieste, che Pier Paolo Pasolini confezionò, con gli scatti del fotografo Paolo di Paolo, per la rivista Successo. La parte conclusiva del documentario dal titolo La lunga strada di sabbia si concentrava sulla risalita della Penisola, dallo Jonio calabrese all’Adriatico, tragitto durante il quale il poeta passò, fugacemente, a bordo della sua Millecento a quattro cilindri, da Cutro, paesino immerso in un paesaggio bucolico di calanchi oggi in territorio di Crotone, al tempo rientrante nella provincia di Catanzaro.

    Parliamo della famosa polemica dei banditi – così come Pasolini appellò la gente di Cutro –, cavalcata dalla pubblicistica locale e dal governo democristiano di Cutro con a capo il sindaco Vincenzo Mancuso.
    «Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il lungo viaggio. È, veramente, il paese dei banditi, come si vede in certi westerns. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano dal lavoro atroce, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia».

    Premi e polemiche

    Alla diffusione di queste pagine, sulla stampa calabrese si scatenò un’isteria collettiva. L’intellettuale corsaro provò, a suo modo, a chiudere la questione con una replica, uscita il 28 ottobre su Paese Sera. Un passaggio della Lettera sulla Calabria sosteneva che «la storia della Calabria implica necessariamente il banditismo: se da due millenni essa è una terra dominata, sottogovernata, depressa». Ma la querelle proseguì, raggiungendo il picco poche settimane dopo, a metà novembre, quando PPP ricevette a Crotone – città in contrasto politico con la vicina Cutro considerata l’amministrazione di colore rosso, retta dal primo cittadino comunista Vincenzo Corigliano – il prestigioso Premio Crotone per il suo romanzo Una vita violenta. «Il Premio Crotone assegnato a chi ha offeso senza alcun ritegno l’onorabilità della cittadina crotonese e di Cutro» metteva nero su bianco, indignato, Il Messaggero della Calabria.

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    Pasolini in Calabria per il Premio Crotone

    Il dottor Pasquale Nicolini

    È una vicenda famosa, di cui si è scritto molto. Poco tramandato è invece uno scambio di lettere, avvenuto a cavallo fra l’uscita del resoconto incriminato e la consegna contestata del Premio Crotone all’autore, fra Pasolini e un medico calabrese.
    È il 26 settembre 1959 quando dalla Calabria parte una raccomandata. A firmarla è un dottore, ufficiale sanitario di Paola, Pasquale Nicolini.
    Vicino agli ultimi, ai più deboli, Nicolini era quello che oggi definiremmo un attivista. L’uomo si impegnava a promuovere il diritto alla salute per le famiglie meno abbienti e per la costruzione di abitazioni moderne, che strappassero le genti più povere della cittadina tirrenica dalle loro casupole malsane e lesionate a seguito dei bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale – lascito di quegli orrori della guerra che il dottor Nicolini aveva sperimentato negli ospedali militari.

    L’uomo possedeva anche una profonda cultura umanistica, amava discettare di filosofia e letteratura e non disdegnava di comporre poesie dedicate alla sua terra. Interessatosi chiaramente alla controversia scoppiata a seguito delle parole di Pasolini sulle pagine di Successo, il dottor Pasquale Nicolini pensò dunque di scrivere, con la cortesia e l’acume che lo distinguevano, una lettera privata al poeta.
    Di seguito, estratti della missiva, pubblicata il 23 luglio 2012 da Roberto Losso, giornalista scomparso nel 2023, sulle colonne del Quotidiano della Calabria:

    Una lettera per confrontarsi

    «Al signor Pier Paolo Pasolini, il suo resoconto La lunga striscia di sabbia, pubblicato nel numero di settembre di Successo, ha suscitato in Calabria un’ondata di risentimento, invero molto giustificato, del quale non so se l’è giunta l’eco. Io preferisco scriverle personalmente, anche perché voglio aver la certezza ch’ella conosca il mio pensiero: sarò franco e sereno, e le sarò molto grato se vorrà rispondermi con uguale franchezza e serenità. Chi sa che non si possa giungere alla comprensione e… alla distensione! Molte volte si grava l’animo di rancori per interpretazioni errate o perché si va più in là delle intenzioni altrui. Non è così?

    Ella, dunque, percorrendo la ‘lunga strada di sabbia’ della nostra Penisola, ha dato un fugacissimo sguardo alla costiera calabra e ne ha tratto delle conclusioni che certamente non ci fanno onore. Che il suo sguardo sia stato fugacissimo è provato dalla celerità con cui ha percorso detta strada».

    Pasolini tra le braccia di Morfeo?

    «Verrebbe addirittura da pensare che da Maratea (che è in Lucania) a Reggio Calabria abbia viaggiato in ‘turboreattore’, se neppure si è accorto delle belle scogliere di Praia e Scalea, del paradiso di Cirella di Diamante piena di sole, di Belvedere e della sua Rosanville, di Cittadella del Capo semplice e romantica, della mia Paola panoramica e mistica, dello sperone di Tropea, di Bagnara, di Scilla. Ovvero – lo confessi! – nel tratto calabro-tirrenico, vinto dalla stanchezza, ha ceduto il volante al suo fotoreporter e si è accoccolato nelle braccia del buon Morfeo?».

    «Così ella ha potuto dare una occhiata di scorcio solo a Reggio ed al resto del litorale jonico. Ma tanto è bastato per farle osservare che Reggio è città estremamente drammatica e originale, di un’angosciosa povertà, dove, sui camion che passano per le lunghe strade parallele al mare, si vedono scritte come “Dio, aiutaci”, che Cutro è veramente il paese dei banditi come si vede in certi westerns (ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi); che ivi si sente che siamo fuori dalla legge o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, ad un altro livello…» […]

    Povera ma bella

    «E finalmente, uscendo dal Sud, ha sentito di qualificarlo ‘carfaneo sterminato, brulichio di miseri, di ladri, di affamati, di sensuali, pura e oscura riserva di vita’. Ma come ha potuto, signor Pasolini, emettere di tali giudizi sulla base di un rapido colpo d’occhio? Perché, guardi, la Calabria è veramente e dolorosamente povera e depressa, ma che, dai nostri camion gridi la sua invocazione a Dio per non perire, questo no! Anche perché è nella natura di noi calabresi un senso d’orgoglio, direi, smisurato (usi a soffrir tacendo)».

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    Quel che resta del tempio di Hera Lacinia a Capo Colonna (Crotone)

    «Ed ora mi levi una curiosità: da che cosa ha potuto dedurre che Cutro è il paese dei banditi? […] Strano, poi, che proprio ivi, in vicinanza di Crotone, dove ancora splendono i fasti della Scuola Pitagorica, si sia sentito fuori dalla legge e dalla cultura del suo mondo (ch’è pure mondo d’alto livello). Strano davvero, perché c’è chi, nelle notti lunari, vede ancora aggirarsi, nei pressi della colonna di Hera Lacinia, le ombre del grande saggio e dei suo discepoli che vanno irrequiete dietro l’assillo di intendere le leggi, l’ordine e l’armonia totale dell’Universo. Ritorni per davvero, signor Pasolini, nella nostra povera ma bella e generosa Calabria. A Paola sarà mio gradito ospite.»[…]

    «Sono certo che si ricrederà di molte cose e che non dirà più di noi che siamo un brulichio di miseri e di ladri, e che qua tutto è essenza negativa. Abbiamo le nostre miserie e i nostri difetti, ma abbiamo anche il nostro buon cuore, le nostre virtù e soprattutto il grande desiderio di essere considerati figli non demeriti di una madre comune».

    La replica di Pasolini

    Apprezzando il tono e la cultura classica espressa da Nicolini, PPP decise di rispondere. Già il 1° ottobre con la sua Olivetti 22 il poeta replicò al medico calabrese. Riportiamo alcuni lacerti della risposta:
    «Gentile dottor Nicolini, devo dirle anzitutto: i banditi mi sono molto simpatici, ho sempre tenuto, fin da bambino, per i banditi contro i poliziotti e i benpensanti. Quindi, da parte mia, non c’era la minima intenzione di offendere i calabresi e Cutro. Comunque, non so tirare pietosi veli sulla realtà: e anche se i banditi li avessi odiati, non avrei potuto fare a meno di dire che Cutro è una zona pericolosa, ancora in parte fuori legge: tanto è vero che i calabresi stessi, della zona, consigliano di non passare per quelle famose ‘dune giallastre’ durante la notte.» […]

    «E quanto ai ladri, infine: non mi riferivo particolarmente alla Calabria, ma a tutto il Sud. Sono stato derubato tre volte: a Catania, a Taranto e a Brindisi (sempre nelle cabine delle spiagge). In Calabria ho avuto una rapina a mano armata (di coltello): a cui sono sfuggito solo per la mia presenza di spirito. Queste cose ovviamente non le ho scritte, non solo per senso della litote, ma per non mettere nei guai i miei ladri e i miei rapinatori, che continuano ad essermi simpaticissimi (solo a Taranto, per colpa del bagnino, è intervenuta la polizia: ma io non ho voluto fare la denuncia contro il povero ladruncolo subito ritrovato)».

