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  • Cosenza, quartieri popolari alla conquista del Palazzo

    Cosenza, quartieri popolari alla conquista del Palazzo

    L’attuale balcanizzazione del quadro politico di Cosenza, ha un aspetto curiosamente nuovo: su sei aspiranti sindaco, tre provengono da via Popilia, che con i suoi oltre 20mila abitanti è un terzo della città. Di questi pretendenti allo scranno di Palazzo dei Bruzi, uno solo ha percorsi politici di rilievo (e conseguenti numeri potenziali): Francesco De Cicco, già vicino al notabile Ennio Morrone e poi sostenitore di Mario Occhiuto. Ora De Cicco balla da solo, con un programma minimale e “tutto cose”, probabilmente concepito sugli stessi marciapiedi in cui viene diramato prima che inizi la campagna elettorale. 

    Gli altri due sono Luigi Bevilacqua, self made man di origine rom che vanta un’ascesa culturale non scontata (da operaio ha conseguito il diploma di maturità e ora fila come un treno a Scienze politiche all’Unical), e Francesco Civitelli, che gareggia in pragmatismo (ma non in consensi) con De Cicco.

    I tre hanno un tratto comune: la voglia di dare una voce autonoma ai quartieri popolari, a partire da quello più rilevante, anche a livello simbolico.
    Sempre a proposito di quartieri popolari: se si sommano gli oltre ventimila “popiliani” ai circa diecimila cosentini sparsi tra via degli Stadi e San Vito Alto si arriva a metà abitanti della città. Se a questi si sommano gli oltre cinquemila che resistono nel Centro storico, che ha perso il suo carattere interclassista ed è in fase di “popolarizzazione” avanzata, fare i conti è facile: i quartieri popolari predominano. 

    Una demografia in declino

    Questa trasformazione è dovuta alla demografia e alle mutate condizioni economiche della città, che si è impoverita tutta.
    C’è un’espressione non bellissima che gira tra alcuni addetti ai lavori, che forse l’hanno ripresa dagli intellettuali: “città policentrica”, che, riferita a Cosenza, non è proprio un complimento. 

    Al più, è un modo di indorare la pillola: i cosentini si sono sparsi in tutta l’hinterland, hanno colonizzato Rende e Montalto a Est, determinandone crescita demografica ed economica, Vadue, Mendicino, Laurignano a Ovest e, praticamente, il municipio del capoluogo ne rappresenta solo una parte. Quindi, è un’espressione soft per spacciare il dimagrimento demografico del capoluogo per un’espansione urbana, visto che di realizzare la Grande Cosenza – che fu un sogno urbanistico fascista prima e socialista poi – se ne parla a pezzi e bocconi.

    Quarant’anni, 40mila abitanti in meno

    Ma il dimagrimento demografico, iniziato negli anni ’80 avanzati, ha acquisito due aspetti tragici: quello tipicamente meridionale dell’emigrazione, ripreso alla grande a partire dagli anni ’90, e quello più global (almeno per quanto riguarda l’Occidente) della denatalità.

    Ed ecco che Cosenza, dopo aver raggiunto il massimo della popolazione residente nel 1981 con 106mila e rotti abitanti (dato Istat), si è ridotta agli attuali 65mila e rotti (dato del 2019). In pratica, è sprofondata nella sua stessa Provincia, dove l’ha battuta la nuova città Corigliano-Rossano, con i suoi oltre 70mila abitanti. Ed è diventata una città di peso secondario nel contesto regionale, visto che viene anche dopo Lamezia Terme, che non è capoluogo e non vanta importanti tradizioni storico-urbane. Ma ha quasi 70mila abitanti e l’unico aeroporto funzionante della Regione. 

    Chi sono i cosentini?

    A dirla tutta, Cosenza non è mai stata una città di grandi numeri. Si presentò all’Unità d’Italia con poco più di 18mila abitanti, raggiunse un primo picco demografico nel Ventennio, quando superò i 40mila ed ebbe il boom urbanistico a partire dal dopoguerra.

    La crescita di Cosenza si è basata su un fenomeno tipico delle aree marginali: l’inurbazione, che in questo contesto riguardò gli abitanti del contado e della provincia, attratti dalle maggiori opportunità offerte dalla città e la minoranza rom, che crebbe in maniera forte a partire dagli anni ’50. I cosentini “puri”, che potevano vantare più di quattro generazioni nel perimetro urbano, sono diventati minoranza in una popolazione che si è rimescolata più volte.

    Alla crescita artificiale, stimolata dalle opere pubbliche e dalle assunzioni più o meno clientelari nelle amministrazioni e negli enti pubblici nati come i funghi durante la Prima Repubblica, è seguita una decrescita naturale, che tuttavia prosegue a rilento perché, mentre i rampolli del ceto medio emigravano per studiare o lavorare, i quartieri popolari hanno tenuto a livello demografico. E ora, giustamente, presentano il conto.

    È il caso di chiarire un passaggio: l’aggettivo “popolare” è anche sinonimo di “povero” e “disagiato”. Questo chiarimento aiuta a capire un altro aspetto amaro della realtà: dal 2001 in avanti è andato via soprattutto chi ha potuto, in cerca di prospettive di vita e di lavoro migliori.

    Sono i migranti col trolley e col laptop a tracolla, ben descritti dal rapporto della Fondazione Migrantes per il 2018. La Calabria ne vanta circa 200mila, il 10 per cento circa della popolazione, in larghissima parte under 50 e in buona parte (il 30 per cento) laureati. Somigliano poco o nulla ai braccianti con le valige di cartone che li avevano preceduti il secolo scorso. Ma con essi hanno un tratto comune: sono partiti con poche speranze di tornare.

    Cosenza si svuota

    Proiettiamo questo dato su Cosenza. Nel 2019 sono morti 871 cosentini di fronte a 448 nuovi nati, le persone coniugate di entrambi i sessi oscillano tra 14 e 15mila, meno di mille in più dei single ambosessi, che oscillano tra i 13 e i 14mila. Il dato più inquietante riguarda l’invecchiamento: il blocco maggioritario della popolazione (circa il 52%) è compreso tra gli over 45 a salire, i minori non toccano il 15%, i cosiddetti “giovani”, compresi tra i 18 e i 35 anni, superano di poco il 33%.

    Dove sono spariti quei gruppi sociali da cui la città reclutava le classi dirigenti? Sono in buona parte al Nord, attratti dalle opportunità delle grandi aree metropolitane e all’estero. Logico, allora, che a questa trasformazione demografica segua un cambiamento antropologico e politico.

    Il consenso che cambia

    Esistono un “prima” che stenta a finire e un “dopo” che si sta delineando con una certa velocità. Il “prima” è rappresentato dai vecchi gruppi dirigenti, che pescavano voti a man bassa nei quartieri popolari, grazie a pratiche clientelari consolidate, ma si legittimavano sui ceti medio-alti.

    È il caso della famiglia Gentile, partita dal Centro storico, che ha trovato la sua roccaforte nella Sanità. Il suo rapporto con le aree popolari è diventato man man sempre più mediato. Si pensi al fedelissimo Massimo Lo Gullo, se possibile più gentiliano dello stesso Pino Gentile: è stato uno dei consiglieri comunali più votati nella zona compresa tra via degli Stadi e San Vito Alta. I suoi consensi sono irrinunciabili per la famiglia politica più vecchia di Cosenza (ad eccezione dei Mancini, per i quali vale un discorso diverso), che tuttavia basa il suo potere sulle Aziende sanitaria e ospedaliera.

    Un discorso simile, ma minore nei numeri vale per i Morrone, il cui ruolo nella Sanità privata è più che noto: pure loro hanno pescato a man bassa nei quartieri popolari grazie all’attività di sodali più o meno turbolenti e fedeli come il menzionato De Cicco o l’effervescente Roberto Bartolomeo, che non è stato rieletto per poco in Consiglio Comunale.

    Un meccanismo analogo è applicabile a Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio: fortissimi nel Centro storico, ma capaci di proiettarsi a livello regionale e nazionale grazie ai loro legami col mondo istituzionale e imprenditoriale “che conta”.

    Un patto che scricchiola

    Tuttavia, è importante un altro passaggio: il consenso dei quartieri popolari si limita spesso all’immediato (le buche per strada, l’acqua che manca, le fogne che scoppiano, i marciapiedi inesistenti ecc) e ha come referente immediato il Comune. Chi guarda oltre perché può permetterselo è il ceto medio, che mira invece al buon posto di lavoro e alla carriera. In questo caso, i target istituzionali si alzano: sono la Regione e i ministeri. 

