Zinèe è il primo festival delle fanzine in programma a Cosenza nella sede di Gaia (Galleria indipendente autogestita) il 7 e 8 ottobre 2023.
«Siamo un gruppo di amici appassionati di fotografia che crede nella contaminazione delle arti e nella condivisione dei processi creativi. Abbiamo scelto di organizzare un festival di fanzine (prevalentemente fotografiche ma aperto a tutte le forme espressive) per far conoscere nel nostro territorio questo versatile e libero mezzo comunicativo che, anche se un po’ vintage, è tutt’ora molto vivace». È quanto si legge nel comunicato stampa diramato dagli organizzatori del festival.
La presentazione del Festival negli spazi espositivi di Gaia a Cosenza
Che cos’è una fanzine? La sua storia pare che abbia inizio negli anni ’40 e non è altro che una pubblicazione indipendente prodotta e divulgata dallo stesso autore per diffondere la propria arte, per condividere un’idea o per sollecitare una dissertazione.
«Una fanzine (inglesismo esprimibile in italiano coi termini rivista amatoriale o fanzina) è una pubblicazione non professionale – si legge su Wikipedia – e non ufficiale prodotta da entusiasti di un particolare fenomeno culturale (quale un genere letterario o musicale, o un particolare fandom) per il piacere di condividere i propri interessi con altri».
La fanzine è un mezzo completamente libero perché consente l’autoproduzione e la realizzazione dei propri progetti artistici e dei propri esperimenti creativi senza dover passare dai canali dell’editoria ufficiale, Questo lascia totale spazio all’invenzione, oltre che del contenuto artistico anche dell’aspetto formale ed estetico, permettendo sperimentazioni su formati e tecniche di stampa differenti e sull’eterogeneità dei materiali utilizzati per la realizzazione.
«Forse il nostro desiderio – affermano gli organizzatori – di produrre creatività su carta stampata può apparire in controtendenza in questo momento storico, dal momento che immagini, testi e musica ora viaggiano a milioni sotto forma virtuale, ma forse è proprio per questo che sentiamo il bisogno di realizzare qualcosa di concreto e che possa essere toccato e condiviso. Vogliamo che Zinèe sia una festa libera che abbia lo scopo di far incontrare e mettere insieme tutti coloro che hanno voglia di condividere le proprie fanzine. La nostra ambizione mira anche al rafforzamento della cultura fotografica sul nostro territorio favorendo l’incontro e lo scambio di esperienze artistiche».
Manfredi Bosco è uno dei migliori cuochi – «Chef è solo un’etichetta gerarchica in cucina, se mi chiedono cosa faccio nella vita rispondo: il cuoco», ci tiene a precisare – di Madrid. A sostenerlo non è una voce qualsiasi, ma El Mundo, uno dei giornali più importanti di Spagna. Qualche settimana fa, nella sezione gastronomia, ha dedicato a questo cosentino, da qualche anno presidente dell’Associazione cuochi Italiani in Spagna – un lungo articolo. Il calabrese che voleva fare il diplomatico ed è finito a guidare uno dei ristoranti italiani – si chiama Pante – più interessanti della capitale iberica, lo ha definito Luis Blanco. Un traguardo niente male per uno che ha iniziato per caso a pensare di fare il cuoco una ventina o poco più d’anni fa: prestigio a parte, El Mundo ha il sito europeo di informazione in lingua spagnola più letto che ci sia.
L’ingresso del ristorante madrileno
Per una volta, però, un piccolo giornale calabrese ha almeno un vantaggio su un colosso dell’editoria internazionale: Manfredi Bosco è stato mio compagno di classe alle superiori e mio coinquilino all’università. Che volesse fare il diplomatico dopo la maturità non lo ricordo. In compenso, ricordo che da lui negli anni del liceo si facevano mangiate formidabili. Merito di Francesco, suo padre: arrivava a casa con prodotti presi da questo o quel contadino durante i suoi giri di lavoro. Gestiva con alcuni parenti una ditta di liquori – erano loro a produrre l’Amaro Silano Bosco o l’Anice Bosco fino agli anni ’90, più o meno – e si occupava spesso della distribuzione, per cui viaggiava parecchio. E poi era cintura nera di pasta e patate ara tijeddra e abbastanza eretico (e bravo) tra i fornelli da preparare un delizioso morzello catanzarese nel cuore di Cosenza.
Il tuo primo maestro, quello che ti ha trasmesso la passione per la cucina, è stato lui?
«Più che per la cucina, per i sapori, per i prodotti del territorio. Però a fare il cuoco non avevo mai pensato: niente alberghiera, ma liceo classico, poi Scienze politiche a Roma. Non avevo le idee molto chiare sul futuro quando ci siamo iscritti alla Sapienza, diciamo così, però mi piaceva l’idea di viaggiare per lavoro. Tant’è che la mia carriera poi è nata proprio per quello».
In che senso?
«Ho preso un volo per Londra, volevo imparare bene la lingua con un corso intensivo di qualche mese. Londra è cara, difficile mantenersi, e io parlavo poco e male l’inglese. La soluzione più semplice mi è sembrata chiedere un lavoretto in qualche ristorante italiano. Ho cominciato come lavapiatti, poi hanno visto che – anche se ero un principiante – me la cavavo tra i fornelli. Dopo un paio di mesi sono diventato aiuto cuoco. E mi sono reso conto che, oltre a guadagnare soldi miei per la prima volta, mi piaceva stare in cucina per mestiere.
Il Big Ben, simbolo di Londra
Poi lavorare in Inghilterra è tutta un’altra storia, capisci come dovrebbero davvero andare le cose. Lì non ci sono nero o straordinari non retribuiti, ci sono regole e si rispettano. Se ci pensi, pur facendo il lavapiatti, riuscivo a pagarmi una stanza in una delle città più costose del mondo. Certo, quando lavori in un ristorante per il cibo a casa non spendi quasi nulla, però…».
Se stavi così bene, perché tornartene in Italia allora?
«Era il 2001, poco dopo l’11 settembre, e i miei avevano il terrore che il prossimo attentato potesse essere a Londra. Pur di convincermi a tornare mi hanno aiutato a entrare nelle cucine del Four Season, un grande albergo di Milano, per uno stage. E lì mi hanno distrutto, non avevo ancora visto come e quanto si lavora in una cucina di veri professionisti. Mi sono reso conto che non sapevo nulla e non è stato semplice. Ti faccio un esempio banale: tu magari puoi credere che tua mamma prepari una besciamella buonissima e segui la sua ricetta, ma in un posto del genere mica puoi servirne una preparata come la fa lei.