    Manie di persecuzione, lotta e realtà

    «Questi sono dati della vostra realtà: se poi volete fare come gli struzzi, affar vostro. Ma io ve ne sconsiglio. Non è con la retorica che si progredisce. Tutto questo lo dico a lei, perché mi sembra una persona veramente buona e simpatica». […]
    “Mi dispiace dell’equivoco: non si tiene mai abbastanza conto del vostro ‘complesso di inferiorità’, della vostra psicologia patologica (adesso non si offenda un’altra volta!), della vostra collettiva angesi, o mania di persecuzione. Tutto ciò è storicamente e socialmente giustificato.

    E io non vi consiglierei di cercare consolazioni in un passato idealizzato e definitivamente remoto: l’unico modo per consolarsi è lottare, e per lottare bisogna guardare in faccia la realtà. Mostri pure questa lettera ai suoi amici, la renda pubblica, magari la faccia anche stampare sui giornali che hanno polemizzato contro di me. Sono certo che sarò capito. Le ripeto: lei è persona degna di ogni rispetto e anche affetto, e, come tale, cordialmente la saluto, suo devotissimo Pier Paolo Pasolini».

    Pasolini torna in Calabria

    Il carteggio non fu divulgato, come esortato dallo stesso Pasolini. «Persona degna di ogni rispetto e anche affetto», il dottor Nicolini lasciò la preziosa corrispondenza nel cassetto, lontana dalle grinfie di cercatori di scoop e fomentatori della diatriba.
    La polemica si affievolì presto e, trascorsi alcuni anni, Pasolini ritornò in Calabria. Il rapporto con la regione, terra genuina, reale, trascurata e anarchica quanto bastava per non essere stata ancora corrotta dalla omologazione e dalle brutture conformistiche imposte dalla modernità, da quel “genocidio culturale” inflitto agli italiani, proseguì raggiungendo l’acme nel ’63-’64 con le riprese del Vangelo secondo Matteo.

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    Pasolini durante le riprese de Il Vangelo secondo Matteo

    Il poeta e regista, deluso dalle trasformazioni del paesaggio avvenute in Medio Oriente, scelse di girare in diversi luoghi rupestri del Meridione, fra cui le calabresi Le Castella e Cutro, panorami «ferocemente antichi», scampati al disastro «economico, ecologico, urbanistico, antropologico» del tempo, che meglio potevano ricordare la Terra Santa di duemila anni prima.
    E il colto dottor Pasquale Nicolini? Voci perpetuate nei decenni vogliono che Pasolini abbia incontrato, negli anni successivi a quella turbolenta seconda metà del 1959, quel medico intellettuale paolano che aveva avuto l’ardire di scrivergli direttamente per metterlo a parte del suo pensiero e per avere un confronto, e che grazie all’educazione e all’accesa passione per le proprie radici si era meritato non soltanto la risposta, ma pure la stima di uno dei massimi pensatori del Novecento.

    Voci, indiscrezioni mai confermate che nulla tolgono a una corrispondenza preziosa, tassello importante per ricostruire il rapporto tormentato e ricco di fascino fra Pasolini e la nostra terra.

  • A due anni dalla strage di  Cutro il popolo migrante continua a morire in mare

    A due anni dalla strage di Cutro il popolo migrante continua a morire in mare

    Due anni sono trascorsi dalla tragica notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, quando un caicco carico di speranze e sogni naufragò nelle acque di Steccato di Cutro, portando con sé la vita di 94 migranti, tra cui 35 minori. Oggi, quella spiaggia calabrese è stata teatro di commemorazioni e riflessioni profonde, mentre il Mediterraneo continua a essere scenario di tragedie umane. Secondo i dati congiunti di OIM, UNICEF e UNHCR, negli ultimi due anni oltre 5.400 migranti hanno perso la vita nel Mediterraneo, un numero che sottolinea l’urgenza di interventi concreti per prevenire ulteriori perdite.

    Cutro: la tragedia che poteva essere evitata

    In occasione di questo secondo anniversario, dieci organizzazioni non governative, tra cui Emergency, Medici Senza Frontiere e Open Arms, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta. Esse sottolineano come la tragedia di Cutro avrebbe potuto essere evitata e chiedono l’istituzione di un sistema europeo di salvataggio in mare, evidenziando la necessità di un approccio coordinato e umano alla crisi migratoria. Alle prime luci dell’alba, una veglia si è tenuta sulla spiaggia di Steccato di Cutro. Candele accese e una corona deposta in mare hanno onorato la memoria delle vittime. Presenti familiari, superstiti e membri della comunità locale, uniti nel dolore e nella speranza di un futuro migliore.

     

    Tenere viva l’attenzione e impedire altre stragi

    La Rete 26 febbraio, l’associazione No profit che è sorta all’indomani della strage e che ha come scopo quello di sensibilizzare l’opzione pubblica verso le politiche migratorie,  ha organizzato una serie di eventi tra Cutro, Crotone, Cosenza e Botricello, con l’obiettivo di mantenere viva la memoria e promuovere un dialogo costruttivo sulle politiche migratorie. Queste iniziative mirano a trasformare il dolore in azione, affinché tragedie simili non si ripetano.
    La segretaria Dem Elly Schlein, ha espresso preoccupazione per le domande ancora senza risposta riguardo alla gestione dei soccorsi durante il naufragio di Cutro. La sua dichiarazione richiama l’attenzione sulla necessità di chiarezza e responsabilità da parte delle istituzioni.

    L’anniversario di Cutro non deve essere solo ricordo

    Questo anniversario non è solo un momento di ricordo, ma un appello urgente all’azione. Le vite perse a Cutro e nel Mediterraneo esigono un impegno collettivo per garantire rotte sicure e legali per chi cerca una vita migliore, affinché il mare smetta di essere un cimitero e torni a essere un ponte tra i popoli.

  • Da Verzino alla Turchia per salvare vite

    Da Verzino alla Turchia per salvare vite

    Da Verzino fino alla grotta della Morca, nella Turchia meridionale, per salvare l’americano che era lì era rimasto ferito ed intrappolato a mille metri di profondità.
    Francesco Ferraro è un giovane calabrese in forza al Corpo nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico della Puglia. È un “tecnico specialista in recupero”, vale a dire la qualifica formazione più alta che un soccorritore in grotta possa vantare. Ed è per questo che quando è avvenuto l’incidente a Mark Dickey, impegnato nella esplorazione della Morca, Ferraro è stato tra i membri del CNSAS allertato per intervenire in quanto membro dell’Ecra (European cave rescue association).

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    Il salvataggio dell’americano in Turchia (foto del Corpo Nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico)

    Così, nell’arco di poche ore, un aereo dell’Aeronautica ha trasportato una quarantina di tecnici italiani in Turchia e poi l’esercito turco li ha condotti all’ingresso della grotta dove da giorni altre squadre di soccorso internazionali erano già all’opera. Il salvataggio dell’americano è stato un successo grazie alla collaborazione tra i diversi gruppi e malgrado le grandissime difficoltà.

    Francesco Ferraro, o in grotta o sui tralicci

    Oggi Ferraro è tornato in Calabria e alla sua professione. Lui che per passione scende a mille metri nel ventre della terra, per lavoro si arrampica sui tralicci dell’alta tensione, ad oltre trenta metri. Insomma, una vita passata indossando casco, imbrago e moschettoni di sicurezza. Ma quando non si prende cura di cavi da centinaia di migliaia di Volt, allora non resiste e parte per qualche grotta.
    La sua passione inizia a Verzino, piccolo paese della provincia di Crotone e precisamente attorno al mistero che su di lui esercitavano gli ingressi bui della grotta della “Grave” (Grave grubbo) e dello Stige. Nel 2011 inizia a praticare la speleologia, seguendo persone con maggiore esperienza e imparando come una spugna. Rapidamente acquisisce tecniche e competenze, ma soprattutto il suo motore è la curiosità: «Si deve uscire dal proprio recinto, confrontarsi con realtà diverse, solo così si migliora nella speleologia», dice sicuro.

    Dal Marguareis all’Iran

    E infatti presto la Calabria con le sue grotte gli stanno strette. Cerca esperienze nuove. Va nel tempio della speleologia italiana, il Marguareis, visita il gigantesco complesso carsico che si dipana in chilometri di grotte. Impara di più, impara meglio, si affianca ai nomi più autorevoli della speleo italiana. Poi lo sguardo curioso si sposta più in là, di parecchio. Francesco Ferraro nel 2018 parte per l’Iran, partecipa a una spedizione internazionale composta da 10 italiani e 16 polacchi, oltre che un certo numero di speleo iraniani.
    «La zona dove si svolgeva la spedizione era molto inospitale. Ci aspettavano 10 ore di cammino, 1.600 metri di dislivello, fino alla cima posta tra i 2.800 metri e i tremila con una infinità di inghiottitoi e ingressi».