    Ma che succede quando il Comune va in dissesto e non è in grado di soddisfare più le richieste minime, clientelari e non? Succede che il meccanismo si rompe e il “patto feudale” tra i “vassalli” popolari e i loro potenti scricchiola.

    Voglia di protagonismo

    Tra i vassalli che tentano di mettersi in proprio (De Cicco) e i nuovi aspiranti leader, è facile delineare il trend: una buona fetta di abitanti dei quartieri popolari vuol far sentire i propri bisogni più direttamente possibile. Forse non si fida più dei “potentes” vecchi e nuovi (tra i quali è doveroso includere Enzo Paolini) e riversa i propri consensi su figure percepite come simili. O perché, come l’assessore occhiutiano, vivono le stesse situazioni e parlano lo stesso linguaggio. Oppure perché incarnano un sogno di riscatto e di ascesa almeno culturale, come Bevilacqua.

    La partita vera deve ancora iniziare, ma i presupposti attuali rendono il caos cosentino più interessante del solito. E – perché no? – più divertente e istruttivo per gli osservatori.

  • Il sindaco del rione via Popilia

    Il sindaco del rione via Popilia

    Quanto è distante via Popilia da Palazzo dei Bruzi? E quanto cammino si deve affrontare per arrivare dal quartiere più popoloso della città fino allo scranno di sindaco? La fatica si misura non in passi, ma nella capacità di aggregare consenso e i modi sono sostanzialmente sempre uguali: promettere il riscatto del quartiere.

    Via Popilia ha sempre rappresentato il campo dove si vincono o si perdono le elezioni a Cosenza. Per il grande numero di famiglie che vi abitano, ma anche per ragioni storiche e sociali che ne hanno fatto nel tempo terreno di caccia per costruire gli imperi clientelari delle ben note famiglie politiche cosentine.

    I soliti noti

    Nell’avvicinarsi inesorabile delle prossime elezioni comunali, si prepara la consueta schiera di chi minaccia o medita di candidarsi a sindaco e tra questi è difficile scorgere autentici segni di novità. Non è nuovo Francesco Caruso, organico all’esperienza dell’amministrazione Occhiuto e che proprio nell’architetto che ha governato la città potrebbe avere il suo vice sindaco.

    A Cosenza già girano gustose battute sulla “Strana coppia”, (senza riferimenti a Walter Matthau e Jack Lemmon, che nel confronto risulterebbero comunque vincenti), con Caruso succube di un esuberante Occhiuto per nulla intenzionato a levare le mani dalla città. Anche la scelta di prendersi come vice chi ha trascinato nell’abisso del dissesto il capoluogo, se dovesse trovare conferma, pare chiaramente il frutto di un patto a tavolino separato dai bisogni dei cittadini.

    Certamente non è nuovo Marco Ambrogio, che si candida con la benedizione dei fratelli Occhiuto ed evidentemente pensa che un sindaco in famiglia non basti. Nella sinistra ancora c’è incertezza, altrimenti non sarebbe la sinistra. Quella movimentista cerca un nome in grado di rappresentare il disagio e la sofferenza sociale generati da dieci anni di indifferenza verso i bisogni reali delle persone, mentre il centrosinistra dibatte inutilmente, facendo ogni tanto affiorare la proposta di Franz Caruso, ex giovane socialista, il cui nome ciclicamente viene annunciato.  

    Via Popilia alla riscossa

    A ben guardare la novità viene proprio da via Popilia, da dove si muovono tre candidature: Francesco De Cicco, Francesco Civitelli e Luigi Bevilacqua. Mai accaduto prima. De Cicco per la verità nuovo non lo è per nulla, ma la sua appartenenza allo strategico quartiere lo pone all’attenzione. Per anni assessore di Occhiuto – che giura di non sentire da «oltre un anno e mezzo», proprio a volerne marcare la sopraggiunta distanza –  ha tenacemente presidiato ogni buca nell’asfalto, ogni tombino ostruito, chiamando celermente squadre di operai per le riparazioni, spesso supervisionando e partecipando lui stesso ai lavori. È anche in questo modo che ha lentamente costruito un consenso popolare, proiettando di sé l’immagine dell’uomo del fare. 

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    Francesco De Cicco amava definirsi l’assessore “pala e pico”, in contrapposizione (e rima) con la passione di Occhiuto per la figura di Alarico

    Lo dichiara lui stesso, quando avvisa che «dal basso sto lavorando da tempo al programma», preparando «sette liste vere» e l’aggettivo vorrebbe sottolinearne la potenza e il radicamento. La sua visione della città non vola altissimo, ma si basa su un buon proposito, «quello di togliere il muro tra i cittadini e la politica». E il suo stare sempre «sul marciapiede» vale a dire a diretto contatto con «la gente», gli sembra il modo più efficace per superare le distanze.

    Le multe a Guarascio

    Sul concreto De Cicco pare avere le idee chiare, «col Comune in dissesto, non si può fare molto, chiunque prometta il contrario mente». Tuttavia un piano ce l’ha e sulle grandi opere, vanto della stagione del sindaco Occhiuto, aggiunge che “«certamente non si possono demolire, ma molte cose si possono aggiustare». De Cicco sa di parlare al cosentino medio, quello che smadonna chiuso in macchina nel traffico bloccato e gli promette di «allargare il tratto stradale di viale Parco, aggiungendo anche parcheggi con strisce bianche, creare una variante su via Molinella e sbloccare così via XXIV Maggio». Poi il suo sguardo si volge a via Roma e aggiunge che «pure la villetta davanti alle scuole può essere modificata, con l’uso di semafori si può consentire il traffico stradale lineare e scorrevole».

    Da uno che parte da via Popilia ti aspetti attenzione verso i quartieri, ed ecco che De Cicco vuole ridare fiato «alla consulta dei quartieri». Se il ruolo assegnato nel programma alle aree periferiche e popolari vi pare troppo vago, molto decise sono invece le parole sui rifiuti e chi ne gestisce la raccolta.
    «Guarascio se ne deve andare», e la richiesta del candidato non riguarda solo il calcio. «Se fosse per me rescinderei il contratto, paghiamo milioni e la città è sporca. Gli ho fatto fare multe per mancata raccolta dei rifiuti, ma nessuno si è preoccupato di esigerne il pagamento», spiega sconsolato. Poi aggiunge che «per via del fatto che ha il Cosenza calcio nessuno osa «parlarne male»

    El pueblo unido ma non troppo

    Il percorso di avvicinamento più lungo verso una candidatura è forse quello di Luigi Bevilacqua, rom cosentino da tempo impegnato in iniziative a favore delle aree periferiche e delle marginalità sociali. «Stiamo lavorando da tempo per concretizzare un impegno e, nello specifico, realizzare una lista civica dal nome “Orizzonti futuri”», spiega Bevilacqua. Nel cammino, aggiunge, sarebbe utile trovare compagni di viaggio per non disperdere energie.

    Dunque ecco la necessità di «dialogare con altri candidati che provengano dai quartieri periferici, per portare un unico programma e restare compatti in questa tornata elettorale». E quando Bevilacqua si guarda attorno per cercare compagni di viaggio, aggiunge «con Civitelli non penso sia possibile, con De Cicco si potrebbe fare».

    Dalle baracche al Palazzo

    Rispetto a De Cicco, Bevilacqua ha una visione della città più concretamente legata al sociale e le sue battaglie ne sono la testimonianza. Con orgoglio rivendica le sue origini, nella desolazione delle baracche di via Reggio Calabria, fino alle conquiste come quella per la tutela della minoranza linguistica ottenuta con la legge n°41 del 2019 della Regione Calabria.

    Anche per lui il problema è il superamento della separazione della città in due parti che sembra non si appartengano. Sembra assai consapevole delle difficoltà e infatti spiega che «non abbiamo la velleità di vincere, ma di cominciare il cambiamento». Per questo il welfare e la distribuzione delle risorse sono un punto centrale del programma, anche per porre rimedio a dieci anni di Occhiuto, «contro cui mi sono sempre opposto, anche con esposti in procura». La Cosenza che immagina Bevilacqua è diversa dagli estetismi di chi ha governato fin qui. «A lui piace il bello – spiega riferendosi ad Occhiuto – ma ha prodotto due città separate e ingiuste». 

