Secondo i dati Istat del 2023 sui fenomeni migratori, sia interni alle regioni italiane sia dall’Italia verso paesi esteri, il tasso di emigrazione più elevato si registra in Calabria. Oltre il 7% dei residenti, nell’ultimo anno, ha abbandonato la regione.
Agosto, però, è il mese dei rientri per le vacanze. Gli emigranti si confrontano con le proprie nostalgie, misurano il benessere che può dare il ritorno alla casa natale. Anche gli aspetti peggiore della propria città di partenza si osservano attraverso un “filtro bellezza”, che ne minimizza i difetti. È successo anche a me e mentre la vocina nostalgica cantilenava nella mia testa mi sono imbattuta nell’articolo di un sito locale che annunciava l’uscita di un nuovo brano a firma Zabatta Staila e Solfamì: Mo.
Era la risposta a quel sentimento nostalgico. L’uso del dialetto, le espressioni idiomatiche e l’ironia sul cosentino medio, i suoi piccoli vizi e le sue manie avevano teletrasportato il lato più comico di Cosenza fin all’altro lato d’Europa.
Tra le varie canzoni, però, una su tutte può essere il manifesto della persona calabrese emigrata: Ohi Ma. È la dichiarazione d’amore di un figlio lontano alla madre rimasta a casa. Oltre i luoghi comuni sul prosciutto spedito assieme ai “pacchi da giù” traspare il disagio che si prova in una città non tua, in cui si parla una lingua che ancora non ti appartiene del tutto e in cui fai fatica a trovare il tuo posto. Ma, oltre quell’inadeguatezza, c’è la speranza di avere la propria occasione e la propria rivalsa. Non importa quale sia il sogno, che sia grande o piccolo: le luci delle altre città ci promettono che una chance possiamo averla, a prescindere da chi siamo.
Da lì l’idea di intervistare la crew cosentina.
Una band così radicata al territorio cosentino dove nasce geograficamente?
«L’embrione è nato a Casali, il quartiere in cui siamo nati. Poi l’idea un po’ più studiata, quindi le maschere e il resto, forse è arrivata a Londra».
Com’è che da Cosenza vi siete ritrovati lì?
«Per quanto riguarda Zabatta – risponde Solfamì – è stato un caso, non è stata una decisione andare lì. Io mi trovavo a Londra per altre cose, poi lui mi ha raggiunto. Dopo un po’ di tempo e un bel po’ di pressing da parte sua abbiamo iniziato. Zabatta aveva già fatto uscire un brano anni prima, per questo ti dico Casali come embrione. Poi, quando ci siamo trovati a Londra, dopo quattro o cinque mesi di convivenza, mi ha proposto di scrivere, fare musica e lavorare al progetto insieme».
«Di base – continua Zabatta –abbiamo sempre avuto la fissazione per la tradizione popolare. Soprattutto io, che ho nel mio background musicale la tarantella. La fissazione per il dialetto, gli accenti, le usanze o i costumi l’abbiamo sempre avuta. Poi, vivendo fuori, inizi a vedere le cose da un altro punto di vista, a riflettere su cose a cui stando qui non pensi. Sembrerà un po’ banale, ma è stato davvero così: lavoravamo da Starbucks e nelle pause scrivevamo le strofe. Tutto parte da una base di Eminem, perché li non avevamo neppure tutti gli strumenti per poter arrangiare. Non c’era nemmeno l’idea di fare delle canzoni una dietro l’altra o un progetto da proporre nei live. L’idea era quella di rimanere nei pixel del computer e fare una canzone ogni sei o sette mesi: buttare la bomba e sparire di nuovo»
Vivendo fuori, quali sono state le differenze culturali maggiori che avete sperimentato?
«Il rapporto con lo sconosciuto: qui fai amicizia in un attimo, lì c’è diffidenza. Ma questo è l’aspetto positivo di Cosenza, poi c’è l’aspetto negativo. Per esempio, l’assenza di opportunità. Questi posti lontani ti danno la possibilità di poterti perdere senza avere l’ansia di non ritrovarti», ci risponde Solfamì.
Una volta tornati, come è nata l’idea di fare dei concerti live?
«Sergio Crocco de La Terra di Piero ci ha chiamati per fare uno spettacolo allo stadio. Noi non lo conoscevamo, conoscevamo l’associazione però non ne facevamo parte. È “colpa” sua se abbiamo formato quella band live, perché ci ha chiamato e ci ha “imposto” di andare a suonare. Da lì siamo entrati a far parte della famiglia de La Terra di Piero».
Zabatta e Solfamì in concerto allo stadio San Vito-Marulla di Cosenza
Qual è il rapporto di Zabatta e Solfamì con la città?
«A Cosenza abbiamo suonato per un Capodanno, tra l’altro come headliner, ma abbiamo dovuto portare i nostri microfoni ed è stata una cosa un po’ così. Non mi pare ci sia gran voglia di chiamarci». A parlare è Solfamì, con Zabatta che ironizza sul fatto che nessuno sia profeta in patria e aggiunge: «La reazione del pubblico, invece, è ottima e si vede che ci vogliono bene fin dall’inizio. L’invito, infatti, è quello di venire ai live perché l’esperienza è totalmente diversa e la risposta del pubblico c’è sempre stata in questo senso».
Sotto le loro maschere di Zabatta e Solfamì, in fondo, si celano storie comuni a quelle di molte persone nate alle nostre latitudini. Racconti di emigrazione, di ritorni, di esperimenti per inventarsi qualcosa e trovare un proprio posto nel mondo. E la consapevolezza che, alla fine, più ci si allontana e più si scopre quanto i nostri posti di origine, nel bene o nel male, ci abbiano plasmato.
Il 4 settembre a Villa Rendano dalle ore 16.30 è in programma il primo talk promosso da Enjoy Calabria. Per l’occasione arriverannomportanti esperti marketing internazionali con cui discutere delle opportunità che il digital può offrire alle aziende e al territorio. Calabria in ConversAzione, questo il nome dato a questo ciclo di incontri, nasce con lo scopo di creare connessioni, opportunità e know how sui temi dell’impresa, del digital e dell’export.
In questo primo appuntamento, moderato dal direttore Confindustria Cosenza, Rosario Branda, speakers di calibro internazionale affronteranno il tema del digital marketing a servizio delle aziende e del territorio.
Saranno presenti: Giuseppe Stigliano, Ceo di Spring che lo vede alla guida di un team di oltre 200 talenti con competenze che abbracciano strategia di business, creatività, tecnologia e dati, nonché imprenditore e docente presso diverse università e business school; Giovanni Pupo attualmente Head of Paid Media per Lipton nonché fondatore di ppcmarketing.it, portale gratuito di informazione che si propone di aiutare tanto gli studenti che si affacciano al mondo del lavoro, quanto i giovani lavoratori del marketing digitale; Alessandro Barulli consulente aziendale e formatore. Si occupa di strategie aziendali, marketing internazionale, comunicazione, gestione delle reti di vendita e processi di cambiamento.
L’accesso al talk è su invito. Per eventuali richieste e/o informazioni si può scrivere all’indirizzo mail info@enjoy-calabria.it.