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    Ferraro nelle grotte del Marguareis

    L’associazione che ha messo assieme i componenti della spedizione è La Venta probabilmente tra le più importanti realtà di esplorazioni geografiche. Francesco Ferraro ha fatto il salto definitivo. Torna in Iran per completare l’esplorazione l’anno successivo, intanto ha trasferito la sua passione nel Soccorso. Acquisisce nuove competenze, «perché essere bravi in grotta non basta, si deve imparare a portare soccorso, mettere in sicurezza il ferito, trovare la via più sicura per portarlo fuori, avere cura dei compagni di squadra».
    È un percorso di responsabilità, di conquista di maturità, di consapevolezza e senso di solidarietà. Perché altrimenti non ti svegli all’alba la domenica, magari d’inverno, per partecipare a una esercitazione.

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    La spedizione in Iran

    Francesco Ferraro e Il Buco di Frammartino

    Il valore di Francesco Ferraro viene successivamente riconosciuto anche da Michelangelo Frammartino, regista del film Il Buco, sulla scoperta ed esplorazione dell’abisso del Bifurto. In quella occasione Francesco assieme ad altri esperti speleo calabresi, come Nino Larocca, fornisce assistenza alle riprese, trasportando nei pozzi le attrezzature e garantendo la sicurezza degli attori. Pur se calabrese entra a far parte del Soccorso Alpino e Speleologico Puglia e lì, dopo un lungo periodo di formazione diventa, Specialista nelle tecniche di recupero. Un traguardo che premia la costanza e la passione, ma pure una acquisita maturità sui compiti di un soccorritore.

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    Francesco in una grotta

    Le grandi esplorazioni non lo hanno separato da Verzino, dove con un gruppo di amici cerca di promuovere la pratica della speleologia, di tenere in vita il fascino della scoperta tra i ragazzi del paese.
    «Per me descrivere la speleologia è difficile – spiega sorridendo Francesco Ferraro – per tanti uno è sport, per altri un laboratorio scientifico, per altri ancora una frontiera da esplorare in un mondo che visualizza la realtà tramite il display di un telefonino. Credo sia la somma di tutto questo e certamente è stato il modo per conoscere tante persone, costruire amicizie solide, relazioni umane sulle quali puoi contare. Che poi è il senso profondo del Soccorso Alpino e Speleologico, perché l’evento in Turchia mi ha fatto riflettere su una cosa, che in parte già sapevo, ma il cui senso è diventato più forte: Non importa chi tu sia, se sei uno speleo e sei in difficoltà, altri speleo faranno di tutto per aiutarti».
    È l’etica dei soccorritori, se sei in difficoltà in un ambiente remoto e impervio, ci saranno sempre tecnici preparati che faranno di tutto per salvarti.

  • Pasolini e la Calabria: un viaggio tra passato e futuro

    Pasolini e la Calabria: un viaggio tra passato e futuro

    La Calabria rappresentava un luogo giusto per le personali indagini e riflessioni antropologiche di Pier Paolo Pasolini. Una regione che, insieme a tutti i sud del mondo, incarnava la memoria e l’identità collettiva. Non una collocazione strettamente geografica, ma una precisa connotazione storica che identifica il tempo della pre-storia, in contrapposizione con il tempo della dopo-storia, colpevole di una profonda crisi della cultura iniziata negli anni ‘50 del ‘900, in un momento storico in cui l’Italia si avviava verso quel processo di mutazione antropologica capace, secondo Pasolini, di trasfigurare completamente la realtà.

    Pasolini in Calabria: dal reportage ai Comizi d’amore

    Il viaggio di Pasolini in Calabria inizia già nel 1959, quando per la rivista Successo, attraversando le spiagge di tutta la penisola, realizza un lungo reportage per raccontare l’Italia del cambiamento e della tradizione, divisa tra borghesia e classe operaia. Ritornerà nuovamente tra marzo e novembre 1963 per il film documentario Comizi d’amore. Attraverso una serie di interviste si raccontavano i pregiudizi su temi scottanti come la sessualità, l’aborto e il divorzio. Sulla vicenda giudiziaria, successiva all’affermazione di Pasolini che definì Cutro come una terra capace d’impressionarlo, con i suoi banditi come si vede nei film western, molto è già stato scritto, ma tanto resta ancora da dire sugli incontri di Pasolini in Calabria.

    De Martino e Pasolini: la Calabria del Premio Crotone

    Nel 1959, in occasione del Premio Crotone, un concorso letterario istituito nel 1952, su delibera dell’amministrazione comunale guidata dal PCI di Silvio Messinetti che, a sua volta, aveva ricevuto indicazioni dal segretario regionale Mario Alicata, Pasolini era a Crotone per ritirare il prestigioso Premio. Proprio lì Pasolini incontra l’antropologo Ernesto De Martino, con il quale condivideva la visione di una fine del mondo, vista come disgregazione, annientamento dell’unità e delle strutture sociali e culturali, intesa secondo una forte matrice marxista non teorica o etica, ma esclusivamente di radice umanistica.

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    Pasolini premiato in Calabria per Una vita violenta

    Se è vero che La fine del mondo di De Martino fu pubblicato postumo nel 1977, Pasolini ebbe modo di coglierne appieno le suggestioni, attraverso un articolo che ne anticipava le tesi: Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, pubblicato sulla rivista Nuovi Argomenti nel 1964, di cui Pasolini era condirettore insieme ad Alberto Moravia.
    Nel ‘59 la giuria del Premio Crotone era composta da personaggi come Ungaretti, Gadda, Mondadori, Sciascia, Bompiani, Repaci, Bassani e Moravia.

    Sud, magia e vite violente

    Al culmine di numerose polemiche dovute all’omosessualità di Pasolini, della quale non fece mai mistero, la giuria premiò il suo romanzo Una vita violenta a pari merito con il saggio antropologico Sud e Magia di De Martino, destinato a raccontare il ruolo della magia nelle società primitive, quindi in un Sud ancora legato a una certa ritualità. Da questo possiamo comprendere, quanto il confronto culturale tra i due era concentrato sui temi di cultura popolare.

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    Ernesto De Martino

    E, indubbiamente, le teorie di Pasolini e De Martino sono rintracciabili, con le dovute differenze tra prospettive simboliche e potere distruttivo del capitale, in un’unica visione legata alla cultura popolare. Pasolini nel ricevere il premio dichiarò alla giuria che i protagonisti del suo romanzo, sebbene fosse ambientato nella capitale, facevano parte del Mezzogiorno d’Italia. Per questo motivo era giusto che a Crotone, i protagonisti, trovassero la giusta comprensione e accoglimento.

    Mario Gallo e il mago

    La rilevanza simbolica di una cultura radicata in un universo contadino si concretizza anche attraverso la realizzazione di alcuni cortometraggi improntati sui richiami della cultura contadina del Salento e della Calabria. Fin dal 1958 collabora con il documentarista, giornalista, produttore cinematografico, critico e regista calabrese, Mario Gallo. Insieme realizzeranno un cortometraggio della durata di circa dieci minuti, dal titolo Il Mago.

    Il corto racconta la storia di un mago cantastorie, lo stesso Mario Gallo ne riassume il contenuto con semplici parole: «Nella vecchia Calabria sopravvivono vecchie abitudini, vecchi canti d’amore, di lavoro, di morte, vecchie figure; tra queste il mago. Egli se ne va in giro per le campagne recitando tutto solo davanti alle famiglie di contadini vecchie storie di paladini, dame e draghi. E così si guadagna un pezzo di pane».
    Il mago è un saltimbanco che, recitando tutte le parti del dramma o della commedia, riusciva a far piangere o ridere i contadini strappando così loro delle provviste. Non c’erano sceneggiature o dialoghi, l’attore protagonista improvvisava. Il corto sarà poi proiettato nel 1959.

    Pasolini torna in Calabria: Il Vangelo secondo Matteo

    Il suo incontro con un Sud ancora arretrato lo spinse ad una visione che possiamo definire di presagio della storia degli ultimi anni. Grazie ad essa riuscì a cogliere le insidie della globalizzazione, che lo portarono a vedere il Mediterraneo come il luogo dei grandi conflitti religiosi, culturali e sociali. Nella poesia Profezia parla delle coste calabresi, descrivendo l’arrivo di migliaia di uomini pronti a sbarcare sulle coste di Crotone o di Palmi. In questo Sud Pasolini riesce a ritrovare gli elementi in grado di mescolare sacro e profano, religione e laicità, insieme all’empatia del sentire umano. Questi sono i motivi che lo spingono a girare le scene del suo Vangelo secondo Matteo nell’Italia del Sud.

