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  • Ragazzi di Paola

    Ragazzi di Paola

    Appartengo a una generazione di sognatori donchisciotteschi che desiderava un altro mondo e ha visto peggiorare e incancrenire solo quello che aveva davanti. Ognuno di noi ha diritto alla propria nostalgia. Io la vivo però ancora come una lotta, come un duello, una sfida ostinata al presente, alla sua dittatura. Perciò qualche volta preferisco voltarmi indietro. Ma ci sto attento. Non amo impantanarmi nei rimpianti e non mi va proprio di cadere nella trappola nostalgica che ti allontana dalla verità e ti fa disattendere la prova più dura, quella che ti prepara la realtà che ti cade addosso, unica e finale, un giorno dopo l’altro.

    Don Chisciotte e Sancho Panza

    Troppo spesso in questi ultimi anni vissuti in Calabria, tra andate e ritorni, ho visto levarsi solo un deserto arido e informe, senza più paese, senza più memoria. Quando sto per qualche tempo fermo a rimuginare, è il luogo che prende il sopravvento. Ma il luogo di oggi, quello in cui vivo, che per me non è più Paola. Quasi non ci torno più a Paola. Ormai quello che era il mio paese, è un ibrido dei nostri tempi, decomposto e senza bellezza, retorico e scarso di relazioni, dove si vive la «collettività senza festa» e si soffre la «solitudine senza l’isolamento». Questo è il mondo che ci rimastica la vita, questa è la consegna di futuro che abbiamo preparato per i figli. Ora ci sono altri ragazzi di Paola. Qualche volta li osservo. Mi ci rivedo, anche se sono così strani e così lontani, così induriti e definitivi rispetto a quello che ero io nei miei tempi di esitanti incertezze e metamorfosi. Ma mi sento, e forse sono ancora, come i ragazzi di Paola; quelli di adesso però. Anch’io vivo sull’orlo di una terra di nessuno dove è sempre più facile perdersi, liquefare il proprio essere, scoppiare continuamente in singhiozzi, fare e farsi del male, persino morire di noia. Finché non si resta nuovamente soli. Come “I ragazzi di Paola”.

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    Enzo Siciliano

    Questo racconto nasceva nel 2003 da un progetto narrativo di Enzo Siciliano. Siciliano, allora direttore di Nuovi Argomenti, aveva voluto un mio racconto, che fu intitolato «I ragazzi di Paola», per Italville, l’antologia di «nuovi italiani narratori sul Paese che cambia», pubblicata in un numero monografico della rivista Nuovi Argomenti e uscita per Mondadori nel corso dello stesso anno 2004. Era una silloge, con uno scrittore e un racconto per ogni regione del Paese (un giro d’Italia nella quale erano presenti giovani scrittori allora agli esordi come R. Saviano, M. Desiati, D. Bregola, A. Piperno, V. Parrella, M. Signorini , F. Pacifico, e altri) che Enzo Siciliano volle e ispirò come piloti per un viaggio dal vero, una specie di rotazione infernale attraverso i luoghi della provincia profonda nelle regioni dell’Italia di adesso. La scelta di Siciliano per la Calabria cadde su di me. Credo sia accaduto anche perché ero calabrese e perché scrivevo già cose da “eretico”, come Rocco Carbone (anche lui a quel tempo a Nuovi Argomenti), e storie di una Calabria obliqua, come piaceva a lui, a Siciliano. Un giovane (allora) antropologo calabrese, orgoglioso e ruvido, temprato a resistere agli antipodi, con la follia di un certo stile. «Ma tu come fai a restare, a resistere?», Enzo me lo chiedeva sempre alla fine delle nostre lunghe chiacchierate. Ma la risposta la sapeva, era la stessa che forse avrebbe dato lui al posto mio. Come me e diversamente da me, Enzo era innamorato di un Sud e di una Calabria irrisolta e proteiforme, sordida e bella a dispetto di ogni retorica meridionalistica. Chiedeva sempre: di questa Calabria sconnessa, sbranata dal suo vitalismo scellerato, di questo mondo di provincia eccentrico e disperato in cui si rappresentano l’incoscienza del presente e forse una voglia maligna di offendere, distruggere e negare tutto ciò che è stato e non si comprende più. Il grado zero di una modernità in cui tutto è contemporaneo, colorato, imputtanito, adulterato, travestito, violento, contaminato, feroce e sottosopra. Un crogiolo di fatti, cose e persone ineffabilmente complesso, e pure sorprendentemente nuovo e vitale; un anticipo di non si sa quali destini planetari futuri, dovrei dire col gergo debolmente profetico del mio mestiere di antropologo. Per lui, Siciliano, la Calabria era sua prima frontiera, un punto di origine, un confine lontano e ormai sorpassato. Per me a distanza di anni invece è ancora resta quello stesso geroglifico, un senso che sfugge e accompagna la strada dei miei giorni. È rimasta lì la mia linea d’ombra.

    ***

    Non si ritrovano davanti alla piazza più grande. Quella antica con la fontana monumentale, dietro il fòrnice della bella porta barocca. Appena oltre il grande arco di tufo col baldacchino e la statua seicentesca di San Francesco di Paola. L’angolo di centro storico più bello e risparmiato, frequentato di tradizione da tutti gli altri ragazzi del paese. Il posto da sempre di quelli un po’ più giusti e garantiti, dei figli di gente bennata, i professionisti e la classe media del posto. Loro no. Non appartengono a quello spazio. E quello spazio non appartiene a loro. Oltre la porta non mettono mai piede. Il loro spazio è dalla parte opposta, sull’altro margine. Un posto di riflusso sul bordo del paese. Gli altri ragazzi di Paola sembrano piuttosto provenire da un punto remoto e senza origine. Come le loro facce. Facce indurite come da una vernice scialba. Facce di adolescenti con alle spalle vite ordinarie e appena decenti. Figli di gente comune. Diverse però dalle facce dei padri e delle madri somiglianti con una pienezza plastica e persino scontata a quelle dei nonni, replicate nella catena del sangue e dei gesti, delle abitudini e del dialetto di casa. Facce di appartenenza a una famiglia, a una casa, al quartiere e al paese, a uno scopo che ne dichiara la vita. Eppure, sono volti di adolescenti che si attirano l’un l’altro con innumerevoli sosia.

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    L’Arco di San Francesco di Paola (foto Wikipedia)

    Mi torna in mente che ragazzi e ragazze con sembianze e facce così ne ho già visti in tanti posti, in giro per il mondo, lontano da Paola. A Brixton, nei quartieri sudici per immigrati indiani e di colore, oppure nei recessi umidi e piatti dei quartieri senza nome della sterminata banlieue parigina. Facce simili per l’immatura durezza, solo un po’ più pallide e slavate di biondo, ne ho viste di recente anche a Budapest e a Praga, nei branchi di adolescenti sottoproletari radunati vicino a una caffetteria della catena Monoprix, vicino ai tetri quartieri di edilizia popolare, (i vecchi Block dell’era sovietica, che andando verso la periferia di Mozartova circondano l’immenso cubo di cristallo dell’Hotel Movempick). E anche a Genova tra i vicoli e le piazzette del quartiere del porto vecchio affollate dai ragazzi di famiglie meticce e dalle giovani prostitute colombiane, con i nuovi arrivati dall’altra sponda del Mediterraneo, sguardi più lesti e rappresi in una smorfia di pericolo, diventati in poco tempo i padroni abusivi dei vecchi quartieri-medina intorno alla Lanterna, pieni del loro caos malfidato e furfantesco.

    Paola è sempre stata un po’ anche la città delle Vespe

    La sera i ragazzi di Paola si ammucchiano tutti nello stesso posto, radunati dalla scia di casino e di fumi di scarico lasciati dietro sulle strade vuote del paese assieme con il latrato metallico dei loro motorini smarmittati. Le ragazze appiedate smanettano sui loro telefonini e bestemmiano feroci in attese nervose andando su e giù dai marciapiedi del Corso. Poco dopo essere stati richiamati coi telefonini qualcuno dei ragazzi con cui hanno in quel momento la storia arriva sparato con lo scooter, e sempre ringhiando e strappando brusco coi freni passa a caricarle in sella per il giro che apre la serata. Si ritrovano e non si contano, le compagnie cambiano sempre. Certi, a dispetto delle facce scipite di adolescenti, con i capelli rasati fino alla cotenna o le zazzere irsute schizzate di gel, le sigarette sempre accese, fanno sguardi minuscoli e malvagi. Poi passano la notte tirando tardi con le birre. Si spaccia e ci scambia un po’ di roba, si litiga per accaparrarsi le ragazze più facili con cui andare a ficcare nelle macchine sulle scarpate tra il lungomare e la ferrovia.

    E poi viene il bello. Ci si sfida. C’è sempre qualcuno pronto a fare la gara con il macchinario nuovo, col seconda-mano rifatto o col motorino truccato. La gara parte sempre da dietro una curva che imbocca la parte più alta del corso, poi si tira il gas al massimo, venendo giù per quasi un mezzo chilometro di rettifilo in discesa, fino a 100-120, con il motore a pieni giri fino al curvone della villa comunale. Solo allora si tirano i freni. Qualcuno ritarda, sbaglia la frenata e arriva lungo, sfasciandosi sul muretto del recinto. Qualche volta ci scappa anche il morto. La mattina si vedono per terra i cocci delle plastiche e i frammenti scoppiati dei fari. C’è un nuovo segno, una tacca sul muro.
    Chi resta ai tavoli al bar commenta le corse con animazione selvaggia e piglia parte alle gare. Ammirazione, emulazione, urla, fischi, spintoni e tifo da stadio. Non ci vuole molto a diventare eroi. Esultanza e grida per i motori spinti al massimo al passaggio dei bolidi truccati davanti al rettifilo del bar. Poi il corteo strombazzante del vincitore che rientra alla base. Qualche volta arrivano i carabinieri e sequestrano i mezzi, controllano i documenti a qualcuno.
    Tra di loro c’è anche chi sa già come maneggiare una pistola. Forse fa già il soldato in una delle cosche che controllano il paese e ha già sparato a qualcuno in un’imboscata. Dopo pochi giorni di tregua è tutto di nuovo punto e daccapo. Dopo la gara di solito la serata, una volta consumato e smaltito l’orgasmo motoristico, torna alla sua monotonia cupa e fredda.