Enjoy Calabria è un progetto ideato e portato avanti da Vegitalia Spa, azienda con sede a San Marco Argentano che dal 2007 commercializza ed esporta vegetali surgelati. Nato con l’obiettivo di creare una cultura territoriale all’interno e oltre i confini nazionali, Enjoy Calabria dal 2021, attraverso i suoi canali, si occupa della promozione del territorio, coinvolgendo luoghi, paesaggi, prodotti e realtà produttive della punta dello stivale. Presente su tutti i principali canali social e con un sito di approfondimento multilingua e un magazine scaricabile online, Enjoy Calabria raggiunge mensilmente più di 1milione di persone, ottenendo un coinvolgimento attivo della community che progressivamente lo sceglie come canale attraverso cui scoprire e riscoprire questa meravigliosa regione.
Per maggiori informazioni visita il sito www.enjoy-calabria.it.
Quando, subito dopo la guerra, in una Germania sconfitta e divisa, Nina Weksler provò a far pubblicare il libro sulla sua personale esperienza di internata nel grande campo di internamento fascista di Ferramonti, si scontrò con il secco rifiuto del mondo dell’editoria tedesca perché, molto banalmente, il punto di vista delle case editrici era che nel lager di Tarsia non era successo niente, nessuno era stato ucciso o torturato, tutto era a dimensione umana.
Ferramonti non era Dachau, Buchenwald, Bergen Belsen e tanto meno Auschwitz, niente a che vedere con quanto succedeva nei campi di sterminio e di lavori forzati dell’Europa centro-orientale.
Il campo di internamento di Ferramonti
Mille giorni a Ferramonti
I mille giorni d’internamento di questa giovane donna ebrea non apparivano editorialmente seducenti, come se limitare la libertà delle persone, non fosse già, di per sé, un insulto a tutta l’umanità. Solo nel 1992, grazie alla casa editrice cosentina Progetto 2000, diretta da Demetrio Guzzardi, quei mille giorni raccontati da Nina diventano un libro, ripubblicato nuovamente nel 2020 per una seconda edizione.
Il libro dal titolo Con la gente di Ferramonti. Mille giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento, per volontà dello stesso Demetrio Guzzardi, è diventato uno spettacolo teatrale dal titolo Nina. Guten Morgen Ferramonti, presentato in anteprima nazionale al Salone Internazionale del libro di Torino nel maggio scorso, nello stand della Regione Calabria. Dora Ricca ha curato la scrittura drammaturgica e la regia, riuscendo ad adattare il testo, con tutta la sua moltitudine di dettagli e la complessità di emozioni, nello spazio e nel tempo della messa in scena.
Lara Chiellino in “Nina, Guten morgen Ferramonti”
Lara Chiellino diventa Nina Weksler
Ricca è riuscita a restituire sentimenti individuali di un dramma generale, ma anche immagini paesaggistiche, poesia e malinconia, gesti e parole, di quanti hanno sùbito la più violenta e cieca persecuzione della storia. Il racconto del popolo ebraico parla anche di un pezzo di Calabria, di una zona malarica divenuta, per la sua condizione di isolamento geografico, una salvifica Arca di Noè, grazie alla quale, migliaia di persone hanno trovato la possibilità di sopravvivere al genocidio messo in atto dalla furia nazifascista, intenzionata a realizzare la follia di quegli ideali di pulizia etnica, razziale e politica.
Lara Chiellino ha interpretato la protagonista Nina; un lungo monologo in prima persona il quale, attraverso digressioni che hanno consentito di andare avanti e indietro nel tempo del ricordo, ha saputo raccontare la moltitudine umana dei tanti internati, portatori di culture, lingue, religioni e costumi diversi. Il peso della storia è raccontato come un esercizio di equilibrio e di resistenza al dolore, la semplicità della gente di Calabria diventa elemento di somiglianza, quindi sentimento di empatia, da condividere con quel popolo perseguitato da secoli.
Illustrazione tratta dal libro “Con la gente di Ferramonti. Mille giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento” (edizioni Progetto 2000)
Da Leningrado a Ferramonti, storia di Nina
Nina, nata a Leningrado da genitori ebrei, si era trasferita con tutta la famiglia a Berlino dopo la rivoluzione bolscevica, a causa della guerra perde i contatti con la sua famiglia e, arrestata dalla polizia fascista a Milano, arriva a Ferramonti di Tarsia, il luogo in cui ha potuto imparare a guardare in faccia l’anima stessa delle persone, il loro comportamento e le relazioni umane, una università di vita in cui nulla è stato facile. Ricca ha portato in scena, grazie all’interpretazione di Lara Chiellino, una donna libera e indomita che, nonostante la sua condizione di internata, non ha consentito a nessuno di annientarla sul piano umano.
Proprio per questo, Nina, nei suoi mille giorni di prigionia, fatti di fame, freddo e malattia, ha continuato a coltivare la sua personale passione per la scrittura, ad apprezzare i libri, le albe calabresi, ma anche i profumi, in quelle piccole boccette di vetro ormai difficili da trovare. Quei profumi, quasi dotati di vita propria, nella loro capacità di apparire chiari, scuri, tristi e allegri, si presentano quasi come una metafora dell’esistenza.
Sono sempre le piccole azioni, i piccoli gesti, come quello di indossare una vestaglia, sistemare un cappotto sgualcito, rammendare un calzino, avvolgersi in una coperta, il movimento convulso nel letto cercando disperatamente di addormentarsi, le candele accese, a definire la tragicità della condizione umana.
Lara Chiellino e Dora Ricca
La regia attenta di Dora Ricca
La regia di Dora Ricca punta a mettere in scena delle azioni, ma anche gestualità, ritmo e sonorità; il corpo di Lara Chiellino diventa la costante fluttuante tra un dentro e un fuori, tra interiorità ed esteriorità. Azioni che parlano, divenendo, allo stesso tempo, enunciati performativi, frasi che accompagnando movenze producono un nuovo stato di cose, una nuova realtà. Parole e azioni che portano con sé, grazie alla forza dell’autoreferenzialità, il potere di trasformare la percezione di un universo delimitato da un filo spinato.
La Chiellino riesce, attraverso il suo sguardo e i suoi silenzi, a mostrare le espressioni degli altri internati, si riesce a far percepire la presenza di prigionieri in realtà assenti sulla scena, quasi come se il suo stesso sguardo divenisse lo specchio delle paure e delle trepidazioni di tutte le persone segregate e non solo a Ferramonti.
Baracca 62
Lara agisce in uno spazio definito dalla quarta parete, pochi oggetti di scena riescono ad evocare il senso di miseria, solitudine, freddo e sofferenza che si viveva nella baracca numero 62 così come in tutte le altre. Lo spettatore assiste allo sviluppo di una vicende in cui, i ricordi e gli incubi ricorrenti di Nina, accompagnati dalla sua stessa voce fuori campo, lo spingono ad interrogarsi sulla tragedia che sappiamo nascere sempre dalla perdita di Dio o dal sentimento di umanità. Dio non era ad Auschwitz, non era neanche in tutti gli altri campi di lavoro e di sterminio, sicuramente, anche se nascosto, era nel cuore di Nina che, indossato il suo tallit, assisteva alla preghiera del venerdì sera senza capire troppo il senso delle parole e, forse, non era neanche necessario capire, bastava la poetica delle parole stesse per sentire vicino una presenza sacra.
Soldati all’esterno del campo
Dove era Dio?