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    PPP tra i Sassi di Matera durante le riprese del film

    Effettua le riprese nella terra incontaminata e sconosciuta come la Basilicata, facendo conoscere le bellezze dei Sassi di Matera, ma arriva anche sulle spiagge della Calabria, sulla costa Ionica che conosceva fin dai primi anni ‘50. Pasolini portò Il Vangelo secondo Matteo sulla spiaggia di Le Castella, frazione di Isola Capo Rizzuto, in quei luoghi già visitati in occasione del Premio Crotone. Si tratta di un capolavoro della cinematografia italiana del 1964, giudicato dall’Osservatore Romano il miglior film su Gesù mai girato.

    Un viaggio nel tempo e nella storia dell’arte

    Il regista utilizza il paesaggio della costa Ionica per costruire una sorta di viaggio nel tempo, una traccia del passato, qualcosa che, con i suoi riti e i suoi miti rischia di scomparire. Pasolini colloca la Calabria in diretta relazione con le culture del passato che l’hanno attraversata, preferendola addirittura alla Palestina ritenuta ormai troppo modernizzata, inadatta ad accogliere le scene de Il Vangelo. La Madonna incinta nella scena iniziale è Margherita Caruso, una giovane quattordicenne di Crotone. Nella scena è evidente il rimando alla Madonna del Parto di Piero della Francesca. Altrettanto chiari sono i richiami iconografici in tutti i fotogrammi del film.

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    Margherita Caruso

    Non bisogna dimenticare che Pasolini fu allievo del critico d’arte Roberto Longhi e l’arte visiva resterà sempre parte integrante di tutto il cinema pasoliniano. Enrique Irazoqui, l’attore spagnolo che nel film interpretava Gesù, cammina sulla spiaggia di Le Castella, alle sue spalle la fortezza, risalente al 400 a. C., collocata su un piccolo lembo di terra in uno dei tratti più suggestivi dell’Area Marina Protetta di Capo Rizzuto.

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    Enrique Irazoqui

    Pasolini e la Palestina in Calabria

    Nella campagna di Salica, frazione del comune di Crotone, è girata la scena di Gesù che dice ai discepoli di seguirlo, ma è necessario che ognuno prenda su di sé la propria croce. Nello stesso punto era girata la scena di Gesù che guarisce lo storpio e viene rimproverato per aver compiuto il miracolo nel giorno del sabato. La spiaggia del lago di Tiberiade, dove Gesù incontra per la prima volta i futuri discepoli e li invita a seguirlo, è la spiaggia di Irto, a ridosso di Capocolonna e del promontorio di Hera Lacinia, dove si trova la colonna di età ellenica. Una foto accanto ad essa, in occasione del Premio Crotone del ’59, immortala Pasolini in Calabria insieme alla giuria.

  • Gissing e il Concordia: il Grand Tour nel cuore di Crotone

    Gissing e il Concordia: il Grand Tour nel cuore di Crotone

    C’è quella epopea culturale che conosciamo con il nome aulico di Grand Tour. Una cosa che sta tutta nei libri, più che nelle sale dei musei, nelle collezioni archeologiche. Mi ero ormai fatto convinto che fuori non fosse durato niente. Neanche uno di quei vecchi cimeli e memorabilia. E con questi, nessun luogo privato o pubblico, custodito a futura memoria. Mi sbagliavo. Qualcosa di quel passato è rimasto. Sorprendentemente vivo e godibile, per chi ne ha voglia, beninteso, ancora oggi. Questo luogo è a Crotone. Nella Crotone un tempo Magna Grecia delle migliori annate, poi scivolata ai nostri tempi nel limbo avvelenato e rugginoso della ex Stalingrado del Sud. E non in museo. Per strada. Nel cuore della Crotone di oggi.

    Se arrivate in piazza Pitagora, appena a ridosso dei popolari quartieri del centro storico, oggi colorato di presenze multietniche e negozi da suk, appena sotto i bastioni del grande castello di Carlo V, vi imbatterete in uno straordinario cimelio vivente della stagione del Grand Tour. Voltato l’angolo, a pochi passi dal Duomo che custodisce l’icona della venerata Madonna di Capo Colonna, e dalla storica Libreria Cerrelli, una nobile libreria indipendente, la più antica della Calabria, frequentata anche da Corrado Alvaro, c’è ancora un vecchio albergo, che fu anche il primo costruito in città.

    Il Concordia a Crotone: da Lenormant a Gissing

    Al civico 12 di piazza Vittoria, con ancora l’ingresso sotto i portici pitagorici che, unici in Calabria, fanno tanto Bologna, troverete oggi, come dal 1880, anno della sua probabile fondazione, al primo piano (il piano originario dello stabile costruito sopra i portici), le circa venti stanze che formavano il corpo del vecchio albergo Concordia. Che a quel tempo, nuovo di zecca, sfoggiava sulla balconata un’elegante insegna trascritta con vezzo francese, Hotel et Restaurant Concordia. Il Concordia in realtà era un albergo «semplice ma comodissimo, senza le finezze dei grandi alberghi, ma con delle camere sufficientemente pulite e discreta cucina». Ad uno straniero di passaggio poteva bastare. Lo descriveva così il suo primo illustre ospite straniero, l’archeologo francese François Lenormant che nel 1881 lo immortala nella sua descrizione di “Crotone moderna”, confluita poi nei tre grossi volumi de La Magna Grecia.

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    Norman Douglas soggiornò al Concordia di Crotone seguendo l’esempio di Gissing

    Paesaggi e storie. Il Concordia sarà poi lo stesso albergo cittadino puntualmente segnalato per la rara clientela internazionale sulle puntigliose pagine del Murray’s Handbooks for Travellers e sulla celebre guida Baedeker per l’Italia Meridionale. Qualche decennio ancora e il Concordia accoglierà altri ospiti di riguardo tra le sue stanze. Non mancarono l’appuntamento con il Concordia firme come il francese Paul Bourget (1890), l’americano James Forman (1927), i britannici Edward Hutton (1915) ed Henry V. Morton (1969). Ma l’epopea del Concordia la fanno soprattutto due nomi di grandi personalità letterarie – il secondo richiamato qui dal primo. Vi sostarono, a cavallo di Otto e Novecento, due scrittori del calibro dei britannici George Gissing e Norman Douglas. Entrambi giunti a Crotone avventurosamente. Sebbene in condizioni economiche, di salute e con stati d’animo persino opposti.

    La rinascita dopo l’abbandono

    Una targa celebrativa apposta dal Rotary nel 2002 celebra con discrezione gli ospiti illustri passati dall’albergo. Accanto alla targa commemorativa, l’insegna del Concordia (nome celebrativo risorgimentale e post-unitario), coevo alla prima ben proporzionata addizione urbanistica in cui si collocava il nuovo albergo, costituita dalle “due belle strade porticate che tagliano in croce la parte inferiore della città”, è da poco tornata a campeggiare su un angolo della storica piazza Pitagora. Il Concordia è rinato infatti da poco dopo qualche decennio di abbandono e di oblio. Merito della famiglia Pezziniti che ne regge le sorti dalla metà del secolo scorso. Assieme, fa piacere ricordarlo, al più antico caffè-pasticceria di Crotone, il Moka. Anche quest’ultimo ha già di suo più di un secolo di storia cittadina alle spalle.

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    La targa del Rotary

    Al Concordia non aspettatevi riverniciature alla moda, sofisticazioni e arredi di design. L’albergo, dopo qualche lavoro sulle vecchie e solide mura, con le volte riportate a vista, è rimasto praticamente quello di allora. In accordo con la sua atmosfera riposante, accogliente e demodé. Senza pretese, ma un porto sicuro per chi viaggiava, e viaggia, da queste parti. Lo snob aristocratico Norman Douglas, che passò dal Concordia due volte nel corso dei suoi viaggi al Sud, in Old Calabria, nel 1911 ne scriveva con soddisfatta degnazione: «Resto fedele al Concordia, l’edificio è migliorato, il cibo è buono e variato, i prezzi modici; il luogo è di una pulizia perfetta. Vorrei solo augurarmi che certi alberghi di provincia inglesi possano essere all’altezza del Concordia».

    Gissing e il Concordia di Crotone

    All’opposto, non un effimero souvenir di viaggio, ma luogo rivelativo di una più profonda esperienza umana, diventerà il Concordia per un vittoriano solitario, George Gissing, che a Crotone approda nel novembre 1897.
    Gissing fu l’ultimo degli inglesi e dei grandi viaggiatori a visitare, le regioni dell’estremo Sud della Penisola al tramonto di un secolo che, sotto l’incalzare del moderno, stava definitivamente cancellando anche nelle regioni del Sud più ‘archeologico’, problematicamente unificate al resto della nazione, l’ultimo riflesso dell’antica Land of Romance. «Cosa ne è stato delle rovine della Croton magnogreca? In questa piccola città di provincia, dalla fisionomia spoglia e malinconica, oggi nulla è rimasto visibile della sua gloriosa e trapassata antichità».