L’Hotel Four Season di Milano
La cucina è fatta di sapori e ingredienti, ma anche di tecniche per valorizzarli e io ho dovuto impararle da zero. Ho capito pure quanto fosse duro e usurante fare il cuoco, però continuava a piacermi sempre di più. E, dopo le prime difficoltà, imparavo in fretta: a fine stage, con l’estate ormai alle porte, lo chef ha suggerito il mio nome a un collega per la sua brigata, nel mondo dell’hôtellerie funziona spesso così a seconda delle stagioni. Era il mio primo lavoro in Italia, al Palace Hotel di Capri, come cuoco capo partita. Mi occupavo della carne e di varie salse, più qualche turno notturno per il servizio in camera».
Me lo ricordo eccome: una notte hai chiamato a casa nostra a Roma per dirci che avevi appena preparato una frittata a Brian May dei Queen!
«Spaghetti e vongole prima, omelette poi, aveva fame. Era arrivato in elicottero, poverino… però non l’ho incontrato, peccato: nell’alta hospitality la riservatezza del cliente è sacra».
Per uno che due anni prima lavava i piatti mi pare comunque un bel passo avanti, no?
«Beh, sì, però a Capri è stato davvero un massacro, il Four Season era una passeggiata in confronto. Lì ero una stagista, qui avevo più responsabilità e, in sostanza, ancora nessuna esperienza. Ho visto cosa significhino davvero le gerarchie nelle cucine di un certo livello. Lo chef era Oliver Glowig, un grandissimo che ha conquistato diverse stelle Michelin negli anni; il suo secondo all’inizio mi trattava come uno schiavo, poi però dopo qualche settimana mi ha aperto casa sua: anche quello mi ha fatto capire che la mia strada era in cucina».
Oliver Glowig e Manfredi Bosco in una foto scattata qualche anno dopo l’esperienza insieme a Capri
Finita l’estate sei tornato a Roma…
«Sì, un lavoro ai Parioli. Gran ristorante, tra i clienti, per dirti, c’era Jack Nicholson quando veniva in Italia. Mi occupavo del pesce stavolta. E poi c’era un collega napoletano che mi ha insegnato tutto sulla pasta. Quando si parla di pasta non esistono maestri migliori dei napoletani, fidati».
E perché sei andato via da lì?
«Un’offerta migliore. Una famiglia storica della ristorazione romana aveva deciso di puntare sull’alta cucina con un piccolo ristorante dietro piazza Navona e ho deciso di lavorare da loro. Però le cose non sono andate granché bene, erano altri tempi. C’era attenzione verso questo mondo in Italia, ci mancherebbe, ma non come adesso. Roma non era ancora “pronta” per questo tipo di cucina».
Sei pure scappato, letteralmente, da quel ristorante…
«Vero, te l’ho detto che il cuoco è un mestiere duro e usurante, sono andato in tilt. Nello stesso periodo papà, che aveva venduto la ditta poco tempo prima, mi ha detto che avremmo potuto rimetterci a fare i liquori insieme, io e lui. Era il mio sogno da bambino che si avverava: la ditta quando ero piccolo era sotto casa mia, con tutti quegli alambicchi, bellissima. Così me ne sono tornato in Calabria».
E dalle ceneri dell’Amaro Bosco è nato l’Amaro Manfredi, con cui tu da tempo però non hai più nulla a che vedere. E la cucina?
«Mai abbandonata del tutto. Ho iniziato a organizzare eventi gastronomici per promuovere i prodotti del territorio, collaborato con aziende locali. Convincere i calabresi a fidarsi dei prodotti della loro terra era quasi più difficile di vendergli i liquori. Non posso nemmeno dar loro torto, di recente sono stato a Cosenza e dal fruttivendolo c’erano delle patate terribili: ma come, con la Sila a due passi, non hai patate buone? Dal punto di vista della cultura gastronomica siamo molto indietro ancora; ricordo che molti macellai avevano carne bovina ben frollata solo perché non riuscivano a venderla prima, assurdo. Se penso alla cura degli spagnoli nell’allevamento dei maiali il confronto è impietoso, il Nero di Calabria ha più pregi che mercato»
Hai fatto pure qualcosina per la televisione, ricordo un programma con Mengacci. Che ne pensi della cucina in tv e dei cuochi nello show business?
«Tutto il male possibile. No, dai, qualcosa di positivo c’è: è un modo per dare visibilità a un mestiere a lungo non valorizzato quanto meriterebbe, come succede invece in Francia, e per far conoscere i sapori di un luogo. Ma c’è l’altra faccia della medaglia: oggi, su 50 curricula che arrivano in un ristorante, 40 sono di gente che fa i suoi piatti per Instagram o ha partecipato a una mezza puntata di Masterchef. Qualcuno ha anche talento, ma quasi tutti scappano dopo aver visto come si lavora in una vera cucina. I professionisti con una formazione alle spalle magari non trovano posto, invece. E un’offerta così alta di manodopera ha fatto crollare le retribuzioni in cucina per tutti.
Manfredi Bosco prima di prendere servizio nel ristorante sardo di Gordon Ramsay
Anche io ho iniziato dal nulla, ci mancherebbe, però l’ho fatto dentro una cucina, non sui social o in un talent show. E comunque, a parte tutto, in tv non funzionavo proprio. Troppo riservato, ho fatto giusto qualche puntata di Ricette all’Italiana: mi piace stare ai fornelli, non davanti a una telecamera».
Però hai lavorato anche con due star della Tv come Carlo Cracco e Gordon Ramsay, che tipi sono?
«Ramsay non l’ho conosciuto di persona, lavoravo in un suo ristorante al Forte Village ma non c’era mai. Anche con Cracco ho lavorato in Sardegna, veniva due volte a settimana: un professionista pazzesco, non posso che parlarne bene. E che puoi dire di male su uno che era chef a Montecarlo al Le Luis XV di Alain Ducasse, dove un genio come Massimo Bottura era solo uno dei tanti in brigata? Lo guardi lavorare e provi a imparare il possibile».
Manfredi Bosco e Carlo Cracco
In Spagna, invece, come e quando sei arrivato?
«Una decina di anni fa, ceduta la ditta di liquori. Avevo qualche contatto lì e sono andato a studiare un po’ la loro ristorazione. Poco dopo ho iniziato a lavorare al +39, come il prefisso dell’Italia, il primo ristorante calabrese di Madrid. Tra i soci c’era anche Matías Verón, l’ex calciatore della Reggina. Ho vinto un concorso – Madrid Fusión, una kermesse gastronomica che si ripete ogni anno e pone al centro dell’attenzione cuochi e tecniche di cucina – ed è partito anche il mio lavoro con l’Associazione dei Cuochi Italiani in Spagna. Organizziamo show cooking, eventi pubblici e iniziative nelle scuole per far conoscere i prodotti nostrani, il modo di prepararli, l’importanza della dieta mediterranea».