    Vecchie cabine telefoniche

    I ragazzi sembrano improvvisamente ammansiti, spenti. Ogni sera si trovano lì, sempre, estate e inverno, una calamita, davanti al bar alla fine del corso. Sono 50, tra ragazzi e ragazze, 13, 14 anni fino a 22, 23 al massimo. Mai di meno. Mai più grandi. Dentro il locale disadorno e illuminato a giorno dai tubi, ci sono solo le tre cabine chiuse del vecchio posto pubblico della Telecom frequentato dagli extracomunitari arabi e dalle grasse badanti polacche o ucraine per telefonare a casa. In mezzo troneggia il frigorifero dei gelati industriali, a fianco il banco della mescita con le bottiglie semivuote degli alcolici. Fuori si riflette nel buio l’effetto della grande insegna screziata dai neon colorati di rosso, nero e giallo, che d’inverno, le saracinesche spalancate sotto la pioggia, si riverberano con un fatuo luccichio da discoteca sull’asfalto pieno di pozzanghere, mentre dentro i tubi fluorescenti si diffondono con un effetto lattiginoso sulla plastica dei tavolini vuoti.

    Il bar è là, dove lo stradone finisce in uno slargo polveroso, tra i palazzoni che spuntano davanti all’incrocio che sbocca sulla nazionale: il margine frastagliato del paese che dà verso la stazione e la marina trafficata. Un parcheggio per macchine e motorini piuttosto che una piazza. Una specie di frontiera labile e minacciata. Qui intorno tutto è anonimo, pieno di cascami, disadorno. Brutto, come tutto quello che si affaccia a giro di orizzonte intorno al covo di questi ragazzi. Le vecchie case basse e squadrate dei pensionati del quartiere ferroviario portati a spasso dalle tate ucraine, il tetro sarcofago di cemento armato del Tribunale Nuovo, e più in là i casermoni della marina e dei quartieri che si allungano disordinatamente sulla litoranea. Tutto senza un disegno, come sparso a casaccio, in un reticolo di antenne e parabole, tra case scorticate e mucchi di detriti, strade sterrate che si perdono in cantieri abusivi, cani randagi e lampioni rotti. Il morso del suburbio. Una periferia, si direbbe. Si, ma di cosa? Paola fa appena 17.216 abitanti. E Cosenza è nascosta dietro la costiera, a 30 km di superstrada. Non è mica una metropoli, Paola. Cittadina, si dice, con un vezzo amministrativo da anni Sessanta.

    Treno in partenza dalla stazione di Paola

    Qualcuno pretenderebbe di farne la sesta provincia della Calabria. Ridicolo. Sono povere illusioni agitate dalla malafede opportunista di qualche politicante scoppiato. Paola oggi è solo un vecchio paese afflitto e stanco, rassegnato da una storia oscura e stentata, sopraffatta da promesse tradite e da sconfitte secolari. Qui la gente sopravvive nella frangia opaca di un presente che non apre più al futuro. Lo scalo ferroviario ridimensionato movimenta ormai pochi treni, poche merci, e non c’è altro lavoro che non sia terziario rigonfiato e assistito: Asl, Ospedale, Comune, Tribunale, Comunità Montana, ferrovia, uffici. Vita sociale sempre più immiserita e degradata, amministrazioni che si susseguono sempre più mediocri e pretenziose. I politici sono professionisti pronti a tutto. I nuovi, peggio dei vecchi. I negozi chiudono a ripetizione. Affogati dai debiti e dal pizzo, rinunciano anche quelli che hanno aperto da poco, con le saracinesche che restano sbarrate e vuote sulle vetrine appena rimesse a nuovo. Il corso sta diventando un deserto. D’inverno alle 8 di sera non vi circola anima viva. Non c’è più un albergo in paese, neanche quello vicino alla stazione, trasformato da qualche anno in caserma di Polizia. Il turismo, la grande risorsa, si risolve nel rientro stagionale di qualche famiglia di emigrati e nel casino di una ventina di giorni tra luglio e agosto. Il grande cinema-teatro Odeon, altro dono della recente civilizzazione, sorto come risarcimento per la speculazione, ricavato sotto un enorme casamento di condomini e appartamenti anni ‘70, resta da anni inconsolabilmente vuoto e inutilizzato per gli spettacoli. Tra un po’ ne faranno un garage o un supermercato.

    E poi c’è la mafia. Il pizzo sui negozi, gli appalti, la droga. Si lavora alla luce del sole. Di notte si bruciano macchine per avvertimento. Ci si ammazza, di tanto in tanto, per strada. I regolamenti di conti avvengono appena fuori, sul nastro della Statale 18, davanti ai ristoranti a un solo piano con i finestroni di allumino anodizzato. Gli accoppamenti si succedono con regolarità liturgica all’uscita dalle grandi sale per banchetti nuziali che occhieggiano sulla strada, sporgendo improvvisamente dal buio con le insegne spropositate dei neon multicolori. La nuova moda araldica delle insegne si è imposta anche nei negozi e in paese. Qualcuno si è già fidato di intitolare la propria macelleria rimessa a nuovo, Pork House. Mentre un altro meno esterofilo non ha esitato a chiamare il proprio negozio di tappezzerie e tendaggi Tendazioni, giocando forse inconsapevolmente sull’inflessione marcata che deforma le parole italiane nel dialetto di casa. Questo spazio immemore e caotico cresciuto ai margini sfrangiati del paese, è diventato però la scena ideale per fissare in tragedia i passaggi fatali dei malavitosi in questa terra di nessuno dei quartieri nuovi sulla marina. È la frontiere mobile dove tutto accade.

    E il paese e lì, muto e impietrito. Le vecchie case di tufo a grappolo e le fitte palazzate del settecento corrusche, con balconi dalle imposte accecate da decenni di muffe, i terrazzi con le balaustre spezzate di tufo scolpito, i tetti di coppi e le facciate scorticate, le cupole delle sue chiese barocche con le squame colorate dei mattoni di Vietri incipriate dal sole del tramonto occidentale che si spalanca sul Tirreno. Paola sta lì in alto, una presenza incombente e ignorata. Come un resto. Un ammasso di vecchie pietre e muri pericolanti, che sopravvive appena sopra la testa di questi ragazzi dalle facce dure e inebetite che ogni sera vengono in processione col motorino dalle loro case dei quartieri nuovi dispersi sul bordo della marina. Migrano dagli alveari di case popolari costruite nella campagna abbandonata alla fretta edificatoria dell’INA Casa, ai geometri e agli speculatori di paese, alla buona volontà ignorante delle cooperative di ferrovieri, postali, telefonici e allo scempio ordinario delle case popolari dello IACP.
    Questi ragazzi del bar guardano sempre per terra e non si voltano indietro. E dietro e in alto c’è Paola. Il loro passato. Il paese. C’è solo il bar, la birra dei nuovi pub. La noia di ogni sera.

  • Nicola Serra, un big socialista per tre generazioni

    Nicola Serra, un big socialista per tre generazioni

    La dedica di una strada importante nel centro di Cosenza, il titolo altisonante (e un po’ vintage) di antifascista, ma soprattutto il ruolo di sottosegretario alla Marina nel governo Facta del 1922, pochissimo prima dell’inizio del Ventennio. Non male per un socialista come Nicola Serra, partito come politico “contro”, anche con una certa determinazione.
    Ma il “contro”, nel suo caso, vale fino a un certo punto: Serra è uno di quei notabili che, prima o poi, emergono. Il che non si può dire di altri omonimi del Nostro, notabili o non.
    Ad esempio, non si può dire per Antonio Serra, studioso cosentino d’età barocca e padre dell’economia moderna, che muore in carcere, a dispetto di meriti non proprio leggeri. Né di un altro Nicola Serra, un giovane partigiano ligure morto di stenti a Mauthausen nel 1944.
    Ma torniamo al Serra sottosegretario e, soprattutto, alla sua Cosenza.

    Nicola Serra: un notabile tra due secoli

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    Nicola Serra

    Nicola Serra è un esponente tipico dell’alta borghesia postunitaria. Nasce a Cosenza il 24 maggio 1867, quindi a distanza di sicurezza dal Risorgimento e dalla sua forte carica retorica.
    Questo aspetto anagrafico non è proprio secondario: consente a lui e ai suoi coetanei una visione critica della vecchia guardia.
    Serra, figlio di Gaetano e di Vincenza Carbone, proviene da una famiglia benestante. E segue il percorso di vita tipico della classe sociale di appartenenza (o, se si preferisce, dei figli di papà): frequenta il Liceo Telesio, dove ha per compagni di classe Luigi Fera e Pasquale Rossi. Una volta conseguita la maturità, prende la laurea in Giurisprudenza a Napoli: l’ideale biglietto da visita per il notabilato cittadino.
    Infatti, prima ancora che in politica, si fa notare soprattutto nel foro, di cui diventa subito un big.

    La passione socialista

    Un altro segno di appartenenza al notabilato cosentino è l’orientamento politico, quasi sempre rigorosamente a sinistra.
    E Nicola Serra non se ne priva: infatti è un socialista convinto. A fine 1892 fonda, assieme a Pasquale Rossi il primo circolo socialista di Cosenza. E scalda i motori in vista del primo appuntamento politico importante: le Amministrative cittadine del 1893.
    Proprio per preparare il terreno, Serra, dà vita – assieme a Rossi, a Luigi Caputo e a Domenico Le Pera – a Il Domani, un settimanale di cultura e propaganda socialista.
    Ma né il circolo né il giornale riescono a darsi una linea precisa ed entrambi durano poco. Va meglio alle elezioni, dove l’avvocato prende 423 voti e risulta il quarto degli eletti: non male in una città che ha poco più di 15mila abitanti e vota poco meno della metà dei maschi maggiorenni. Il successo elettorale galvanizza i socialisti, che ricostituiscono il circolo e provano a fare un altro giornale, senza riuscirci.
    Ma non per colpa loro: i socialisti cosentini sono un gruppo di élite che pesca consensi, ma non sono radicati nella città. In più, subiscono le pressioni e le repressioni del governo, guidato dall’ex garibaldino ed ex repubblicano Francesco Crispi, che dà un giro di vite proprio agli ambienti socialisti.
    Quale migliore occasione per cacciarsi in un guaio, per fortuna non grosso?

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    Francesco Crispi

    La prima condanna e le seconde elezioni

    A rileggerle col senno del poi, certe disavventure giudiziarie sembrano incidenti creati apposta per ottenere l’aureola del martire.
    È il caso di Humanitas, il giornale socialista fondato dall’agitatore roglianese Giovanni Domanico, forse la testa più calda dei socialisti cosentini.
    Domanico, figlio di un grosso proprietario terriero, è abituato agli incidenti e alle manette. Ma non si può dire la stessa cosa di Serra, che inizia a collaborare a Humanitas nel 1894, assieme ai soliti Rossi e Caputo e a Luigi Milelli, e il primo aprile di quell’anno firma un manifesto in cui rivendica con orgoglio la propria militanza socialista.
    La provocazione funziona sin troppo: Serra finisce sotto processo e si becca una condanna per aver violato le norme di pubblica sicurezza imposte dal governo crispino.
    Forte di questa “medaglia”, stringe un accordo politico col notabile amanteano Roberto Mirabelli e si candida nella sua lista per le Amministrative del 1895.
    Prende 945 voti e rientra in Consiglio comunale assieme a Rossi. Ma le polemiche sono dietro l’angolo.

