Tag: cosenza

  • Il talento spezzato di Achille Falcone

    Il talento spezzato di Achille Falcone

    Sui musicisti calabresi è stato scritto, si può dire, in modo più o meno scientifico e interessante. In qualche caso in modo ridondante, in altri casi solo per un pubblico di esperti e studiosi. Talvolta si legge un nome sconosciuto che diventa subito gradito ai giovani ricercatori che ne fanno bottino per impreziosire gli studi. Negli ultimi due decenni grazie alla digitalizzazione delle risorse bibliografiche, anche le fonti più inaccessibili e rare sono state portate alla luce.

    Per chi vive al Sud le due grandi Biblioteche musicali di Napoli e Palermo sono fonti inesauribili, ma pure il maestoso Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna offrono gemme importanti della nostra produzione musicale. Studiosi e appassionati si ritrovano spesso in una corsa al dettaglio tecnico, al tassello mancante, al gossip storico-musicale da rintracciare nelle opere e nelle vicende che hanno segnato le vite dei musicisti. Cosicché, seppure non sia ancora la terra di Mozart e Beethoven, la Calabria fa registrare un interesse sorprendente per la musica dei secoli passati.

    L’ingresso della Biblioteca civica in piazza XV marzo, sede dell’Accademia cosentina

    La musica di Achille Falcone

    In questa temperie ipertecnologica non sorprende invece una figura che della tecnica contrappuntistica fece una sua cifra e un modello di smagliante distinzione, sebbene con poca fortuna. Achille Falcone era nato a Cosenza intorno al 1570 dal musico Antonio. Nel Dizionario biografico degli Italiani dell’Enciclopedia Treccani la voce Falcone è curata da Walter Marzilli, ma nel dopoguerra almeno due nomi storici della musicologia italiana hanno compiuto studi e approfondimenti sul compositore calabrese, si tratta di Ottavio Tiby e Luciano Bianconi. Il primo in alcuni articoli dedicati, tra il 1952 e il 1969, ai polifonisti siciliani, e il secondo in un importante studio del 1973 e un articolo del 1972 per la Rivista Italiana di Musicologia dal titolo Sussidi bibliografici per i musicisti siciliani del ‘500 e del ‘600. E infatti il giovane Achille Falcone fu maestro di cappella a Caltagirone e per lungo tempo si è pensato addirittura che fosse siciliano. La sua breve vita, invece, fu spesa quasi interamente a Cosenza dove, giovanissimo, era entrato a far parte dell’Accademia di Aulo Giano Parrasio fondata nel 1511.

    Fu chiamato in Sicilia dove gli accadde una vicenda clamorosa e dolorosa insieme, che forse contribuì alla sua morte prematura, avvenuta quando era appena alle soglie dei trent’anni, il 9 novembre del 1600. Si tratta di una storia che offre dati storico-musicali, storiografici e musicologici di grande interesse ma che risulta, sul piano umano, assai deludente per chi ancora vede nella musica la lingua dell’armonia e del dialogo. Per certi versi una storia di grande attualità in cui prepotenza e arroganza, ipocrisia e doppiezza sono la cifra di strane conventicole musicali al servizio del signorotto di turno.

    achille-falcone-talento-spezzato-musicista-cosentino
    Musiche di Sebastiano Raval per le Lamentazioni di Geremia

    La sfida al pentagramma col protetto del vicerè

    In realtà a quel tempo erano assai frequenti delle vere e proprie disfide musicali che vedevano contrapporsi virtuosi di uno strumento, cantori o compositori, e Falcone si trovò a duellare con Sebastian Raval, maestro della Real Cappella a Palermo e protetto del vicerè. Raval, spagnolo, nato a Cartagena nel 1550, era divenuto frate dell’ordine di San Giovanni di Gerusalemme dopo una gioventù che potremmo dire spavalda e avventurosa, e non era nuovo alle sfide musicali che lo vedevano sempre perdente (aveva già perso, tra le altre, una sfida a Roma col musico Nanini). Raval ci è raccontato ogni volta come un personaggio arrogante e permaloso ma soprattutto capace di covare un profondo livore nei confronti di chi musicalmente non lo riteneva competente. Un dato umano che con una certa sprezzante postura scientifica oggi è ritenuto secondario rispetto alla rivalutazione delle sue composizioni.

    Come spiegano in uno studio Massimo Privitera e Maria Antonella Balsano (Musica sbagliata, Université de Poitiers, 2020), pare che un musico e letterato siracusano, tal Vincenzo Mirabella, gli avesse fatto notare degli errori nelle sue opere. Raval, subito alterato, lo sfidò chiedendogli chi fossero i suoi maestri. Mirabella fece i nomi dei Falcone, padre e figlio, e lo spagnolo iniziò a covare un profondo rancore, specialmente nei confronti di Achille. Incontratolo a Palermo, cominciò a provocare le sue reazioni favoleggiando di aver composto un madrigale a cinque voci con delle soluzioni compositive alquanto complesse. Alle perplessità di Achille rispose con la sfida: il vincitore avrebbe vinto un anello d’oro da mostrare ogni volta come trofeo.

    achille-falcone-talento-spezzato-musicista-cosentino
    Un testo dello studioso Massimo Privitera

    Il contrappunto del cosentino

    Achille che era animato da grande fervore per il contrappunto virtuosistico, possedeva una forte padronanza tecnica e un’alta vocazione per le complessità polifoniche più ardite: si lasciò coinvolgere, vincendo inizialmente nonostante alcune mosse infingarde dell’avversario, che aveva cercato di falsificare i manoscritti (relazione di padre Toscano del 18 aprile 1600). Purtroppo lo spagnolo, non contento, volle nuovamente affrontarlo, tappezzando – pare- i “pontoni di Palermo” con una serie di manifesti che chiamavano apertamente alla sfida il trentenne. Anche questa volta, il domenicano Nicola Toscano evidenzia gli inganni di Raval (seconda relazione del 26 luglio 1600). Ma Raval pretende con prepotenza un giudizio a lui favorevole.

    La commissione, infine, probabilmente perché collusa e corrotta, dichiara vincitore ultimo il musicista spagnolo, come scrive il padre di Achille nelle sue memorie, e anche secondo quanto riportato da Giuseppe Baini, il musicologo che approfondì la vicenda tra Settecento e Ottocento. Una vicenda tristissima che durò alcuni mesi a partire dalla primavera del 1600 e che, con buone probabilità, influì sulla salute e sul benessere del giovane che tentò, rammaricato, un terzo grado di giudizio chiamando in causa alcuni musicisti romani.