Ricordava benissimo di un Dio implorato e pregato da sua madre nel giorno del Kippur, ma in quei racconti non rammentava un Dio iracondo, quanto un padre benevolo verso i suoi figli. Ma Dio ora forse era assente e per questo bisognava invocarlo, ma la tragedia intanto si stava consumando.
Il suono del violoncello, i ronzii delle mosche, il rumore degli aerei diventano voce drammaturgica in grado di costruire immagini concrete, di una realtà interrotta solo quando la quarta parete si infrange. Lara Chiellino, spogliandosi dei panni di Nina e indossando i suoi, irrompe sulla scena, a quel punto non è più personaggio, ma un’attrice che narra quella storia che ha riguardato ognuno di noi, il nostro passato collettivo e, proprio per questo, parla del valore della memoria e soprattutto dell’umanità che non ha memoria, diversamente non si spiegherebbero le guerre e le persecuzioni alla quali assistiamo ancora oggi. Le ceneri dell’umanità non hanno insegnato nulla e rivolgendosi al pubblico, attraverso un dialogo diretto, lo costringe a prendere delle posizioni davanti alla crudeltà della storia e degli uomini.
Tutte le celebrazioni dei centenari sono occasioni per scoprire luoghi, emozioni, oggetti nascosti, non solo figure importanti, che hanno segnato la storia di un Paese. Celebrare è di per sé retorico, ma ha un suo intendimento curioso, frizzante. Innesca la gioia della ricerca, dell’incontro, del confronto e del dibattito. A suo modo può essere una rinascita attraverso il caleidoscopio delle nuove prospettive con cui si indaga, attraverso i nuovi strumenti di cui si dispone. È ciò che accade per Stanislao Giacomantonio nel centenario della scomparsa.
La famiglia volle donare le sue carte alla Biblioteca Nazionale di Cosenza, un Fondo ricco di informazioni storiche, sociologiche e antropologiche, non solo musicali, per chi voglia leggerlo e studiarlo come affresco di un’epoca in fermento. Un’epoca mobile che prelude alla prima grande catastrofe militare ma che vede la Calabria subire anche due grandi catastrofi naturali tra il 1905 e il 1908.
Stanislao Giacomantonio e la città
Tra i musicisti cosentini a cavallo tra i due secoli Stanislao Giacomantonio occupa un posto molto visibile. In primis perché a lui è intitolato il Conservatorio della città. Poi, forse, perché ci appare come un personaggio tenero, appassionato, pieno di sogni, caparbio. Scomparve a 44 anni, quando era ancora in attesa di un riconoscimento solido e significativo nella temperie musicale che dal verismo passava ad altre espressioni del teatro d’opera.
Un concerto nel cortile del Conservatorio “Stanislao Giacomantonio” di Cosenza
La storia di Stanislao Giacomantonio mi sembra di averla sentita mille volte. Mi è capitato di leggere tesi accademiche sulla vita e l’opera. Ero presente alle selezioni del concorso lirico che gli hanno dedicato, alle più recenti rappresentazioni del suo atto unico che conosciamo col titolo La Leggenda del Ponte, o quando, nel ’78 eseguirono le sue due opere al Teatro Rendano con Ottavio Ziino a dirigere, sebbene fossi così giovane da non ricordare quasi nulla. Ricordo il pubblico, sì, assai numeroso, il libretto e il commento del Maestro Ziino: in fondo non si può dire che Stanislao Giacomantonio non abbia avuto attenzione e affetto dalla sua città, soprattutto dopo il lavoro costante del figlio Giuseppe.
Da Fior D’Alpe a La Leggenda del Ponte
La prima rappresentazione di Fior D’Alpe, un atto unico del 1905 dal racconto di Teresita Friedmann Coduri, e su libretto del noto avvocato Filippo Leonetti, fu un vero trionfo nel maggio del 1913, al Comunale di Cosenza. Ne parlarono con immenso entusiasmo non solo in città ma a Roma, a Milano, una fitta rete di giornalisti portò la notizia fin negli USA. A Cosenza il Fondo Giacomantonio della Biblioteca Nazionale conserva una messe di occasioni di ricerca e analisi davvero corposa, perché, a fronte di alcune opere pubblicate recentemente ci sono ancora molti fogli, soprattutto composizioni per canto e pianoforte, che attendono una revisione accurata e la pubblicazione.
Il racconto originale di Teresita Friedmann Coduri
Solo un esempio: nel primo faldone ritroviamo le varie stesure di Fior d’Alpe ma, già nel primo fascicolo, Giac. I/1 col n° 44350, ci sorprende una malinconica, dolente lirica per canto e pianoforte che rivela una forte capacità di adesione al testo -endecasillabi a rima alternata- databile a cavallo tra ottocento e novecento, e soluzioni armoniche semplici ma efficaci. Poi, oltre ai materiali che dispiegano la genesi della sua opera più nota, c’è una cospicua fonte di dati da cui accertiamo, tra l’altro, che con Fior d’Alpe il musicista aveva deciso di partecipare a un concorso (bandito dal Tirso di Roma), vincendolo nel 1910.
Spicco il volo sublime
Il motto, visibile sul frontespizio del manoscritto, celebra il sogno e la caparbietà di un giovane consapevole del proprio talento, in un modo che lascia trasparire il bisogno di superare i confini della provincia calabra: Spicco il volo sublime. Era una speranza, ma anche la consapevolezza implicita che uno come lui avrebbe dovuto spostarsi in ambienti culturalmente più ricchi e favorevoli alla promozione di giovani talenti. Fior d’Alpe divenne poi La Leggenda del Ponte e l’acclamarono, forse non con gli stessi entusiasmi, anche dopo la Grande Guerra al Carcano di Milano, nel 1922, dove andò in scena il 5 dicembre assieme a Pagliacci di Leoncavallo.
Spicco il volo sublime, motto per Fior d’Alpe, concorso 1910
Quelle Signore 70 anni nel cassetto
L’altra opera è un esempio della sua volontà di distinguersi: un romanzo scabroso, si disse all’epoca, divenuto un best seller di quegli anni, scritto da Umberto Notari che aveva trovato nel filone della “donna perduta” materia per una trama intrigante e drammatica. La “donna perduta” diventa il soggetto dell’opera in due atti Quelle Signore, espressione di una scrittura musicale ormai pregevole e di una matura sapienza scenica (così scrive il direttore d’orchestra Franco Barbalonga in una lettera indirizzata ai figli). Con il libretto dell’amico Leonetti, l’opera è conclusa nel 1908, ma non viene mai rappresentata fino al 1978.
Pagina autografa di Stanislao Giacomantonio conservata presso la Biblioteca Nazionale di Cosenza, Fondo Giacomantonio
La biografia del musicista, la più accreditata come punto di riferimento per gli studiosi, è quella dei due figli Aldo e Remo, un lavoro straordinario che però oggi può sembrare datato per almeno due motivi. Il primo è che scrivere la biografia di un genitore che sia stato anche una figura significativa dell’arte porta ad effetti talvolta celebrativi, sebbene la supervisione e la prefazione fossero stati affidati ad uno dei musicologi più prestigiosi e affidabili, Virgilio Celletti. L’altro perché il lavoro risale al 1990 con tecniche di ricerca che oggi potrebbero essere più avanzate e offrire dettagli più utili agli studiosi, specialmente per la ricostruzione e il ritrovamento di indizi utili, relativi ai numerosi materiali perduti durante gli eventi bellici.