    La barriera invisibile

    Civitelli si era candidato a sostegno di Enzo Paolini cinque anni fa, ottenendo 268 preferenze, salite a 747 alle Regionali 2020. Anche per lui si deve passare dall’effimero che sembra aver dominato questi anni al concreto dei bisogni della città. Dunque «niente statue, né feste, ma strategie per la viabilità, parcheggi gratis, ciclovie fuori dal centro urbano». Un programma radicale, che probabilmente non dispiacerà a chi passa la giornata imbottigliato nel traffico.

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    Il vecchio rilevato ferroviario che separava via Popilia dal resto della città

    La sua corsa è cominciata nel 2016, «quando abbiamo visto chi aveva vinto e abbiamo capito che non ci sarebbe stata alcuna opposizione ad Occhiuto». Di qui l’esigenza di organizzarsi, ponendosi anche la questione dell’unità del nucleo urbano. «Quando c’era il rilevato ferroviario esisteva una vera barriera. Ora non c’è più, ma la separazione è rimasta. Lo scopo è quello di fare della città un solo corpo organico».

    Tra poco ci sarà un fiorire di liste e programmi, e come avvisa De Cicco, che forse di queste cose ne capisce, «molti candidati mirano solo ad un accordo». Alla fine ne resterà uno, potrebbe essere il più forte, non necessariamente il migliore. 

  • Tirreno inquinato, Magorno come Orsomarso: dalle querele all’imbarazzo

    Tirreno inquinato, Magorno come Orsomarso: dalle querele all’imbarazzo

    La realtà è sotto gli occhi di tutti quotidianamente: l’acqua appare sporca in molti tratti del Tirreno cosentino. Chiamatelo come volete questo sporco: polvere della spiaggia, fioritura algale, mare mosso, detersivi dei fondali. Il dato è che la voglia di fare un bagno è sempre meno. I turisti sui social sono scatenati. Furiosi, pubblicano foto da ogni spiaggia tirrenica con il mare tutt’altro che limpido. E ne hanno piena ragione: una settimana in un hotel o casa privata presa in affitto arriva a costare fino a 1500 euro. Aggiungete il costo dei lidi, dei parcheggi e del sostentamento e alla fine ci si ritrova con una bella spesa.

    Bandiere Blu

    L’esborso si sosterrebbe anche volentieri se si potesse fare un bagno nel Tirreno in tranquillità. Ma se si arriva sulle spiagge e si trovano sporche e il mare, in più, non è balneabile allora ci si sente truffati. Se poi si è venuti in questa zona spinti dalle nuove Bandiere Blu, la sensazione aumenta. Già, le Bandiere Blu: Per ottenerne una – è scritto sul sito che le assegna -, bisogna rispondere a ben 35 criteri che vanno dall’accesso dei disabili alle spiagge al controllo sulla depurazione, passando per l’affissione pubblica dei dati sulla balneabilità. Criteri forse rispettati altrove, mentre ad oggi in nessun paese sul Tirreno cosentino che abbia ottenuto la bandiera Blu tutto ciò si è avverato.

    L’inchiesta sulla depurazione

    Cade come un macigno a mezza estate l’inchiesta del procuratore Bruni sulla depurazione, un macigno grande come un palazzo che ha sconvolto tutti i centri del Tirreno. In particolare, i comuni di Diamante, Buonvicino e San Nicola, paesi sui quali vigeva la legge dei gestori dei depuratori e di funzionari degli uffici tecnici, forti tutti dall’appoggio di un infedele tecnico dell’Arpacal che li avvertiva dell’arrivo di eventuali ispezioni ai depuratori. Il sistema scoperchiato da Bruni dà l’idea di individui presi da delirio di onnipotenza per il tanto danaro che ricevevano dai Comuni con delibere a cadenza mensile. Quasi fossero sicuri dell’impunità, parlavano liberamente fra loro sui cellulari delle loro malefatte e dei traffici in atto.

    https://www.facebook.com/456580921189432/videos/745458892971276

    Dall’inchiesta apprendiamo cose che confermano i timori di quanti da anni lottano per avere un mare pulito individuando le cause della sporcizia e proponendo i metodi per eliminarle. Nell’indagine è finito anche un video che i militanti dell’associazione ambientalista Italia Nostra avevano effettuato a San Nicola Arcella filmando in diretta la rottura della condotta sottomarina e la conseguente fuoruscita dei liquami in mare. Quel video, appena apparso su Facebook, aveva allarmato le ditte, i tecnici, il sindaco di San Nicola, che immediatamente erano corsi ai ripari. Con buona pace di quegli amministratori che vedono negli ambientalisti l’equivalente di un’invasione di cavallette o altre sciagure.

    Magorno come Orsomarso, querele per chi dissente

    L’ultimo ad intervenire in questa direzione è stato proprio il sindaco di Diamante, Ernesto Magorno. Il renziano, infatti, ha stigmatizzato l’intervento di Italia Nostra che ha mostrato proprio il mare sporco fra Diamante e Belvedere in una bellissima giornata. E con una delibera subito approvata dalla giunta ha messo in guardia le associazioni per future querele da parte dell’ente a tutela di un mare pulito per decreto. Neanche due settimane dopo e l’inchiesta di Bruni ha cambiato le carte in tavola.

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    La delibera della Giunta di Diamante firmata meno di due settimane fa dal sindaco Ernesto Magorno

    Gli arresti scattati dopo l’operazione Archimede hanno messo in pausa la questione, con il sindaco che ha commentato l’accaduto lanciando uno striminzito comunicato di appoggio all’azione giudiziaria, come se la cosa non lo riguardasse. Ma il tecnico ai domiciliari è del suo comune, così come i vari responsabili delle ditte in questione. Sono presenti da decenni a Diamante, non solo per il depuratore, ma anche per altre gestioni. Quella dell’acquedotto, per esempio, sulla quale sembra che penda un’altra inchiesta, o quella di diversi appalti su opere pubbliche. Sono sempre gli stessi a vincere le gare e sono sempre gli stessi a poter lavorare.

    Un problema diffuso

    Nei mesi scorsi altre inchieste hanno riguardato ulteriori comuni tirrenici come Maierà, Tortora, Scalea, Praia a mare. Un filo unico che la Procura di Paola sta cercando di portare a galla dopo anni ed anni di acquiescenza . Ma nell’inchiesta c’è di più. Ed è davvero grave.

    I fanghi depurati del depuratore di Buonvicino finivano sotterrati in terreni agricoli e a portarceli erano propri i dipendenti della ditta, autorizzati dal loro capo. Operazioni senza scrupoli che mettevano in pericolo le falde acquifere del territorio circostante oltre che i terreni stessi e le coltivazioni che vi erano. Un’attività criminale scoperta da poco, ma che secondo gli inquirenti andava avanti da tempo. E che si spera l’inchiesta blocchi immediatamente.

  • Teatro e cultura, l’Atene della Calabria non c’è più

    Teatro e cultura, l’Atene della Calabria non c’è più

    «Bambole, non c’è una lira», diceva – a conclusione di una vecchia trasmissione della Rai – l’impresario di avanspettacolo rivolgendosi agli attori della compagnia in teatro. In modo più sobrio e burocratico, la stessa cosa dice il Comune di Cosenza riferendosi alla cultura. Lo dice con pochissime righe, quasi nascoste tra le molte pagine della “Nota integrativa al bilancio di previsione stabilmente riequilibrato”, recitando testualmente che per quanto riguarda il Settore delle manifestazioni culturali, «I capitoli di bilancio, nonostante l’importanza che la spesa riveste in una Città capoluogo di provincia come Cosenza, sono stati di fatto azzerati». In realtà queste laconiche parole certificano una Caporetto della cultura cittadina che è sotto gli occhi di tutti da almeno un decennio. Esattamente dall’inizio dell’epopea dell’amministrazione Occhiuto.