    La morte nella sua Cosenza

    Rientrato a Cosenza, tuttavia, si ammalò e morì in autunno. Privitera e Balsano, non senza una punta di amarezza, fanno notare come nei concerti successivi il Vicerè chiamasse a raccolta tutti i musici che avevano contribuito al successo del proprio protetto, Raval. Fu così che il padre Antonio decise di onorare la memoria di Achille con la pubblicazione (1603) dei madrigali con i quali il musicista calabrese aveva partecipato alla sfida, accompagnandola con una cronaca della vicenda.
    La produzione di Achille Falcone è giocoforza ridotta: perché è scomparso in giovane età e perché qualcosa si è perso nei secoli. Ci giungono un madrigale per tenore e basso continuo pubblicato in edizione moderna a cura del professor Bianconi, mottetti, molti brani polifonici (in un volume sono raccolti una quindicina di madrigali composti per varie occasioni e altri madrigali a 5 voci che aveva composto per la sfida). Ma pure ci giunge un senso di profonda amarezza per la perdita di un talento così giovane che avrebbe potuto dare alla città di Cosenza e alla Calabria grande risonanza, e perché questa vicenda si fa testimonianza di come sia facile per il potere capovolgere giudizi ed evidenze anche nell’arte musicale.

    Viviana Andreotti

  • Il sindaco repubblicano: addio a Claudio Giuliani

    Il sindaco repubblicano: addio a Claudio Giuliani

    Il nostro ricordo più recente di Claudio Giuliani risale a due anni fa, quando bazzicava con grandissima frequenza la redazione de I Calabresi.
    Non era più l’ingegnere di spessore (la pensione arriva per tutti) né il politico abilissimo e ironico che Cosenza aveva imparato ad apprezzare durante la sua lunga militanza a Palazzo dei Bruzi, come consigliere, assessore e sindaco. Il tutto nelle file del Partito repubblicano.
    Era la memoria perenne, lucidissima e viva di tutto questo. Era l’esperienza che si faceva saggezza, senza prendersi troppo sul serio.

    Parole e contenuti forti di Claudio Giuliani

    Non prendersi sul serio, per uno come Claudio Giuliani – che aveva fatto e visto tanto – significava una cosa: sorridere. E, soprattutto, non cercare mai di fare il protagonista. Sebbene il suo protagonismo nella vita della città resti indiscutibile.
    Indiscutibile e prezioso per almeno due volte. La prima fu a fine metà anni ’80, quando consentì alla giunta tipartita (Dc-Psi-Pri), orfana dei Socialdemocratici e di Pino Gentile, sindaco per la prima volta nelle schiere socialiste, di arrivare al voto.
    La seconda volta fu nel 1986, quando gestì il passaggio, ancor più delicato, tra Giacomo Mancini (sindaco per l’ultima volta nella Prima Repubblica) e il big democristiano Franco Santo.

    Un santino elettorale di Claudio Giuliani

    Claudio era una miniera di ricordi, che snocciolava con precisione chirurgica nel suo linguaggio ironico e tagliente.
    Tra una facezia e l’altra, ricostruiva interi periodi della vita cittadina e tracciava ritratti – a volte al vetriolo ma sempre fedelissimi – dei tanti big con cui aveva diviso la sua strada.
    Era pignolo senza averne l’aria. Uno di noi, che gli diede un passaggio, si sentì dire: «Non barare, togli quei gancetti e metti la cintura, perché non sai cosa rischi». Da uno come lui, che conosceva e amava i motori, non era un rimproverò né un’esortazione: era un ordine.

    Gioie e motori

    Della passione di Claudio Giuliani per i motori c’è una forte traccia in Corsi e ricorsi, il libro in cui l’ex sindaco raccontò la passione, sua e familiare, per le auto da corsa.
    Una passione soprattutto praticata, visto che l’ingegnere frequentò a lungo i tracciati della prestigiosa Coppa Sila (già battuti dal nonno, dal prozio e dal papà) con ottimi risultati.
    Detto questo, Claudio Giuliani non era un pirata della strada. Anzi: pilotava le auto allo stesso modo in cui faceva politica. Cioè con passione, abilità e coraggio, mai con spregiudicatezza o spericolatamente.
    Passione e abilità, ma anche spirito di servizio.

    Claudio Giuliani nell’album della Prima Repubblica

    A scorrere gli organigrammi di Palazzo dei Bruzi degli anni ’70-’80 emerge il ritratto di un’élite, l’ultima che Cosenza abbia avuto.
    Di questa élite, che traghettò la città in maniera indolore alla Seconda Repubblica (dice nulla la leadership persistente di Giacomo Mancini?), Claudio Giuliani fu elemento di spicco.
    La sua ultima attività pubblica risale al 2011, quando recuperò il mitico quadrifoglio e schierò una lista col sindaco uscente Salvatore Perugini. Al riguardo, resta memorabile un siparietto con tra i due ex sindaci, durante il quale l’ingegnere sottoponeva l’avvocato a un test di “cosentineria” (ovvero, basato sul riconoscimento dei luoghi storici o caratteristici e sulla traduzione in italiano dei detti tipici). Test passato appieno.
    Dopo, il graduale ritiro dalla vita pubblica, frequentata e osservata con lo sguardo del testimone passionale, che parlava di politica con lo stesso trasporto con cui si occupava del Cosenza.
    Gli anni passano e i percorsi (inevitabilmente) finiscono. I ricordi, quando sono costruiti sui meriti, restano.
    Cosenza saluta Claudio Giuliani nella camera ardente, allestita oggi a Villa Rendano il 9 novembre, e nella chiesa di Santa Teresa, dove sono previsti i funerali alle 11 di domani.

  • La Calabria possibile di Santo Strati

    La Calabria possibile di Santo Strati

    La terra raccontata dal giornalista e saggista Santo Srati, nel suo ultimo libro dal titolo “Calabria, Italia”, è un luogo utopico, straordinariamente ricco di opportunità eppure trascurate. Una colpa grave, cui tuttavia l’autore non dispera si possa porre rimedio. La potenza della bellezza della Calabria, la sua atavica incapacità di metterla a buon frutto, le vie da percorrere per mutare il destino, son stati i temi dell’incontro promosso dalla Fondazione Giuliani, uno degli appuntamenti che il presidente Walter Pellegrini apostrofa come «Libri in Villa».

    la-calabria-possibile-di-santo-strati-ieri-villa-rendano
    Il libro di Santo Strati presentato ieri a Villa Rendano

    Al fianco dell’autore c’era il professore Mauro Alvisi e in platea il sindaco Franz Caruso. Qual è la Calabria raccontata da Strati? E’ la terra che sembra sommersa dalle criticità e che pare disconoscere invece la bellezza di cui è portatrice. Un libro, come spiega Walter Pellegrini, che non elude i problemi, ma che suggerisce un mutamento di rotta, sembra indicare un cambiamento possibile. Si tratta solo di una “narrazione” negativa? Chiede Francesco Kostner stimolando il dibattito. Certamente no, pur esistendo un problema di comunicazione. Il dato che maggiormente sembra impedire ai calabresi di capovolgere il destino di Cenerentola del Paese sta nella storica incapacità dei calabresi di fare comunità, di vincere il localismo.

    Strati ne è certo e questo spiegherebbe una delle ragioni per le quali numerosi calabresi, lontani dalla loro terra, riescono ad affermarsi con grandi successi, trovando altrove contesti sociali maggiormente favorevoli. Manca, per dirla con la parole di Alvisi «l’intelligenza di connessione», la capacità, o forse la volontà, di fare squadra, di uscire dal proprio piccolo orizzonte e avviare progetti di cooperazione, i soli in grado di offrire a una comunità periferica come la nostra «la possibilità di pesare» nelle decisioni politiche nazionali. Ma questo tuttavia potrebbe non bastare, l’obiettivo più ambizioso riguarda la “reputazione”, concetto che nelle parole di Alvisi ha una sua materialità misurabile, in termini di affidabilità delle istituzioni e qualità concreta della vita, mentre nelle parole dell’autore assume anche un senso più vasto, propriamente politico e civile. Reputazione intesa come senso di appartenenza e cittadinanza orgogliosa. Sarebbe un primo passo, faticoso ma ineludibile.