Frontespizio, melodia per flauto e piccola orchestra, 1899
Stanislao Giacomantonio e Sonzogno
Stanislao Giacomantonio è una figura che merita nuovi approfondimenti: le vicende della Guerra, il rapporto complicato e poi il contenzioso con la casa musicale Sonzogno (per la rappresentazione della Leggenda del Ponte a Milano), e soprattutto quella specie di operosa solitudine cosentina che lo vide per anni in città quasi frenetico animatore e didatta, ma pressoché fermo nella sua attività di compositore, meritano ancora scavi e approfondimenti. Non solo dalle carte del Fondo, ma anche dal catalogo riportato nella biografia dei figli non sembrano esservi lavori compiuti, importanti, dopo il 1908 se non qualche abbozzo, qualche idea. Si tratta di ciò che è andato perduto o è come se il tempo cosentino e i dissapori con la casa musicale milanese avessero prosciugato la vena compositiva, la stessa motivazione a comporre? Una vicenda umana assai simile a quelle che molti studenti e giovani artisti vivono anche oggi nonostante le distanze accorciate dal web.
Anche quest’anno – dopo lo stop del recente passato – il Ministero della Cultura contribuirà alle attività del Teatro Rendano di Cosenza. I finanziamenti saranno due e ammontano a quasi 250mila euro.
Il primo stanziamento per il Teatro Rendano riguarda il Fondo unico per lo Spettacolo. Grazie a un decreto della Direzione generale dello spettacolo del Ministero appena pubblicato, il Comune di Cosenza otterrà poco più di 100 mila euro. Lo scorso anno il contributo ammontava a 90 mila euro. Si tratta, nello specifico, della seconda annualità del triennio Fus 2022-20024 e riguarda le attività liriche ordinarie.
Teatro Rendano: attesa per Puccini e Mascagni
Un altro piccolo passo avanti per ritorno ai fasti di un tempo del Teatro Rendano, dunque. Il sindaco Franz Caruso ha sottolineato come si sia «ripreso a programmare la stagione lirica dopo anni di fermo». Il Rendano tornerà davvero fiore all’occhiello della città grazie all’Opera? Non resta che attendere. Per il momento da Palazzo dei Bruzi informano che a curare la stagione sarà ancora il maestro Luigi Stillo. Due i titoli in programma: Madama Butterfly di Giacomo Puccini, del quale ricorrerà nel 2024 il 100° anniversario della morte, e Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni. Le due opere andranno in scena al Teatro Rendano tra novembre e dicembre prossimi.
I fondi per l’Orchestra Sinfonica Brutia
E gli altri finanziamenti romani? Riguardano l’assegnazione del contributo alle nuove istituzioni concertistico-orchestrali. Tra queste, nel medesimo decreto che assegna i soldi per l’opera al Teatro Rendano, figura anche l’Orchestra Sinfonica Brutia. Beneficerà quest’anno di un contributo di oltre 137 mila euro. L’OSB, attualmente in tournée con tappe previste anche al di fuori della regione, si conferma quindi un progetto di valore nonostante i timori sorti alla sua istituzione.
Caruso, nel sottolineare il risultato ottenuto, ha inteso spendere parole di ringraziamento per il dirigente del Settore Cultura, Giuseppe Bruno, e la funzionaria dello stesso settore, Annarita Callari. Senza il loro impegno nel seguire l’intero iter procedurale i finanziamenti ministeriali per il 2023 ministeriali rischiavano di finire altrove.
Sottoscritto un protocollo di intesa tra Anpi Presila e Comune di Casali del Manco. Si tratta di un «protocollo per la memoria, la coscienza, la resistenza». È quanto si legge nel comunicato stampa dell’Anpi Presila “Eduardo Zumpano”. «Motivazioni dal grande valore ideale, di cittadinanza attiva – sottolinea la nota – e di profondo rispetto per le istituzioni democratiche nate dalla resistenza e dalla lotta partigiana». A firmare il documento sono stati il presidente Anpi Presila, Massimo Covello e la sindaca di Casali del Manco, Francesca Pisani. Erano presenti anche il vicepresidente dell’Anpi Presila “E. Zumpano”, Maria Cristina Guido e gli assessori del Comune di Casali del Manco, Michele Rizzuti e Gianluca Ferraro.
«La Presila e nello specifico Casali del Manco sono storicamente riconosciuti come “culla” dell’antifascimo non solo calabrese. Un territorio che ha visto personaggi come Zumpano, Gullo, Curcio, Prato, Caruso, i Martire, Vencia, Nicoletti, Carravetta, Pisano e tantissimi altri essere protagonisti, anche a costo della vita, nella lotta partigiana. Il protocollo di intesa vuole favorire l’ideazione e la promozione di percorsi di memoria, conoscenza e divulgazione. La Costituzione, l’antifascismo e l’impegno civile per la democrazia e la giustizia sociale verranno promossi e sostenuti attraverso azioni e appuntamenti non solo come il 25 Aprile ed il 2 Giugno (ma anche il 25 Luglio e tanti altri). E così tenere vivi gli ideali di libertà, democrazia ed uguaglianza soprattutto tra le giovani generazioni».
La sindaca di Casali del manco ed il presidente dell’Anpi Presila hanno infine dichiarato congiuntamente: «La stipula di questo protocollo segna una pagina importante in questa fase storica contrassegnata da derive preoccupanti per la pace, la democrazia, l’unità del Paese. Questa amministrazione e l’Anpi intendono far rivivere, anche con questo protocollo, la migliore storia politica, sociale e culturale della Presila».
Bisogna dire che almeno un merito Elkann l’ha avuto, scatenare indignazione molto più di una supercazzola della Schlein, cui pure toccherebbe in versione guerriglia quotidiana, purché anche pretestuosa. E ricordi, almeno per quanto mi riguarda. Quel raccontino, candidato paradossalmente a competere con l’altro tormentone estivo, l’Italodisco di Platino lanzichenecco da oltre 26 milioni di streaming e quasi 10 milioni di views su YouTube, mi ha restituito tutto il mio rapporto di amore e odio con il treno, facendomi rituffare nell’infanzia.
E in un modo diverso di vivere il treno, quando da bambino crescevo con i nonni a Paola, cittadina che viveva di ferrovia, in una “palazzina” del quartiere di concentramento ferrovieri, deportati da ogni dove d’Italia. Quelle a due piani, torride d’estate, quando la sera si stava i grandi a chiacchierare con le seggiulin‘i paglia davanti al portone, e noi piccoli intenti in qualche gioco chiassoso, e gelide d’inverno, a sventagliare sul braciere. La mattina la spesa alla “cooperativa ferrovieri”, e a mezzogiorno il pranzo, abitudine scandita dalla sirena di cambio turno del deposito locomotive, che ancora oggi, quando vuoi prendere in giro qualcuno per abitudini antiche, lo apostrofi con un “che fai, mangi con la sirena?!?”.
E poi il dopolavoro nebbioso di Nazionali senza filtro, vietatissimo a noi bambini, dal vociare sempre troppo alterato di scopone e tressette, con tutto quel vocabolario di termini storpiati che pochi ricordano ancora: chi nomina più gli scapicchianti, i pendolari del contrabbando prima, e della scuola poi… e del resto, di quel mondo e di quell’economia rimane ben poco, con il dormitorio, la mensa, la squadra rialzo e tutto ciò che lentamente se n’è andato…
Caro Alain Elkann, alla fine tocca pure ringraziarTi per averci spinto a rovistare fra ricordi preziosi, che visti da qui, eravamo tutti di origini abbastanza lanzichenecche!