    Il teatro ridotto a scatola vuota
    Saracinesche abbassate al Morelli: il Comune ha disdetto il contratto d agosto 2020 per risparmiare dopo la dichiarazione di dissesto

    Il declino delle manifestazioni culturali e specificatamente delle attività tetrali, ha sempre fatto i conti con un problema di risorse economiche, ma anche con la mancanza di una visione culturale. Perché – come spiega Ernesto Orrico, attore, autore e regista teatrale – «se i luoghi dove fare cultura ci sono, ma restano privi di senso, sono sole scatole vuote di cemento». E di «scatole di cemento», ce ne sono almeno tre in città. La prima è il Teatro Tieri (ex Cinema Italia), chiuso per inagibilità e diventato all’esterno luogo di rappresentazione della povertà, accogliendo sotto il portico alcuni clochard. Poi c’è il Teatro Morelli, per il quale il Comune ha rescisso il contratto di affitto. Infine, il più celebrato Rendano.

    Un simbolo sbiadito
    L’ingresso del teatro Rendano

    Il Rendano è stato da sempre un simbolo della città di Cosenza e della sua borghesia che voleva rappresentarsi colta, illuminata, progressista. Negli album privati delle famiglie importanti si potrebbero trovare certamente foto in bianco e nero di platee e palchi gremiti, di signore in lungo e uomini in rigoroso abito scuro, in occasione delle attese inaugurazioni delle stagioni liriche. Era salotto dove apparire, ma era anche testimonianza di presenza culturale.
    All’inizio del decennio manciniano il Rendano è ancora in restauro e Mancini imprime una accelerazioni dei lavori per poterlo riaprire prima possibile. Inizia così una lunga stagione di successi, sotto la guida di Maurizio Scaparro e poi di Italo Nunziata. Il Rendano conquista un posto di rilievo nel panorama nazionale e diventa punto di riferimento per gli appassionati assieme al San Carlo di Napoli. Sono anni intensi, di attività di pregio e di premi, con il record di abbonamenti.

    La crisi degli ultimi anni

    Segue il periodo sotto l’amministrazione di Salvatore Perugini, che affida il teatro ad Antonello Antonante. Sono anni di lavoro, anche se si cominciano a sentire il peso della difficoltà a reperire fondi. Poi giunge l’ultimo decennio, la guida viene affidata ad Albino Taggeo, ma non dura molto, sostituito poi da Isabel Russinova e successivamente dal musicista cosentino Lorenzo Parisi, che poi sarà nelle liste a sostegno della candidatura di Occhiuto. Il declino è precipitoso, le stagioni musicali non reggono il confronto col passato. Alla fine il Rendano viene anche affidato ai impresari privati, che portano spettacoli buoni per il botteghino, ma senza pretese culturali.

    Dalla Fondazione all’illuminazione

    Il resto è una storia di mera sopravvivenza, soffrendo la «mancanza di progettualità», come spiega ancora Ernesto Orrico. La lirica è scomparsa, malgrado il passato prestigioso, perché il teatro non ha potuto partecipare ai bandi e dunque non ha attinto alle risorse. La ragione, secondo Orrico, è da cercarsi nell’inadeguatezza del Comune, l’ente che governa il Rendano senza visione e capacità organizzativa. «Servirebbe una Fondazione, agile, competente, con un progetto vivace», prosegue Orrico. La reputava necessaria anche Giampaolo Calabrese, all’epoca dirigente del settore Cultura a Palazzo dei Bruzi. E ne annunciò pure la nascita, cosa alla fine mai avvenuta come per la Biblioteca Civica.

    Luminarie natalizie a Palazzo dei Bruzi

    «Quel luogo non è mai stato una priorità», dice sconsolato il regista cosentino, lamentando l’assenza di attenzioni e interessi in grado di catalizzare fondi e risorse necessarie.
    Eppure in questo decennio di denaro ne è stato speso moltissimo, per esempio in luminarie. Segno di cosa questa amministrazione intenda per priorità culturali.

    L’ultimo valzer

    Intanto i nodi della congiuntura e della distrazione della politica che dovrebbe accudire la cultura, stringono inesorabilmente la gola dello storico Teatro dell’Acquario. A dispetto della tenacia e della volontà di esistere, l’Acquario sembra ad un passo dalla chiusura, dovendo fare i conti con debiti e una procedura di sfratto. «Avevamo già programmato la stagione di Teatro per ragazzi, l’anno accademico 21/22 e la produzione di nuovi spettacoli. L’Acquario, finché sarà possibile, svolgerà la sua funzione in quest’ultimo giro di valzer». Queste le parole dei protagonisti di quello spazio teatrale nato dalle ceneri dell’indimenticato tendone del Teatro di Giangurgolo, che si trovava molti anni fa nello spazio ora occupato dall’edificio dell’Ubi Banca.

    Non restano intentate le ultime strade da percorrere, con interlocuzioni richieste presso chi al Comune si occupa di cultura, ma anche cercando di coinvolgere privati, ma la minaccia che un notevole patrimonio cittadino vada perduto è più che concreta, aumentando l’impoverimento di una comunità intera.

     

     

     

     

     

  • Ponte di Calatrava, se l’archistar risolve l’emergenza abitativa

    Ponte di Calatrava, se l’archistar risolve l’emergenza abitativa

    Non è vero che il ponte di Calatrava, costruito anche coi fondi Gescal destinati all’edilizia popolare, ha indirettamente negato un tetto a chi ne ha bisogno.
    Di tetti ne offre quattro – due su ogni lato – e almeno uno è abitato, con tanto di vista sul centro storico. Non solo: questo è uno dei pochi posti della città in cui non manca mai l’acqua – solo che è quella del Crati.
    Benvenuti nel lato B dell’opera faraonica per eccellenza, il manufatto dei record inaugurato con una cerimonia da Olimpiadi e passerella a favore di tg nazionali.

    Un momento della faraonica inaugurazione del ponte nel 2018

    Perché se per ogni cosa di questo mondo esiste il rovescio della medaglia, mai come in questo caso il “sotto” è così diverso dal “sopra”: il pennone sempre lampeggiante e gli stralli proiettati verso un alto che sembra infinito hanno una proiezione speculare verso un mini-girone dantesco abitato da spettri e presenze solo percepite.

    All’ombra del Planetario – un altro feticcio della città che doveva essere – e pochi metri più a nord della confluenza col suo scenario da bombardamento sull’ex Jolly, ecco la versione pulp di quella che doveva essere una promenade parigina; siamo nel territorio molto frequentato della Cosenza che si ferma al condizionale. Potrebbe essere, ma non può.

    Il mondo sotto il ponte

    Avventurarsi per le scale nel “mondo di sotto” col traffico che scorre nel livello dei “normali” spalanca una finestra sui marginali: due preservativi, bidoni, bottiglie rotte, lattine di birra. Due piattini di plastica da piccola pasticceria con avanzi di cibi bruciati. Quattro mattoni che reggono una griglia adattata a brace. Un giaciglio di emergenza ottenuto ammassando su uno strato di cartoni coperte e piumoni: una sensazione di provvisorietà trasformata in consuetudine, come quelle emergenze tutte calabresi divenute norma – la sanità, la gestione dei rifiuti, la casa come diritto di tutti, appunto…
    Una felpa nera appesa ad asciugare al passamano della scalinata che conduce al “mondo di sopra”.
    Il rifugio che affaccia a nord, invece, porta i segni di un rogo che ha annerito il cemento esasperando lo stridore con il bianco lucente della maxiopera che ha stravolto lo skyline bruzio.

    Un collegamento tra il nulla e il niente

    Così si vive a un minuto di auto dal salotto musealizzato dell’isola pedonale (cinque a piedi) vicino ad altri fantasmi come quello di Felicetta, la prostituta di lungo corso che per anni ha abitato la casetta da poco cancellata con la fontanella annessa: al loro posto una rotatoria, al servizio dell’ennesimo ipermercato, grazie alla quale al ponte di Calatrava è stato reso possibile “collegare il nulla al niente” come qualcuno ha scritto.

    E appare fantasmatica anche la presenza degli antichi abitatori di via Reggio Calabria: a dicembre saranno passati 20 anni dal “trasloco più bello dell’anno” osannato dall’amministrazione Mancini, quello che un ghetto cancellò per crearne un altro in via degli Stadi.

    La desolazione sulla sponda del ponte più vicina al centro città

    Oggi ne beneficia il privato, mentre l’intervento pubblico – in questo caso la bretella da saldare con via Sprovieri in funzione di decongestionamento del traffico su via Popilia, ora che viale Mancini è a senso unico – arranca, manco a dirlo. La Giunta ha approvato il progetto soltanto un paio di giorni fa.
    Quando da sotto il ponte vedi sbuffare un altro trenino pensi alla metroleggera, ennesimo feticcio, e alla sua futuribile utilità.
    Il fantasma del ponte chissà da dove arriva, tutte queste cose non le conosce, o forse gliele avranno raccontate: intanto prepara il fuoco e indossa la felpa, ché siamo a luglio ma di notte lungo il fiume è umido.