  • Storia e cultura rom, l’antidoto contro gli stereotipi

    Storia e cultura rom, l’antidoto contro gli stereotipi

    La lingua e la cultura rom fanno tappa a Villa Rendano. Un dibattito polifonico durante il quale si sono alternate molte voci della comunità romanò cosentina e non solo. Studiosi e attivisti hanno spiegato il senso e la direzione di una presenza, di una storia che affonda le radici nell’Italia del XVI secolo.

    rom-studiosi-attivisti-confronto-ieri-villa-rendano
    Da sinstra Elma Battaglia (assistente sociale); Antonietta Cozza (consigliere comunale); Fiore Manzo (presidente Aps Lav Romanò); Walter Pellegrini, presidente della Fondazione Attilio e Elena Giuliani

    Fiore Manzo – ricercatore universitario e presidente di Aps Lav Romanò – ha sintetizzato in pochi minuti la storia dei rom, le origini, gli spostamenti e l’arrivo in Italia. Senza dimenticare quella che interessa i rom della città di Cosenza. E mettendo in guardia da quei meccanismi comunicativi così radicati che etichettano gli zingari «o come tutti artisti (stereotipi positivi) o come tutti ladri (stereotipi negativi)».
    Per Walter Pellegrini, presidente della fondazione Attilio e Elena Giuliani – «lo studio delle lingue e della cultura di tutte le etnie è in linea con lo spirito culturale» dell’ente che presiede.
    Antonietta Cozza, consigliere comunale con delega alla Cultura, ha portato i saluti del sindaco di Cosenza, Franz Caruso. Parlando dell’incontro di ieri come buon modo per «allontanare luoghi comuni e stereotipi e costruire una città sempre più inclusiva».
    Per Elma Battaglia, assistente sociale e socia Assnas Calabria, «quella rom è una cultura da abbracciare e comprendere». Le «differenze vanno difese e bisogna farne tesoro anche negli ambienti di lavoro», sottolinea Maria Rosaria Vuono, presidente di Hoplà cooperativa sociale.
    «Non siamo solo rom. Siamo italiani, europei. Siamo frutto di una contaminazione. Ma purtroppo siamo costretti a sentirci apolidi nella nostra città». Ecco il grido e la riflessione lanciati da Luigi Bevilacqua, attivista e vice presidente di Aps Lav Romanò.

    Rina Scala e Giusy Monterosso (Compagnia della Pigna) hanno recitato poesie dedicate alla cultura dei rom con musiche di Apo.

  • Quel gran genio di Vincenzo Talarico

    Quel gran genio di Vincenzo Talarico

    Vincenzo Talarico, “chi era costui”? Nato ad Acri (Cs) nel 1909 e morto a Roma nel 1972, Vincenzo Talarico, in un’epoca di grandi passioni e di scarsi mezzi, ha rappresentato l’icona del giovane provinciale calabrese che tenta la fortuna e “il successo delle arti” nella grande città capitale, rivestendo in concreto i panni di una sorta di eterno idealtipus del calabrese in commedia. E certo, ai suoi tempi, che furono quelli che per la storia della nazione intercorrono tra il fascismo, il neorealismo, la ricostruzione e gli anni del boom economico non fu esattamente un Carneade.

    Calabresi della diaspora

    Talarico è stato infatti molte cose assieme: giornalista, critico teatrale, scrittore, sceneggiatore e attore. Un acrobata della parola scritta e dell’eloquio letterario, un uomo colto, divertente, dalla vita eccentrica e fantasiosa. Un personaggio che merita un posto tra gli indimenticabili, anche se oggi se lo ricordano in pochi. Talarico è infatti un altro di quei folli, geniali ed eccentrici calabresi della diaspora che assieme a grandi artisti, scrittori e comprimari come Mimmo Rotella, Leonida Repaci, Corrado Alvaro, Giuseppe Selvaggi e Raul Maria de Angelis, tutti vissuti Roma a cavallo tra le due guerre fino agli anni del boom, poterono diventare qualcosa e qualcuno solo fuori dall’asfissia provinciale dei paesi d’origine e dalle piccola società delle città provinciali della vecchia Calabria.

    Con Leopoldo Trieste, Talarico fu uno di quei “calabresi in commedia” del cinema italiano del dopoguerra; entrambi picari ingegnosissimi e stralunati, che hanno attraversato il secolo passato lasciando tracce di sé talvolta luminose e degne di ricordo non solo nel cinema popolare ma anche nella vita culturale del Paese, restando spesso ignoti tra le strade di casa, proprio laddove la loro avventura aveva preso l’avvio.

    Leopoldo Trieste

    A dispetto della biografia ricca di incostanti lampi di genialità e di smaglianti espedienti letterari, Talarico non era affatto un personaggio culturalmente effimero e valetudinario. Prima di tentare l’avventura rocambolesca del cinema, la sua penna di notista accreditato nei palazzi del potere era temuta per l’umore sarcastico e l’acuminata ferocia con cui sceglieva i suoi bersagli. Ai tempi del pieno consenso al fascismo i suoi strali non risparmiarono il Duce, che lo apostrofò come “ignobile libellista”.

    Il giornalista che amava la dolce vita

    A lungo giornalista e critico cinematografico per La Stampa, L’Europeo e L’Espresso, Talarico faceva parte di quel memorabile gruppo di intellettuali liberali che ruotavano attorno a Leo Longanesi, come Ercole Patti, Sandro De Feo e Mario Pannunzio, di cui Talarico divenne stretto divenne collaboratore per le pagine de Il Mondo.
    Talarico, come Leopoldo Trieste, amava il cinema e le belle donne; due buoni motivi per stare a Roma e attraversarla in lungo e in largo in quegli anni formidabili. Talarico visse la sua stagione di notorietà mentre a Roma la fabbrica dei sogni esplodeva nella pienezza cinica e gaudente degli anni della “dolce vita” e di via Veneto. Lo si ritrova assiduo frequentatore di tutti i santuari di strada della cultura del tempo. Trascorreva le sue giornate di “flanellista” tra il Caffè Aragno o in mezzo ai crocchi riuniti ai tavolini di Rosati o Canova.

    Qui lo si ritrovava a chiacchierare e far notte con gente come Emilio Cecchi, Roberto Rossellini e in confidenza con scrittori e artisti di primo piano della scena culturale romana di quegli anni come Palazzeschi, Cardarelli, Moravia, Ungaretti, Guttuso, Flaiano, Repaci, Brancati o Alvaro. Già giornalista satirico e critico teatrale, prima di diventare anche sceneggiatore di successo (vinse un Nastro d’argento per il soggetto e la sceneggiatura di Anni facili), Talarico, giovane avvocato mancato, fuggito presto dal tedio e dalle ristrettezze del suo paese calabro, aveva – soprattutto – una autentica fissazione per il cinema, e così fece di tutto anche per indossare al cinema anche i panni dell’attore. Ne vennero o fuori parti da caratterista formidabili e iconiche.