    Nicola Serra e i compagni col grembiule

    La candidatura di Mirabelli è il prodotto di una resa dei conti interna alla loggia “Bruzia-De Roberto” del Grande Oriente d’Italia, che entra in guerra contro Luigi Miceli, notabile longobardese della sinistra storica e parlamentare di lungo corso.
    A dire il vero, all’epoca negli ambienti socialisti la massoneria non è così malvista. Ad esempio, Pasquale Rossi è iscritto al Goi.
    Ma c’è chi polemizza con le scelte di Rossi e Serra. Ne è un esempio la lettera anonima pubblicata dal periodico La Vigilia, in cui l’avvocato è accusato di voler sacrificare il gruppo socialista alle proprie ambizioni. Il circolo cosentino reagisce compatto, ma la polemica sortisce comunque un suo risultato: Rossi lascia la carica di assessore comunale dopo pochi mesi.
    Tuttavia, la rielezione spiana la strada a Serra in un’altra importante istituzione cittadina: l’Accademia Cosentina, di cui l’avvocato diventa socio corrispondente nel dicembre 1895 e socio ordinario pochi mesi dopo.

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    Pasquale Rossi

    Nicola Serra in crisi col Psi

    Risalgono al 1897 le prime avvisaglie della crisi dei socialisti cosentini. Infatti, Crispi ritorna al potere e riprende le sue abituali repressioni, che polverizzano il circolo cosentino.
    Ma pure nel resto della provincia le cose non vanno benissimo, perché Giovanni Domanico subisce un’accusa infamante almeno a livello politico: sarebbe stato, nientemeno, che un confidente della polizia.
    Nicola Serra si ritrova nel mezzo della polemica. Prima, per amore di partito sostiene la candidatura di Domanico nel collegio di Rogliano alle Politiche del 21 marzo 1897. Poi, a dicembre dello stesso anno, fa parte del collegio di probiviri che espelle Domanico dal Psi.
    Il resto sono colpi di coda: nel 1899 Serra ricostituisce assieme a Rossi e a Luigi Aloe, il circolo cosentino. Poi si candida alle Amministrative del 1900 e risulta eletto assieme al solito Rossi, al giornalista Antonio Chiappetta, ad Aurelio Tocci e ad Aloe. Ma la giunta cade poco meno di un anno dopo e la città rivà alle elezioni.
    Stavolta Serra non ce la fa. Ma, forte del ruolo acquisito nel notabilato locale, cambia partito e se ne va coi radicali.

    Un notabile di sinistra

    A questo punto, è doverosa una riflessione sul ruolo di Nicola Serra nel notabilato (non solo) cosentino. Giusto per capire come certi rapporti sociali superano da sempre le appartenenze politiche.
    Un primo rapporto forte è con gli esponenti di punta della massoneria cosentina. Ci si riferisce, in particolare, a Luigi Fera, parlamentare di lungo corso nel Partito radicale e poi ministro giolittiano, e a Oreste Dito, storico e maestro venerabile della loggia Bruzia-De Roberto. Serra, nel 1898 fonda assieme ai due big in grembiule la rivista Cosenza Laica, con cui polemizza contro gli ambienti cattolici cittadini.
    Anche i legami familiari hanno il loro peso: nel 1906 Serra sposa Maria La Costa, baronessa di Malvito. Dal matrimonio nasce Lydia, che diventa la prima avvocata calabrese.

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    Lydia Toraldo Serra

    Nicola Serra e i legami coi cattolici

    Dopo essersi laureata a 23 anni a Napoli, Lydia lavora assiduamente nello studio paterno. Ha come collega un altro praticante di talento: Gennaro Cassiani, il classico ragazzo di belle speranze. Originario di Spezzano Albanese, Cassiani è nipote per parte di madre di Ambrogio Arabia, un altro principe del foro. Di orientamento cattolico-popolare, Arabia diventa sindaco di Cosenza nel 1913.
    Per Gennaro è solo questione di tempo: nel dopoguerra è uno dei primi deputati Dc e diventa sottosegretario e ministro a più riprese.
    Torniamo a Lydia, che è l’altro tassello dei legami tra Serra e il mondo cattolico. Nel 1933 la giovane avvocata sposa un altro promettente cattolico: Pasquale Toraldo, ingegnere e marchese di Tropea. Lydia segue il marito nella cittadina vibonese, dove viene ben accolta. Al punto di diventare, nell’aprile ’46, sindaca di Tropea in quota Dc.
    È la seconda sindaca della Calabria. La batte di un mese Ines Nervi Carratelli, prima cittadina di San Pietro in Amantea.

    Nicola Serra parlamentare e poi ministro

    Chi cambia partito trova un tesoro. Nicola Serra, diventato nel frattempo anche vicepresidente dell’Accademia Cosentina (1906), si candida alla Camera nel 1909.
    Il risultato non è male: 964 voti al primo turno e 1.883 al secondo. Ma non bastano e l’appuntamento è rinviato.
    Per la precisione, al 1913, quando l’avvocato prende 5.497 preferenze e diventa deputato col Partito radicale.
    Ci riprova nel 1919 e prende più voti: 5.686, che tuttavia non gli bastano per il bis. Il quale arriva due anni dopo, quando cambia collegio (non più Cosenza ma Catanzaro) e lista (l’Unione nazionale democratica, di ispirazione giolittiana), prende 19.660 voti e partecipa da “governativo” ai lavori dell’ultimo Parlamento dell’età liberale.
    Chiude la carriera come sottosegretario alla Marina mercantile nel secondo governo Facta. La sua parabola politica finisce qui.
    Già: i fascisti decidono di non aver bisogno di Serra e non lo includono nel listone coi liberali.

    Gennaro Cassiani

    Interludio: la strage di Firmo

    È il 29 gennaio 1923. Siamo a Firmo, paese arbëreshe dell’entroterra cosentino.
    Un’antica rivalità divide due gruppi di famiglie. Il primo, guidato dal sindaco e segretario del fascio Celeste Frascino, è composto da ceti emergenti, che hanno trovato nel fascismo un notevole ascensore sociale. Il secondo, invece, è composto da alcuni notabili, che – da abitudine cosentina – militano a sinistra o addirittura nel Psi.
    Tra questi due gruppi il sangue è cattivissimo e i malumori sono esasperati dalla contrapposizione fascismo-antifascismo, che sfocia in provocazioni e atti di violenza continui. Il 29 gennaio Frascino provoca di brutto l’appaltatore Angelo Feraco, che per tutta risposta gli dà un pugno in faccia e fugge.
    Il sindaco lo raggiunge, afferra la pistola e spara. Ferisce Feraco e Raffaele Lo Tufo, un contadino che passa per caso. E uccide Domenico Gramazio, un ufficiale in pensione, arrivato sul posto per aiutare Feraco.
    Da questo fattaccio scaturisce un processo durissimo, che termina con la condanna di Frascino. Tra gli accusatori, nel ruolo di avvocato di parte civile, c’è Nicola Serra.

    Nicola Serra e il fascismo

    Serra va giù durissimo, nel processo contro Frascino e accusa direttamente il fascismo che, a suo giudizio, è responsabile del clima di violenza diffuso.
    In realtà, il fascismo, subito dopo la presa del potere, inizia a scaricare i vari Frascino e tenta la pesca nel notabilato di età liberale. Chi non si espone, è cooptato e prosegue la carriera, come il deputato liberale Tommaso Arnoni, che diventa podestà di Cosenza.
    I notabili che si sono esposti, invece, finiscono sostanzialmente nel freezer. Di solito, perdono gli incarichi pubblici ma non i ruoli professionali né il prestigio sociale. È quel che capita a Serra, che continua la carriera da avvocato ma perde il ruolo di presidente dell’Accademia Cosentina.
    Tuttavia, questo notabilato riemerge nel secondo dopoguerra, spesso grazie alla mediazione della Dc, che recupera una buona fetta della classe dirigente liberale, e la fa coesistere con gli antifascisti ma anche coi fascisti meno compromessi.
    Nicola Serra non partecipa a questo recupero solo per raggiunti limiti di età.

    Luigi Facta

    Una celebrazione particolare

    Inizialmente duro col regime, Serra modera i toni. Ma comunque non cerca cariche né tessere.
    Muore a Cosenza il 22 aprile 1950 all’età importante di 83 anni.
    Quattro giorni dopo, lo ricordano in una seduta alla Camera Fausto Gullo, Gennaro Cassiani e Adolfo Quintieri, altro astro nascente della Dc cosentina.
    Classe 1887, Quintieri proviene dal mondo dell’associazionismo cattolico. Non è antifascista, ma a-fascista e, tranne per il solito giro di parentele che ammorbidisce tutto, non ha legami sostanziali con la classe dirigente liberale di cui fa parte Serra.
    Con l’ascesa di questa nuova dirigenza (e la contemporanea estinzione anagrafica di quella precedente) la politica, anche calabrese, volta pagina.
    Ma questa è un’altra storia.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • «La follia greca si muove tra i miei libri»

    «La follia greca si muove tra i miei libri»

    Ho conosciuto Giuseppe Aloe qualche anno fa a Rossano. A cena con amici comuni si parlava ancora di libri e di Celine. Lo scrittore di origini cosentine ha lasciato il bicchiere di birra e recitato a memoria la prima pagina o poco più di Morte a credito. Tornare ai classici, ecco. Un buon modo per ribadire il concetto in una Calabria che scrive tanto e legge poco. Aloe non è proprio d’accordo con queste classifiche. Ne parlo con lui. Mi racconta del suo ultimo libro, Le cose di prima (edito da Rubbettino), e non solo, in una villa vecchia che cerca in tutti i modi di attutire l’estate infernale di questi ultimi giorni a Cosenza. Tra i suoi romanzi compaiono titoli come La logica del desiderio (finalista al Premio Strega), Ieri sera ha chiamato Claire Morin, Lettere alla moglie di Hagenbach.

    Giuseppe Aloe a Cosenza per la presentazione del suo libro “Le cose di prima”
    Le cose di prima? Perché questo titolo?