Su El Mundo, però, sei finito grazie a un altro ristorante, Pante…
«Ci lavoro da quattro anni ormai. Facciamo cucina italiana, in particolare di Pantelleria, ma ho voluto che nel menu ci fosse sempre anche un po’ di Calabria. Il peperoncino, innanzitutto, ma anche le cipolle di Tropea, la ‘nduja, i fichi dottati.
Tra i nostri clienti ci sono Carlo Ancelotti, un mio mito da adolescente come Raul, Diego Simeone. Il Cholo, quando ha saputo che ero di Cosenza, mi ha parlato della città: ricordava di esserci stato quando giocava nel Pisa in serie B, anche se aveva dovuto saltare la partita per infortunio».
Manfredi Bosco completa uno dei suoi piatti al Pante di Madrid
Derby al ristorante… tu sei merengue o colchonero?
«Juventino (ride). Però dopo tanti anni mi sento anche castigliano, è una terra meravigliosa e accogliente da cui difficilmente andrei via a meno di offerte irrinunciabili. Qui c’è un detto, “Se vivi a Madrid, sei di Madrid”, ed è davvero così»
Hai puntato sulla tradizione – non locale, tra l’altro – nel Paese che negli ultimi anni è stato più all’avanguardia nel mondo della cucina. La tentazione di seguire quel filone non l’hai mai avuta?
«Sinceramente no. Ho un immenso rispetto per cuochi come David Muñoz e per il successo del suo ristorante al World’s 50 Best Restaurant così come per l’Osteria francescana di Bottura (vincitore in precedenza del prestigioso riconoscimento, nda), ma perché so quanto abbiano lavorato duramente prima di arrivare lì, passando prima dalla ristorazione più tradizionale. Io però in un ristorante, anche il migliore del mondo, dove una cena dura 4 ore non andrei, non è il genere di esperienza che mi attira. La vedo così: il cliente da Manfredi Bosco viene per mangiare bene e quando va via deve pensare al piatto che gli ho servito come a quelli che gli preparavano sua mamma o sua nonna, rivivere quelle sensazioni. Non è semplice, specie in un paese straniero che non conosce davvero la tua tradizione, ma se ci riesco ho raggiunto il mio obiettivo».
Se da giocatore il tennis non ti concede errori da spettatore è un museo senza tempo, un mondo che puoi mettere in pause (“ll“) e far ripartire con un ticket anno dopo anno. Wimbledon 2023 non cambia vestito ma toglie certezze e riferimenti ad una platea da anni divisa nelle tifoserie dai semidei che hanno riscriscritto l’era open dal 2001 ad oggi.
Applausi per Roger Federer nel Royal Box di Wimbledon
Roger Federer come Apollo figlio di Zeus, continua a splendere senza scendere più nell’arena. Rafa Nadal al pari di Eracle ha momentaneamente dismesso la pelle di leone ma noi tutti speriamo di rivederlo ruggire sui campi regalandoci quelle epiche battaglie per conquistare il posto più in alto nella storia del tennis, King of slam. Novak Djokovic da numero 1 sembra quasi uno zio che gioca con i nipoti emergenti, continuando a insegnare loro come si diventa campioni.
Tra questi spicca per talento ed empatia un Danil Medvedev che strizza l’occhio alla storia nella speranza di costruirsi un futuro da quinto semidio. L’erba di Wimbledon ovatta i rimbalzi e l’umore di chi come me accarezza l’idea di accedere ad un paradiso dove le linee sono di gesso ed i Campi Elisi un tennis club dove udire i racconti e gli aneddoti infiniti di questo mondo intorno ad una palla gialla fluttuante ed armonica.
Campo Numero 1 ore 13:15: la folla acclama un Medvedev che al pari di Hermes si muove ad una velocità ed un ritmo insostenibile per 5 set. Il suo avversario Marton Fucsovic lo sa bene che rivivrà le emozioni di Ettore davanti le mura di Troia e dopo aver vinto il primo set da gladiatore troverà devastante per il suo fisico mantenere quei ritmi pur regalando al pubblico la bellezza di un tennis completo e senza tempo, fatto di serve&volley, rovesci in backspin, tuffi sotto rete e bellissimi cambi di ritmo. Finisce 3 set a 1 per il russo, ma il pubblico in piedi acclama Marton che con onore lascia il campo tra applausi e pochi rimpianti.
Era dagli Europei della nostra amata nazionale di calcio che non provavo la tensione che tutti noi italiani conosciamo bene, allorché scende in campo Matteo Berrettini contro Alexander Zverev. Si prospetta uno scontro tra titani fatto di diritti e servizi simili alle saette di Zeus e alle martellate del Mjöllnir di Thor. Un Match dove gli italiani sugli spalti hanno perso la voce per incoraggiare un Matteo che vuole tornare in alto e che vincendo quei pochi punti che contano, quei mini-break nei tie-break porta a casa un quarto turno che ha di nuovo il sapore della storia di Wimbledon a cui ci ha abituato. Ora è tempo di lasciarvi perché un buon Pimm’s on the hill mi aspetta al tramonto, e vi assicuro il più suggestivo a cui un tennista può e deve assistere.
Goodbye friends.
Di lei resta poco: la dedica di una scuola importante di Cosenza, un sonetto e qualche elemento biografico, tra l’altro non proprio preciso. Eppure, Lucrezia della Valle, una nobildonna vissuta a cavallo tra XVI e XVII secolo, vanterebbe almeno un primato (in assenza di documentazione contraria): è la prima intellettuale cosentina di cui si hanno tracce. Non proprio solide, ma pur sempre tracce. Ricostruiamole un po’.
Lucrezia della Valle, l’enigma della nascita
La data di nascita di Lucrezia della Valle è pressoché sconosciuta. A tentoni, si può ipotizzare che la poetessa sia venuta alla luce attorno al 1565.
Lo si apprende da una lettera indirizzata da Sertorio Quattromani, lo zio di Lucrezia, al patrizio cosentino (e barone di Brunetto) Celsio Mollo.
La missiva è datata 1597. In essa, il celebre letterato e presidente dell’Accademia Cosentina, invita l’amico Mollo a tranquillizzare Lucrezia, preoccupata del carattere a dir poco esuberante di suo figlio, Teseo Sambiasi, che si è ficcato in una bella rissa a Napoli. «Persuadela a non prendersi molto affanno di queste cose, che produce la fanciullezza», scrive Quattromani all’amico.
È quanto basta per un calcolo presuntivo: se per “fanciullezza” s’intende la post adolescenza, Lucrezia all’epoca doveva avere almeno trentadue-trentatré anni per poter essere madre di un sedicenne.