    Vincenzo Talarico. avvocato in “Un giorno in pretura”

    Nel cast di Un giorno in pretura

    È lui, infatti, avvocato davvero ma senza aver mai esercitato per un giorno neanche alla pretura del paese, che spesso indossa toga e tocco in camei indimenticabili ed esilaranti. Lo ritroviamo così nelle vesti di avvocato in numerosi film e commedie di grande successo popolare, come in Un giorno in pretura. In quella commedia del 1953, diretta da Steno, è lui l’avvocato magniloquente e sgarrupato che difende la causa davanti alla corte e ai giurati, ricorrendo ad effetti da leguleio di paese e a stralunate formule da azzeccagarbugli.

    Il suo assistito è il grande Alberto Sordi, che nel film è Nando Moriconi, il giovane tontolone di borgata detto l’americano, arrestato perché sorpreso nudo per strada. Talarico sul set cingeva la toga con così tanta maestria che a lui toccò quasi per antonomasia la parte dell’avvocato difensore che portava inevitabilmente alla condanna del povero imputato, come di seguito in altre commedie memorabili, Il bigamo o Il vigile.

    Totò gli stacca un orecchio a morsi

    Dotato di una notevole presenza scenica e di un aspetto da notabile borbonico, oltre che di una maschera teatrale naturale, caratterizzata da un difetto di vista che ne rendeva il volto e la mimica involontariamente comiche – aveva l’occhio sinistro fortemente strabico, negli anni cinquanta Talarico apparve come caratterista di lusso in numerose commedie per il cinema, alcune delle quali da lui scritte portavano la sua firma anche tra gli sceneggiatori. Per il pubblico popolare divenne subito un personaggio noto e perfettamente riconoscibile. E in carriera partecipò a decine di film.

    Con il suo eloquio prolisso, rotondo e polveroso “Don Vincenzino” fu anche l’emblema dei funzionari ministeriali vacui e ipocriti e dei notabili democristiani in ascesa, a cui diede numerose volte voce e volto. Lo si ricorda come comprimario di rilevo e caratterista enfatico anche in Dov’è la libertà?, un film commedia dal sapore malinconico e amarognolo, diretto nel 1954 da Roberto Rossellini da una sceneggiatura teatrale di Leopoldo Trieste (di cui Talarico fu al lungo amico), quando Totò, al culmine di una scenetta memorabile, gli stacca un orecchio a morsi.
    Fu poi l’onorevole Borgiani di un film culto di quella stagione come Un americano a Roma, in una scena dove Sordi fa polpette della sua rispettabilità; e ancora, il nuovo tipo del “funzionario Rai” che formula un giudizio avverso stigmatizzando il difetto del candidato Sordi che si presenta ai commissari sfoderando la sua sorridente dentatura equina in Dentone, episodio gustosissimo del film I mostri.

    VIncenzo Talarico in una scena di “Un americano a Roma!

    Una faccia da cinema

    Questi suoi piccoli ruoli da caratterista e i brillanti numerosi cameo impersonati col tempo fecero di Talarico un attore niente affatto improvvisato. Prova ne è che la sua voce stentorea e il suo volto stralunato compaiono in una lunga sequela di film e di commedie famosissime. I ruoli in cui Talarico eccelleva sono quelli del burocrate tronfio e intrigante o del retore che sfoggia la sua dotta scilinguagnola da notabile di paese, o quando impersona con le sue sghembe espressioni facciali da teatro greco, il vecchio satiro che punta la sua preda femminile con lo sguardo liquido di un rettile. Queste personalità multiple indossate con disinvoltura e divertimento per il cinema popolare in veste di caratterista, sono anche altrettante prove di una consapevolezza autoironica e di un sarcasmo intellettuale che non si dimenticano, e che in Talarico furono anche caratteristiche spiccate dell’uomo e dell’artista.

    In seguito Talarico si confermò soprattutto come sceneggiatore per il cinema, versatile tanto sul registro della commedia popolare (Pane, amore e gelosia, Il bigamo), sia per il suo impegno su pellicole che affrontavano temi meno facili, e in alcune prove d’autore dal piglio certo più polemico e aggressivo (Anni facili, Il moralista, Anni ruggenti). Dimostrandosi capace com’era anche con la scrittura di analizzare con asprezza e profondo acume critico lo spirito di qui tempi.

    L’ultima notte dei “casini”

    Amico di Vitaliano Brancati – scrivono insieme per il teatro La giornata del poeta -, Vincenzo Talarico nel 1953 firmò con proprio con Brancati la sceneggiatura di Anni facili, insieme a Luigi Zampa, a Sergio Amidei. E sempre in compagnia di Luigi Zampa e Sergio Amidei, Talarico, collaborò poi alla sceneggiatura di Anni ruggenti.
    Talarico era però essenzialmente un finissimo e colto uomo di lettere e un assiduo frequentare di ambienti letterari. Nella Roma che attraversa le guerre è amico di vecchia data di Cardarelli, di Ennio Flaiano e di Mario Soldati. Indimenticabile è un suo articolo in cui ricorda l’ultimo giorno di apertura dei casini, chiusi nel 1959 dalla legge Merlin, trascorso a fare un nostalgico giro per il passo d’addio alle “signorine” delle migliori case chiuse di Roma in compagnia di un ineffabile Mario Soldati. Ma in altri momenti Talarico partecipa con Maria Bellonci e Guido Alberti alla fondazione del Premio Strega, di cui è tra i primi prestigiosi promotori.

    Nomignoli per tutti

    E sarà sempre considerato da allora tra i giurati più valorosi e influenti. Figura critica sempre autorevole e presente alle carambole e alle scaramucce che vivacizzavano il mondo degli scrittori e dei giornalisti che contavano in quel rarefatto e stravagante mondo letterario romano. Oltre agli articoli e ai libri della penna di Talarico restano infatti memorabili proprio per certi suoi blasoni impietosamente affibbiati ai suoi sodali letterati.

    Faceva a gara in questo con un altro amico buontempone della sua cerchia, lo scultore emiliano Marino Mazzacurati. Nomignoli cinici e spassosi che scivolati dalla sua penna acuminata, restavano poi impressi per sempre sui personaggi che entrambi prendevano di mira. Come “Supercortomaggiore” (Leo Longanesi); “Cecchi dice sì, Cecchi dice no” (Emilio Cecchi); “Il più grande Poeta Morente” (Vincenzo Cardarelli); “L’Amaro Gambarotta” (Alberto Moravia); “Il brutto addormentato nel basco” (Alberto Savinio); L’incantatore di sergenti” (Filippo De Pisis); “La salma” (Ercole Patti); La picassata alla siciliana” (Renato Guttuso); “Il Cavaliere del Lavoro altrui” (Sandro De Feo).