Lì dove finanche la potenza dell’oceano aveva fallito, riuscì una banale appendicite mal curata. E così, l’1 agosto del 1920, Hollywood si ritrovò a piangere l’ancora 33enne Eugene Gaudio. Non era il suo vero nome, ma l’americanizzazione – dopo lo sbarco nel nuovo continente – di quello ricevuto alla nascita dai genitori Francesco Gaudio e Marietta Severini a Cosenza: Eugenio. Anche suo fratello aveva fatto la stessa cosa quando, insieme ad Eugene, avevano solcato l’Atlantico in cerca di fortuna. Da Gaetano Antonio si era trasformato nel più yankeeTony Gaudio. Non sapevano ancora che il loro cognome sarebbe entrato nella Storia del cinema.
Eugene e Tony Gaudio, da Cosenza agli Usa
Eugene e Tony Gaudio erano nati rispettivamente nel 1886 e nel 1883 per poi crescere a pane e fotografia tra le vie del centro storico di Cosenza. Il fratello maggiore, Raffaele, era già da tempo tra i professionisti più affermati della città in questo campo, con tanto di titolo di Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia ottenuto per i suoi meriti sul lavoro.
Fu proprio nei laboratori di Raffaele Gaudio in via Sertorio Quattromani e, in seguito, su corso Telesio che Eugene e Tony appresero a cavallo tra ‘800 e ‘900 i primi rudimenti dell’arte “inventata” da Joseph Nicéphore Niépce.
Ma c’era un’altra invenzione che, più di ogni altra al mondo, sembrava attrarre i due “piccoli” di casa Gaudio. Anche lì c’entravano dei fratelli, solo che erano francesi: Auguste e Luis Lumière. Il loro cinematografo era la novità del momento, il presente, ma da subito fu chiaro che avrebbe rappresentato anche il futuro della messa in scena. E, come per molte altre cose, l’America sembrava la terra promessa dove realizzare i propri sogni. Anche (e soprattutto) quelli da imprimere su pellicola e proiettare su uno schermo.
Il cinema dei pionieri
Fu così che Eugene e Tony Gaudio, come tanti altri in quegli anni, si imbarcarono su un piroscafo diretti a Ellis Island. Hollywood non era ancora quella che avremmo imparato presto a conoscere e anche sull’East Coast erano parecchi i cinematografari. Erano gli anni dei pionieri del grande schermo. L’epoca d’oro in cui – racconterà in un’intervista del 1933 proprio Tony – «non c’erano costosi staff di sceneggiatori… registi, produttori, cameramen, e persino il garzone dell’ufficio, suggerivano storie destinate a diventare dei film». Quella in cui «gli attori principali di ogni studio erano al tempo stesso falegnami, pittori, scenografi, addetti alla sicurezza, nonché le star dei loro film».
Angolo tra la 5th Avenue e la 42nd Street (New York, 1910)
Il più “artista” tra i due emigrati cosentini era proprio Tony – complici gli studi a Roma all’Istituto d’Arte, appunto, e alcuni corti girati per la torinese Ambrosio Film a inizio secolo – ma Eugene, seppur più giovane e inesperto, non era da meno. Grazie alle loro capacità trovare lavoro fu semplice e veloce. Agli impieghi nelle agenzie fotografiche seguirono presto quelli per le prime case di produzione cinematografiche: quella di A. L. Simpson; i Vitagraph Studios; la Life Photo Film Corporation, l’Independent Moving Pictures, con le sue dive come Mary Pickford.
Dall’East Coast alla West Coast
È proprio alla IMP che Tony ed Eugene Gaudio iniziano a farsi davvero un nome, il primo come capo fotografo (e autore di sceneggiature), l’altro come supervisore del laboratorio. Tony inizia a viaggiare tra l’East Coast e la West Coast, Eugene accumula successi professionali a New York lavorando per la Rex Factories e la Commercial Motion Pictures Company. Poi nel 1916 i fratelli cosentini si trasferiscono definitivamente in quella California che somiglia sempre più alla Mecca della settima arte. Eugene lo assume la neonata Universal, ma poco dopo prende servizio con Tony alla Metro. Pochi anni dopo, nel ’24, la casa si unirà ad altre due entrando nell’immaginario collettivo grazie al ruggito del leone che introdurrà per i decenni a seguire ogni pellicola della Metro Goldwin Mayer.
Operatori della MGM filmano il celebre leone che introduce i film prodotti dalla casa hollywoodiana
Eugene Gaudio, il mago del chiaroscuro
Eugene, che per l’antenata della MGM fa il direttore della fotografia, è balzato agli onori delle cronache già un anno prima del suo arrivo ad Hollywood, nel 1915, grazie ai riuscitissimi chiaroscuri in The House of Feardel regista Stuart Paton. È lo stesso anno in cui, insieme ad altri 14, fonda la American Society of Cinematographers. La società ancora oggi accoglie tra i suoi membri direttori della fotografia e tecnici degli effetti speciali che hanno saputo distinguersi nell’industria cinematografica, compreso un calabrese da Oscar come Mauro Fiore.Ma è il 1919 l’anno della sua consacrazione. E anche l’ultimo di cui vedrà la fine.
La locandina di Out of the fog
A portargli le lodi delle cronache culturali dell’epoca sono soprattutto due film diretti da Albert Capellani. Il primo, The Red Lantern, gli dà modo di mostrare tutto il suo talento con le luci durante riprese che vedono coinvolte fino a 800 comparse in contemporanea. Il secondo, Out of The Fog, lo consegna alla storia come – scriverà la stampa di quegli anni – «il primo cameraman a fotografare con successo una nebbia». Eugene Gaudio è ormai, riporta il settimanale newyorkese The Leader-Observer, «uno dei maghi del chiaroscuro» e lo conferma in pellicole come The Man Who Stayed at Home o The Notorius Mrs. Sands (1920), presente nel catalogo dei film muti della Biblioteca del Congresso di Washington.
Ventimila leghe sotto i mari
La pietra miliare della sua carriera, però, è Ventimila leghe sotto i mari. Le riprese sono lunghe, il film arriva in sala nel 1916. Si tratta del primo lungometraggio ispirato al celebre romanzo di Jules Verne, anche se la sceneggiatura pesca negli altri due libri dello scrittore nantese sulle gesta del Capitano Nemo a bordo del sommergibile Nautilus. I costi della pellicola – a seconda dei resoconti – superano i 200mila dollari o sfiorano addirittura il mezzo milione, facendone uno dei primi kolossal della storia del cinema. Gli incassi non saranno altrettanto sostanziosi. Eppure 20.000 Leagues Under The Sea non resta negli annali per il flop in sala. Lo fa perché è il primo lungometraggio di sempre con riprese sottomarine ed effetti speciali incredibili per l’epoca. Per girare le gesta dell’equipaggio del Nautilus Eugene Gaudio mette a repentaglio la sua stessa vita.