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    L’insegna del Concordia, oltre un secolo dopo il pernottamento dello scrittore inglese

    Squattrinato e malfermo di salute, Gissing dedica a Crotone quasi metà del suo libro di viaggio. Restò nelle stanze del Concordia una quindicina di giorni. Giorni, e notti, cruciali. Fermato a Crotone da un improvviso attacco di febbre polmonare, conseguenza della tubercolosi che lo affliggeva sin da giovane, la malattia di cui morì a soli 46 anni in Francia, in uno sperduto sanatorio ai piedi dei Pirenei.

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    Riccardo Sculco

    Qui fu salvato dall’intervento provvidenziale di un bravo medico, il dottor Riccardo Sculco che se ne prese cura – «il mio amico dottore» – (Sculco fu poi a più riprese anche sindaco progressista della città), e da poche «gentili e affettuose persone». Che altre non erano se non le cameriere, le povere serve di locanda e le grisettes impiegate al Concordia. «La gente dell’albergo Concordia, nonostante la terribile povertà e rozzezza, si dimostra molto gentile e premurosa nei miei riguardi. Due o tre di queste si presentano di continuo nella mia stanza per vedere come sto e per poter solidarizzare, simpatizzando con me».

    La Calabria più vera dalla bolla dell’albergo

    Il Concordia e la febbre polmonare divennero così il suo punto di osservazione sulla città. Il ritratto che fa della popolazione cittadina e della gente che in albergo si occupava di lui e dei clienti, è il cuore stesso di Verso il mar Ionio, la sua più autentica e inaspettata iniziazione al Sud povero. Una Calabria dal vero in cui egli si aggirerà spaesato, fra le quinte di un paesaggio naturale e umano reso ancora più surreale dalla malattia, inasprito dalla storia e dalle circostanze personali.

    Sarà tuttavia questo per lui l’esame di realtà più perspicace, l’esperienza dell’altrove più fertile e umanamente partecipe, l’impressione vitale meno libresca e astratta. Precipitato in una condizione di estremo pericolo, solo, debole e malato, si rimette a ciò che fatalmente può accadergli lì, tra quella mura, in mezzo a gente estranea. Questione di vita o di morte: «Avevo la febbre. Quella febbre. La situazione si faceva grave, più grave che mai, e mentre la febbre continuava a salire, ebbi un solo pensiero: piansi amaramente la circostanza beffarda che quella ricaduta della mia malattia fosse sopraggiunta tra capo e collo proprio lì dove mi trovavo adesso. Poteva accadere ovunque: ovunque ma non a Cotrone». Eppure…

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    Una cartolina di Crotone con un panorama d’epoca

    Ciò che Gissing ricorda e scrive in quelle circostanze estreme, nonostante lo spettro incipiente della morte, suona sempre affettuoso, ironico e disincantato, intriso di un’umanità curiosa e bonaria. Eppure la realtà da cui veniva sopraffatto poteva apparirgli persino crudele.
    Sul Concordia, poi, salta fuori ben altro. «A giudicare dalla monotonia e dalle ristrettezze del menù servito ai tavoli del ristorante, il tenore di vita medio in città doveva essere ben misero e stentato. Le pietanze da portata e i pochi piatti che erano in lista componevano un menù meschino, poverissimo e ripetitivo. E peggio ancora, era tutto cucinato in un modo infame. Il vino del posto, un vinaccio locale, non aveva nulla di raccomandabile. Era molto forte, impossibile da reggere, e sentiva più di narcotico che di succo d’uva».

    Dieci giorni d’angoscia e scoperte

    Seguono dieci fatali giorni di infermità al Concordia, in compagnia dell’angoscia. «Mi sembrava una beffa davvero miserabile ritrovarmi qui e giacere ora immobile e ammalato di tisi sulle rive del Mar Ionio. Una vera sfortuna. Non poter uscire di nuovo a veder brillare il sole caldo in un cielo tanto più bello e migliore di quello del lontano Nord». Ma con la malattia si apre anche la porta di una diversa percezione dell’umanità circostante:

    «La gente della casa, l’intero personale, dagli sguatteri di cucina alla padrona dell’albergo, sarebbero apparsi, ne sono certo, poco più che dei selvaggi. Sporchi nella persona e sotto ogni riguardo, di abitudini maleducate, assolutamente rozzi nel loro contegno, sempre a litigare e a inveire l’uno contro l’altro, e peggio sommamente privi di ogni necessaria qualificazione o attitudine per i compiti che in quel pubblico esercizio sostenevano di svolgere. In Inghilterra basterebbe l’aspetto sciatto con cui si presentano a far rivoltare di disgusto un pubblico di inflessibili moralisti e benpensanti. Tuttavia, facendo appello alla mia migliore buona volontà e conoscendoli meglio, un po’ alla volta la mia disposizione d’animo verso di loro mutò decisamente.

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    Superando la distanza con cui potevo giudicarne la miseria e le azioni per me incomprensibili, ho poi scavalcato anche la prima fase di insofferenza per quella gente così diversa da me. Ho visto il loro lato buono e ho imparato a perdonarne i difetti, conseguenza naturale di uno stato di autentica arretratezza e di primordiale miseria. Ci vollero due o tre giorni buoni e molta pazienza prima che il loro comportamento rozzo e sbrigativo, le maniere brusche e indelicate, si ammorbidissero verso di me in cordialità: una cordialità veramente umana, priva di formalismi ma autenticamente disinteressata.

    Fu proprio quello che avvenne. Quando si seppe che non avrei dato loro soverchie seccature, che avevo bisogno solo di un po’ di attenzione in più per la mia salute precaria, e in materia di cibo e cure, la buona volontà e la simpatia umana di quella buona gente ebbero la meglio per aiutare scarsità irrimediabili e l’inettitudine senza speranze».

    Meglio morire in Calabria che a Londra

    Gissing sembra così divenire via via più consapevole nella bolla del Concordia del legame indivisibile che intercorre nelle relazioni umane tra persone e luoghi. Un sentimento dell’altrove persino più significativo di quello determinato dalla conoscenza delle vicende storiche o da percezioni di ordine squisitamente estetico. Solo l’esperienza del “luogo”, in forza del suo carattere determinato, permette di conoscere più a fondo l’individuo in rapporto con l’ambiente. Solo attraverso essa si coglie tutta la potenza di questi condizionamenti. Gissing è un uomo di educazione classica, tollerante, di mentalità aperta, persino ironico e lungimirante. L’immersione nel paesaggio umano di cui è ospite al Concordia in questi frangenti del suo viaggio al Sud, ne faranno davvero un uomo diverso.

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    Londra, 1868: una strada del quartiere Shoreditch

    A distanza di anni, ricordando l’angoscia della malattia patita a Crotone, rifletteva così: «Ammetto, tuttavia, che allora quel pensiero di morte mi fece soffrire molto più di adesso che ci penso. Dopotutto, resto convinto che un povero di Cotrone ha comunque dei vantaggi rispetto al proletario che abita in una catapecchia dei sobborghi di Londra. E pensai comunque che per me, dopotutto, sarebbe stata comunque cosa più grata morire lì in un tugurio sul Mar Ionio che in uno di quei luridi scantinati di Shoreditch in cui non ebbi mai pace».

    Lo straniero

    Lirico e malinconico, il capolavoro di scrittura di viaggio di Gissing così alterna luce e oscurità, vita e morte, paganesimo e cristianesimo. Ma egli resta soprattutto un ritrattista formidabile degli incontri umani, dei luoghi e delle persone, che popolarono il suo viaggio. Come quella povera serva del Concordia – «un essere umano che a fatica potrei chiamare donna», che ad un certo punto, “al capezzale del mio letto da infermo, cominciò a rivolgersi a me in modo incomprensibile, con rabbia, urlando nel suo dialetto oscuro e fangoso. Passò un minuto o due di terrore, prima che riuscissi a cogliere il senso di quel suo sfogo furibondo, incomprensibile e addolorato. Mi chiedeva, agitata e piangente, se era giusto che una “povera cristiana” venisse maltrattata così, dopo aver “tanto, tanto lavorato!”.

    Quello sfogo piangente e belluino era il suo modo di fare appello alla mia simpatia, di muovermi a compassione umana per la sua povera storia, per quella vita miserabile: non era venuta di sicuro a maltrattarmi. No. Voleva solo che il signore malato, lo straniero, l’ascoltasse. Che qualcuno come me le desse per una volta ragione della sua condotta, di tutta quella sofferenza ingiustamente patita. Dopo pochi istanti il peso esorbitante di quel suo dolente resoconto si impadronì di me. Era come se una povera bestia da soma schiacciata dalla fatica, sotto un carico insopportabilmente pesante e vessatorio, avesse improvvisamente trovato la strada per tradurre in un rudimentale linguaggio, inarticolato e ancora subumano, la sua ribellione sbraitata contro il destino infelice a cui era stata condannata dalla sua condizione di oppressa.