    Vincenzo Talarico “il lepre”

    Non sfuggiva alla regola del soprannome neanche lui, Vincenzo Talarico. Per la sua cerchia di letterati, artisti e amici del cinema, “don Vincenzino” era “Il lepre”, nomignolo appiccicatogli per la sua stramba fisionomia: occhi fortemente strabici, nasone, faccia un po’ storta e sgrugnata, labbro superiore sporgente, ma il soprannome pare gli fosse stato appioppato anche per la rapidità con cui, alto e ben piantato, attraversava a grandi lunate piazza del Popolo spostandosi dal gruppo che sedeva davanti a Rosati a quello che si trovava da Canova, per puntare la nuova soubrettina che voleva comicamente concupire.

    Talarico ha vissuto quegli anni indimenticabili come un altro grande outsider intellettuale con cui condivise a Roma fama e avventure da picari di provincia, il grande Giancarlo Fusco. Come Fusco, Talarico ruppe fragorosamente l’argine di conformismo della società letteraria romana, passando allegramente da un campo all’altro di arti e mestieri con grande divertimento e talento; dal giornalismo alle sceneggiature, dalla narrativa alla critica fino ai soggetti per film, non disdegnando di rappresentare ironicamente se stesso in film comici che lo resero noto al grande pubblico.
    Ma la sua specialità era di fare della propria vita materia d’arte. Ancora oggi restano poco note e sottovalutate le sue doti di scrittore, la sua finezza culturale allegramente dissipata in mille imprese e dispendiosi rivoli vitali.

    Uno scrittore originale

    Qualità di scrittura e di calibro intellettuale che, in una rivista intitolata Confronto, gli viene riconosciuta invece già in quegli anni della dolce vita da una scrittrice criticamente seria ed esigente come Elena Croce, che riferendosi a Talarico ne scriveva così: «La figura di Talarico, così rappresentativa della Calabria come di una certa Roma degli anni Cinquanta e Sessanta, chiede di essere molto approfondita. Come tutti i grandi umoristi, Vincenzo Talarico, aveva una personalità molto riservata, quasi ermetica: non però al punto da non lasciare penetrare l’essenziale. E cioè la sua grande larghezza d’idee e il suo animo generoso, la sua gentilezza profonda, l’eleganza con cui non faceva mai pesare la sua grandissima cultura; e la mancanza di vanità per cui non pretese mai di essere riconosciuto per ciò che egli era: un prosatore squisito».

    Di lui oltre a un profluvio di critiche teatrali e cinematografiche e prose giornalistiche, restano anche alcuni notevoli e trascurati romanzi. Raccontò la sua fuga da Roma occupata nel 1943, assieme a Mario Soldati e Leo Longanesi, in un delizioso libro intitolato Otto settembre. Letterati in fuga (con disegni di Mino Maccari). Altri suoi libri sulla Roma degli anni Quaranta e Cinquanta, oggi sono quasi impossibili a trovarsi, come Mussolini in Pantofole, Pasquino insanguinato e I passi perduti. Meriterebbero tutti di essere ripubblicati.
    Chi legge questi libri oggi si rende conto di come Talarico fosse molto di più di un cronista e di un brillante perdigiorno mondano. Era uno scrittore originale che sapeva cogliere gli aspetti inquietanti e incongrui della realtà per alleggerirli con grazia e umorismo.

     

  • STRADE PERDUTE | Le vie misteriose che portano a Castroregio

    STRADE PERDUTE | Le vie misteriose che portano a Castroregio

    Proviamo a fare sullo Ionio la stessa deviazione fatta recentemente sul Tirreno. Se ci addentriamo tra le colline, verso Castroregio, abbiamo due possibilità.

    Piano a: Castroregio via Albidona

    La prima scelta passa per Albidona. Allora vale la pena fare due passi fino alla cima del paese, almeno per dare un’occhiata a quello che fu, appunto, Palazzo Chidichimo, punto di partenza di tutti i vari rami della nobilitata famiglia originaria di Alessandria Del Carretto. Inclusi i rami che dal Novecento hanno fruttificato – eccome! – pure nel capoluogo.
    Il cuore di tutto. A proposito di cuore, aggiungo la solita curiosità araldica. Lo stemma dei Chidichimo ha sempre raffigurato un cuore rosso, caricato di due bande azzurre. Detto meno tecnicamente: un cuore fasciato.
    Se ne possono vedere vari esemplari sia ad Albidona che ad Alessandria. E questo stemma deve aver portato fortuna, visto che nel Novecento proprio Guido Chidichimo (figlio di quell’Ortensia da cui il nome della nota clinica cosentina) divenne luminare internazionalmente riconosciuto nel campo della cardiologia, primo ad operare un intervento a cuore aperto, nel 1964.

    castroregio-scrigno-piccoli-misteri-calabria-basilicata
    Lo stemma dei Chidichimo nella chiesa madre di Alessandria del Carretto (foto di L. I. Fragale)

    Piano b: Castroregio via Oriolo

    La seconda opzione è la strada che conduce ad Oriolo Calabro.
    In questo caso, è obbligatorio guardare sulle colline a destra del torrente Ferro, che serpeggia nella pietraia sotto di noi. A un certo punto si nota ciò che resta dalla Masseria dei nobili Camodèca (suggerimento: si distingue per un gran buco circolare sul tetto sfondato).
    Guardando invece a sinistra, scorgerete sul crinale la Pietra del Castello: una grande roccia che le leggende locali vorrebbero legata a curiose superstizioni. Si trova ad Amendolara, lungo la vecchia strada che conduceva ad Oriolo e che ora non porta quasi in alcun luogo: è massacrata in più parti da frane e, a tratti, chiusa sine die.
    Sempre se si sceglie questa seconda variante, c’è la possibilità di una digressione. In mezz’ora si raggiunge, attraverso una strada vicinale, la splendida e abbandonatissima Masseria Maristella (sempre dei suddetti Chidichimo).
    Dapprima si costeggia la rigogliosissima e tuttora attiva Masseria Acciardi, che custodisce una cappelletta in mezzo agli ulivi e un antico stazzo in pietra. Quest’ultimo è un esempio di quell’ormai rarissima tipologia di ricovero di forma semicircolare per le bestie. A proposito: ne ho scovato solo un altro, più piccolo, in un angolo più o meno irraggiungibile di campagna, tra Oriolo e Montegiordano.

    castroregio-scrigno-piccoli-misteri-calabria-basilicata
    I ruderi della masseria Maristella ad Albidona

    I portali di Castroregio

    In entrambi i casi preparatevi ad una salita estenuante: Castroregio (con una g e non due come si legge da anni e anni allo svincolo per Oriolo) è appollaiata come una specie di nido d’aquila irraggiungibile in cima ad un cocuzzolo.
    Ma non tanto irraggiungibile da non permettere di ritrovare anche qui un esemplare dei portali nobiliari costruiti nell’Ottocento dai fratelli Calienno e anche in questo caso si tratta del Palazzo Camodeca.
    Pensate solamente che da quassù si riesce a vedere nientemeno la lontana Timpa di Pietrasasso, ovvero ’u timbarìll’, l’ofiolite monumentale in territorio di Terranova di Pollino. Tornanti su tornanti, insomma, strettissimi e inevitabili: solo queste due strade conducono al paese e di conseguenza pure alla chiesa di Santa Maria della Neve, in mezzo alla foresta disseminata di quei megaliti cui si sono attribuite diverse funzioni, persino rituali, in epoca preistorica.