Sertorio Quattromani
Una poetessa di buona famiglia
Riavvolgiamo il nastro: sappiamo, da queste informazioni, che Lucrezia della Valle fa parte della Cosenza-che-conta del tardo Cinquecento.
Sappiamo che suo zio è l’illustre accademico Sertorio Quattromani (infatti, è figlia di Giulia Quattromani, sorella minore di Sertorio, e di Sebastiano della Valle, proprietario e giurista legato ai Sanseverino di Bisignano).
Suo marito è un altro accademico e, va da sé, nobile: Giambattista Sambiasi.
Si apprende, da altre testimonianze, a partire da quelle contenute nell’epistolario dello zio, che Lucrezia ha una vita tutt’altro che irrequieta: è mamma di sei figli e, a parte la letteratura e gli impegni nell’Accademia Cosentina, dove è iscritta con il nome d’arte di Olimpia, non ha altre passioni.
Insomma, la classica notabile d’epoca senza grilli per la testa ma con un amore solido per la cultura. Non propriamente un’aspirante Eleonora Fonseca Pimentel.
Il giallo della morte
Anche sulla morte di Lucrezia della Valle c’è un piccolo giallo. Nulla di grave, intendiamoci: riguarda solo le date.
Al riguardo, trae in inganno proprio la ricca corrispondenza di Sertorio Quattromani con i colleghi accademici. In particolare, è fuorviante una lettera di Sertorio a Francesco Mauro, in cui il letterato piange la morte di una nipote, avvenuta nel 1602.
L’incomprensione è acuita da un sonetto di Fabrizio Marotta, composto per consolare Sertorio della perdita di una donna di nome Olimpia. L’equivoco c’è tutto.
Ma basta poco a dissiparlo. Innanzitutto, i due testamenti di Sertorio Quattromani. I documenti risalgono entrambi al 1603, il primo a ottobre, il secondo al 19 novembre, un mese prima della morte dell’accademico.
In quest’ultimo è compreso un inventario della biblioteca dell’illustre critico e, soprattutto, la nomina ad erede di Lucrezia.
Il duomo di Cosenza, ultima dimora di Lucrezia della Valle
Lucrezia della Valle riposa nel Duomo
Il secondo dato toglie ogni dubbio: riguarda il luogo di sepoltura della poetessa, il Duomo di Cosenza.
Questo dato è presente nel volume Cosenza Sacra (1933), di Cesare Minicucci. L’autore riporta anche la data precisa della morte di Lucrezia: 26 settembre 1622.
Entrambi gli elementi, data della morte e luogo di sepoltura, tornano in I libri di un letterato calabrese. Sertorio Quattromani 1541-1603, un saggio dello storico napoletano Carlo De Frede (1999). E torna tutto il resto: cioè che la Lucrezia sepolta nel Duomo fosse proprio quella e non un’omonima.
A questo punto, sappiamo che la poetessa ha vissuto poco meno di cinquant’anni a cavallo tra Cinque e Seicento, che è parte integrante del “generone” cosentino e milita nell’Accademia Cosentina. E poi?
Solo una poesia per dire brava?
Di Lucrezia della Valle resta solo un sonetto. Lo ha trascritto il giurista e storico cosentino Salvatore Spiriti nel suo Memorie degli scrittori cosentini (1750), in cui traccia una breve biografia della poetessa.
Nelle due pagine (102-104) del suo libro dedicate alla poetessa, Spiriti tramanda varie notizie, tra cui quelle sulla produzione letteraria di della Valle, che comunque si riduce a poco. Un Canzoniere composto da quarantadue sonetti, una canzone, tre sestine, sei ballate e un capitolo dedicato all’amore di ispirazione platonica.
Il tutto, in stile petrarchesco. Ma ci sta: da degna nipote e allieva, la Nostra si ispira molto a zio Sertorio che, guarda caso, è un patito di Petrarca.
Comunque, Spiriti attribuisce a della Valle anche un’opera latina: De elegantiis latinae linguae melioribus scriptoribus excerpitis. Peccato solo che sia andato tutto perso, anche perché alle soglie dell’età moderna non esistono i file epub e pdf che possono dare l’eternità a tutto.
Il liceo Lucrezia della Valle
Fu vera gloria?
Ovviamente c’è chi polemizza e mette in discussione un po’ di cose. È il caso del napoletano Pietro Napoli Signorelli, che nel suo Vicende della coltura nelle due Sicilie
(1810) mette in guardia i lettori dalle «congetture» di Spiriti su Lucrezia.
Forse Signorelli non ha proprio tutti i torti: Spiriti, animato da orgoglio di appartenenza, cerca di riportare l’Accademia ai suoi vecchi fasti e perciò scrive le Memorie, che contengono un bel po’ di propaganda.
Ma ciò non toglie che la poetessa cosentina resti una intellettuale di punta del Sud che scivolava (e non sempre bene) dal rinascimento al barocco. Lucrezia della Valle è stata paragonata ad altre letterate della sua epoca, come la laziale Vittoria Colonna, che appartiene alla generazione precedente.
Al netto di qualche esagerazione retorica o di critiche postume c’è un dato, da non sottovalutare: Lucrezia della Valle è un’esponente di una élite di grande caratura, inserita a pieno titolo nelle classi colte europee. Il che, per una città come Cosenza, che a malapena tocca all’epoca i 10mila abitanti non è davvero poco.
Un risultato notevole, che la città non avrebbe più ripetuto.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.
Il Festival Corigliano Calabro fotografia nasce con la presenza di Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna e Mimmo Jodice. Cronaca di un successo (pre)annunciato, raggiungendo i suoi primi 20 anni. Resta tra i più importanti d’Italia. Ed è una meravigliosa vetrina per la Calabria. Senza “zuccherini” e retorica buonista.
Ferdinando Scianna
Gianzi, anima di Corigliano Calabro fotografia
Ho conosciuto Gaetano Gianzi dieci anni fa quando ero di stanza col mio vecchio giornale nella Sibaritide, nella redazione di Rossano. Gaetano è un calabrese atipico. Biondo, occhi azzurri con una certa somiglianza con l’attore Rutger Hauer. Il suo nome è legato indissolubilmente al Festival. Direttore artistico e amministrativo. Medico in pensione, lavora tutto l’anno per questo evento insieme ai volontari dell’associazione Corigliano Calabro per la fotografia. E ci tiene a puntualizzare: «Li ringrazio tutti, sono indispensabili. Senza di loro non saremmo arrivati sino a qui».
Oggi porta a tracolla una bellissima Leica, oggetto di culto per chi ama scattare, ma ha iniziato tanti anni fa con ben altri dispositivi e tecnologie. L’idea di creare un evento del genere in terra ausonica gli viene dopo aver partecipato tra gli anni ottanta e novanta alla Settimana della Fotografia a Terrasini, in Sicilia. Perché non provarci sulle sponde del nostro Jonio? Si chiede. Ci riesce. Come tutti i cocciuti, gli ostinati.