Il set del film sono le Bahamas, scelte dalle produttrici Universal Studios e Williamson Submarine Film Corporation per la trasparenza delle loro acque. La WSFC è la casa di John Ernest Williamson, che insieme a suo fratello George, ha appena inventato la photosphere. È una sfera di metallo da oltre 4 tonnellate, con un oblò davanti e un tubo sopra che la collega a una barca in superficie e la rifornisce dell’ossigeno necessario alla sopravvivenza del cameraman. Ma mentre Eugene Gaudio riprende l’attacco di uno squalo gigante dalle viscere dell’Atlantico qualcosa va storto. È lo stesso cosentino a ripercorrere quei momenti in un’intervista al New York Tribune.
Eugene Gaudio e l’incidente durante le riprese
«Il braccio telescopico con cui ero stato calato si era rotto nei pressi della chiatta quando la camera d’acciaio dentro la quale lavoravo colpì un cumulo di sabbia e vi si conficcò. Trainata dal nostro yacht, la chiatta si mosse, piegando il braccio telescopico al punto tale che tutti i tubi che convogliavano l’ossigeno finirono schiacciati, privandomi dell’aria. Sigillato in quella bara marina, telefonai freneticamente in superficie fornendo informazioni sulla mia situazione».
Ma la barca si trova quasi venti metri più su e la telefonata risolve poco. I soccorritori non arrivano. Peggio: durante le manovre per disincagliare la photoshere e sostituire il collegamento tra Eugene Gaudio e il resto della troupe il braccio telescopico da cambiare si rompe definitivamente. Dal tubo che doveva portare ossigeno adesso entra l’oceano.
Un’illustrazione d’epoca mostra il funzionamento dell’invenzione dei fratelli Williamson
È ancora il cosentino a raccontare il seguito: «La mia unica speranza era quella di uscire da quella camera prima che si riempisse d’acqua. Non c’era alcuna scala. Allora mi arrampicai all’interno di quel camino d’acciaio, aggrappandomi alle sue giunture, mentre l’acqua mi respingeva indietro con forza crescente. Ne ho ingoiato ansimando mentre cercavo di respirare, lottando lungo quei cinquantacinque piedi (una quindicina abbondante di metri, nda) di tubo pieno di acqua di mare, finché sembrò che i miei muscoli avrebbero presto smesso di rispondere ai miei frenetici sforzi».
Nove vite
Quando dall’estremità in superficie del tubo sbuca tra le onde la testa insanguinata di Eugene sulla barca hanno perso ormai le speranze. Ma il direttore della fotografia è ancora vivo, sebbene svenga pochi istanti dopo per lo sforzo immane compiuto in assenza d’aria.
«Abbiamo lavorato come delle furie, ma non ci aspettavamo di vederti vivo quando ti abbiamo tirato su: hai sicuramente nove vite, come un gatto», gli dirà il regista Paton vedendolo riprendersi dopo la disavventura sottomarina.
Troupe e cast di “20.000 Leagues Under The Sea”: Eugene Gaudio è l’ultimo in alto a destra
Se davvero erano nove, quella rischiata alle Bahamas per Eugene Gaudio è l’ultima vita a disposizione.
L’Oscar non esiste ancora, ma i risultati ottenuti con Ventimila leghe sotto i mari gli portano premi e apprezzamenti da tutti gli addetti ai lavori. Gli resta poco tempo per goderseli però. Nell’estate del 1920 un attacco di appendicite acuta lo porta in ospedale quando ormai è già troppo tardi. La peritonite lo uccide il primo agosto, quando ha ancora soltanto 33 anni. Alla notizia del decesso la diva Alla Nazimova – protagonista di più film con Eugene Gaudio alla fotografia – infrangerà la regola che la vedeva sempre assente alle première delle pellicole di cui era protagonista. Invita centinaia di colleghi all’anteprima di Madame Peacock (1920) all’Hollywood Theatre e dona l’intero incasso dell’evento alla vedova del cosentino, Vincenzina Pietropaolo, anche lei calabrese emigrata da Amantea.
Il “fotografo violinista”
E Tony Gaudio, il fratello di Eugene? Sarà il primo premio Oscar italiano qualche anno dopo, da direttore della fotografia di Avorio nero (1937). Otterrà anche altre cinque nominations agli Academy Awards durante una carriera che lo consacra tra gli indimenticabili della Settima arte. A lui si devono innovazioni tecniche come “l’effetto notte”, quella nuit américaine celebrata decenni dopo da Truffaut nel suo più sentito e famoso omaggio al mondo del cinema d’oltreoceano. Ma anche dispositivi per la messa a fuoco, tecniche di utilizzo delle luci, le prime riprese in Technicolor.
Eugene e Tony Gaudio
Questa però è un’altra storia, andata avanti fino al 1951, trentuno anni dopo la morte del fratello Eugene. Quello che – come scrisse nel 1922 The American Cinematographer – «guardava la propria macchina da presa come un violinista guarda il suo strumento, con tenerezza e affetto».
Un predestinato dallo strano destino. Luigi Fera è, con tutta probabilità, il politico cosentino di maggior rilievo dell’età liberale.
Tuttavia, ha subito i capricci di una toponomastica un po’ disordinata: già intestatario, per quasi un cinquantennio, della piazza con cui termina Corso Mazzini, è ora titolare dell’ex Corso d’Italia, la strada che porta dalla ex Piazza Fera al Tribunale di Cosenza.
Questo cambiamento è il prodotto di una decisione urbanistica unica: l’intestazione di una piazza a un vivo, qual era a inizio millennio il mecenate Domenico Bilotti.
Pochi ricordano che Fera ha comunque lasciato qualche impronta sulla città: il primo piano regolatore e il vecchio palazzo delle Poste, un esempio bello (e poco valorizzato) di architettura di età giolittiana.
Ovviamente i meriti di Fera non si fermano qui.
La vecchia piazza Fera
Un notabile predestinato
Luigi Fera è stato il primo politico calabrese ad avere ruoli ministeriali di spicco e a mantenerli a lungo. Dopo di lui avrebbero fatto meglio, durante il fascismo, Michele Bianchi e, dopo, Riccardo Misasi e Giacomo Mancini.
Una carriera così solida e forte non si costruisce per caso né per soli meriti. Contano tantissimo il contesto familiare e l’appartenenza sociale.
Ciò vale anche per Fera, che nasce a Cellara, un borgo tra il Savuto e la Sila, il 12 giugno 1868 nella classica buona famiglia, almeno secondo gli standard dell’epoca.
Infatti, suo papà Michele è medico (una stimmata del notabilato meridionale più autentico), professore di Scienze naturali al Liceo Telesio e presidente del Comizio agrario cosentino. Sua madre, Rachele Crocco, proviene da una famiglia di proprietari.
Il giovane Luigi frequenta il Telesio, in una classe piuttosto privilegiata, dove divide i banchi con Pasquale Rossi e Nicola Serra, altri due futuri big della storia contemporanea calabrese.
I legami col notabilato non finiscono qui: in una fase importante della sua carriera, Fera incrocerà altre due famiglie che contano, i Morelli di Rogliano e i Quintieri di Carolei, nel contesto piccante di uno scandalo d’epoca. Ma andiamo con ordine.
Luigi Fera avvocato rampante
Luigi Fera
Luigi Fera sale con zelo tutti i gradini della carriera dei notabili. Finito il Liceo, si iscrive all’Università di Napoli, dove frequenta Giurisprudenza e Filosofia.