    «È un’espressione dell’Apocalisse di Giovanni. Le cose di prima sono finite perché nella sua visione è arrivato Dio. Io l’ho reso in un senso quasi interrogativo. Ma le cose di prima sono davvero finite? È un libro che si pone questa domanda. È possibile che siano finiti i momenti più drammatici dell’adolescenza? Siamo sicuri che non abbiano lasciato nulla nella nostra vita?».

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    La copertina dell’ultimo libro di Giuseppe Aloe
    Come nasce questo suo ultimo libro?

    «Era da tempo che ragionavo sul concetto di adolescenza. Un giorno a Milano sono andato al funerale di un compagno di scuola di mio figlio, un ragazzo che si è suicidato a 19 anni in carcere. E il prete ha letto questo passo dell’Apocalisse di Giovanni. “Le pene, l’infelicità, sono passate”. Questa frase mi ha instantaneamente procurato una visione. In quel momento ho avuto chiara l’intera trama del romanzo. Tranne il finale. È arrivato dopo. Il materiale c’era già nella testa. Mancava lo spunto».

    Cosa c’è dietro il processo creativo che dà vita a un romanzo?

    «Nella mia testa ci sono delle idee di romanzo. Che non vanno a compimento. Quando c’è un clic e riesco a trovare il bandolo della matassa in venti giorni lo finisco. Dal primo all’ultimo capitolo. Una discesa libera. È il mio metodo di lavoro».

    Una traccia che lega la Logica del Desiderio a questa sua ultima fatica letteraria?

    «Tutti i miei libri hanno una costante. Nella vita di ciascuno di noi quando la ragione perde il suo status, lascia spazio alla follia. E cosa accade? I miei sette romanzi sono sulla follia. Chiaramente intesa in senso greco, la manìa che ci governa. Che era degli indovini, dei poeti e degli innamorati. La follia del dolore, dell’amore come nella Logica del desiderio, la follia dell’infanzia, della vecchiaia, dell’ingiustizia. Nelle Cose di prima la follia dell’adolescenza».

    Cinque libri o autori da portare sull’Arca con lei?

    «Il vocabolario della lingua italiana. Poi Kafka, L’altro processo di Canetti, Molloy di Samuel Becket, alcuni racconti di Carver, Musica per Camaleonti di Truman Capote. E italiani? Lo Zibaldone dei pensieri di Leopardi. Summa che anticipa Nietzsche. Un libro fondamentale ma poco studiato e tradotto».

    Ma questa storia della Calabria fanalino di coda nelle classifiche di lettura ha un po’ rotto le scatole?

    «Queste classifiche non controllano quanti libri vengono letti ma quanti ne sono venduti. Cosa bene diversa. Questo genere di classifiche sono apparenti, non hanno alcuna sostanza.
    Quando vieni in Calabria dovresti parlare con le persone e ti rendi conto del livello culturale di questa regione. Vado in giro e trovo sempre gente molto colta e preparata. Come è possibile se in Calabria non legge nessuno? Non è vero. Io vivo a Milano. La stragrande maggioranza dei milanesi è incolta. Però Milano è la capitale culturale d’Italia. Dovremmo fare degli studi non sulle vendite ma sulla capacità di apprendimento».

    Il futuro sarà Chat Gpt oppure c’è speranza?

    «Il problema non è chatGpt ma gli editor, i corsi di scrittura creativa. In alcuni ambiti editoriali i romanzi sono molto simili. Libri standardizzati. Esci da una scuola di scrittura e applichi quello che hai imparato. Lo stesso faranno gli altri studenti. La letteratura deve superare se stessa, non deve indovinare i giorni di dolore. Quando tuo nonno ti picchiava, tuo padre ti trattava male. Basta! Così non si va avanti».

    In Calabria scrivono in tanti, però?

    «Sì, ci sono tante persone che corrono. Ma non sono Marcell Jacobs. È la stessa cosa. Tutti possono scrivere, ma per arrivare alle Olimpiadi serve qualcosa dietro. Una vita passata sui libri. Studiare, leggere e avere il senso della scrittura. Altrimenti si possono fare esercizi lirici o meno. Che non sono scrittura ma allenamenti della tua vita».

    La sede dell’Accademia Cosentina

    Cosenza Atene delle Calabrie? Lei che ne pensa?
    «C’è un impoverimento culturale della città e non solo. Abito a Cosenza vecchia. Si vede che è instabile, eppure è un patrimonio culturale non solo della nostra città. Nessuna amministrazione è stata in grado di risollevarla. Ma quando vengo a Cosenza, non posso negarlo, trovo sempre un buon livello culturale».

    Cosa rappresenta per lei il richiamo di Africo, l’appuntamento annuale sotto il grande albero pensato da Gioacchino Criaco?

    «Gioacchino è un mio amico come Mimmo Gangemi e Domenico Dara. L’appuntamento di Africo rappresenta il ripensare a chi sei, quale è il tuo posto nel mondo. Abito a Milano ma mi sento profondamente calabrese. Radicato alla mia terra. I tedeschi hanno la parola Heimat. Cosenza e la Calabria sono la mia. E Africo è una madre che ti richiama e ti rimprovera perché non stai pensando troppo alla tua Heimat».

    Ma Lettere alla moglie di Hagenbach è un libro mitteleuropeo, di calabrese nemmeno l’ombra.

    «Il respiro è Mitteleuropeo, Da Praga a Vienna, a Berlino, Lubecca. Ma il dolore che c’è nelle mie storie è quello che ho vissuto al Sud. Quella striscia di dolore che tutti abbiamo conosciuto e che non ti abbandona mai».

  • Fondazione Giuliani: il Tribunale dà ragione al Cda

    Fondazione Giuliani: il Tribunale dà ragione al Cda

    Riceviamo e pubblichiamo:

    *****

    Con provvedimento pubblicato oggi, 19 luglio 2023, la XVI sezione civile Imprese del Tribunale di Roma ha respinto il ricorso presentato nei mesi scorsi dall’ex presidente, Francesco Pellegrini, con cui aveva chiesto di sospendere la delibera del 17 giugno 2022 di costituzione del nuovo Consiglio di Amministrazione della Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” ETS, dopo le dimissioni dei precedenti consiglieri dovute al manifestarsi di insanabili divergenze sulla inefficiente modalità di gestione delle attività istituzionali e risorse da parte dell’ex presidente.

    Il provvedimento, per la sua chiarezza e completezza, non necessita di specificazioni o integrazioni di qualunque natura.
    È doveroso però evidenziare che il Tribunale di Roma, recependo integralmente le ragioni sostenute dal Cda in carica – presieduto da Walter Pellegrini e composto dai consiglieri Giovanni Gambaro, Linda Catanese, Francesco Kostner e Mario Occhiuto – fa piazza pulita di chiacchiere, insinuazioni, ricostruzioni fantasiose, affermazioni azzardate e finanche offensive, apparse senza soluzione di continuità su alcuni mezzi di informazione.
    Così come ha fatto finora, con serenità e fiducia, la Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” attende che il Tribunale competente si pronunci ora in merito agli altri punti oggetto di contenzioso, anch’essi, al pari di quelli posti al vaglio del Tribunale di Roma, corroborati da documenti e atti inoppugnabili.

    La Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” continuerà ad operare affinché gli auspici del suo Fondatore, Sergio Giuliani, al quale rinnova la propria gratitudine, e gli obiettivi programmatici e gestionali posti a fondamento del suo operato, vengano raggiunti, nel superiore interesse della città e del territorio.

    Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” ETS

  • Pasquale Rossi: un medico dei poveri al servizio del socialismo

    Pasquale Rossi: un medico dei poveri al servizio del socialismo

    Medico per professione, studioso per vocazione, rivoluzionario per tradizione (familiare) e missione. Pasquale Rossi è una figura forte del panorama socialista, non solo calabrese, di fine ’800, grazie a una vita intensa, anche se non proprio avventurosa, divisa tra attività politica e produzione intellettuale.
    Cultore curioso e profondo di sociologia, può essere considerato una versione italiana di Gustave Le Bon, l’iniziatore degli studi sulla psicologia di massa.
    Peccato solo che Le Bon sia stato praticamente rimosso dalle riflessioni culturali (e politiche) contemporanee. Altrimenti Pasquale Rossi avrebbe avuto di più delle consuete dediche toponomastiche.

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    Pasquale Rossi

    Pasquale Rossi, la rivoluzione in famiglia

    La dedica per eccellenza è la strada che porta all’ingresso dell’autostrada di Cosenza: la mitica via Pasquale Rossi, che i più conoscono per essere obbligati ad attraversarla quando entrano in città o ne escono.
    Il Nostro nasce a Cosenza il 12 febbraio 1867. Il cognome è piuttosto comune, molto meno le tradizioni familiari.
    È il terzo dei quattro figli di Francesco, classe 1807 e avvocato di grido, e di Cornelia Via, possidente più giovane di 25 anni del marito, tra l’altro sposato in seconde nozze.
    I Rossi sono la classica famiglia altoborghese cosentina dell’epoca, per estrazione economica e culturale e per attitudini politiche.

    Pasquale Rossi sr: il nonno carbonaro di Tessano

    Anzi, la politica fa parte della storia di famiglia: Pasquale Rossi, il nonno e omonimo di Pasquale, è stato un cospiratore antiborbonico. Maestro venerabile della vendita carbonara (l’equivalente di una loggia massonica) di Dipignano, Pasquale senior aderisce alla Repubblica Napoletana del 1799. A questo punto, la sua vicenda si intreccia con quella di Vincenzo Federici, detto il Capobianco, rivoluzionario e carbonaro di Altilia, dapprima filofrancese e poi oppositore di Gioacchino Murat.
    Federici, che finisce al patibolo nel 1813, è un raro caso di un rivoluzionario giustiziato per eccesso di zelo liberale.
    Finita anche l’esperienza napoleonica, nonno Pasquale continua a cospirare, anche in maniera piuttosto seria: la sua ultima esperienza forte avviene nei moti costituzionali del biennio 1820-21. Questi cenni dovrebbero far capire il background socio-culturale di Pasquale: sinistra altoborghese ma non fighetta, caratterizzata da un certo amore per la cultura, merce sempre più rara nelle classi politiche calabresi.