  • Civica, 10 milioni per salvare il tesoro di Cosenza dall’oblio

    Civica, 10 milioni per salvare il tesoro di Cosenza dall’oblio

    La Biblioteca Civica è uno scrigno prezioso che custodisce al suo interno un patrimonio librario a stampa e manoscritto di oltre 250mila testi. Difficilissimo riuscire ad avere un catalogo aggiornato. Perché? Non esiste, mai fatto per mancanza di personale specializzato. Un grande limite, che nel corso degli anni ha consentito la sottrazione di diversi testi senza che la direzione della Civica avesse piena contezza del maltolto. Un elenco in questi anni ha provato a stilarlo la giornalista cosentina Francesca Canino. Tra i titoli rubati figurano:

    • Telesio B., La Philosophia, Napoli, 1589;
    • Manilius M., Poetae clariss. Astronomicon ad Caesarem Augustum, Lugduni, 1566;
    • Tasso T., Le sette giornate del mondo creato, Venezia, 1608;
    • Tasso T., Il Rinaldo, Milano, 1618;
    • Galenus C., Ars medicinalis. Nicolao Leonicino interprete, Venezia, 1538;
    • Hippocrates, Aphorismi, cum Galeni. Commentariis Nicolao Leoniceno…, Venezia, 1538;
    • Galilei G., Dialoghi, Firenze, 1632;
    • Galenus C., De usu partium…, Lugduni, 1550;
    • Sallustio con altre belle cose. Volgarizzate per Agostino Ortica della Porta, Venezia, 1531;
    • Privilegi et capitoli della città di Cosenza, Napoli, 1571;
    La Civica custodisce secoli di cultura
    Alcuni corali di proprietà della Civica, restaurati di recente dal Mibact

    Fanno ancora parte del tesoro della Civica corali miniati del XVI-XVII secolo; testi manoscritti filosofici autografi del 1500, 1600 e 1700; carteggi privati; pergamene di epoche dal Rinascimento all’Illuminismo; incunaboli (tra cui un San Tommaso); una raccolta imponente della produzione tipografica italiana e straniera del Seicento.
    Al suo interno si trovano fondi monastici, opere antiche e rare a stampa di diversi ordini religiosi, sia cittadini che dei dintorni, oggi ormai soppressi.

    Tra i fondi religiosi anche uno liturgico, costituito da trenta codici musicali membranacei del ‘500 arricchiti da artistiche miniature fatte a mano.
    Presente anche un fondo diplomatico costituito da 54 pergamene, un insieme di bolle, atti privati, testamenti, costituzioni di date e censi, tutti di epoche comprese tra la fine del ‘200 e la metà del ‘700. Costituiscono per lo studioso un unicum nel loro genere.

    Le donazioni dei privati alla Civica

    Diversi i fondi privati, tra i più importanti quelli Salfi, Muzzillo, Conflenti e De Chiara. Il primo comprende circa 12.000 pezzi fra volumi anche di edizioni del ‘500 e del ‘600, opuscoli, riviste e giornali. Riguardano prevalentemente letteratura, storia, arti, viaggi, teatro. E contengono collezioni di classici antichi e moderni, grandi enciclopedie e trattati generali. Il fondo Muzzillo comprende oltre 5.000 volumi di letteratura, archeologia e storia dell’arte. Al suo interno, diverse edizioni di classici antichi e moderni, più numerose pubblicazioni periodiche e una ricca dotazione di opuscoli, in gran parte sulla Calabria.

    Il fondo De Chiara, ereditato sin dal 1929, consta all’incirca di 2.500 esemplari. Tra di essi, testi di letteratura italiana, di storia, di arte e di critica letteraria. Di grande rilevanza è anche una raccolta di opuscoli della critica dantesca.
 Si aggiungono le dotazioni dei fondi Guarasci e Muti e di quelli, più recenti, Rendano e Campagna, con molti libri e lettere autografe di pregio. È andato distrutto invece, durante la seconda guerra mondiale, il fondo Zumbini di circa tremila testi tra volumi e opuscoli. Tra i fondi speciali detenuti dalla Civica di fondamentale importanza è la sezione dedicata alla Calabria, ricca di libri, giornali e altri materiali riguardanti la storia, la cultura e la civiltà calabrese nelle sue diverse sfaccettature.

    Non ci sono solo opere antiche, però. Ai fondi di ricerca e conservazione si affianca infatti anche una dotazione libraria moderna di cultura generale di grande spessore bibliografico costantemente aggiornata, con una larga presenza di libri sulle scienze umane e sociali. La Biblioteca Civica dispone di una vasta emeroteca. Comprende oltre 2000 testate fra riviste e giornali, che spaziano tra storia, letteratura, filosofia, arte, scienze dell’educazione, teatro, cinema, diritto, economia, informazione.

    I cinque milioni per il Comune
    Alcuni dettagli del progetto per la Civica presentato al Governo da Palazzo dei Bruzi

    Le porte della Civica sono chiuse però da oltre un anno e mezzo, prima per la pandemia e ora per evidenti deficit strutturali. Per salvare quel che ne resta e renderlo finalmente fruibile si attendono i 10 milioni del CIS (Contratto Istituzionale di Sviluppo), parte dei 90 destinati al centro storico. Si prevedono due progetti di recupero e valorizzazione della biblioteca. Il primo, in capo al Comune di Cosenza, promette adeguamento sismico, efficientamento energetico e rifunzionalizzazione della Civica. Prospetta la riorganizzazione e il rinnovamento dell’intero sistema bibliotecario attraverso l’uso di tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC). Il progetto contempla inoltre la realizzazione di spazi di allestimento espositivi e di percorsi di visita accessibili a tutti. Parla di modalità innovative di fruizione e di realizzazione dei servizi per la gestione e cura del bene, integrati da un opificio di digitalizzazione, restauro e conservazione del libro e della pergamena. Il finanziamento complessivo ammonta a quasi 5,1 milioni di euro.

    Il polo pensato dal Mic

    Il secondo progetto, proposto dal Mic, implica restauro, conservazione e rifunzionalizzazione del complesso di Santa Chiara. Al suo interno si pensa di creare un polo orientato alla promozione della lettura e alla comunicazione culturale mediante la conservazione e valorizzazione del patrimonio cartaceo della Civica. Il polo in questione sarebbe destinato a interfacciarsi con quelli delle altre città beneficiarie di un Cis: Napoli, Taranto e Palermo. Il finanziamento, anche in questo caso, è di circa 5 milioni.

    Anna Laura Orrico, all’epoca sottosegretario ai Beni culturali, sigla il Cis a settembre del 2020
    La politica litiga

    Al ministero sono pronti a nominare il Ruc, responsabile unico del contratto istituzionale di sviluppo. Manca solo il via libera da Invitalia, che però per procedere attende parte della documentazione da Comune, Provincia e Segretariato regionale del Mic. Il più in ritardo pare essere Palazzo dei Bruzi, che non ha brillato per celerità nemmeno nella fase propedeutica alla firma del Cis. Un film già visto, dunque, col consueto corredo di polemiche politiche a riguardo. Le vecchie diatribe sui soldi in arrivo per il centro storico tra Morra e Occhiuto hanno lasciato il posto a quelle sull’iter burocratico tra Anna Laura Orrico e il vice sindaco Francesco Caruso. Quest’ultimo già l’anno scorso si era scontrato a lungo sui presunti ritardi del Comune con il democrat Carlo Guccione. Cambiano i nomi, non la sostanza. E mentre i partiti litigano, i dubbi sull’arrivo dei dieci milioni aumentano.

     

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  • Trent’anni di solitudine, per la Civica è profondo rosso

    Trent’anni di solitudine, per la Civica è profondo rosso

    Il pianto del coccodrillo. È paradossale come Provincia e Comune si siano strette al capezzale della Civica, la biblioteca che custodisce l’inestimabile patrimonio librario della città sin dal 1871, dal momento che sono le stesse istituzioni che hanno contribuito al suo crack economico.
    Un milione e 63mila euro, il rendiconto economico della Civica al 31 dicembre 2020 segna un passivo monstre. A farla da padrone sono i debiti con dipendenti, fornitori e demanio. Gli unici creditori, invece, sono Provincia e Comune di Cosenza, che da statuto avrebbero dovuto versare rispettivamente 80mila e 120mila euro ogni anno. Solo che nel tempo i versamenti sono diventati sempre meno cospicui e frequenti. E così si è generato il buco, non solo economico, della Civica.