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    Una stanza del Concordia oggi. Sulla parete, il ritratto di uno dei suoi primi ospiti illustri: François Lenormant

    La ascoltai a lungo. Si calmò, infine. Scrutai tra le pieghe di quel viso affranto, tra i segni di quel volto corrugato e malinconico, scavato dalla fatica e dallo sconforto. In qualche misura i miei sforzi di rendermi partecipe del suo disagio, quel mio dare ascolto alle sue sofferenze senza infingimenti, di parlarle con calma rispondendole gentilmente, riuscirono. Alla fine del nostro colloquio, la donna si voltò per andarsene via, mi guardò e mi disse ancora per una volta sospirando, “Ah, Cristo!”. Quell’ultima esclamazione fu pronunciata con un accento più dolce, con un po’ di sollievo. E non risuonò, mi parve, del tutto priva di gratitudine».

    Il posto più vicino al paradiso

    Sorprendentemente, nonostante quel che gli accadde, per Gissing proprio la Calabria povera e malvissuta del 1897, da poco unificata al resto dell’Italia, si rivelerà «dopotutto, il posto più vicino al paradiso dove avessi mai sperato di giungere». Non a caso proprio tra le stanze e dopo l’incontro con la gente del Concordia Gissing conclude le sue riflessioni sulla verità del suo viaggio e dei suoi incontri con l’umanità dimessa e povera che popola anche i recessi più irrilevanti e svisti dell’estremo Sud di cui farà dopotutto una paradossalmente lieta e assillante esperienza umana, con un rimprovero, infine. Ma rivolto a se stesso: «Perché ero venuto qui, se non perché amavo questa terra e la sua gente? E non avevo io già ottenuto la ricompensa, tanto più riccamente corrisposta, quanto immeritatamente ricevuta in dono da loro per questo mio amore?».

    Un parco culturale per Gissing nel Concordia di Crotone

    Fanno bene gli attivisti di Italia Nostra di Crotone a chiedere di estendere il vincolo di Bene culturale a difesa della memoria vivente del Concordia. E a progettare, a partire da quelle stanze fatidiche, insieme al Comune di Crotone, un Parco Culturale da dedicare a George Gissing e ai suoi compagni di viaggio e ospiti crotonesi del Concordia. Basta per capirne il fascino dormirci dentro una notte, in compagnia dello spirito benigno del vittoriano solitario.
    È proprio vero come scriveva già Norman Douglas, che tra le mura del Concordia è rimasto per sempre qualcosa di speciale: «L’ombra di George Gissing aleggia ancora in quelle stanze e in quei corridoi». Provate a passare dal Concordia, la sentirete anche voi.

  • Mafia Spa: se il Pil italiano lo gonfia la criminalità

    Mafia Spa: se il Pil italiano lo gonfia la criminalità

    «Le provincie italiane con un più alto indice di presenza mafiosa sono concentrate in Calabria, in particolare Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia». Una frase lapidaria nella sua durezza che diventa ancora più significativa se si pensa che non è della Dia o del Viminale. E nemmeno del ministero di Giustizia o della Dna. A pronunciarla, infatti, è stata la Banca d’Italia nel dossier del dicembre del 2021 La criminalità organizzata in Italia: un’analisi economica.
    Nei giorni scorsi il documento è tornato alla ribalta grazie alla Cgia di Mestre, che ha inteso stigmatizzare alcuni aspetti legati al Pil e al fatturato di quella che viene definita “Mafia spa”. Già, perché, stando ai dati e numeri di Bankitalia, il fatturato annuo delle mafie italiane, stimato al ribasso in 40 miliardi di euro all’anno, entra nei numeri dello Stato, concorrendo addirittura ad aumentare il prodotto interno lordo.

    Mafia Spa, un giro d’affari inferiore solo ad Eni ed Enel

    Si legge infatti nel documento della Cgia di Mestre: «In massima parte questo business, e relativo fatturato, è gestito dalle organizzazioni mafiose e conta un volume d’affari pari a oltre il 2 per cento del nostro Pil. Stiamo parlando dell’economia criminale riconducibile alla “Mafia spa” che, a titolo puramente statistico, presenta in Italia un giro d’affari inferiore solo al fatturato di Gse (gestore dei servizi energetici), di Eni e di Enel». Numeri di per sé degni di nota, ma «che sono certamente sottostimati, in quanto non siamo in grado di dimensionare anche i proventi ascrivibili all’infiltrazione di queste organizzazioni malavitose nell’economia legale».

    Il Paese soffre ma dice di arricchirsi

    La Cgia di Mestre non usa troppi giri di parole per condannare questo tipo di contabilità: «È quanto meno imbarazzante che dal 2014 l’Unione Europea, con apposito provvedimento legislativo, consenta a tutti i paesi membri di conteggiare nel Pil alcune attività economiche illegali come la prostituzione, il traffico di stupefacenti e il contrabbando di sigarette». Basti pensare che «grazie a questa opportunità, nel 2020 (ultimo dato disponibile) abbiamo gonfiato la nostra ricchezza nazionale di 17,4 miliardi di euro (quasi un punto di Pil)». Uno stratagemma utile per far quadrare i conti, forse, ma anche «una decisione eticamente inaccettabile».

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    Un sequestro di sigarette di contrabbando

    La distribuzione delle mafie sul territorio nazionale

    Misurare l’intensità del fenomeno mafioso è complesso perché le azioni e le attività delle mafie sono nascoste per definizione. Sfuggono spesso alle attività investigative, figurarsi alle rilevazioni statistiche. Inoltre, hanno confini labili che rendono difficile individuare le singole fattispecie criminali. Ecco perché per questo genere di analisi si punta su «un approccio multidimensionale, che consente di estrarre informazioni da indicatori diversi e di catturare le diverse modalità con cui le mafie agiscono su un territorio». L’indice della presenza mafiosa si calcola, quindi, considerando quattro diversi domini, ciascuno, a sua volta, composto da quattro diversi indicatori elementari.

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    Gli indicatori utilizzati da Banca d’Italia per la sua analisi

    Il dossier passa, poi, ad analizzare la distribuzione della mafie nel Paese secondo criteri geografici. Ed è qui che emerge il peso della criminalità organizzata nella punta meridionale dello Stivale. «Le provincie con un più alto indice di presenza mafiosa sono concentrate in Calabria (in particolare Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia)». Sono comunque in “buona” compagnia. L’elenco dei territori più a rischio comprende, infatti, anche la Campania (Caserta e Napoli in particolare), la Puglia (principalmente il Foggiano) e Sicilia (specie la parte occidentale dell’isola). Ritenere che il fenomeno riguardi soltanto il Mezzogiorno sarebbe, però, fuorviante. Nel Centro Nord, ad esempio, spiccano per indice di “mafiosità” dell’economia locale Roma, Genova e Imperia. I territori dove la presenza della criminalità organizzata si sente meno sarebbero, invece, le province del Triveneto, la Valle d’Aosta e l’Umbria.

    Mafia Spa: più criminalità, meno crescita

    La presenza della criminalità organizzata in un territorio ne condiziona in misura profonda il contesto socioeconomico e ne deprime il potenziale di crescita. Scrive, infatti, Bankitalia «che le province che sono state oggetto di una più significativa penetrazione mafiosa hanno registrato, negli ultimi cinquanta anni, un tasso di crescita del valore aggiunto significativamente più basso». Inoltre, andando oltre la sfera economica, la presenza di attività illegali inquina il capitale sociale e ambientale.

    Ci sono studi – Peri (2004), ad esempio – che mostrano come la presenza delle 20 organizzazioni criminali (approssimata con il numero di omicidi) sia associata a un minore sviluppo economico. Altri – Pinotti (2015) – sostengono che «l’insediamento di organizzazioni mafiose in Puglia e Basilicata nei primi anni Settanta avrebbe generato nelle due regioni, nell’arco di un trentennio, una perdita di Pil pro capite del 16 per cento circa».

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    Un altro grafico dal report di Bankitalia

    I risultati, insomma, mostrano un’associazione negativa tra l’indice di penetrazione delle mafie a livello provinciale e la crescita economica negli ultimi decenni. In particolare, le province con un maggiore livello di penetrazione mafiosa (quindi Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia) hanno registrato un tasso di crescita dell’occupazione più basso di 9 punti percentuali rispetto a quello delle province con indice di presenza mafiosa inferiore. Anche la crescita della produttività risulta inferiore nei territori in questione. In termini di valore aggiunto, lo stesso esercizio produce una crescita inferiore di 15 punti percentuali, quasi un quinto della crescita media osservata nel periodo.