    Maria de Medeiros interpreta Eleonora Fonseca Piementel, l’eroina della Repubblica Napoletana

    L’esordio telesiano di Pasquale Rossi

    Tappa obbligata della Cosenza bene (non solo) dell’epoca: il Liceo Telesio. Secondo una certa retorica cosentina dura non solo a morire, ma persino a star male, ci sarebbe una differenza tra i “telesiani” e tutti gli altri: i primi sarebbero dei predestinati, pronti a diventare classe dirigente, gli altri, anche se più bravi no.
    Oggi non è vero: per accorgersene basta un’occhiata, anche distratta, ai curricula della Cosenza-che-conta, non pochi dei quali risultano addirittura carenti di titoli. A fine ’800, invece, è più che vero: Pasquale Rossi si diploma nel 1885, assieme a due compagni di classe destinati a carriere importanti. Cioè Nicola Serra e Luigi Fera. E scusate se è poco.
    Sembra l’identikit di un leader della sinistra contemporanea: figlio di papà con storia familiare alle spalle, studi importanti e amicizie altolocate.
    Ma nel caso di Pasquale Rossi, la differenza vera la fanno altri fattori: l’impegno e la capacità.

    Laurea e primi guai a Napoli

    Anche l’iscrizione all’Università di Napoli e la scelta della Facoltà, Medicina e Chirurgia, confermano lo stile molto cosentino di Pasquale Rossi.
    Forse è cosentina anche la passione politica. Ma, soprattutto, la propensione ai guai.
    Il Nostro studia con profitto. Ma, nel tempo libero, segue anche delle lezioni extra facoltà. Ad esempio, quelle di Silvio Spaventa, filosofo, deputato ed ex ministro dei Lavori pubblici e zio di Benedetto Croce. Oppure quelle di Giovanni Bovio, filosofo, storico del diritto e deputato repubblicano.
    Giusto una curiosità per gli amanti della musica: Bovio è anche il papà di Libero Bovio, poeta e paroliere della grande canzone napoletana. Suoi i testi di superclassici come Guapparia, Reginella, Lacreme Napuletane, ’O paese d’o sole, ’O marenaro, Zappatore e Signorinella.

    Il filosofo e politico Silvio Spaventa

    Torniamo a Pasquale Rossi, che in quegli anni si occupa poco di musica e molto di politica. Proprio a Napoli, l’aspirante medico incontra il socialismo. Infatti, fonda due circoli politici, il primo di studenti repubblicani e socialisti, il secondo di socialisti e anarchici. Con un pizzico di Calabria in più: ci si riferisce al ferroviere di Fiumefreddo Bruzio Francesco Cacozza e al cosentino Antonio Rubinacci, tipografo e poi segretario della Camera del lavoro della sua città.
    Tanta passione porta i primi guai: nel 1891 finisce in manette e subisce una condanna per aver partecipato ai disordini del Primo Maggio. Ma questo disguido non gli impedisce di laurearsi l’anno successivo col massimo dei voti. E, da buon notabile, di tornare a Cosenza.

    Medico e socialista in prima fila

    C’è una differenza tra i figli di papà di allora e quelli odierni: per molti dei primi, il socialismo o l’ultra-sinistra erano cose serie, capaci di marchiare a fuoco tutta la vita.
    Così è stato per Pasquale Rossi, che, una volta rincasato, apre un ambulatorio medico per i poveri e fonda un circolo socialista a Cosenza.
    Per la precisione, è il secondo della provincia, perché il primato cosentino spetta a Celico, dove sorge un circolo nel 1892, praticamente a ridosso della nascita del Psi.
    Ma ciò non toglie nulla al ruolo di Rossi, che nel 1893 è delegato dei due circoli al congresso di Reggio Emilia e finisce sotto l’ala di Filippo Turati. A questo punto, il Nostro si lancia alla grande, sia come intellettuale sia come politico.

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    Il leader socialista Filippo Turati

    Giornali ed elezioni

    Appena tornato dall’Emilia, Pasquale Rossi lancia due testate giornalistiche: Il Domani, un settimanale pensato per spingere i socialisti nelle elezioni suppletive di luglio 1893, e Rassegna Socialista, un mensile di alto profilo cultural-ideologico.
    Più borderline l’attività politica vera e propria. Nel 1895 Rossi gestisce un’operazione delicatissima: l’appoggio alla candidatura alla Camera del repubblicano amanteano Roberto Mirabelli contro il longobardese Luigi Miceli, ex garibaldino e supernotabile della sinistra.
    L’operazione riesce, ma ha un prezzo: l’alleanza, per le Amministrative di Cosenza, con il blocco liberaldemocratico. Quest’altra operazione è, addirittura, mediata dalla massoneria cosentina, in guerra con Miceli.
    Ma l’alleanza è innaturale e Rossi si ritrova isolato. Diventa assessore comunale ma è costretto a scegliere: o il municipio o il partito. Infatti, si dimette.
    Ma ha ruoli di primo piano nei successivi congressi regionali socialisti: quello di Paola (1896) e quello di Catanzaro (1897), a cui partecipa addirittura il mitico Andrea Costa.

    Andrea Costa, il pioniere del socialismo italiano

    La psicologia delle folle

    Il Pasquale Rossi studioso lascia almeno un’opera importante: L’animo della folla (Cosenza, 1898), che riprende e aggiorna La psicologia delle folle (1895), il superclassico di Le Bon.
    Al riguardo, è doverosa una riflessione: il socialismo italiano della seconda metà dell’Ottocento ha poco idealismo e non (ancora) molto marxismo. In compenso, è zeppo di positivismo, che è la corrente culturale egemone, almeno fino all’avvento di Gentile e Croce. Questo mix di socialismo e positivismo è tipico della sinistra dell’epoca e, per fare un esempio, condiziona anche i big successivi, a partire da Gramsci (che, non a caso, si forma a Torino, la capitale del positivismo italiano).
    Tuttavia, questo socialismo ha due caratteri particolari. È più umanitario che militante, più dialogante che rigido. Soprattutto, è aperto allo studio dell’irrazionalità.
    Che è poi il nodo centrale della psicologia delle masse, che riguarda Le Bon e il suo allievo italiano, cioè Pasquale Rossi.
    Il problema di Le Bon nella successiva storia della cultura socialista, è essenzialmente uno: le sue riflessioni non hanno alcuno sbocco “progressista”, ma si prestano davvero a tutti gli usi. E non è un caso che proprio Le Bon abbia influenzato la metamorfosi intellettuale e politica di un altro socialista, destinato a ben altra carriera: Mussolini.
    Forse anche questi motivi stanno dietro alla “rimozione” dell’intellettuale parigino dal panorama culturale Novecentesco. Una guerra tra egemonie, insomma, che ovviamente travolge i pesci più piccoli, anche se di grande spessore. Come Rossi, appunto.

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    Gustave Lo Bon

    La morte prematura di Pasquale Rossi

    Dalla fine del XIX secolo, la parabola di Pasquale Rossi è condizionata da una domanda: dove sarebbe arrivato, se non fosse morto a soli 38 anni?
    Le premesse per fare ancora molto, per lui c’erano tutte. Nel 1898 subisce un doppio processo, a Portici e a Reggio Calabria, con un’accusa particolare: aver incitato all’odio sociale nella rivista Calabria Nuova, in cui commenta i moti di Milano e la pesantissima repressione. Il rischio è grande, ma il tipo di reato (d’opinione), è un gol per un socialista.
    Che in effetti ritenta il colpaccio: una candidatura alla Camera nel 1904, che va male per un soffio. Tra una cosa e l’altra, il medico cosentino, si sposa (1898) e diventa padre cinque volte.
    Poi la morte improvvisa, a Tessano, la frazione di Dipignano da cui proveniva la sua famiglia, il 23 febbraio 1905.
    Una brusca interruzione per una vita intensa e non sempre in linea con i canoni del notabilato.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Le Invasioni degli ultraflop

    Le Invasioni degli ultraflop

    C’era La Niña (e non solo) e cantava anche bene: tanto di cappello alla sua virata finale sull’acustico, scelta intelligente vista l’esiguità dei presenti.
    C’era pure la pinta: con 5 euro potevi prenderne una di birra fresca in una Villa vecchia con quasi più bagni chimici che avventori, a pochi metri da una pleonastica distesa di forze dell’ordine intente a controllare il deserto.
    Ma nemmeno la Santa Maria avrebbe potuto compiere il miracolo di riempire piazza XV marzo a Cosenza venerdì per la seconda serata del redivivo Festival delle Invasioni. Non c’era riuscita, d’altra parte, nemmeno la laica quanto magica parola capace di attrarre a tutte le latitudini masse da ogni dove: gratis.
    Conferma inequivocabile che Cosenza e l’arte vivono da tempo una relazione complicata.

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    Polizia stradale, provinciale, municipale, Carabinieri, Finanza e ambulanza alla Villa Vecchia di Cosenza per Invasioni

    Top of the flop

    Il “dramma della solitudine” si era consumato già la sera prima, con una diserzione di massa epocale: meno di 30 biglietti venduti e Rendano Arena – così avevano ribattezzato l’area ai piedi della statua di Telesio per l’occasione – che, complici le temperature, ricordava più il Sahara che un concerto in piazza. Un risultato per Cosenza paragonabile in altri ambiti solo a successi come il primo viaggio del Titanic o al Mineirazo ai Mondiali brasiliani del 2014.
    Così da Palazzo dei Bruzi avevano provato a mettere una pezza a poche ore dal probabile secondo, tragico, vuoto: niente più biglietto da pagare e ingresso libero come in tante edizioni del passato. Toppa tardiva e, secondo molti, peggiore del buco. Comunque di dubbia utilità: queste Invasioni a Cosenza avevano fatto storcere il naso prima ancora che cominciassero, tant’è che gli spettatori sono sì decuplicati rispetto alla sera prima, ma sempre 2-300 (poliziotti, infermieri e artisti inclusi) in tutto saranno stati i presenti nei momenti di piena.

    Il Comune di Cosenza: Invadete Invasioni!

    Il primo a temere il fiasco era stato, su queste stesse pagine, il consigliere comunale di Cosenza che più si era impegnato nell’organizzazione di queste Invasioni, Francesco Graziadio. Avvertiva «una certa diffidenza per i nomi non proprio conosciutissimi» nei giorni scorsi e non si sbagliava. Impossibile non notarlo lì in prima fila, la birra mezza vuota, appoggiato alle transenne con sguardo sconsolato.

    Attorno a lui nessun big dell’amministrazione, soltanto quei pochi cittadini che avevano risposto al disperato appello sui social del Comune di poche ore prima seguito al flop di giovedì sera: «Oggi è importante che sia la nostra città ad invadere il suo festival, riscoprendo non solo le avanguardie musicali presenti in cartellone, ma soprattutto facendo proprio un appuntamento che acquista il suo senso solo grazie alla presenza e alla partecipazione».

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    Francesco Graziadio ai piedi del palco durante il concerto de La Niña

    Tutta colpa del biglietto?