    Preti e magia a Castroregio e non solo

    Chiese, leggende, rituali preistorici: nulla di strano se i preti ottocenteschi di questo lembo di terra tra Calabria e Basilicata ricopiassero pazientemente formulari cinquecenteschi di magia colta.
    Al riguardo, va smantellata la tanto nota separazione fra la magia colta e quella magia popolare che proprio in Lucania aveva trovato il suo luogo d’elezione, anche a causa di un immaginario collettivo viziato degli studi di Ernesto de Martino.
    E va smentita la centralità di un luogo casualmente scelto dall’antropologo e poi assurto, assieme al Salento, a culla di forme superstiziose a sé stanti.

    I megaliti della foresta di Castroregio (foto Alfonso Morelli, Associazione Culturale Mistery Hunters)

    Due parole sull’Arbëria

    Cast’rringi in oriolese, Kastërnexhi in arbëreshë: se non s’è ancora capito – e non sia stato sufficiente citare i Chidichimo e i Camodeca – siamo in area italoalbanese.
    Allora è il momento di sfatare un luogo comune radicatissimo nella storia del Mezzogiorno: ovvero che le comunità albanesi fossero solo quelle stanziate nella solita arcinota sequela di paesi dichiaratamente legati a tali origini.
    Un’attenta lettura dei fatti storici, della diffusione dei cognomi e dei toponimi nelle nostre regioni dovrebbe maggiormente avvertire gli studiosi della falsità di questo dato. Già: gli albanesi erano pressoché ovunque e i loro cognomi sono molti di più di quelli generalmente ritenuti tali.

    Quanti sono gli arbëreshe?

    È senz’altro una colpa della storiografia locale, impigritasi nel tempo, l’aver spesso confuso alcuni dati. Volendo offrire un solo esempio, sfugge solitamente – pure ad eminenti studiosi – che alcuni nostri paesi non nacquero albanesi ma lo divennero (penso a San Benedetto Ullano, nel cosentino; o ad Àndali, nel catanzarese). Al contrario, vi sono paesi che non acquistarono mai un ufficiale status arbëreshe ma che albanesi furono anche profondamente, sebbene in parte.
    Penso a Roseto, Montegiordano, Amendolara, Albidona, Alessandria del Carretto, Noepoli, Senise, o soprattutto a Oriolo. In questi paesi il notabilato cinque-settecentesco è stato quasi più albanese che oriundo. Ciò grazie anche al fatto che quest’area fosse sede marchesale, legata agli albanofili Sanseverino. Basterebbe leggere le cronache seicentesche di Giorgio Toscano per rendersene conto in un attimo, o confrontarle con i toponimi rurali ancor oggi superstiti.

    L’archimandrita di Castroregio Pietro Camodeca

    Ritorno alla base

    Torniamo alla base. Si passa sopra all’orrendo viadotto Pagliara, cioè il brutto ponte che vi aspetta alla fine di una galleria, in forte pendenza sopra i tetti della marina di Trebisacce.
    L’ecomostro, opera certa di un pazzo, verrà demolito a breve. È l’unica notizia buona legata alla costruzione del terzo megalotto della nuova Ss 106 (Sibari-Roseto).
    Per il resto, quest’opera sta provocando soprattutto la cancellazione di ettari ed ettari di colline e boschi che si sarebbero potuti salvaguardare un po’ di più.
    Ma la velocità decide le cose. E non solo quella: ad esempio l’influenza di qualche grosso proprietario terriero, come ai bei tempi.

  • Nik, Franz e quel vice sindaco di troppo

    Nik, Franz e quel vice sindaco di troppo

    «Il Pd? È un partito dalle molte anime, direi fluido, qui è rappresentato sempre dalle stesse persone». Fluido ma alla fine pure granitico. Maria Pia Funaro, ormai ex vicesindaco di Cosenza, defenestrata in modo cinicamente burocratico, tramite una Pec, dà voce a quello che i molti presenti alla sua conferenza stampa già sanno.
    La presunta e per adesso solo desiderata rivoluzione della Schlein qui non è mai arrivata, nemmeno come ipotesi, «perché il partito è gattopardesco, cambiare per restare uguale». E il rapporto politico con il plenipotenziario del Pd, Francesco Boccia, si era affievolito da troppo tempo. Altrimenti nessuno l’avrebbe rimossa.
    Questa è molto più della storia di un vice sindaco cui sono state ritirate le deleghe. Questa è la storia di un grumo di potere che è così concrezionato da essere parte integrante della storia del Pd, fin da quando aveva un altro nome e forse persino nelle sue radici più antiche.

    maria-pia-funaro-ex-vicesindaco-cosenza-gattopardi-pd
    Maria Pia Funaro spiega le ragioni della sua defenestrazione da vice sindaco

    Il Pd è un partito che tace davanti alla fucilazione alla schiena di un suo significativo rappresentante, cui i vertici nazionali avevano chiesto di mettersi in gioco assumendo la carica di vice sindaco, un partito che adesso si sfila dai commenti, che cerca abbastanza goffamente di far finta che non sia accaduto nulla. Alla conferenza stampa ovviamente del Pd non c’era nessuno, salvo un sorridente Salvatore Giorno, venuto forse per farsi domandare cosa ci facessi lì. Mancavano i vertici regionali e provinciali, mentre per contrappasso c’era chi, come l’anziano Gino Pagliuso, ha passato tutta la vita dentro il ventre della Balena bianca.

    L’ex vice sindaco di Cosenza, Maria Pia Funaro

    Rimossa con una Pec

    Il mondo che sta attorno alla Funaro è variegato e c’era tutto: cattolicesimo di sinistra, volontariato, società civile. Del resto, da candidata alla prima esperienza raccoglie oltre 500 voti, tanti da proiettarla verso il ruolo che fino all’altro ieri ha ricoperto, prima che dalla segreteria del sindaco non giungesse la telefonata che diceva «viene a ritirare il provvedimento qui, oppure glielo mandiamo per email?».

    Il provvedimento era l’addio per sempre di Caruso alla sua vice. Non è nemmeno solo una questione di stile, forse anche di coraggio. Ma la questione è propriamente politica, mica di eleganza. E qui la politica si fa con il coltello tra i denti, non ci sono amici, solo alleati e se non durano per sempre i primi, figuriamoci gli altri. Per come la racconta Maria Pia Funaro, che stemperata la tensione affronta l’assemblea con efficacia, la defenestrazione si consuma perché «è mancata la coesione», come recita la mail di licenziamento.