    Il dissesto colpisce ancora

    Ad oggi la Provincia deve complessivamente 48.509 € riferiti alle annualità 2018 e 2019. Più indietro nei pagamenti il Comune di Cosenza, complice anche la procedura di dissesto finanziario. Da decine di mesi non versa un quattrino e dal 2018 ad oggi Palazzo dei Bruzi ha accumulato un debito di 261mila euro.
    Il sindaco Occhiuto ha precisato più volte di avere erogato, dal suo insediamento nel 2011 ad oggi, alla Civica 1 milione 426mila euro, di cui 104mila nel 2018 solo di arretrati. Attualmente, i contributi del 2019 (106mila euro) sono oggetto di insinuazione alla massa passiva. Sarà la commissione straordinaria di liquidazione ad occuparsene e comunque saranno trattati come un normale credito a beneficio di terzi. Tradotto: nel migliore dei casi alla biblioteca andrà la metà del dovuto. Sempre che i commissari ritengano legalmente obbligatorio saldare parte degli arretrati all’ente morale. Sui versamenti 2020 e 2021 è buio pesto.

    C’è l’allarme debiti, non quello antifurto

    La metà dei debiti della Biblioteca – 556mila euro – spetta al Demanio per canoni di locazione non versati cui vanno aggiunti i 79mila euro per il passaggio della Civica alla Provincia avvenuto nel 2020. Seguono quelli con il personale, che tra stipendi arretrati dal 2019, tfr, contributi, quote sindacali e coattivo Inps, arrivano a 352mila euro. Sono 57mila, accumulati tra il 2014 e il 2020, gli euro che spetterebbero invece alla società che assicura la struttura e il patrimonio librario. Dal 2018 si trascina un debito di 14mila euro per l’impianto di non intrusione, difatti la Civica al momento è sprovvista di sistema d’allarme. Nello stesso periodo è stata erogata una consulenza del valore di 15mila euro ma non è stato possibile risalire al beneficiario. Riscossioni fermo al 2017 a 52mila euro e le spese per la vigilanza e la manutenzione degli impianti ferme al 2018 con un paradossale saldo zero.

    La scure dell’Agenzia delle Entrate

    Non compiutamente rendicontata, invece, è l’entità del debito nei confronti dell’Agenzia delle Entrate. Che però pesa come un macigno sulle possibilità di ripresa della Civica: eventuali contributi destinati al conto della biblioteca sarebbero intercettati dal fisco e dagli istituti previdenziali prima di arrivare in piazza XV marzo. È successo anche con i fondi – un contentino da circa 35mila euro – stanziati qualche anno fa dalla Regione quando in Giunta sedeva l’assessore Corigliano, mai incamerati dalla struttura cosentina.
    In queste condizioni, le spese aumentano e il debito è fatalmente destinato ad ingrossare. La politica litiga sul futuro della Biblioteca. Nell’attesa della statalizzazione e di due progetti di rilancio finanziati di recente, le associazioni provano a dare una mano con una campagna di crowdfunding internazionale senza nascondere mire ambiziose. Ma mentre il medico studia il malato rischia di morire. Tutti dicono di voler salvare la Civica, ma coi soldi di qualcun altro.

    Trent’anni di solitudine

    Il rischio chiusura per default non è una novità per la Civica. Il primo grido d’allarme a riguardo risale all’aprile 1990, trentuno anni fa, e a lanciarlo fu l’allora Cda della Biblioteca cosentina.
    La prova è in una lettera indirizzata ai candidati di Regione, Provincia, Comune e Circoscrizione, firmata da Giacinto Pisani, Fausto Cozzetto, Franco Crispini, Wanda Lombardi, Gustavo Valente e Luigi Gullo. I sei denunciavano l’insostenibilità economico-finanziaria della Civica con i soli contributi di Comune, Provincia e Regione. Quei soldi, scrivevano, bastavano a coprire appena il cinquanta per cento delle spese di gestione. E avevano sempre avuto «la caratteristica del più burocratico e disattento adempimento». Un controsenso, vista l’importanza di quella struttura che aveva poche eguali nel Meridione.

    La lettera inviata ai candidati dal Cda della Civica nel 1990

    Una lunga decadenza

    Nel corso degli anni, alle perdite economiche si sono aggiunte importanti perdite nel patrimonio librario. Nel 1998, sotto la direzione Pisani, sono stati trafugati cinquanta testi rari scritti a mano dai monaci tra il Cinquecento e il Settecento di inestimabile valore culturale ed economico. Dove siano finiti è un mistero ancora irrisolto. Una storia di decadenza civile che fa il paio con quella strutturale. Nel 2010 a causa del «precario stato di conservazione dei fondi antichi della Biblioteca» la Soprintendenza ha proposto l’istituzione del deposito coattivo presso l’Archivio di Stato per il riordino e la ristrutturazione della sede.

    La missiva della Soprintendenza
    Oggi la struttura della Biblioteca presenta danni al tetto e durante i temporali piove dentro. I due dipendenti (sui 27 previsti dalla pianta organica) rimasti a dar man forte all’attuale direttrice Gentile, non possono nemmeno lavorare. La Civica non rispetta gli standard minimi di sicurezza. E così aspettano la pensione, tra decine di stipendi arretrati accumulati, sperando nell’Inps per recuperare parte di ciò che le istituzioni locali hanno loro negato.
  • Cosenza, tra la storia e la modernità distorta

    Cosenza, tra la storia e la modernità distorta

    La civiltà di un popolo si misura, oltre che dai costumi e dalle culture, anche dai luoghi e dagli spazi in cui abita e vive le proprie relazioni, attraverso l’architettura e l’urbanistica come rappresentazione emblematica del grado di civilizzazione raggiunta.

    Secondo questi parametri, la Calabria, e il Sud in generale, dimostrano il fallimento rispetto all’azione di tutela e valorizzazione -pubblica e privata- di patrimoni architettonici, artistici e paesaggistici, perché lo stato di profondo degrado in cui versano le città storiche, i paesaggi naturali e persino le recenti aree di espansione rappresentano la negazione di ogni elementare principio di salvaguardia e cura della bellezza.

    Le città storiche, come nel caso di Cosenza, sono gioielli preziosi, che tuttavia perdono lucentezza ogni giorno che passa, organismi che si spengono un po’ alla volta, tra incuria statica, edilizia, urbanistica, ambientale, tanto pubblica quanto privata.

    Cosenza crolla

    Circa un mese fa, nel Rione Santa Lucia, nella città storica di Cosenza, sono avvenuti severi crolli di manufatti, e non è la prima volta che ciò accade, ma si tratta dell’ennesimo segnale del perdurare del degrado in cui versa tutto il patrimonio abitativo storico calabrese e in generale meridionale.
    Crolli materiali, che si sommano a quelli simbolici, di collettività che si sfarinano, malgrado nella storia abbiano edificato non solo edifici, bensì memoria e identità, culture. Crolli con responsabilità civili severe e ben precise, su chi in questi anni si è preoccupato dell’immagine piuttosto che della “struttura” complessiva della città.

    Nel corso degli ultimi 50 anni, in tutto il Sud, a causa di scelte amministrative e urbanistiche che hanno privilegiato il nuovo al recupero dell’esistente, si sono accumulati errori, contraddizioni, fallimenti, non certo solo dei Comuni, ma anche e soprattutto dello Stato e delle Regioni, che poco hanno fatto per la tutela vera dei patrimoni, incentivando invece l’equivoca, lunga stagione di espansione edilizia selvaggia, interrotta solo dall’ultima recente crisi economica.

    Cosenza storica, che è emblematica di questo distorto modello, oggi giace adagiata sulle pendici del colle Pancrazio, e vista da lontano, sotto la mole del Castello, conserva il fascino di una “bella addormentata” tra boschi e Casali. Ma a quanti, abitanti e visitatori, attraversano tra le sue vie e i vicoli, appare evidente la quantità di crolli, abbandoni, fessure, lesioni nel corpo vivo dei suoi edifici, il degrado diffuso, statico, edilizio, estetico, una povertà sociale che inevitabilmente alimenta sottoboschi delinquenziali, marginalità e miseria.