    L’appuntamento con l’acquisizione di senso al momento è rimandato al 2024, presenza e partecipazione hanno optato per altri programmi serali. In compenso, non mancherà il tempo per riflettere su una serie di errori da non ripetere in futuro.
    Non tanto quello di aver chiesto di pagare un biglietto (con l’immancabile codazzo di polemiche a riguardo): a Cosenza i ticket per Invasioni non sono una novità assoluta, sebbene la stragrande maggioranza delle venti edizioni precedenti siano state interamente gratuite.
    E forse nemmeno quello di aver puntato esclusivamente su nicchie musicali di indubbio valore per gli appassionati del genere, ma non certo calamite di folle oceaniche. I grandi nomi a Invasioni ci sono sempre stati, ma a Cosenza si sono esibiti anche artisti meno noti eppure capaci di attirare e conquistare lo stesso il pubblico. E quelli di quest’anno non avevano nulla da invidiare ad altri colleghi passati dal medesimo palco in precedenza.

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    I Ghetto Kumbè a Cosenza sul palco di Invasioni 2023

    Cosenza, tu chiamale se vuoi… Invasioni (ma erano altro)

    Il vero problema, probabilmente, è che le Invasioni – e non da questa edizione – sembrano sempre più solo un brand per Cosenza. Un’etichetta da appiccicare a un concerto estivo qualsiasi– che la musica sia alternativa o commerciale poco conta – convinti che solo di quello si tratti. E che basti solo quello perché vada tutto bene. Tra i pochi in piazza ieri erano in tanti a ripeterlo, un motivo ci sarà.
    Non c’entra la nostalgia, è proprio lo spirito del festival a essere ormai un fantasma. Era successo con Mario Occhiuto sindaco, seppur a piazze piene, tant’è che si era affrettato a richiamare Franco Dionesalvi nell’organizzazione nel tentativo di rimediare. E si è ripetuto anche stavolta sotto Franz Caruso.

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    La Niña si esibisce di fronte a quattro gatti

    Una volta il Festival delle Invasioni si protraeva per giorni, tra iniziative (non solo concerti) disseminate per Cosenza: l’arte, il confronto, l’incontro con culture differenti invadevano, appunto, la città, la contaminavano in positivo. Ora l’obiettivo – rispettabile, certo, ma non altrettanto nobile – pare sempre ridursi al far lavorare i commercianti attorno alla piazza e al dire «da noi ha suonato il celeberrimo Tizio o Caio» perché fa figo.

    Invasioni sui social? Brescia – Cosenza

    E poi c’è la questione della promozione. I nomi in cartellone sono usciti a pochi giorni dall’inizio del festival. Impossibile trovare al concerto qualcuno che confermasse di aver visto un manifesto sull’evento da qualche parte. Perfino sul palco non c’era il logo del Festival delle Invasioni, quasi quella serata a Cosenza vecchia non avesse nulla a che fare con la kermesse.

    Nemmeno una mezza foto su Instagram, sebbene servisse forse a poco, dato il numero di followers della pagina del Festival: 383. Poco più attiva la pagina Facebook/Meta: una decina di post dal 28 giugno a questo articolo, non esattamente un bombardamento mediatico. Twitter non pervenuto. Quanto a Tik Tok, se cerchi qualcosa su “Invasioni” e “Cosenza” trovi i video dei bresciani inferociti sul prato del Rigamonti dopo il goal salvezza del rossoblu Meroni ai playout di serie B.
    Son soddisfazioni, ma basteranno per lanciare un festival che inizia un mese e mezzo dopo quella partita?

  • Camigliatello, il mistero degli alberi numerati

    Camigliatello, il mistero degli alberi numerati

    Sul piazzale dell’ingresso agli impianti di risalita di Camigliatello –  fermi,  tra l’altro, per il consueto e irrisolto problema del collaudo dei cavi – ci sono numerosi alberi alti anche oltre venti metri. Su molti di essi qualcuno ha tracciato un numero con della vernice rossa. Generalmente questa procedura prelude a un solo destino: qualcuno abbatterà quegli alberi. Solo che nessuno, tra le autorità presumibilmente competenti (Ente Parco, Regione e Comune) è stato in grado di spiegare quale sarà il destino di ben 39 pini silani.

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    Il corso principale di Camigliatello Silano

    Il sindaco di Spezzano, nel cui territorio ricade l’area interessata, in una frettolosa telefonata ha rapidamente scaricato la responsabilità sulla Regione.
    Più disponibile a fornire spiegazioni, tuttavia insufficienti, è stato il direttore dell’Ente Parco, Ilario Treccosti. Al telefono ha chiarito che non può «essere informato su tutto», ipotizzando anche che gli alberi numerati siano quelli non destinati all’abbattimento. I sopravvissuti, in pratica. Poi ci ha invitati a scrivere una mail al Parco.
    E qui è partita la battaglia delle Pec.

    Gli alberi di Camigliatello e la battaglia delle Pec

    Una prima mail certificata l’abbiamo inviata al Parco il 21 giugno, restando senza risposta. Una seconda invece, anch’essa del 21, ha avuto come destinatario il settore “Parchi e Aree naturali protette” della Regione Calabria, da cui non abbiamo avuto repliche.
    Il dipartimento “Territorio e Tutela dell’ambiente”, sempre della Regione, il 29 ci ha risposto a sua volta affermando che «In riferimento alla Pec in oggetto si fa presente che la richiesta pervenuta non è di competenza dello scrivente settore».

    La cittadella regionale di Germaneto

    Dalla Pec del settore “Agricoltura e forestazione”, invece, ci spiegano che la nostra richiesta di informazioni «si trasmette per competenza e per opportuna conoscenza». Destinatario della trasmissione è il dipartimento “Territorio e Tutela dell’ambiente”. Lo stesso, cioè, che aveva negato ogni competenza quando lo abbiamo contattato. Visto, invece, che l’Agricoltura non ha coinvolto il dipartimento “Politiche della montagna, Foreste, forestazione e Difesa del suolo” abbiamo evitato di distogliere anche gli uffici in questione dal loro duro lavoro con una email.

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    Gianluca Gallo, assessore regionale all’Agricoltura

    Una Pec, per non farci mancare nulla, l’abbiamo mandata pure all’assessore Gallo. Certo, non apre lui stesso la posta, ma qualche suo assistente l’avrà pure trovata e letta, senza però degnarsi di fornire alcuna spiegazione. In questa specie di matrioska di competenze e ruoli, abbiamo mandato Pec pure a Calabria Verde. Anche lì la posta certificata deve risultare un seccante impiccio.

    Chi martella taglia

    Ma il bello viene adesso. Perché se numerare gli alberi vuol dire probabilmente segnare quelli da tagliare – o da salvare, secondo l’ipotesi di Treccosti – quanto si vede a Camigliatello è piuttosto bizzarro.
    Il modo corretto per realizzare il taglio di alberi in area boschiva è quello di procedere alla “martellatura”. È una pratica che impone l’apposizione di un sigillo col simbolo dell’Ente che ha scelto quanti e quali alberi abbattere, tramite appunto la martellatura da fare alla base del tronco dell’albero. Tutto questo al fine di conoscere sempre chi lo ha tagliato. Senza tale sigillo “martellato” adeguatamente dove tutti possano trovarlo, il taglio potrebbe essere opera di chiunque.

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    Uno degli alberi senza martellatura a Camigliatello

    Attorno a questi alberi numerati a Camigliatello fioriscono le ipotesi. Qualcuno parla di salvaguardia delle macchine poste sotto gli alberi, sulle quali d’inverno potrebbero cadere ammassi di neve. Altri sostengono si tratti di un semplice allargamento del parcheggio stesso. Non manca nemmeno chi con un’alzata di spalle assicura che ogni tanto qualcuno traccia numeri sui tronchi, ma poi nessuno li taglia davvero.
    Se però questa volta dovesse accadere, non sapremo mai chi l’ha deciso.

  • Antonello Antonante: il sacro fuoco del teatro ritorna ad ardere

    Antonello Antonante: il sacro fuoco del teatro ritorna ad ardere

    Il 6 luglio scorso il quattrocentesco chiostro della chiesa di Sant’Agostino, oggi parte del polo culturale del Museo dei Bretti e degli Enotri nello storico rione Massa di Cosenza, si è trasformato nel luogo di un grande rito collettivo. Artisti, spettatori, istituzioni hanno saputo concretizzare in una festa l’idea di teatro cara all’attore, regista e drammaturgo Antonello Antonante, uno dei più importanti riferimenti culturali della città dei Bruzi.
    A un anno dalla sua scomparsa, il Comune di Cosenza – in collaborazione con Centro Rat-Teatro dell’Acquario e la Fondazione Attilio e Elena Giuliani – ha inteso rendergli omaggio con una iniziativa dal titolo Un nome, un racconto, una vita.

    Antonello Antonante: dall’Acquario al Rendano, una vita per il teatro

    Antonello Antonante è stato uno dei fondatori del Centro Rat-Teatro dell’Acquario e direttore artistico del teatro di tradizione Rendano dal 2007 al 2011. Ma, soprattutto, pioniere e visionario del teatro contemporaneo in una terra, la Calabria, in cui questa forma d’arte ha conosciuto il suo vero volto identitario grazie alla sperimentazione e alla ricerca promossa dagli anni ‘70 in poi dal gruppo dell’Acquario.
    È difficile raccontare i suoni, le vibrazioni e le emozioni di una serata che ha segnato un nuovo tempo in divenire di un’arte che, pur nella sua incessante metamorfosi, rimane sempre fedele alle sue pratiche artigianali, legata ad una ritualità che affonda le sue radici nei miti. Oggi lo fa nel mito di un uomo che ha dedicato al teatro la sua vita, riuscendo a penetrare sulla scena nazionale. Un uomo che ha portato a Cosenza, grazie all’attività svolta nel corso dei decenni dal Centro Rat, il prestigioso Premio Ubu nel 2019, per aver creato, inventato e organizzato il teatro in tutte le sue forme in una città complicata.

    Cosenza, via Galluppi: l’ingresso del Teatro dell’Acquario

    L’avanguardia nel Sud profondo

    Antonello Antonante ha accolto quel prestigioso premio dedicandolo «a tutti i teatranti delle periferie». E di questa periferia del Mezzogiorno ora lui è diventato figura di richiamo, l’idea con la quale confrontarsi quando si parla di teatro. In questo Sud Antonante è riuscito a fare del teatro un laboratorio vivo per molte generazioni, le stesse che oggi sono parte attiva dell’attuale patrimonio teatrale calabrese.
    Di Antonante si è affermata l’idea di teatro non come luogo o edificio, ma di arte, festa, canale comunicativo “tra gente e cose che prima erano incomunicabili”. Antonello è riuscito nell’intento di far dialogare la città con sperimentazioni teatrali d’avanguardia, portando tra le strade di una piccola città di provincia quell’esperienza di nomadismo comunitario della più radicale avventura teatrale del novecento, il Living Theatre.