Il “Viaggio” di Gianni Berengo Gardin
Da assessore alla cultura della sua città dà un impulso decisivo per la partenza della prima edizione. Sin da subito si decide di affidare il racconto del territorio a un grande fotografo. Apre le danze Gianni Berengo Gardin. Che poi diventerà cittadino onorario di Corigliano.
«Gianni non scatta se non passa nessuno. Ricordo un’ora di attesa. Eravamo sulla provinciale vicino al Quadrato Compagna». Gaetano ricorda il modus operandi del maestro. Ne uscirà fuori Viaggio a Corigliano. Non può esserci titolo più evocativo per un lavoro del genere, diventerà una consuetudine del festival. Ma quel primo numero segnerà una cesura netta tra il prima e il dopo.
Attilio Lauria e Michele Smargiassi
«È una caratteristica peculiare di questo festival» – spiega Attilio Lauria, critico, giornalista e redattore di Fotoit, membro e docente della Fiaf. Perché la particolarità di questo evento è il rapporto con la città, la lunga arteria chiamata 106 Jonica, il suo mare. Che rimbalzano nelle immagini in mostra nelle capitali europee e non solo. Una pubblicità intelligente, raffinata, etica. Un buon modo per raccontare la Calabria di confine al di là dei soliti stereotipi.
«In tutto il Sud non c’è un festival di questa caratura. Ma anche attività di formazione, autori che fanno seminari. Un formula rodata ovunque: mostre e formazione». Sono parole di Attilio Lauria. Pochi giorni fa era proprio al Festival in compagnia del giornalista di RepubblicaMichele Smargiassi. Entrambi impegnati in un seminario sul futuro della fotografia ai tempi dell’assalto inesorabile dell’Intelligenza artificiale.
Vent’anni di fotografia
Venti anni sono pure densi di appunti annotati sul taccuino della memoria di Gaetano Gianzi. «Di Gabriele Basilico», che ha saputo restituirci insieme ad altri come Luigi Ghirri le mutazioni del paesaggio italiano, «non dimentico i modi da persona elegante e squisita». Uno fuori dal tempo con «quel panno nero sulla testa, accovacciato sul suo banco ottico». Il fotoreporter partenopeo Francesco Cito, autore di reportage nell’Afghanistan dell’invasione sovietica oppure di perle come i “matrimoni napoletani”, capisce subito che il porto regalerà qualcosa di buono. «Ne verrà fuori uno scatto indimenticabile con i ragazzi che si tuffano dal faro». Sarà anche la copertina de Il Fotografo di qualche anno fa. Monika Bulaj spazia dalla religiosità fino al mercato dei pesci in quel 2017. Ha fotografato guerre in posti complicati, come del resto lo sono tutti i conflitti. Era una temeraria. «I pescatori di Schiavonea mi dicono ancora: ma quella signora non viene più».
Uno scatto di Monica Bulaj a Corigliano
Da Letizia Battaglia fino a Franco Fontana. Oltre 300 autori sono passati da qui. Si fa fatica a elencarli tutti.
Il festival, da sedici anni una delle sedi di Portfolio Italia, è entrato di diritto nell’immaginario di una comunità. Uno dei tanti spazi meridiani che si prestano al racconto, dove l’occhio dei grandi fotografi incontra la storia minima, la complessità, i volti unici e i contrasti di una città che gente come Gianzi prova e riesce a trasformare in avamposto culturale del Sud. Anche solo per qualche giorno.
Franco Fontana nel centro storico di Corigliano Calabro
Franco Dionesalvi non si è mai pensato intellettuale nel senso ampolloso e ingaggiato del termine. Lo era invece e ben di più nello sguardo sul mondo e nel legame storico-affettivo con la sua città: nessun localismo, nessun souvenir, solo studio, amore, agorà al massimo grado.
Tante vite in un una
È parziario, oltre che impossibile, ricordarlo libro per libro, composizione per composizione, reading per reading. Come per tutti gli scrittori che lavorano da amanuensi la materia della loro scrittura per il filtro dell’ibridazione dei linguaggi, ogni opera è il tassello di un percorso intero ed interiore. Non una scatola chiusa. Quindi, in Dionesalvi vivono tante vene e filoni, tante storie attraverso i suoi scritti rivivono. Le avanguardie letterarie, ad esempio. Senza fare l’archivistica degli stratagemmi semantici, ma investigando il rapporto immediatamente politico-emotivo fra segno e senso. Era uomo del Concilio, pur essendo un bambino nei primi Sessanta, ma gli apparteneva naturalmente un cristianesimo di base, semplice, diretto, dialogico. Ecumenico ed etimologicamente cattolico: persona singolare e universalità collettiva.
Un uomo del ’77
Era uomo del ’77, ancora. Non per portarsi addosso le stimmate laiche di un percorso di autonomia (sul quale ormai tutti hanno la loro, tutti ne hanno fatto parte e tutti lo hanno rinnegato), ché anzi le simpatie estetiche e comportamentali di Dionesalvi andavano più agli Indiani che agli Autonomi. Era figlio del ’77 in quella naturale postura antiautoritaria che ti fa capire, volenti o nolenti, la morte di un certo tipo di appartenenze e l’emersione di una soggettività disorganizzata e plurale, oltre certe logiche e chiese, bisognosa, anzi, di nuovi stimoli, nuove istituzioni e -ancora una volta!- nuovi canali comunicativi.
Franco Dionesalvi: come ricordarlo?
Non si sa come potercelo ricordare Franco Dionesalvi, quale lato debba più prevalere sugli altri: l’amministratore razionale e visionario insieme? Conoscitore dei sistemi locali della cultura europea (come da sua ottima tesi di dottorato) o attivista che apre squarci nuovi e si inventa il festival cittadino che segna una generazione, lontano anni luce da cover e refrain dei decenni successivi? Il romanziere colto, sperimentale, e però legato anche all’abc del romanzo di formazione, alla narrativa come scavo psicologico e percorso di crescita? Il poeta omaggiato a New York o il profeta per un certo periodo dimenticato in patria? Il corsivista ironico e propositivo o l’uomo di teatro che dal dramma ricavava storie di popolo?
Lo ricordo, allora, al netto di tanti begli incontri personali (che con Franco erano o l’uno a uno o il cenacolo improvvisato con amici di tavolo e conversazione sempre nuovi), per una delle sue ultime antologie poetiche, Base Centrale.
A quel libro è legata una circostanza a suo modo e a propria volta storica. La prima presentazione pubblica a Cosenza dopo la pandemia: chiostro del San Domenico sold out. Cinquanta panche piene e se non ci fosse stato il distanziamento sociale ne avrebbe riempito cento.