    Anni fa, l’intuizione visionaria di Giacomo Mancini aveva rianimato questo esteso areale antico: tante presenze di giovani, iniziative dinamiche, attività culturali, espositive, l’avevano trasformata nella parte più attraente di Cosenza. Negli anni successivi, gli interessi di pochi – a scapito della collettività – si sono progressivamente concentrati sul privilegiare il “nuovo”, complici amministrazioni -volutamente- distratte.

    Il consenso elettorale costruito sul “salotto”

    Certo è stato più facile, più immediato, costruire il consenso elettorale sul “salotto” di Corso Mazzini, piuttosto che occuparsi del malato grave e diffuso che serpeggia tra città storica e periferia, laddove non esistono due città, una moderna e una storica, non esistono cittadini di serie A e di serie B, esiste una sola città che va dalla cima del castello fino al confine con Rende e oltre. Esistono i cittadini di Cosenza, tutti senza distinzione di quartiere, che meritano che chi gestisce la cosa pubblica si prenda cura non solo del salotto, scimmiottando modelli urbanistici qui improponibili perché privi di quella necessaria, solida cultura urbana e di condivisione delle scelte di trasformazione della città che rende partecipata e intelligente la crescita.

    Occorre ripensare il modello urbanistico di questi folli anni di scellerato consumo di suolo, di scelte edilizie insensate, di perdita di patrimoni, per ripartire, con umiltà, dal basso, dai veri problemi, anche i più minuti del più estremo e periferico degli abitanti di Cosenza, cambiando logica: ripensando tutta la città, a partire dal suo pregevole cuore storico, senza il quale non ha vita, né futuro nessuna nuova città.

  • Centro storico, tra il dire e il fare c’è di mezzo… il votare

    Centro storico, tra il dire e il fare c’è di mezzo… il votare

    Parafrasando Marx, potremmo dire che uno spettro si aggira tra le vecchie pietre del centro storico. È lo spettro delle chiacchiere, delle parole buttate, delle promesse dimenticate da chi le ha fatte, ma pure da chi le ha accolte. La memoria implacabile di quelle parole resta nell’abbandono dei vicoli, nella rassegnazione delle persone che li abitano, nelle macerie tutt’attorno. E, soprattutto, nel web. È lì che dobbiamo cercarle quelle parole rimaste vuote e scoprire che spesso sono del tutto bipartisan.

    Il parco acquatico affonda

    Come le parole trionfanti di Franco Ambrogio, epigono di una lunga storia legata al vecchio Pci, che da vice sindaco di Salvatore Perugini annunciava la nascita di un parco acquatico sul lungofiume. Era il 2011, mancava un mese alle nuove Amministrative. e il progetto prevedeva piscine, spazi ludici e attrattivi a poca distanza dal popolare quartiere dello Spirito Santo. «Sta nascendo – gongolava Ambrogio – il Central Park di Cosenza, nel verde delle colline, sulle sponde del Crati e del torrente Cardone, un complesso non solo sportivo che ingloberà le piste ciclabili già funzionanti, i campi da tennis e calcetto e che rappresenterà una grande risorsa per la città». Di quel progetto oggi restano tristi macerie abbandonate, strutture svuotate dal saccheggio dei vandali, emblema del degrado e delle risorse economiche buttate. Risorse cospicue, visto che solo la piscina, realizzata ma mai entrata in funzione, costò 2,5 milioni di euro.

    L’interno delle piscine comunali sul Lungofiume

    «Sta nascendo il Central Park di Cosenza, nel verde delle colline, sulle sponde del Crati e del torrente Cardone, un complesso non solo sportivo che ingloberà le piste ciclabili già funzionanti, i campi da tennis e calcetto e che rappresenterà una grande risorsa per la città»

    Non si è trattato solo di un fallimento politico. Quell’area ha finito per diventare la metafora dell’inerzia e dell’incapacità di una intera stagione amministrativa, ma anche imprenditoriale. La ditta che aveva vinto l’appalto è quasi finita sul lastrico per i ritardi del Comune, sia con Perugini che Occhiuto, nel pagare i lavori. Le condizioni in cui versano le strutture, ormai fatiscenti, sono tali da non rendere pensabile alcun recupero. Servirebbero cifre enormi per ripristinare la funzionalità della piscina e non varrebbe la pena. Il centro storico quindi ha visto nascere e subito morire il suo parco acquatico.

    Un mare di promesse sul fiume navigabile

    Questa fissazione del parco acquatico pare impossessarsi di chiunque vesta la fascia da sindaco. Anche Occhiuto ha spesso nutrito di oniriche fantasie l’immaginazione dei cosentini, annunciando ciclicamente la navigabilità del Crati. Ed ecco che dal sindaco architetto sono giunte promesse di paesaggi idilliaci, con sponde verdi e alberate, frequentate da cittadini gioiosi. Dulcis in fundo, canoe colorate che solcano le acque del fiume all’ombra del fiore all’occhiello della città: il ponte di Calatrava. Di rendering realizzati grazie alla grafica digitale ne sono circolati diversi, oggi sotto il ponte ci sono solo canneti. Questo non ha impedito al Comune di annunciare ben più di una volta l’avvio dei lavori. Per esempio nell’agosto del 2017, a seguito di un vertice tecnico, poi di nuovo nel gennaio del 2018 e più recentemente all’inizio del 2021. In quel caso però qualcosa era vero: le ruspe scesero nell’alveo del fiume, ma solo per pulirne gli argini.

    Le scale (im)mobili del centro storico

    Annunciare e non fare può essere una strategia per raccattare consenso, ma fare e poi abbandonare è suicidio politico. Una pratica che all’amministrazione Perugini riusciva alla grande: oltre al “Parco acquatico”, quella amministrazione realizzò anche delle opportune scale mobili in grado di unire comodamente via Padolisi alla Giostra Vecchia. Era il 2009, tempo di elezioni provinciali. E anche in quel caso si esultava «per un’opera che agevola l’accessibilità dei luoghi sia a chi li percorre quotidianamente sia ai visitatori occasionali». Ecco quindi la festosa inaugurazione, la benedizione dell’allora vescovo Nunnari, la presenza del Gotha del ceto politico. Quelle scale mobili, costate 700 mila euro, non sono mai entrate in funzione.

    Le scale di via Padolisi hanno funzionato solo durante l’inaugurazione

    I soldi delle periferie al salotto buono

    Da Perugini ad Occhiuto i destini del centro storico non sono mutati. Le opere realizzate e lasciate morire non sono state salvate dall’oblio. In compenso le dinamiche con le quali si sono diffusi gli annunci di nuove utili opere hanno acquisito modalità più efficaci al fine di conquistare consensi, diventando la cifra caratterizzante degli anni di governo di Occhiuto. L’attuale sindaco ha presidiato i social network usandoli per divulgare capillarmente le nuove progressive sorti che ci attendevano attraverso animazioni grafiche fantasmagoriche, capaci di fare sognare una città nuova e diversa.

    Nel 2017, per esempio, Occhiuto parla della “Cosenza che verrà”. E alimenta le speranze nei cittadini delle periferie e particolarmente della città antica, anche perché il progetto si chiama “Riqualificazione urbana lungo il fiume Crati da Vaglio Lise al Centro Storico”. I fondi sono parecchi, la possibilità di una rinascita sembra ben fondata, ma le cose andranno diversamente. La Giunta però, col consenso muto, complice o distratto della maggioranza, delibera di spendere quei soldi altrove. Serviranno per pavimentare la parte finale di corso Mazzini e poi di corso Umberto. Lo scopo ufficiale è «riconnettere il tessuto urbano centrale con quello periferico». Le periferie sono dimenticate, la città storica beffata, il denaro dirottato per abbellire il salotto buono. Quei lavori ancora oggi non sono ultimati, anche a causa di interdittive antimafia.

    Universi paralleli e palazzi cassonetto

    Ma che le parole fossero un universo separato dai fatti si era ben visto anche prima. Per esempio nel 2016 lo stesso Occhiuto, in piena campagna elettorale, parlava della «rinascita commerciale del centro storico, del museo di Alarico e della Biblioteca civica che abbiamo salvato». Oggi corso Telesio versa nell’abbandono e solo qualche giorno fa, a causa dell’ennesimo crollo, non era transitabile, mentre il museo di Alarico è soltanto quel che resta dell’Hotel Jolly e infine la Civica è agonizzante.