    Mafia Spa e pubblica amministrazione

    Oltre a ridurre la quantità e qualità dei fattori produttivi, la presenza mafiosa incide negativamente sulla loro allocazione e quindi sulla produttività totale dei fattori. In primo luogo essa genera distorsioni nella spesa e nell’azione pubblica. «I legami corruttivi tra associazioni criminali e pubblica amministrazione condizionano la spesa pubblica che viene ri-orientata verso finalità particolaristiche, a discapito dell’interesse generale. In secondo luogo, la presenza mafiosa crea distorsioni anche nel mercato privato. L’infiltrazione mafiosa nell’economia legale, infatti, impone uno svantaggio competitivo per le imprese sane. L’impresa infiltrata da un lato può beneficiare di maggiore liquidità e risorse finanziarie (i proventi delle attività criminali), dall’altro può condizionare la concorrenza usando il suo potere coercitivo e corruttivo, sia nei confronti delle altre imprese sia nei confronti della pubblica amministrazione».

    Le conclusioni della banca centrale italiana

    Banca d’Italia non ha dubbi: gli effetti delle mafie sull’economia sono «una delle principali determinanti della bassa crescita e dell’insoddisfacente dinamica della produttività nel nostro paese». Basti pensare che proprio Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia hanno registrato negli ultimi 50 anni una crescita dell’occupazione e del valore aggiunto più bassa. Un effetto, questo, connesso alle distorsioni nel funzionamento del mercato: «La corruzione e/o l’uso del potere coercitivo sono in grado di condizionare i politici locali e distorcere l’allocazione delle risorse pubbliche; d’altro canto, l’infiltrazione nel tessuto produttivo distorce la competizione nel settore privato, con le imprese mafiose in grado di conquistare quote di mercato significative sfruttando una maggiore disponibilità di risorse economiche, la maggiore propensione a eludere le regole e, non ultimo, il potere coercitivo».

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    La facciata di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia

    Come uscirne? Non esistono ricette semplici. Banca d’Italia una sua idea, però, la ha: «La misurazione e comprensione del fenomeno mafioso, l’analisi delle determinanti e degli effetti della presenza della criminalità organizzata e un’efficace azione di contrasto richiedono infatti dati granulari e la possibilità di incrociare e integrare, attraverso opportune chiavi identificative, più fonti informative. Ne gioverebbero sia la comunità scientifica, con la possibilità di spostare più avanti la frontiera della conoscenza, sia le autorità investigative che potrebbero sfruttare tali risultati per rendere più efficace la loro attività di contrasto».

  • Cutro, non c’è pace per le famiglie delle vittime

    Cutro, non c’è pace per le famiglie delle vittime

    Pare che non ci sia fine alle ingiustizie per le vittime del naufragio di Steccato di Cutro.
    In tanti hanno denunciato gravi carenze istituzionali. Soprattutto riguardo i ritardi nel soccorso in mare (su cui si attende che la Procura faccia presto chiarezza) e l’assenza di risposte per molti giorni sul trasferimento delle salme. Ne è nata una protesta e l’occupazione della strada da parte dei familiari dei naufraghi. La situazione si è sbloccata solo, mercoledì scorso, 8 marzo, dopo che gli stessi hanno manifestato sedendosi in mezzo alla strada.
    A tutto ciò si aggiunge un’altra faccenda assai allarmante. Riguarda il DNA dei familiari delle vittime disperse, ancora in mare.

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    Cutro: niente prelievi del Dna ai familiari

    Più di 60 dei 74 cadaveri – ieri a poche centinaia di metri dalla spiaggia del relitto è stato ritrovato il corpicino di un bimbo di 6 anni, stamattina quello di una bimba – sono stati riconosciuti dai familiari giunti a Crotone, che hanno almeno una salma su cui piangere. Decine di corpi, ancora dispersi tra le onde, rischiano però di restare per sempre negli abissi dell’anonimato sui fondali dello Jonio crotonese.
    Questo perché – è la denuncia del Progetto Mem.Med. Memoria Mediterrneanessuno ha prelevato il DNA dai familiari che attendono e sperano nel ritrovamento dei loro cari se le correnti li restituiranno mai.

    L’istanza alla Procura di Cotrone

    Il 7 marzo, infatti, gli avvocati di Mem.Med. hanno presentato un’istanza alla Procura di Crotone sottoscritta da una decina di familiari delle vittime. Chiedevano che venissero prelevati, il prima possibile, i loro campioni salivari, fondamentali per l’identificazione dopo eventuali nuovi ritrovamenti. Ma dalla Procura, che dovrebbe dare a sua volta disposizioni alla Polizia scientifica, pare non sia arrivata alcuna risposta. «I familiari sono qui adesso a Crotone – avvertono Silvia Di Meo e Yasmine Accardo – e questa operazione necessaria doveva essere già stata fatta. Non si perda altro tempo, perché alcuni di loro sono già ripartiti. Non sappiamo se sarà offerta loro la possibilità di prelevare il DNA in un secondo momento nelle città dove risiedono».

    Un database sulle persone a bordo del caicco

    Le attiviste di Mem.Med si sono precipitate a Crotone, subito dopo la tragedia. Da lunedì, al Palamilone, stanno collaborando a stretto contatto con alcune realtà locali, come l’associazione Sabir. Provano a dare supporto legale a tutti i parenti dei morti di Steccato di Cutro.
    Un lavoro fondamentale perché, prestando ascolto ai superstiti e ai familiari delle vittime sono riuscite a creare un database con la maggior parte dei dati delle persone che erano a bordo della Summer Love. Ogni volta che il mare restituisce un altro corpo, le procedure di identificazioni risultano così meno complesse. Anche ieri erano sulla spiaggia di Steccato di Cutro a confrontarsi con i soccorritori e la Polizia Scientifica al momento del ritrovamento del corpo, ormai esanime, del bambino di 6 anni. 

    La spiaggia di Cutro e le indagini

    Ed è proprio su quel tratto di litorale, dove Mem.Med accompagna spesso i familiari dei defunti e dei dispersi a cercare oggetti dei propri cari, c’è un altro problema serio. Denuncia Accardo: «Quella spiaggia della morte è alla mercé di chiunque, non è stata ancora sequestrata dall’autorità giudiziaria. Si tratta di un luogo sensibile e di vitale importanza. Tutto ciò che giace lì in mezzo alla sabbia appartiene a persone morte e disperse dopo un grave incidente, oggetti e che potrebbero essere anche utili alle indagini in corso». 

     

  • Giorgia Meloni a Cutro: una passerella mal riuscita

    Giorgia Meloni a Cutro: una passerella mal riuscita

    A vedere le bare e incontrare le famiglie dei sommersi non c’è andata. Partiamo da questo, che alla fine è il solo dato che vale la pena di affrontare. Giorgia Meloni ha portato il suo governo in Calabria, a Cutro, per fare una passerella mal riuscita.

    Giorgia Meloni a Cutro: niente bare e qualche annuncio

    Davanti ai cronisti ha difeso il suo ministro dalle dichiarazioni disumane. Ha spiegato che non è vero che non si è voluto fare qualcosa per salvare quei disgraziati, che dunque sono morti per colpa loro. Del resto la linea è quella: fermarli lì dove si imbarcano, con ogni mezzo. Per esempio, la Meloni ha pensato di fare un poco di buona comunicazione presso quei luoghi infernali da dove partono i migranti per spiegare loro che venire qui potrebbe essere mortale. Si potrebbe andare in Siria, o in Afganistan e dire a quella gente che prendere barconi semi galleggianti è pericoloso, meglio un aereo. Magari come deterrente si potrebbe diffondere un video con quelle bare che lei non ha voluto vedere. Le stesse che volevano d’urgenza spostare per levarle l’imbarazzo di quelle tragiche presenze.

    Le novità dal Consiglio dei ministri

    Qualcosa di nuovo tuttavia c’è stato. Per esempio è stato annunciato che ci sarà una restrizione nel rilasciare i permessi di soggiorno per protezione speciale. Si tratta di permessi rilasciati a quei migranti per i quali si afferma che il loro rimpatrio rappresenterebbe un pericolo per la vita, pur senza aver riconosciuto loro lo status di rifugiato politico o religioso. Fin qui non sono stati pochi i migranti che fuggendo da luoghi di guerra o tirannie, hanno potuto fruire di questa possibilità. In futuro a quanto pare non sarà più così. Però il CdM in trasferta calabrese ha detto anche che potrebbero aumentare le quote dei migranti che possiamo ospitare e questo risultato è stato sbandierato come un gesto di straordinaria generosità. Nei giorni in cui si contano i morti che ancora il mare restituisce alla pietà dei soccorritori, mettere sul piatto della bilancia un aumento del numero dei vivi che possono entrare è sembrato un gioco col pallottoliere.