    In realtà le cose sono più complesse, mal celando bramosie di spazi, lotte di potere, posizionamenti di pedine nel gioco dell’amministrazione di un territorio. Dunque ben oltre le pur significative distanze tra la Funaro e Caruso su alcuni punti, per ultimo la posizione da assumere verso l’ipotesi avanzata dalla Cgil riguardo il luogo dove far sorgere il nuovo ospedale.

    maria-pia-funaro-ex-vicesindaco-cosenza-gattopardi-pd
    Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio

    E se il partito nazionale, oltre che i vertici regionali, perdono un vice sindaco senza emettere nemmeno un gemito, vuol dire che o questo luogo è destinato a restare inutile periferia, oppure è un feudo intoccabile. La Funaro non esclude la prima ipotesi, ma tende ad avvalorare maggiormente la seconda, in entrambi i casi c’è poco da stare allegri, visto che «non si vuole entrare in conflitto con chi da sempre conta sul territorio».
    Come indicibili fantasmi, i nomi di Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio non si fanno mai, salvo quando con consueta irriverenza Claudio Dionesalvi domanda ridendo se il nuovo vicesindaco sarà una donna. Il riferimento è chiaro, la Funaro non elude la domanda né la persona evocata, ridendo di rimando dice che non crede possa essere lei, «più probabile qualcuno di quella scuderia». Chissà dove li addestrano a correre questi politici.

  • Moltitudine, ecco la città che (in)sorge dal centro storico

    Moltitudine, ecco la città che (in)sorge dal centro storico

    La Moltitudine esiste e nei giorni scorsi ha scelto come luogo di raduno il Centro storico di Cosenza. Giovani e vecchi, studenti e professori, bambini e famiglie, ultras e volontari, hanno dato vita alla terza edizione della Summer school dell’Unical che si è svolta tra le antiche pietre della città. La scelta è ovviamente assai più che simbolica, esprime per intero una idea differente di abitare gli spazi urbani, un progetto che “insorge” direttamente dal basso, essendo la politica istituzionale rimasta a guardare e forse nemmeno a fare quello. Ne è uscita una foto senza ritocchi, in cui la bellezza che resta fa i conti con la minaccia sempre più reale del degrado.

    summer-school-unical-citta-insorge-dal-basso
    Alunni del quartiere storico Spirito Santo

    Il centro storico dunque è stato scelto come luogo d’incontro tra la città e l’Università, che come avvisa Mariafrancesca D’Agostino, sociologa dell’Unical «rischia un atteggiamento autoreferenziale, mentre deve riscoprire il suo ruolo di promozione di saperi critici, diffusi e condivisi». Abitare il centro storico, riempirlo di contenuti, parole, dibattiti e progetti «rappresenta uno sforzo per battere una visione rassegnata, che non sembra immaginare salvezza per la città vecchia», spiega cui guardare la sociologa. In realtà la prospettiva da cui guardare deve essere assai più ampia, perché il destino della parte antica della città, non può essere separata da quella della città intera e perfino dell’area urbana, «perché pensare all’uso degli spazi urbani, alla loro fruizione, alla loro valorizzazione attraverso la presenza reale delle persone, vuol dire immaginare uno sviluppo sostenibile in grado di dare futuro alla città».

    summer-school-unical-citta-insorge-dal-basso
    La sociologa dell’Unical, Mariafrancesca D’Agostino (a sinistra)

    Il Comune grande assente

    Alla costruzione di questa esperienza fatta di confronto politico e allegria c’è stato un grande assente: il Comune di Cosenza. «Prima della vittoria del centro sinistra – dice la D’Agostino – al comune avevamo una giunta che pensava in termini di grandi opere, una visione che era incompatibile con la nostra idea di sviluppo», L’arrivo di Franz Caruso a Palazzo dei Bruzi poteva cambiare le cose e invece no. Uno dei motivi della mancata interlocuzione è lo scontro che mesi fa si è consumato tra Massimo Ciglio, preside dell’Istituto comprensivo dello Spirito Santo, che dell’esperienza della Summer school è stato protagonista e lo stesso sindaco. Lo scontro riguardò l’uso dello slargo su via Roma, chiuso da Occhiuto al traffico e poi riaperto alle macchine da Caruso. In quella occasione il preside manifestò contro la decisione dell’attuale sindaco e da questi fu denunciato. «Date queste premesse – racconta la sociologa dell’Unical – era difficile immaginare una interlocuzione con l’amministrazione che aveva criminalizzato uno dei protagonisti dell’esperienza della Summer school».

    Un altro momento della Summer school

    Contro la marginalizzazione

    In realtà il mancato confronto potrebbe avere ragioni più profonde, visto che è Stefano Catanzariti a spiegare come sembri che a «Palazzo dei Bruzi manchi qualunque forma di visione riguardo il centro storico e la città intera»
    Il centro storico, da questo punto di vista appare come lo specchio del resto della città, «perché il suo abbandono è il segno più evidente di una assenza di idee da parte di governa Cosenza».

    Un vuoto di idee che pesa, per esempio, ancora sui famosi 90 milioni, per i quali, ricorda ancora Catanzariti, all’inizio era partita una forma di interlocuzione con le realtà del territorio riguardo al loro uso mentre adesso manca ogni forma di progetto partecipato e condiviso. Separare il destino delle antiche pietre, dei palazzi storici, da quello delle persone, crea processi di gentrificazione, ma prima ancora di spopolamento, marginalizzazione, degrado sociale e urbano, «mentre dovremmo avviare percorsi politici per creare le condizioni per restare, dare motivi alle nuove generazioni per non andare via dal centro storico e più in generale dalla città, arginare con buone pratiche lo spopolamento». Oggi per la politica istituzionale il progetto più urgente e attuale sembra quello di dare vita all’idea della grande città dell’area urbana senza tenere conto del rischio che questa super città nasca vuota.

  • «Ora dateci un lavoro»: a San Giovanni soffia vento di protesta

    «Ora dateci un lavoro»: a San Giovanni soffia vento di protesta

    Sono centinaia le persone che da qualche giorno a San Giovanni in Fiore sono riunite chiedendo un lavoro. Sono donne e uomini di età diversa, che affrontano la fatica di una crisi che morde, particolarmente i più deboli, quelli cui è stato sottratto il sostegno del reddito di cittadinanza e si trovano ad affrontare l’impossibilità di soddisfare i bisogni più elementari.
    A dispetto della narrazione dominante, che vorrebbe i disoccupati inclini al non far nulla su improbabili comodi divano, ecco che questa moltitudine si raccoglie a San Giovanni reclamando un lavoro.

    CLICCA SULL’IMMAGINE IN APERTURA PER GUARDARE IL VIDEO

    La crisi è generalizzata, ma alcune aree del territorio, come appunto quelle di montagna, la sentono più feroce. Per questo un gruppo spontaneo, denominatosi “Gruppo disoccupati San Giovanni in Fiore”, ha dato vita a una mobilitazione, rivolgendosi alle autorità loro più prossime, esattamente come i disoccupati raccontati da Franco Costabile che nelle sue poesie descriveva le notti passate in attesa di un incontro con i politici.

    disoccupati-san-giovanni-in-fiore
    Il raduno spontaneo di San Giovanni in Fiore

    Ieri come oggi, quelle autorità hanno fin qui taciuto. Non una attenzione da parte della Succurro, sindaco del paese silano e presidente della Provincia. Così come ancora nessun segnale è giunto da parte di Roberto Occhiuto.
    L’impegno del gruppo sangiovannese va oltre la richiesta di un lavoro che dia dignità all’esistenza. Si proietta verso la speranza di bloccare l’emorragia della migrazione dei giovani, dello spopolamento dei paesi, dell’impoverimento della Calabria.