Base centrale
Non credo né mai crederò a provvidenzialismo alcuno: ci sono artisti, anche nel campo figurativo, le cui ultime opere sono profezie e altri per cui semplicemente non c’è più niente di nuovo da leggere e guardare. Base Centrale è perfettamente coerente a un percorso, a una ricerca, a uno stile. E l’autore stesso avrebbe probabilmente avuto difficoltà a superarsi: sarebbe andato, come tipicamente suo, nella direzione opposta a ogni comodità astratta, a ogni sciatteria mentale.
In Base Centrale c’è l’amore, il racconto del disagio, la simbologia religiosa, la denuncia pasoliniana dei tempi disincarnati (ma assai meno cattedratica, perciò più pura), persino le scosse telluriche della pandemia sulla già frantumata socialità industriale.
Consoliamoci: siamo molto meno che a metà strada per riabbracciare compiutamente tutti i temi e slanci inaugurati dall’autore. Uomo di fede, fede in primis nella donna e nell’uomo, come i predicatori in lotta di un millennio addietro, potrebbe dirci allora: non è che l’inizio. Figli di un umano non ancora nato e a cui non verrà impedito di vedere luce.
Domenico Bilotti Docente di “Diritto delle Religioni” e “Storia delle religioni”, Università Magna Graecia
Comincia il conto alla rovescia per il XXII Festival delle Invasioni, all’insegna – è ormai il claim di questa edizione – della contaminazione e della contemporaneità.
Il 13 e il 14 luglio nel centro storico risuoneranno rock, elettronica, jazz, world music (qui il programma): ne abbiamo parlato con il consigliere comunale Francesco Graziadio, ideatore insieme al direttore artistico Paolo Visci, di un cartellone che vuole riproporre atmosfere post punk e suoni elettronici come negli anni d’oro della kermesse e archiviare certe edizioni «da sagra paesana dell’era Occhiuto». È l’occasione per un primo bilancio di questa esperienza a Palazzo dei Bruzi: l’entusiasmo, le difficoltà e quel silenzio irreale che regna dentro un municipio incredibilmente deserto.
Bagno di folla per Calcutta alle “Invasioni” del 2019, il sindaco era Mario Occhiuto
Come te le immagini queste serate del festival?
«Sotto il profilo artistico e musicale me le immagino fantastiche. E so che non resterò deluso. Sotto il profilo della partecipazione me lo immagino come tutti quelli che organizzano eventi di questo tipo: alle 8.00 penso che sarà un successo, alle 8.05 penso che saranno un fiasco clamoroso, alle 8.10 sarà tutto bellissimo e stupendissimo, alle 8.15 sotto il palco saremo in sette compresi mia moglie e mio figlio e così via… In realtà è una vera e propria incognita: ho percepito una grande attesa per un evento che è rimasto fermo per tre anni, ottimi riscontri per il cast artistico da parte degli appassionati, ma anche una certa diffidenza per i nomi non proprio conosciutissimi».
Clock DVA saranno sul palco del Festival delle Invasioni 2023
Sono state fatte scelte musicali molto particolari. Che percezione hai del pubblico cosentino?
«Cosenza è una città con una sua storia e una sua tradizione. Ha un orecchio educato anche a sonorità non esattamente commerciali. Ho incontrato cosentini in concerti a Roma, Milano, Londra, Barcellona. Ascoltano rock, punk, post-punk, metal, elettronica, hip hop… Sono incuriositi dalle sperimentazioni. Comprano dischi, leggono riviste specializzate, fanno musica. Malgrado la posizione geograficamente periferica Cosenza ha sempre accolto con entusiasmo tutti i grandi movimenti musicali degli ultimi 50 anni, dal Beat e dal Progressive in poi. Gli artisti che si esibiranno il 13 ed il 14 sapranno soddisfare i palati più raffinati. Senza nulla togliere agli altri, possiamo dire che Clock DVA e The Bug sono nomi che hanno fatto e stanno facendo la storia della musica».
John Cale (foto Rex Huang – Wikipedia)
Qual è il è il tuo ricordo più bello legato alle edizioni passate del festival delle Invasioni?
«Questa è davvero, davvero difficile. Mi devi concedere almeno una doppia possibilità. Dal punto di vista musicale sicuramente il concerto acustico di John Cale al Duomo. Il leggendario leader dei Velvet Underground, cresciuto nella Factory di Andy Warhol, a pochi metri da me. L’urlo finale alla fine di Fear mi fa ancora accapponare la pelle. Ma Invasioni non è stata solo musica e non dimenticherà mai la performance di Fura del baus su Corso Mazzini. Uno spettacolo fantastico, con la folla che sgomitava per salire sul loro mezzo postatomico e surreale per scenderne sporca, sudata ed irragionevolmente felice. Ma restano fuori i Mutoid, I Tamburi del Bronx, la chitarra di Tom Verlaine…»
Hai percepito critiche legate al fatto che i concerti sono a pagamento?
«Qualcuna. Mi rendo conto che si tratta di un cambiamento importante, anche se per Lou Reed abbiamo pagato un biglietto. Devo dire, però, che l’ingresso è davvero popolare, con un prezzo politico, se mi passi il termine. Trenta euro per due serate con nove live di livello sono davvero pochi. Basta fare il confronto con le altre realtà musicali per rendersi conto dello sforzo che abbiamo fatto. Oggi gli artisti non guadagnano più con i dischi ed i concerti sono diventati costosissimi».
E cosa rispondi a chi potrebbe obiettare che si è passati da scelte eccessivamente commerciali e mainstream – nel decennio occhiutiano – ad artisti noti soprattutto nel circuito indipendente?
«Non mi permetto di giudicare le scelte artistiche degli altri, di dire che è cambiata proprio la prospettiva. Il Festival delle Invasioni era diventato una specie di cartellone per i cosentini rimasti in città a morire di caldo, una sagra paesana. A me le sagre paesane piacciono moltissimo, ma il Festival delle Invasioni era una cosa diversa, non il luogo dove ascoltare con una pizzetta in mano il musicista che puoi sentire alla radio del supermercato facendo la spesa. Noi abbiamo pensato di tornare allo spirito delle prime edizioni: dare al pubblico uno spettacolo di alta qualità artistica scegliendo fra i musicisti che hanno una prospettiva originale ma riconosciuta dalla critica internazionale. Con umiltà, perché siamo un Comune in dissesto e non abbiamo le disponibilità economiche di 25 anni fa. Ma anche con ambizione, perché la formula che abbiamo scelto (concentrare l’evento in due giorni) è quella di tutti i festival musicali del mondo e speriamo che, con il tempo, possa diventare un appuntamento fisso per tutti gli appassionati di musica calabresi e, perché no, italiani. Il direttore artistico Paolo Visci, che non ringrazierò mai abbastanza, ha fatto davvero un lavoro fantastico e con lui abbiamo già parlato della prossima edizione…».
Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza
Un primo bilancio di questa esperienza da consigliere comunale nella giunta Caruso?
«Difficile. Una esperienza difficile persino oltre le previsioni. Delle difficoltà economiche sapevamo, anche se nessuno poteva immaginare il disastro che abbiamo trovato entrando a Palazzo dei Bruzi, ma la carenza di personale è davvero un problema che rischia di rendere vano ogni sforzo. I dipendenti del Comune sono un terzo rispetto a pochi anni fa ed è complicato trovare le risorse umane capaci di portare avanti un programma ambizioso come quello che abbiamo proposto ai cittadini. Le buone idee camminano sulle gambe degli uomini, e quando cammini a Palazzo dei Bruzi puoi sentire l’eco dei tuoi passi, tanto il silenzio che regna in quei corridoi. E poi io sono un tipo pratico, abituato a fare, ma i consiglieri possono fare ben poco. Ma se quel poco è il Festival delle Invasioni posso dirmi soddisfatto. Un’altra cosa: il risanamento dei conti. Se a fine mandato saremo riusciti a rispettare gli impegni presi (e sono ottimista) avremo reso un buon servizio alla città. Di cose da fare ce ne sarebbero tante e so che i cosentini sono critici ed esigenti, ma riuscire a governare senza fare altri debiti mi sembra un obiettivo prioritario. Per rispetto ai cosentini di domani».
South Italy Fashion Week approda alla settima edizione e lancia un programma ricco di incontri con professionisti del settore, approfondimenti, performance di moda, masterclass e fashion party con corner di make-up live. Quest’anno, al centro del progetto una visione local-glocal: la cultura come strumento di promozione territoriale in tutte le sue forme. Arte, moda e tradizioni con focus sulle peculiarità linguistiche e culturali come patrimonio da valorizzare per una nuova narrazione del marchio Calabria.
La direzione artistica e organizzativa del South Italy Fashion Week è di Giada Falcone, l’evento è prodotto dalla Moema Academy di Cosenza, ente di formazione per i settori fashion, design, make-up e arte. Il calendario dell’evento, che si svolgerà a Cosenza da 3 al 7 luglio 2023, sarà presentato domani, 3 luglio alle 11:30 nel Salone degli Specchi del Palazzo della Provincia (piazza XV Marzo, 5).
Saranno presenti: Confartigianato, partner dell’evento e i rappresentanti del Comune di Cosenza, della Provincia e della Regione, enti che patrocinano la manifestazione. Alla conferenza stampa ha assicurato la sua presenza Giuseppe Fata, stilista calabrese, ambasciatore del Made in Italy e Head sculpture design, noto alla moda internazionale per le sue “teste sculture”.
Ci sono volti e voci che non si dimenticano. Come quella di Emanuele Giacoia, giornalista della Rai che ha saputo raccontare la complessità di una regione come la Calabria e quella di uno sport come il calcio che non è mai stato e mai sarà solo un gioco.
La Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” in collaborazione con il comune di Cosenza ha organizzato venerdì scorso, nella parte esterna di Villa Rendano, un ricordo del cronista di razza. “Ciao Emanuele”, questo è stato il titolo di una serata giocata sul filo della memoria. Con testimonianze e ricordi, l’incontro è stato animato dalle domande del giornalista Mario Tursi Prato. Ha partecipato anche Patrizia Giancotti, antropologa, autrice e conduttrice di RaiRadio3.
Da sinistra il presidente della Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”, Walter Pellegrini; il sindaco di Cosenza, Franz Caruso e il giornalista Mario Tursi Prato
Il presidente della Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”, Walter Pellegrini, ha sottolineato lo spessore umano e professionale di Emanuele Giacoia: «Un grande uomo e un grande giornalista che manca tanto a questa città e questa regione». E «come se – ha detto il sindaco di Cosenza, Franz Caruso – l’avessimo conosciuto tutti. Ha accompagnato le nostre vite in radio e in televisione».
Da sinistra il caporedattore del Tgr Calabria, Pasqualino Pandullo; il giornalista Mario Tursi Prato e il direttore della sede Rai, Massimo Fedele
Sono state molteplici le testimonianze dei colleghi. Per il caporedattore del Tgr Calabria, Pasqualino Pandullo, un «tratto distintivo della leggerezza di calviniana memoria» animava Giacoia. Massimo Fedele, direttore della sede Rai Calabria, non dimentica un episodio: «Il primo giorno che parlai con il mio ex direttore, mi disse di cercare sempre in me l’empatia di Emanuele Giacoia». Tra i contributi video spunta quello di Bruno Vespa: «Giacoia aveva una voce rotonda e sensuale. Riusciva a far vivere gli eventi. Un grande collega». Un «attentissimo cronista immerso nella realtà» sostiene Bruno Pizzul. Ecco l’amarcord di Vincenzo Mollica: «Primo giornalista che ho visto nella mia vita. Un grande narratore della terra di Calabria e della terra del calcio. Era straordinario».
Da sinistra i giornalisti della Rai, Tonino Raffa e Francesco Repice
Francesco Repice rammenta le parole di Giacoia: «Ricordati che siamo Servizio pubblico, mi diceva sempre. Emanuele mi ha dato grandi insegnamenti, era un patrimonio per noi».
«Oggi Celebriamo la vita di Emanuele. Voce degna del miglior doppiatore di Hollywood», sostiene Tonino Raffa. «Un giornalista di grande carisma, pronto a spendersi per gli altri» – dice Santi Trimboli. «Ho passato 30 anni con Emanuele – ricorda Enzo Arcuri -. Collega con il quale non si poteva litigare, di smisurata umanità e generosità». Giacoia «seduceva uomini e donne con quella voce» – dice Annarosa Macrì-. Era un fuoriclasse. Era il paolo Conte del giornalismo radiotelevisivo italiano».
Emanuele Giacoia è stato pure direttore responsabile dell’allora Quotidiano della Calabria, oggi Quotidiano del Sud. L’editore Francesco Dodaro ricorda «l’impegno e la passione di un direttore che apparteneva ai lettori».
Non poteva mancare il messaggio video di Massimo Palanca, fantasista di quel Catanzaro che conquistò e difese la serie A: «Mi stimava molto e io pure. Solidarietà tra baffuti».
Restano gli insegnamenti e i servizi giornalistici di Giacoia a testimoniarne valore, eleganza e tanto, tanto mestiere.