    Giorgia Meloni e la sceneggiata di Salvini a Cutro

    Solo sulla spinta delle fastidiose insistenze dei cronisti presenti, il presidente del Consiglio ha detto che incontrerà i sopravvissuti alla tragedia e i familiari delle vittime, ma non subito. Più avanti magari, insomma poi vediamo, perché certe volte quelli che sono rimasti vivi fanno più impressione dei morti. E mentre Giorgia Meloni cercava di rintuzzare, rispondere, indignarsi, spiegare, il suo collega Matteo Salvini camminava tenendo in bella vista una cartellina che illustrava il progetto del ponte sullo Stretto e lo faceva in quella parte della Calabria più arretrata, dove non atterra un aereo, non arriva un treno e dove la strada è la più pericolosa d’Italia. Della serie: come vi sfotto io nessuno.

  • Giorgia a Cutro: polemiche ed errori nel Cdm della tragedia

    Giorgia a Cutro: polemiche ed errori nel Cdm della tragedia

    A Cutro alcune cose erano scontate. Ad esempio, la protesta pittoresca e ben orchestrata delle sigle autonome e delle associazioni più o meno antagoniste.
    Il lancio dei peluche contro le auto blu e i cartelli esibiti nei pressi della sala comunale che ha ospitato il Consiglio dei ministri, sono stati più che eloquenti.
    Facciamo una sintesi prima di procedere: Giorgia Meloni ha dato la sua versione, anche se con qualche “stecca” di troppo, e i giornalisti l’hanno contestata.
    Ora riavvolgiamo il nastro.

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    Una contestazione a Cutro contro il governo Meloni

    Meloni a Cutro: lancio di peluche e cartelli di protesta

    Le immagini, riportate da tutti i media che contano con perfetto tempismo, sono chiare: lancio di peluche con chiara allusione ai dettagli più struggenti della tragedia, e slogan eloquenti.
    Ne citiamo due, uno più inflazionato dell’altro: «Basta morti in mare», «Non in nostro nome». Retorica a parte, entrambi esprimono l’indignazione di chi chiede una risposta.
    Ed esprimono una parafrasi di certo Sessantotto, in questo caso più addolorato che rabbioso. E ci sta.
    Soprattutto, esprimono l’ansia di territori marginali – e perciò trascurati – che si ritrovano in primo piano solo quando capitano vicende eccezionali per la loro bruttezza.

    Un’immagine simbolo della spiaggia della tragedia

    Cutro protagonista

    Cutro è protagonista e tutta la Calabria è Cutro: quella che si indigna, ma anche quella che vuole risposte. E le chiede in maniera dura.
    Non era, va da sé, risposta quella di Matteo Piantedosi, che ha esibito un’empatia inesistente. Non sono risposte i rimpalli e i balbettii dei vertici amministrativi di chi avrebbe dovuto agire con più efficienza e velocità, magari calpestando i vincoli burocratici e legali che partono dall’Europa (in questo caso, Frontex), continuano nei corridoi dei ministeri e finiscono nei Comandi e nelle Capitanerie più periferici.
    Sono risposte quelle della premier?

    Meloni e il Cdm a Cutro

    Il Cdm di Cutro è servito a due cose: diramare le prossime decisioni sulla questione migranti e difendere il proprio operato politico. Anzi, governativo.
    Il contenuto dei primi è noto: superpene agli scafisti (trent’anni quando i migranti ci rimettono la pelle), superpoteri e superdoveri alle autorità italiane (cioè la possibilità di indagare anche in acque internazionali) e allargamento dei flussi migratori, giusto per bilanciare un po’ a sinistra cose dette a destra ma pensate altrove: cioè ai piani alti dell’Ue.
    E l’autodifesa?

    Le stecche di Giorgia 

    Una domanda di Virginia Piccolillo, tiratrice scelta del Corriere della Sera, scatena la polemica. Era una situazione di soccorso o di sicurezza?
    Il problema è tutto qui. La presidente del Consiglio dà la risposta più comoda: Frontex ha fatto una segnalazione di polizia. Cioè: il caicco non era in difficoltà, poi è rimasto fermo a quaranta metri dalla riva per ore (ma non erano cento, i metri?) perché gli scafisti non volevano farsi beccare.
    Alla fine è naufragato per colpa degli scafisti che volevano darsela a gambe.
    Meloni ha recitato come un mantra l’ordinanza del gip di Crotone e il verbale di fermo dei presunti nocchieri della morte.
    Peccato le stecche, non proprio leggere: la presidente prima dice che Frontex ha avvistato il caicco nelle acque costiere, poi si corregge, richiamata anche dal moderatore. Quaranta chilometri dalle acque costiere, il dato esatto, fa una bella differenza.

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    Il governo al completo durante la conferenza stampa

    La risposta che manca

    Ancora: ma voi credete che il governo non volesse intervenire? Chiede all’uditorio con la classica domanda difensiva. Già: solo che non riferisce quel che è successo tra la segnalazione di Frontex e le prime ore del 26 febbraio.
    Non è una lacuna piccola. Innanzitutto per la tempistica: l’avvistamento è avvenuto alle 22,40 del 25 febbraio, il naufragio tra le 3 e le 4 del mattino del 26. Più di tre ore di differenza.
    In seconda battuta, la lacuna è grossa proprio nei termini della sicurezza che sta tanto a cuore al governo: possibile che in tre ore nessuno si sia mosso di fronte all’ipotesi di uno “sbarco”, per dirla in burocratese?

    Un primo piano di Giorgia Meloni

    Una targa non basta

    Apporre sul municipio una targa commemorativa della tragedia non basta. E non basta trasformare Cutro in Capitale simbolica per poche ore.
    Andrò al PalaMilone, avrebbe promesso Giorgia alla fine della conferenza stampa. Poi la retromarcia: un invito a Palazzo Chigi ai familiari delle vittime.
    Il che tradisce qualcosa di troppo: la considerazione della Calabria come territorio marginale che, in fin dei conti, porta troppe rogne e, persino, un po’ sfiga.
    Infatti, hanno ribadito la premier e Salvini, «oggi abbiamo fatto venticinque salvataggi in mare». Solo in Calabria si muore, quindi.
    E, a proposito di considerazioni: che dire del moderatore che chiede “professionalità” ai giornalisti ma poi dice “Curto” anziché Cutro?

  • Niente salme, c’è il Governo: la protesta dei parenti delle vittime

    Niente salme, c’è il Governo: la protesta dei parenti delle vittime

    Sono talmente stremati, arrabbiati e sfiduciati i familiari dei naufraghi che, poco fa, hanno provato a bloccare un camioncino di una nota azienda di acqua davanti ai cancelli del PalaMilone. Pensavano che nel retro del mezzo ci fossero le salme dei loro cari. Ma il Governo, nello specifico il Viminale, in un primo momento, ha deciso contro la loro volontà di trasferire i corpi dei migranti nel cimitero di Borgo Panigale (Bologna) e in altre città d’Italia che si sono rese disponibili a ospitarle. Da lì poi, forse, ricomincerà eventualmente la trafila dei trasferimenti. Tuttavia la vicenda è finita in stand by, grazie alla mediazione del Prefetto e del sindaco di Crotone: nessun “trasloco” l’assenso dei familiari. Bologna accoglierà ventiquattro salme, quattordici delle quali già partite. Per altre diciassette, che dovrebbero tornare in Afghanistan, si attende il completamento delle pratiche burocratiche.

    Salme dei migranti di Cutro trasferite per l’arrivo del Governo?

    La scelta originaria, si diceva, è del ministro Piantedosi. E, proprio come le sue parole all’indomani della tragedia di Steccato di Cutro, ha alimentato da subito le polemiche. Un vero capolavoro di ipocrisia del Governo, secondo molti: soltanto una settimana fa, dopo la visita del capo dello Stato, l’Italia aveva promesso di farsi carico di costi e trasferimenti nei Paesi d’origine, in accordo tra ambasciate e familiari.

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    Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di fronte alle bare nel PalaMilone

    Invece, no, non si può più aspettare. Perché domani ci sarà il Consiglio dei ministri – dove pare che neanche il sindaco padrone di casa sia stato ammesso – e sarebbe un grande imbarazzo per la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, arrivare in un luogo che sa ancora di morte e disperazione. Così come potrebbe imbarazzare il confronto con l’omaggio silenzioso del Presidente Mattarella alle vittime. Rischierebbe di evidenziare, se possibile, ancor di più il ritardo dell’Esecutivo nel far sentire la propria presenza sul luogo della tragedia. Ma, a quanto pare, sono cambiate le carte in tavola.

    La protesta dei familiari

    Molti dei parenti delle vittime chiedono, pretendono, che, dopo 13 giorni di attesa, le bare vengano riportate da Crotone il prima possibile nei Paesi di origine. Lì dove è giusto che vengano pianti dalla loro comunità e celebrati riti funebri secondo il loro credo.
    Da stamattina hanno occupato il piazzale davanti al Palazzetto e promettono di andare avanti a oltranza.

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