  • STRADE PERDUTE | Fitzcalabria: un sogno fantastico di fine estate

    STRADE PERDUTE | Fitzcalabria: un sogno fantastico di fine estate

    Fine estate in Calabria. Nei giorni a cavallo tra agosto e settembre molte persone vengono risucchiate in un buco nero. Le città non si sono ancora riempite del tutto e, contemporaneamente, i luoghi di villeggiatura si avviano alla desertificazione.
    Non tornano i conti: la gente dove finisce?

    Fine estate Calabria: fuga dal mare

    Dove sono finiti i tamarrissimi colletti delle polo tirati su?
    Dove sono finite le francesi che annusano scettiche le brocche di vino al ristorante? Dove le tedesche imbarazzate, quasi offese, dalle dimensioni degli antipasti locali? Chi resta su quegli scogli, teatri notturni di cartine volate, di accendini che non appicciano (accendono), di palummi (conati di vomito) per neofiti, e di altro?
    Le mareggiate di fine agosto lavano i peccati e portano via una stagione (del resto, non sono le seasons figlie del mare?) E allora cosa resta da fare? La solita cosa: fuggire da questi luoghi e cercare qualche vago sprazzo di autenticità in mezzo ai monti. Proviamoci, almeno.

    fine-estate-calabria-viaggio-alta-quota-tesori-entroterra
    Il centro storico di Scalea ripreso dall’alto

    Cipolle e porci? Proprio no

    Superiamo l’enorme giungla cementizia di Scalea, costruita direttamente su chissà quanti reperti archeologici sottratti alla ricerca, alla fruizione e, più semplicemente, alla storia e dirigiamoci verso Santa Maria del Cedro, già Cipollina fino al ’55.
    Attenzione: il nome non ha a che fare con le cipolle ma deriva da cis-pollinea, cioè al di qua del Pollino.
    Giusto per restare in tema: un altro apparente maquillage onomastico è quello che ha investito, dall’altra parte dei monti, Eianina (frazione di Frascineto), già nota come Porcile non per via dei porci ma dei più antichi Porticilli, poi Purçilli in arbëreshë.

    I profumati cedri di Sion

    Né cipolle né porci, dunque: quaggiù si commerciava maggiormente in mezzo ai frutti profumati, per esempio ai cedri.
    Il Carcere dell’Impresa è oggi il museo di quell’attività in gran parte scomparsa. Solo in parte: i rabbini di mezzo mondo vengono ancora qui, a settembre a scegliere i frutti esteticamente migliori, affinché possano essere utilizzati durante alcune precise liturgie. E non è raro incrociarne alcuni, con famiglia al seguito, a passeggio sotto al sole cocente, vestiti di tutto punto: rekel, payot, cappello nero a tese larghe e camicia bianca abbottonata fino al pomo d’Adamo.
    Ma è tutt’oro quel che profuma?

    fine-estate-calabria-viaggio-alta-quota-tesori-entroterra
    Il Carcere dell’Impresa, sede del Museo del Cedro

    Fitzcalabria

    Un edificio abbandonato, piuttosto grande, a forma di nave, arenato in mezzo alla pianura tra Marcellina e l’aeroporto (!) di Scalea mi ricorda Fitzcarraldo. Infatti, l’ho soprannominato Fitzcalabria.
    Era una fabbrica di conserve alimentari, attiva dagli anni ’50, costruita (appunto…) con l’immaginaria prua orientata verso Sud, come buon auspicio per lo sviluppo del Meridione (e aridaje con gli auspici degli imprenditori à la Rivetti…) mentre esportavano le latte in Belgio per i minatori.
    Tutto finito, anche qui, in totale abbandono da chissà quanto. A due passi da lì, il ponte Mussolini, sul Lao.

    fine-estate-calabria-viaggio-alta-quota-tesori-entroterra
    Fitzcalabria: la fabbrica abbandonata nei pressi di Marcellina (foto di Luca Irwin Fragale)

    Fine estate Calabria: sudare vino

    A quattro passi, invece, e non voglio dir dove e anzi vi confonderò volontariamente le idee, una minuscola casetta tirata su veramente con lo sputo. Mattoni, sputo e sudore di due mani. Quelle di N.N., il cui vero nome e cognome – anzi, rigorosamente cognome e nome – campeggia a caratteri cubitali di fianco alla porta d’ingresso, su una piccola lapide che ha più del mortuario che di un citofono. È un fabbricato di fortuna, o di sfortuna, una specie di palafitta in mattoni forati, in compiutissimo stile incompiuto. Un’unità abitativa di base. Sotto potrebbe starci l’auto ma N.N. non ha un’auto. Dietro c’è un piccolo orticello. E sono sicuro che ad N.N. basti e avanzi.
    Da queste parti c’è ancora spazio, per fortuna, per certi contadini che odorano di vino, che sudano letteralmente vino.
    Ne conoscevo uno, magnifico, che produceva per sé e pochi conoscenti un vino dalla gradazione che dire impegnativa è eufemistico. Soffriva di pressione alta e ogni tanto, per farsela abbassare, prendeva il suo coltellino multiuso, sporco come non so cosa, e si faceva un taglietto sui polsi. Così, senza tanti complimenti.

    Fine estate Calabria: sentieri per Sybaris

    Tanto qui ci pensano in due: un po’ Santa Maria di Mèrcuri con la sua chiesetta sulla roccia, che veglia da secoli sulla provvidenziale confluenza del Lao con l’Argentino (un tramonto, da quella rupe, lo consiglio), e un po’ San Michele dell’omonimo castello a monte dell’Abatemarco.
    Lao, Argentino, Abatemarco: tutto comincia a evocare i monti d’Orsomarso, l’ingresso nelle vie istmiche che univano Laos a Sybaris.
    Tornando più a nord, può esser definita istmica pure la strada che congiunge Scalea a Mormanno lambendo – non a caso – la zona archeologica di Papasidero.

    La chiesa di Santa Maria di Mèrcuri

    Le vie francigene della Calabria fantastica

    Ma, appunto, è da considerare più che altro come strada a servizio di chi arrivava da nord, più che dalla piana di Sibari, poiché la famigerata “Dirupata” di Morano non ha mai smesso di incutere timore, neppure nel Novecento, e dunque non c’era ragione per i sibariti di raggiungere Scalea risalendo tanto a nord. Invece oggi un motivo l’abbiamo: bearci della meraviglia dei Piani di Novacco, procedendo da Orsomarso verso Campotenese, e passando da Ròsole e da Cascina Scòrpano.
    Doveva essere semmai più battuto un altro sentiero: quello che si addentra da Orsomarso – e quindi da Scalea – verso il Santuario di Santa Maria del Monte presso Acquaformosa e da qui procede verso Lungro.
    Altra variante dello stesso è quella che da Orsomarso lambisce la Pietra Campanara e costeggiando il fiume Garga raggiunge Saracena, al riparo da e in ammirazione di un luogo di cui basta il nome per capire in che diamine di dimensione siamo: i Crivi di Mangiacaniglia. Bisognerebbe “vivere fuori stagione”.