Il pubblico che ha partecipato al ricordo di Giacoia a Villa Rendano
Quello dedicato a Emanuele Giacoia è il primo di una serie di eventi che la Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”, di concerto con l’amministrazione comunale di Cosenza, ha deciso di dedicare a figure del giornalismo e della cultura purtroppo scomparse, che si sono distinte per la loro attività e per il contributo che hanno assicurato alla conoscenza e alla valorizzazione della realtà calabrese nei suoi aspetti culturali, artistici e sociali.
A partire dalle prossime settimane saranno ricordati, tra gli altri, il poeta Franco Dionesalvi, l’attore e regista teatrale Antonello Antonante, e i giornalisti Raffaele Nigro, caporedattore della sede cosentina del quotidiano “Gazzetta del Sud”, ed Enzo Costabile, collaboratore della stessa testata, capo ufficio stampa della Provincia di Cosenza e autore di numerosi testi.
Quando Empio Malara progettò la città di Rende la immaginò come una realtà urbana dove la modernità non avrebbe dovuto snaturare il senso dell’abitare i luoghi. Da questo punto di vista Rende si contrappose subito alla vicinissima Cosenza, cresciuta disordinatamente, senza un piano regolatore organico, preda della furia edilizia della metà degli anni sessanta.
Cecchino e Sandro Principe
Il Principato
Rende invece era ordinata, strade larghe, viali alberati, spazi comuni, asili che sembravano venuti da paesi scandinavi, servizi che promettevano di essere efficienti. Dietro quel progetto urbanistico, come sempre accade, c’era una visione politica, la pretesa di realizzare, per la prima volta in Calabria, una città a misura delle persone. L’artefice di quella visione fu Francesco Principe, socialista arcaico eppure moderno, eternamente sindaco di Rende per poi passare lo scettro al figlio Sandro, entrambi capaci per molti anni di influenzare le scelte politiche calabresi. Furono moltissimi i cosentini che dagli anni settanta in poi cedettero alla tentazione di trasferirsi oltre il Campagnano, confine immaginario e amministrativo tra le due entità urbane, in realtà cresciute una accanto all’altra senza soluzione di continuità. I prezzi bassi degli appartamenti, l’apparente maggiore vivibilità degli spazi, furono un’attrattiva per un gran numero di cosentini, per lo più piccola borghesia impiegatizia, che cercava casa.
L’Università della Calabria
Dormitori, Unical e Legnochimica
Cosenza si svuotava, perdendo residenti, ma Rende si riempiva solo di notte: per moltissimi anni i suoi quartieri ebbero il destino di restare dormitori. La bella città progettata da Malara non riuscì ad avere un’anima propria per tanto tempo, le piazze, gli slarghi, progettati come luoghi di incontro, rimasero non luoghi, spazi vuoti, perché per costruire l’identità di una città ci vuole tempo.
Nemmeno l’arrivo dell’università riuscì a mutare il destino dei quartieri rendesi, ma portò nuova ricchezza al territorio, che conobbe un ulteriore impulso edilizio. Intere aree sorsero per dare ospitalità agli studenti fuorisede, alimentando un giro d’affari costruito sui fitti in nero. Chiunque in quegli anni ne abbia avuto la possibilità, ha acquistato uno o più appartamenti, spingendo la domanda di nuove case e immaginando proficui investimenti. Oggi Rende è probabilmente la città con il più alto numero di case rispetto ai residenti. Sul piano economico Rende si proponeva anche come attrattore di imprese, con un’area industriale piena di capannoni, ma anche con la mefitica Legnochimica, problema ancora irrisolto.
La sedicente Crati Valley
E mentre Cosenza restava ostinatamente ancorata al settore terziario, Rende coglieva l’opportunità della modernità ospitando le imprese della così detta Crati Valley, guizzi di futuro fatti di ricerca applicata, informatica, servizi avanzati, oggi per lo più arenati come balene spiaggiate. A guidare la crescita urbanistica e sociale di Rende è stata la famiglia Principe, al timone della città per un tempo così lungo da poter essere tranquillamente scambiata per una monarchia ereditaria. Nelle rare occasioni in cui a guidare il comune non era un Principe, il sindaco eletto era certamente riconducibile all’influenza della loro famiglia.
L’antagonismo con Mancini
Un successo lunghissimo che si è basato certamente su un consenso autentico, ma non meno su un potere radicato e diffuso: sia il patriarca Francesco che il figlio Sandro, hanno avuto nel tempo ruoli importanti in vari governi nazionali. Il conflitto campanilistico tra il capoluogo e la città di Rende era costruito anche sull’antagonismo politico tra i Principe e Mancini e a quei tempi l’ipotesi di una città unica è presente ma sotto forma di fantasma, un’idea che non sta tra le cose davvero probabili, ma di cui si parla. Gradualmente quell’idea cominciò a circolare restando però ben circoscritta nell’ambito della teoria, anche se non mancarono gli esercizi di fantasia sul nome, come l’ipotesi di chiamarla Co.Re. Ogni tanto la si faceva uscire dal cassetto, sempre senza eccessiva convinzione, fino a quando non divenne tema politico sempre più attuale allorchè accadde quel che non sembrava possibile: Sandro Principe venne sconfitto da Marcello Manna alle elezioni amministrative del 2014.
Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)
Un Comune sciolto per mafia
Non era solo il declino di una lunghissima egemonia, che già aveva dato segni di cedimento, era l’inizio di una nuova era che si sarebbe conclusa con l’onta dello scioglimento del comune per infiltrazione mafiosa. Ma all’inizio della prima consiliatura di Manna questo evento non era ancora prevedibile e Rende si candidava sempre più fortemente come antagonista del capoluogo. I suoi quartieri non sono più dormitori, la città ha lentamente costruito la propria anima. Cresce il dibattito sulla collocazione del nuovo ospedale, che Manna vorrebbe accanto all’Unical, mentre Occhiuto sulle colline di Muoio Piccolo e con fiammate sempre più frequenti si apre il dibattito sulla città unica, dove Rende spinge per un ruolo di maggiore protagonismo rispetto a Cosenza che è azzoppata da un bilancio pieno zeppo di debiti.
Titoli di coda
Le disavventure giudiziarie del sindaco Manna sono solo una lunga agonia che porta Rende all’ignominiosa conclusione, che poteva essere risparmiata se chi guidava la città si fosse per tempo arreso all’inevitabile. Oggi l’idea della città unica ha un nuovo convitato al dibattito, ed è proprio l’inglorioso finale di una città che voleva essere moderna e che si è svegliata prigioniera a rimescolare le carte, spostando non solo nel tempo l’eventuale realizzazione del progetto, ma anche mutando equilibri di potere ed egemonie. È come se la carta lucida su cui Malara aveva disegnato l’idea di una città nuova che doveva essere Rende fosse stata strappata con violenza e di questo non c’è nessuno che possa riderne.
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