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    Maurizio Stammati e Alessandro Parente raccontano le storie di Giufà

    Il sacro fuoco brucia ancora per una sera

    Una nuova e rivoluzionaria idea di teatro che Antonello Antonante aveva fatto conoscere alla sua città fin dai tempi del teatro Tenda di Giangurgolo, intorno al 1977. In quegli anni di forti fermenti culturali, artistici e rivoluzionari apparve in città una tenda da circo sotto la quale fare teatro insieme ad altri idealisti, o utopisti culturali, oggi troppo spesso dimenticati e trascurati dalle istituzioni.
    La serata del 6 luglio – ideata e coordinata in regia da Renata Antonante – rievoca le parole scritte da Peter Brook ne Il punto in movimento: «La storia è un modo di guardare le cose che a me non interessa molto; a me interessa il presente…». E così è stato: magia di un presente animato, un hic et nunc lontanissimo da ogni logica di vana retorica commemorativa; una serata che secondo le parole di Dora Ricca, con la quale Antonante ha condiviso la vita e la sua idea di cultura, si è svolta con la fiamma accesa de «il sacro fuoco del teatro».

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    Un momento dell’omaggio ad Antonello Antonante e il suo teatro

    Abitare la memoria

    Il teatro, con i suoi protagonisti e il suo patrimonio ha dimostrato di riuscire ad essere luogo di aggregazione, capace di «abitare la memoria». La sua valorizzazione, però, spetta anche alle istituzioni politiche che devono dimostrare con fatti concreti, al di là di ogni enfasi celebrativa, che la cultura oltre ad essere un valore fortemente distintivo, può e deve essere il primo laboratorio di nuove e libere identità sociali.
    Antonello Antonante è riuscito nel suo intento, vivere di teatro e per il teatro, capace di rimanere libero in una terra che di libertà avrebbe tanto bisogno.

    La serata è stata possibile grazie alla partecipazione di:

    • Maurizio Stammati, Anna Maria De Luca, Ernesto Orrico, Angelo Gallo, Paolo Mauro, Nunzio Scalercio, Gianfranco Quero, Ester Tatangelo, Stefania De Cola, Ricchezza Falcone, Lara Chiellino, Lindo Nudo, Mariasilvia Greco, Dario De Luca, Ciccio Aiello, Alessandro Parente
    • Checco Pallone, Piero Gallina, Carlo Cimino, Leon Vulpitta Pantarei, Enzo Naccarato
    • Dora Ricca
    • Geppo Canonaco, Eros Leale, Renata Antonante, Carlo Antonante Bugliari, Antonello Antonante Bugliari
    • Ivana Russo
    • Francesca Laudani – La grafica
    • Tonino Principe
    • Marilena Cerzoso
    • Antonietta Cozza e il Comune di Cosenza

  • Bonaventura Zumbini: l’autodidatta che conquistò Napoli

    Bonaventura Zumbini: l’autodidatta che conquistò Napoli

    Oggi ci si ricorda di Bonaventura Zumbini con un timore un po’ prosaico: a lui è dedicata la piazza che collega il centro di Cosenza al Tribunale.
    Una zona dov’è quasi impossibile parcheggiare e, al contrario, è facilissimo beccarsi una multa.
    Zumbini, a cui è dedicata anche una scuola, è uno degli intellettuali più prestigiosi di Cosenza e del Sud a cavallo tra l’Unità d’Italia e la Prima guerra mondiale. Soprattutto, è un intellettuale che ha fatto carriera più per meriti culturali che politici.
    Cosa non facilissima nella Calabria di tutti i tempi. Ma andiamo con ordine.

    Bonaventura Zumbini: un figlio di papà con l’amore per i libri

    La biografia di Bonaventura Zumbini non è troppo diversa da quella di altri notabili meridionali della sua epoca.
    Nasce a Pietrafitta, un paesone alle porte di Cosenza, il 10 maggio 1836. È un figlio di papà di famiglia numerosa: è il primo dei sette figli di Tommaso, un facoltoso terriero, e di Maria Orlando. E, a quel che risulta, l’unico della nidiata col pallino dei libri.
    Una passione che coltiva nella biblioteca di casa. Infatti, Zumbini non frequenta le scuole ma fa la classica trafila dei precettori domestici, tipica dei rampolli della società-bene. Infatti, il suo unico titolo di studio è la laurea, conseguita a trentadue anni a Napoli (1868).

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    Bonaventura Zumbini

    Il ragazzino e il professore

    Nel 1848 Francesco de Sanctis, professore di letteratura alla Nunziatella di Napoli, è il classico intellettuale di belle speranze finito in bassa fortuna.
    Infatti, proprio in quell’anno, l’intellettuale irpinate finisce nel mirino della polizia borbonica per la partecipazione ai moti liberali al seguito di un altro intellettuale “radical”, almeno secondo i criteri dell’epoca: Luigi Settembrini.
    Quest’ultimo, avvocato mancato e letterato di grido, finisce in galera assieme ai patrioti antiborbonici. Invece de Sanctis ripara in Calabria, prima a San Marco Argentano e poi a Cervicati, dove fa il precettore a casa del barone Francesco Guzolini.
    Proprio in questo periodo, conosce il giovane Bonaventura, che ha appena quattordici anni, e resta colpito dalla sua intelligenza precoce e dalla sua erudizione, a dispetto della mancanza di titoli.
    È l’inizio di una lunga amicizia, testimoniata da un corposo epistolario.

    Intermezzo: l’odissea di de Sanctis

    A dispetto delle protezioni altolocate, de Sanctis finisce nelle maglie della polizia, che lo spedisce a Castel dell’Ovo, all’epoca temutissima galera borbonica, dove resta fino al 1853, quando re Ferdinando II lo espelle con una destinazione da cui non dovrebbe più nuocere alla monarchia delle Due Sicilie: gli Stati Uniti d’America.
    Ma il destino – o, più prosaicamente, l’equipaggio della nave su cui è imbarcato – vuole altrimenti: complice una tappa a Malta, il campano se la batte e si rifugia a Torino, che per i patrioti e i liberali è un po’ come la Parigi tra le due guerre per gli antifascisti.
    Lì si dedica alla grande alla politica e all’attività culturale, prima come mazziniano e poi come garibaldino. La conquista delle Due Sicilie apre a de Sanctis nuove prospettive: prima Garibaldi lo nomina governatore di Avellino. Subito dopo, diventa ministro della Pubblica istruzione del neonato Regno d’Italia.
    A questo punto, torniamo a Zumbini.

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    Francesco de Sanctis

    Bonaventura Zumbini: prima prof poi preside

    Mentre de Sanctis passa i suoi bravi guai e poi fa carriera, Zumbini fa l’intellettuale ricco, come dopo di lui avrebbe fatto Benedetto Croce. Studia e, soprattutto, scrive.
    Pubblica un bel po’ di articoli per Il calabrese rigenerato, l’ambiziosa rivista culturale di un altro supernotabile: Alessandro Conflenti.
    Al foglio, che vanta il primato di essere l’unico periodico non napoletano del Regno delle Due Sicilie, collaborano altri due pezzi grossi: il poeta acrese Vincenzo Julia e il nobile e intellettuale cosentino Mariano Campagna. E scusate se è poco.
    Poi Zumbini decide di mettersi in proprio e fonda La Libertà, una testata dedicata anche alle analisi socio-politiche.
    Negli anni travagliati dell’Unità, lo studioso cosentino entra nell’Accademia Cosentina, altro trampolino importante che, assieme all’amicizia di de Sanctis, si rivela fondamentale. Infatti, il neoministro nomina l’amico cosentino ispettore delle Scuole primarie del Regno.
    Poi, a partire dal 1865, Zumbini diventa prof e direttore della Scuola normale maschile di Cosenza (per capirci, l’antenata dell’attuale Liceo Lucrezia della Valle). Infine, decide di andare a Napoli per conseguire la laurea in Lettere, che ottiene a tempi di record.

    Autodidatti di successo

    A questo punto, è necessaria una riflessione sull’autodidattismo di Zumbini. Possibile che una persona come lui, coltissima ma analfabeta per lo Stato, potesse fare una carriera così notevole?
    All’epoca sì. E questo dettaglio deve far riflettere anche sul presunto analfabetismo del Sud nell’epoca preunitaria.
    In realtà, nel Regno delle Due Sicilie non è carente l’istruzione in sé ma il sistema scolastico pubblico. Detto altrimenti: le scuole sono poche, rispetto alla popolazione, ma gli alfabetizzati sono comunque di più perché, chi può, anche i “piccoloborghesi”, va dal precettore.
    Di questo aspetto curioso della società meridionale si è accorto a suo tempo lo storico Alessandro Barbero che nel suo Prigionieri dei Savoia analizza le corrispondenze dei militari borbonici e nota, anche con un po’ di meraviglia, che quello delle Due Sicilie non è in realtà un esercito di contadini analfabeti ma è pieno di artigiani, commercianti e piccoli professionisti, con un tasso di alfabetizzazione non proprio disprezzabile.
    Ciò fa presumere, come ha notato anche lo studioso Lorenzo Terzi, che i dati sull’analfabetismo meridionale al momento dell’Unità potrebbero essere falsati, perché basati solo sull’istruzione pubblica, forte al Nord, ma carente in tutto il resto del Paese.
    Come mai lo scarso interesse dei Borbone verso l’istruzione pubblica? La risposta è banale e poco retorica: l’allergia ai debiti e alle tasse della monarchia napoletana.

    Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie

    Borbone oscurantisti? No, tirchi

    I Borbone, soprattutto Ferdinando II, basano molto del loro consenso sul fisco piuttosto mite. Quindi investono poco e si indebitano poco. Al momento dell’Unità, l’ex Regno delle Due Sicilie ha le casse solide, una riserva aurea apprezzabile e, soprattutto, titoli finanziari ben quotati (ad esempio, il Neapolitan Bond). Peccato solo che tutto questo non giovi molto alla popolazione, che produce a livelli di sussistenza senza una reale prospettiva di sviluppo.
    Lo Zumbini intellettuale di carriera autodidatta non è, come sarebbe stato Croce, l’eccezione che conferma la regola. È la regola, in quel tipo di società.