È allievo, piuttosto bravo, di Giovanni Bovio e Filippo Masci e ama il giornalismo: non a caso è intimo di Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, fondatori e cervelli de Il Mattino.
Una volta laureato, Fera torna a Cosenza. Prima (1892-1893) insegna Filosofia al Telesio e poi si dà all’avvocatura penale. Per non farsi mancare niente, aderisce alla loggia “Bruzia”. Ricapitoliamo: professore, penalista e massone. Gli ideali trampolini per la carriera politica. Che inizia dal gradino base: il municipio.
Infatti, diventa consigliere comunale nel 1895, dopo aver redatto per un anno articoli di fuoco sul settimanale La Lotta.
Da consigliere, dedica le sue attenzioni alla riapertura della Biblioteca Civica. Tanto impegno gli vale la nomina a segretario perpetuo dell’Accademia Cosentina. Fera riprende, inoltre, le polemiche culturali. Al riguardo, fonda con Nicola Serra e Oreste Dito il giornale Cosenza Laica, con cui dà battaglia agli ambienti cattolici più ultrà.
Sindaco per pochi giorni
Ricapitoliamo ancora: professore, avvocato, pubblicista, consigliere comunale e accademico cosentino. A Luigi Fera manca solo la carica di sindaco.
Che arriva nel 1900, col rinnovo del consiglio comunale. Ma il trionfo dura pochissimo: il nuovo consiglio, squassato da faide interne e da compromessi instabili, non ha una maggioranza. Fera diventa sindaco per pochi giorni, poi deve mollare la presa.
Ma l’appuntamento col successo vero è solo rimandato. Arriva nel 1904, grazie a uno scandalo che il notabile cosentino risolve brillantemente da avvocato.
Morelli vs Quintieri: due casate a confronto
Non è una storia di corna, sebbene ci vada vicino. Né un drammone shakespeariano. La contesa familiare tra i Morelli di Rogliano e i Quintieri di Carolei, ricostruita con grande efficacia dal giornalista Luigi Michele Perri nel romanzo storico Il Monocolo(Eri-Rai 2011), è una storiaccia di provincia dai contorni boccacceschi.
I protagonisti sono Caterina Morelli, figlia unica di Donato, patriota risorgimentale e padrone politico di Rogliano, e suo marito Salvatore Quintieri, fratello minore di Angelo, imprenditore e finanziere caroleano e astro nascente della politica cosentina.
Deputato nel 1890 e seguace di Francesco Crispi, Angelo Quintieri passa con Giovanni Giolitti nel 1891. Giusto in tempo per candidarsi alle Politiche del 1892.
Non prima di aver stretto un accordo con Morelli, che nel frattempo è diventato senatore e gli lascia il suo collegio di Rogliano. L’alleanza tra le due famiglie è sancita dal classico matrimonio dinastico: appunto, quello tra Caterina e Salvatore.
Proprio da questo matrimonio nasce lo scandalo, tuttora gustoso da raccontare.
Francesco Crispi
Il figlio della discordia
La giovane coppia (lei poco più che quattordicenne, lui poco più che ventenne) si stabilisce a Carolei.
Per un certo periodo, le cose sembrano filare: Salvatore ha qualche propensione extraconiugale di troppo, parrebbe, ma coccola la moglie. Il problema emerge quando non arriva il figlio, il super erede che dovrebbe fondere le casate.
Nel tentativo di sbloccare la situazione, i due si trasferiscono a Napoli, dove si fanno visitare dal celebre medico Antonio Cardarelli. Il responso non è bellissimo per Angelo: l’infertilità sarebbe responsabilità sua, perché affetto da ipotrofia ai testicoli.
Nel 1900, tuttavia, Caterina annuncia di essere incinta. Il bambino nasce a Napoli ed è battezzato col nome di Giovanni Donato. Ma la serenità della coppia finisce qui. Il piccolo ha appena sei mesi, quando Salvatore denuncia la moglie di due reati pesanti, che avrebbe commesso in alternativa l’uno all’altro: o l’adulterio o la simulazione di parto. Per difendersi, Caterina deve provare di non aver simulato il parto né di aver fatto ricorso alla fecondazione “alternativa”. E che, quindi, come tutti gli orologi rotti, anche Salvatore è in grado di azzeccare l’ora due volte al giorno.
A questo punto, entra in scena Luigi Fera, che difende la giovane e la fa vincere, anzi stravincere. Non solo Caterina è prosciolta da ogni accusa, ma ottiene la separazione da Salvatore, che è comunque costretto a riconoscere il figlio.
Questa brillante performance forense diventa un balzo in avanti per la carriera di Fera, che entra nelle grazie del vecchio Morelli.
Un monumento di Donato Morelli
Luigi Fera in Parlamento
Donato Morelli muore nel 1902. Ma l’alleanza dinastica coi Quintieri è evaporata da tempo. Luigi Fera approfitta di questa rottura e si candida alle Politiche del 1904 proprio nel collegio di Rogliano, sgomberato tra l’altro anche da Angelo Fera, che ha mollato la politica un anno prima per motivi di salute.
La competizione elettorale resta comunque uno scontro tra le due casate: i Morelli, o quel che ne resta, rappresentati da Fera, e i Quintieri che tentano di riempire la casella vuota con Luigi, il secondogenito della famiglia caroleana.
Luigi Quintieri è un giolittiano e perciò gode del favore dei prefetti. Fera no e si candida con il Partito radicale. Ciononostante vince alla grande, anche perché i roglianesi, dopo lo scandalo, non vedono di buon occhio i Quintieri. A questo punto, il neodeputato cosentino ha la strada spianata per una carriera parlamentare brillante, che lo porta a ricoprire importanti cariche ministeriali in fasi a dir poco drammatiche: gli anni della Grande Guerra e l’ascesa del fascismo.
Giovanni Giolitti
Un riformista in carriera
La parabola parlamentare (e poi ministeriale) di Luigi Fera si può definire con un aggettivo: riformista.
Tutto il resto – il consueto trasformismo, i tentennamenti, i cambi di idee a volte repentini – fa parte senz’altro dello stile dei notabili tardo ottocenteschi. Ma è anche un comportamento quasi obbligato per i centristi laici e moderati come Fera, che rischiano di restare schiacciati tra le due nuove tendenze della politica italiana: l’allargamento del corpo elettorale, che emargina pian piano la borghesia liberale, e i partiti di massa (socialisti e popolari e poi comunisti e fascisti). Fera si muove con grande abilità e ottiene grossi risultati. La sua è una politica essenzialmente progressista. Ad esempio, quando promuove la costruzione della tratta ferroviaria Sibari-Crotone (1905) o quando spinge per l’approvazione della legge sulla Calabria (1906).
Discorso simile a livello urbanistico: è sua la legge che fissa il piano regolatore che amplia il territorio di Cosenza (1912) e lo estende fin quasi dentro i casali e fino quasi a Rende.
Di particolare rilievo, al riguardo, le polemiche con Francesco Saverio Nitti sull’assetto della proprietà fondiaria, che meritano una rapida riflessione a parte.
Francesco Saverio Nitti
Nitti vs Fera: due meridionalisti a confronto
Il dibattito tra i due big è fortissimo ed è giocato tutto in casa. Cioè nelle file del Partito radicale, da cui provengono entrambi.
Riguarda, come anticipato, la situazione delle proprietà agricole e riflette il diverso background dei due.