    Bonaventura Zumbini accademico in carriera

    Subito dopo la laurea, Zumbini pubblica Le lezioni di letteratura del prof. Settembrini e la critica italiana, che lo fa notare positivamente, grazie anche a una recensione articolata dell’amico de Sanctis.
    Come tutti i notabili, anche il Nostro si fa tentare dalla politica e si candida alla Camera in Calabria nel 1870 ma fa un passo indietro a favore di Luigi Miceli, ex garibaldino e astro nascente della politica calabrese.
    Non demorde, invece, a livello intellettuale: nel 1874 diventa presidente dell’Accademia Cosentina, nel 1877 fa carriera all’Università di Napoli grazie all’interessamento del solito de Sanctis e di Bertrando Spaventa, fratello maggiore del ministro Silvio e zio di Benedetto Croce.
    Anche in questo caso, la carriera è “lampo”: prima ottiene la libera docenza alla Scuola di Magistero (l’antenata dell’odierna Scienza della formazione), poi azzecca il concorso a professore ordinario, infine (1878), succede a de Sanctis nella cattedra di Letteratura. Non finisce qui: il cosentino, forte di appoggi ma capace anche di farsi benvolere, fa il colpaccio e, nel 1881, diventa rettore.

    Castel dell’Ovo

    Un cosentino giramondo

    Ormai Zumbini è napoletano al cento per cento: si è stabilito a Portici ma non dimentica Cosenza, dove va di tanto in tanto.
    Soprattutto, non dimentica l’Accademia Cosentina, dove fa conferenze e presso la quale promuove, in qualità di presidente, la creazione di una biblioteca. Detto altrimenti, è anche merito suo se è esistita la Civica.
    Anche l’appuntamento con la politica, rimandato negli anni ’70 dell’Ottocento, riprende alla grande: fa parte di varie commissioni ministeriali (sua l’istituzione degli esami delle Scuole medie) e viene nominato senatore nel 1901.
    Viaggia tanto, per approfondire lo studio delle letterature straniere, in particolare quelle tedesca e inglese. Al netto di ogni altra disquisizione estetico-letteraria, si può attribuire a Zumbini una specialità accademica: la letteratura comparata.
    Muore a Portici il 21 marzo del 1816 alla ragguardevole età, per l’epoca, di ottant’anni. Uno di suoi ultimi pensieri è rivolto a Cosenza e alla sua Accademia, a cui regala la propria biblioteca. Che purtroppo, finisce in cenere durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
    Restano di lui un busto marmoreo realizzato dallo scultore Mario Rutelli, esposto ancora nei locali dell’Accademia Cosentina, più varie dediche toponomastiche. A Cosenza, di cui si è già detto, e a Pietrafitta.
    Il minimo, per un intellettuale illustre, esponente di una élite di livello europeo. Forse l’ultima che abbia avuto Cosenza.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Dionesalvi, Cosenza non dimentica la forza di un poeta

    Dionesalvi, Cosenza non dimentica la forza di un poeta

    Ha costruito un edificio prezioso con la sua poesia, i racconti, i romanzi, gli articoli, i saggi. Fino all’ultimo giorno della sua vita ha continuato a lavorare strappando ogni lembo di tempo alla malattia impietosa che lo metteva a dura prova. Coraggioso e generoso con i suoi lettori, Franco Dionesalvi. Una statura da gigante che con il tempo dovrà essere ricostruita, in modo limpido come i suoi occhi.

    «E vivo e parlo e canto e innamoro e soffio bocca a bocca». I suoi versi hanno invaso Villa Rendano, Sulla scia dell’aurora il titolo della serata in suo ricordo a un anno dalla scomparsa – aveva 66 anni – il 6 luglio del 2022. A organizzarla il Comune di Cosenza e la Fondazione Attilio ed Elena Giuliani, con Antonietta Cozza, delegata alla Cultura della Giunta Caruso e giornalista, a condurla con grande professionalità.

    Franco Dionesalvi nel ricordo degli amici

    Nel pubblico, in prima fila, il professore dell’Unical Pierangelo Dacrema, che con lui ha scritto a quattro mani Conversazione tra un economista e un poeta, testimone e protagonista delle ultime giornate di Dionesalvi, dedicate alla scrittura. Il libro, prima pubblicazione postuma del poeta, è una bussola di carta nel mare magnum di influencer, algoritmi, economia spietata che generano solitudine e nonsense esistenziale.
    L’hanno ricordato le parole dei poeti Anna Petrungaro e Daniel Cundari, del suo amico Filippo Senatore, che ha inviato la sua testimonianza da Milano, dove lavora come bibliotecario al Corriere della Sera.

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    Da sinistra: Anna Petrungaro, Antonietta Cozza, Concetta Guido

    Anche io sono intervenuta, mi appare anomalo – è difficile che un giornalista scriva in prima persona – ma nello stesso tempo bello lasciare traccia della serata con questa breve cronaca. Con Franco abbiamo vissuto dialoghi intensi tra arte e vita, la forza dell’ironia disvelante che ti fa cogliere la sostanza delle cose e guardare negli occhi le cose più terrificanti per cercare di capirne il senso e poi tanti momenti creativi. Tra tutti, mi viene in mente, forse perché più vicina all’idea di cielo, una bizzarra e affascinante mostra sugli alieni e la Calabria, che lui intitolò Avvistamenti. La allestimmo nella Casa delle Culture di Cosenza (creata da lui stesso durante il suo assessorato), nel fatidico anno Duemila,  insieme a Michele Pingitore e agli artisti visionari Luca Scornaienchi, Tonino Iozzo e Raffaele Cimino.

    Le opere di Franco Dionesalvi: novità in arrivo

    I momenti musicali di Sulla scia dell’aurora sono stati curati, invece, dai Nimby. È una band rock che ha iniziato a collaborare con Dionesalvi nel 2006 e che, imbracciate le chitarre elettriche, ha reso un omaggio pregevole, musicando tre degli inediti dell’ultimissima produzione del poeta. La piccola raccolta che le contiene uscirà a settembre per le edizioni Erranti e sarà presentata all’interno del programma del festival Laudomia nella città bruzia.

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    Rossana Bartolo, moglie di Franco Dionesalvi e Antonietta Cozza

    A dare la bella notizia è stata la moglie del poeta, Rossana Bartolo. Nonostante la forte commozione per una perdita irreparabile, ha tracciato il percorso futuro: «Mi ha lasciato disposizioni perché rendessi nota la sua opera e la rendessi disponibile a chiunque l’avesse voluta studiare. Mi sto adoperando per questo: fra un anno uscirà la sua opera omnia poetica per la casa editrice Puntoacapo». E ancora: «Continuerò con il resto dei suoi scritti, raccoglierò i testi teatrali e i racconti inediti; raccoglierò i Sombreri, i suoi sferzanti elzeviri e altro ancora».

    «Siamo tutti collegati»

    È Anna Petrungaro a ricordare quanto scrive Edmond Jabès. « La morte è senza potere contro ciò che sta per germinare, crescere, espandersi. La poesia è un pensare contro l’oblio». Il pensiero di una conoscenza approfondita e di una diffusione più capillare delle sue pubblicazioni, è stato il nesso logico di ogni momento. E lui, il poeta, sembrava esserci tra i suoi affetti, i suoi amici, il pubblico, a reggere quel filo sottile e forte con il quale «siamo tutti collegati». Perché siamo «un po’ tutti uno la continuazione dell’altro», come ha scritto in lettere private e in frammenti, che sono bellezza poetica, pensiero e teoria di vita ed esortazione alla consapevolezza, alla gioia, all’attivismo culturale.

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    Il pubblico nel giardino di Villa Rendano per “Sulla scia dell’aurora”

    «Mi auguro – ha detto Anna Petrungaro riguardo all’opera di Franco Dionesalvi e alle prossime pubblicazioni – che riceveranno la giusta attenzione e diffusione, non solo dai singoli lettori ma anche dalle istituzioni amministrative e scolastiche, che ci sia l’impegno a programmare un lavoro che vada oltre la temporaneità dell’evento che è tale in quanto isolato dal resto, dalla consuetudine, che abbia la forza di permanere e di rifecondarsi».

    Da Cosenza a Milano, tra amore e amarezza 

    La poetessa, legata da un’amicizia ultraquarantennale a Franco Dionesalvi, con il quale, non ancora ventenni, condivise le esperienze teatrali della compagnia Nuova immaginazione, ha ricordato la «scelta amarissima» da lui fatta, a 60 anni, quando «dopo avere dato tanto e sperato incessantemente nella possibilità di un ulteriore radicamento di senso nella sua città, è emigrato a Milano».
    E poi ha ricordato che in un video girato pochi giorni prima di morire, «spese indimenticabili parole d’amore per Cosenza, nonostante tutto. Invocò la cura della memoria di amici poeti come Raffaele de Luca e Angelo Fasano» e «il dovere morale, ripetutamente sollecitato, di intitolare loro qualcosa».

    Nel corso della serata si è parlato anche della ricchezza dei contenuti di un romanzo dell’autore, L’ultimo libro di carta, pubblicato negli anni della pandemia. Un romanzo sulla guerra, sull’amore, sulla battaglia persa contro gli algoritmi che ci tracciano in ogni giornata, sulla perdita della memoria personale e collettiva.
    Il suo sito e il suo blog sono due finestre dell’edificio prezioso che ha costruito. Contengono un’utile mappa per orientarsi tra tutti i suoi lavori, gli articoli e le lettere da Milano, gli scritti sui suoi “ragazzi”, gli allievi di una nuova Barbiana «del riscatto della dignità», come ha detto Filippo Senatore, che stava costruendo in Lombardia.

    Parole che fanno bene al cuore

    I Nimby – Aldo Ferrara, Francesco e Tommaso la Vecchia – oltre ad esibirsi hanno testimoniato il legame che li univa. Negli anni passati hanno musicato un racconto tratto dalla raccolta Libro della morte e delle cento vite e poi realizzato, insieme a lui, lo spettacolo di musica e poesia Pianure.

    «Franco ci ha regalato la possibilità di metterci in gioco, di scoprire quanto è bello fare musica e innamorarsi delle parole; ci siamo divertiti, abbiamo scherzato, abbiamo sudato, faticato, lavorato insieme… ma, soprattutto, abbiamo passato momenti di intensa Felicità. Perché…”ci sono parole che fanno bene al cuore”». E altre che alzano muri, scrive Dionesalvi in una poesia intitolata la “Responsabilità”.
    Noi, con lui, preferiamo le prime.

    (Le foto all’interno dell’articolo sono opera di Ivana Russo, si ringrazia per averne concesso l’utilizzo)