Nitti è un economista e parla da tecnocrate: il mercato, tramite libere contrattazioni tra proprietari e contadini, deve risolvere da sé il problema.
Luigi Fera, al contrario, esprime preoccupazioni sociali e politiche: lo Stato deve intervenire con riforme opportune e deve regolare il mercato, piuttosto selvaggio in questo settore.
Inutile dire, in questo caso, che le preoccupazioni di Fera risultano più aderenti alla realtà calabrese: sono le stesse cose che, circa quarant’anni prima, diceva Enrico Guicciardi, primo prefetto della Cosenza postunitaria, col supporto di Vincenzo Padula. Ma questa è un’altra storia. La si cita solo per far capire come in Calabria le cose fossero cambiate poco, dall’Unità alle soglie della Grande Guerra.
Luigi Fera “conservatore”?
Ci sono due episodi della vita politica di Luigi Fera in apparente controtendenza all’impostazione progressista: l’affossamento alla mozione di Leonida Bissolati per l’abolizione del catechismo nelle scuole elementari e l’appoggio alla conquista della Libia, promossa da Giolitti.
Il primo, cioè l’affossamento della mozione Bissolati, fu probabilmente un tentativo di evitare la crisi che si profilava nella massoneria, a cui Fera e Bissolati appartenevano.
La mozione Bissolati è appoggiata dal gran maestro Basilio Ferrari, che propone la censura nei confronti di tutti i deputati massoni che rifiutano l’appoggio alla mozione. Al contrario, è osteggiata da Saverio Fera, sovrano gran commendatore del Rito scozzese e pastore protestante. Luigi Fera e Giolitti provano a evitare il dibattito parlamentare per evitare due cose: la spaccatura del mondo laico e la crisi della massoneria. Non ci riescono. Per la guerra di Libia, è doverosa un’altra considerazione: il colonialismo, all’epoca di Fera, non è considerato un male. Anzi. Fera vede come tanti, nell’impresa nordafricana un modo per alleggerire le pressioni sociali che provengono dalle masse contadine del Sud, a cui la conquista di nuovi territori può offrire sbocchi alternativi.
Truppe coloniali italiane in Libia nel 1912
Luigi Fera ministro
Una stranezza di Luigi Fera è l’atteggiamento di fronte alla guerra. Il politico calabrese è di sicuro interventista. Ma non si capisce subito bene con chi. Ovvero se con Austria e Germania o con Inghilterra e Francia.
Ad ogni modo, in seguito all’ingresso dell’Italia in guerra, Fera fa l’ultimo salto di qualità. Diventa ministro delle Poste nei governi di Paolo Boselli e di Vittorio Emanuele Orlando. Poi, alla fine della guerra, diventa ministro di Grazia e giustizia sotto Giolitti (1919).
Questa sequenza ministeriale è il massimo del potere e del prestigio raggiunto da un politico calabrese dall’Unità alla crisi del sistema liberale.
Vittorio Emanuele Orlando
Un altro mondo
L’ascesa politica del fascismo è l’ultima spallata a quel mondo in cui si è formato Luigi Fera. Ma il big cosentino non lo sa. O forse lo sa fin troppo, ma vede nelle squadre di Mussolini il male minore.
Infatti, Fera appoggia i fascisti e ottiene, in parte i loro consensi nel 1921, quando si candida e risulta eletto per l’ultima volta. Per lui i comunisti sono il vero pericolo, a cui i fascisti si limitano a reagire. Di più: Fera non dispera in una successiva evoluzione democratica del movimento di Mussolini.
Tuttavia, la situazione precipita col delitto Matteotti (1924) e il parlamentare cosentino, che intuisce di non poter proseguire oltre la propria carriera, si ritira a vita privata.
Rifiuta la candidatura offertagli dai fascisti e si limita a fare l’avvocato a Roma. Muore nella capitale il 9 maggio 1935, nel momento di massima forza del regime. È decisamente un altro mondo, in cui per Fera e quelli come lui non c’è più posto.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.
Due associazioni e un’istituzione culturale uniscono le forze per un gran galà nel cuore dell’estate e nel cuore di Cosenza. Ci si riferisce a I Lunari, presieduta da Lia Calabria e a Sviluppo Consentia, guidata da Angelo Perrongelli che, in collaborazione con la Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”, organizzano il gran galà Sussurrando alla Luna, che si svolgerà nei giardini di Villa Rendano la sera del 28 luglio.
Lia Calabria, la presidente dell’associazione “I Lunari”
Una serata di teatro, arte e musica
Sussurrando alla luna è una serata di teatro, arte e musica, a base di monologhi teatrali, reading poetici, musica e esposizione di opere d’arte, legati da un solo filo conduttore: la luna e la sua bellezza.
Al riguardo, dice Lia Calabria: «Ho voluto fare un omaggio alla bellezza della Luna e delle Stelle, perciò ho creato una serie di monologhi a tema, che saranno seguiti da sei canzoni. Il tutto, sarà “incorniciato” dalle tele di diversi pittori cosentini, momento artistico, curato dalla storica e critica d’arte Mariateresa Buccieri. Novità assoluta, è il momento moda, basato su collezioni a tema».
Sussurrando alla Luna: monologhi e note
Iniziamo dai monologhi, scritti e diretti da Lia Calabria e affidati a un nutrito gruppo di interpreti, che menzioniamo uno per uno.
E cioè: Luca Aiello, Anna Angellina, Antonio Buffone, Marco Buoncristiano, Giuseppina Calvelli, Katia Diesse, Francesca Gaudio, Elena Massaro, Rodolfo Perri, Laura Pescatore, Cesarina Petramale, Giulia Perrongelli, Carmen Romano, Rosabella Rizzo e Giuseppe Rizzo. Le canzoni, invece, saranno interpretate da Martina Ranieri.
Il reading, invece, si baserà sulle poesie di Mariateresa Buccieri, Melania Dorsa e Giuseppe Piluso. Ospite d’onore, Matteo Bria.
La cantautrice Martina Ranieri
Sussurrando alla luna: artisti in mostra
Seguirà la mostra d’arte di maestri cosentini, illustrata dalla storica e critica d’arte Mariateresa Buccieri.
Tra gli artisti: Sandra Assisa, Emilia Berlingieri, Rita Canino, Rossana Chiappetta, Maria Clemente, Antonio De Luca (Anioti), Rosetta Juele, Francesca Lo Celso, Letizia Lucio, Brunella Patitucci, Mariella Perrotta, Sabina Salituro, Vincenza Salvino, Alessia Santamaria, Elena Semina.
Intermezzo culturale
Seguiranno due momenti culturali: Conversazione Al di là dei fiumi, l’Ottocento «sentimentale» di Villa Rendano (1873-1891) e Mons Trilius con l’esperta d’arte e guida turistica Paola Morano e lo storico Stefano Vecchione e Inno alla Creatività, a cura della professoressa Maria Gabriella Gallo.
L’artista Elena Semina
Una sfilata per concludere
In chiusura di serata, il fashion party e le creazioni dell’Accademia New Style, scuola di moda e di design di Franca Trozzo e della creatrice di moda Vincenza Salvino.
Sfileranno con gli abiti della collezione: Angelica Aiello, Drusy Caputo, Federica Filice, Francesca Gaudio, Martina Sicoli, Irma Zicarelli.
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