    I resti dell’ex Hotel Jolly

    Per non parlare del quartiere Santa Lucia, per il cui risanamento Occhiuto nel settembre del 2017, affermava: «Abbiamo voluto incontrare la stampa e tutte le associazioni del centro storico perché la ripresa di questi luoghi è una nostra priorità». Quel giorno aveva al suo fianco il suo vicesindaco, Jole Santelli, che qualche anno dopo sarebbe diventata presidente della Regione. In quell’incontro Occhiuto promise la rinascita del quartiere, interventi di consolidamento delle case, sostegno verso il disagio sociale e contro la povertà, una migliore vivibilità e igiene urbana. Nel 2019 gli abitanti del quartiere scrivevano al sindaco una lettera. Cominciava così: «Santa Lucia è oggi tristemente famosa soprattutto per i suoi palazzi cosiddetti cassonetto».
    Alla fine, per Cosenza vecchia, così come per ogni altra area periferica, è sempre una questione di soldi: quelli promessi, quelli mai arrivati, quelli usati per altro.

  • Legnochimica a Rende: lo Stato dimentica, i tumori no

    Legnochimica a Rende: lo Stato dimentica, i tumori no

    Della Legnochimica di Rende non si parla da tempo, se non per gli incendi che colpiscono la zona con sinistra puntualità durante il periodo estivo. Tutto ciò che sembra restare della vicenda complessa e tortuosa dell’ex fabbrica di pannelli in ledorex che fu il simbolo dello sviluppo industriale d’Oltrecampagnano è un processo per disastro ambientale.
    Si trascina stancamente davanti al Tribunale di Cosenza e quasi non fa più notizia. Analogamente, risultano ferme tutte le ipotesi di bonifica delle vasche di decantazione della ex fabbrica, cioè i laghetti artificiali che vanno periodicamente in autocombustione e tormentano gli abitanti della zona con i loro odori metifici.

    Un disastro ambientale su scala

    Rende non è Taranto: non ne ha il mare bellissimo e le cozze saporite. Ma se si opera un paragone su scala, è facile capire che Legnochimica ha pesato nella vita e nell’economia di Rende come le acciaierie nella città pugliese.
    Nel bene e nel male. Anzi, visto che siamo in Calabria, il male prevale: la fabbrica che occupava centinaia di persone non c’è più. Su parte dei suoi terreni, nel frattempo liquidati in tutta fretta, sono sorte altre attività economiche, anche importanti, ma dalla capacità occupazionale decisamente minore.

    Al posto della vecchia Spa, riconducibile alla famiglia Battaglia di Mondovì, c’è una srl, che ha la proprietà dei tre laghi artificiali residui, dei terreni circostanti e di ciò che resta delle ultime strutture aziendali, aggredite anch’esse a più riprese dalle fiamme.
    Il mistero si annida in questi trenta ettari di terreno, attorno ai quali si snoda via Settimo, una zona abitata da alcune famiglie che sono, allo stesso tempo, memoria storica e vittime della storia di uno dei più ambiziosi tentativi di industrializzazione della Calabria. Prima hanno visto la fabbrica sorgere e svilupparsi, poi hanno pagato un tributo di lutti e lacrime a questo sogno finito quasi in niente.

    La chiusura di Legnochimica

    Legnochimica chiuse i battenti a inizio millennio e, dal 2006, cominciò un processo tortuoso di liquidazione volontaria, fermato due anni dopo da Eraldo Rizzuti, assessore all’Ambiente della giunta di Rende guidata da Umberto Bernaudo, che nutriva seri dubbi sull’opportunità di liquidare i terreni e di coprire i laghi artificiali senza una doverosa bonifica. Purtroppo, i fatti gli hanno dato ragione: ad agosto 2008 si verificò la prima “autocombustione” delle vasche. Era l’avvio di una brutta vicenda destinata a peggiorare.

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    Eraldo Rizzuti, assessore all’Ambiente del Comune di Rende quando il sindaco era Umberto Bernaudo

    Infatti, a partire dal 2009, varie persone iniziarono a morire. Se ne contano dieci in meno di due anni, tutte per tumori alle parti molli, in particolare al pancreas (circa sei). Un indizio, a detta degli esperti, di almeno due cose: la presenza di inquinamento industriale e di un’epidemia tumorale. Purtroppo, gli indizi non sono prove.
    Ma in Calabria accade di peggio: la mancanza di un registro dei tumori li abbassa a livello di suggestioni, perché l’assenza di un database impedisce di elaborare i rilievi statistici necessari per puntare il dito verso qualcosa o qualcuno. Ed ecco che questa tragedia ha un peso secondario nell’attuale processo per disastro ambientale.

    La guerra delle perizie

    Il peso relativo dei morti non è l’unico paradosso di questa vicenda. Attorno all’ex Legnochimica di Rende si è scatenata una vera e propria guerra dei periti, che sostengono tesi diverse, quasi diametralmente opposte.
    La prima tesi, elaborata dall’Arpacal, minimizza la portata dell’inquinamento. Le sostanze inquinanti, a detta dei funzionari dell’Agenzia regionale, ci sarebbero, ma quasi nei livelli consentiti dalla legge. Il sottinteso è evidente: con una pulizia minima, è possibile interrare i laghi residui e procedere alla liquidazione.
    La seconda tesi è decisamente più pesante e autorevole. L’autore è l’ex rettore dell’Unical, Gino Mirocle Crisci, in qualità di consulente per la prima inchiesta giudiziaria sulla ex Legnochimica.
    Questa inchiesta partì in seguito alle autocombustioni del 2008 ed ebbe come indagato Palmiro Pellicori, all’epoca liquidatore dello stabilimento.

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    L’ex rettore dell’Università della Calabria, Gino Mirocle Crisci

    Crisci, per soddisfare le richieste della Procura, portò avanti una serie di carotaggi e di prelievi fino a trenta metri di profondità. I risultati della sua ricerca restano inquietanti: nel sottosuolo dell’ex stabilimento c’è una concentrazione abnorme di acido cloridrico, zinco e metalli pesanti. Secondo le stime dell’ex rettore sarebbero in quantità superiore alle soglie legali di circa cento volte.
    La relazione di Crisci finì come il procedimento per cui l’aveva elaborata: archiviata, perché nel frattempo la morte di Pellicori, unico indagato, aveva fermato il procedimento.
    Ed ecco il paradosso: fino al 2016, l’unica perizia ad avere un valore legale era quella soft dell’Arpacal, mentre quella di Crisci manteneva un suo valore scientifico ma restava di fatto inutilizzabile.
    Intanto, le autocombustioni sono proseguite e le persone hanno continuato a morire.

    La nuova inchiesta

    La seconda inchiesta è partita nel 2016, anche sulla spinta di inchieste giornalistiche. Stavolta, sono finiti nel mirino Pasquale Bilotta, il liquidatore che aveva preso il posto di Pellicori, e alcuni vertici dell’amministrazione di Rende: il sindaco Marcello Manna, Francesco D’Ippolito, assessore all’Ambiente della giunta Manna dal 2014 al 2019, e Francesco Azzato, dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune.
    Per questi tre il procedimento è terminato nel 2019, con un non luogo a procedere, pronunciato dal Gup di Cosenza e confermato dalla Corte d’Appello di Catanzaro.

    Alla sbarra è rimasto il solo Bilotta, sul quale gravano le accuse di disastro ambientale e omessa bonifica. Il processo, iniziato dalla procuratrice aggiunta Marisa Manzini e gestito in aula dal pm Antonio Bruno Tridico, prosegue a rilento.
    Ma tra le polemiche, sempre più in sordina, e i brogliacci giudiziari è quasi sparito il problema reale: la bonifica.

    La bonifica della discordia

    Il problema è più che sentito dall’amministrazione attuale di Rende. «Il Comune è intervenuto nei limiti delle sue disponibilità», spiega il sindaco Marcello Manna. Politichese? Proprio no: «Com’è noto, siamo in predissesto», argomenta ancora il sindaco, «e abbiamo un problema giuridico non secondario: l’esproprio».
    Secondo l’attuale normativa in materia di disastro ambientale vige il principio per cui “chi inquina paga”, quindi toccherebbe alla srl di Mondovì, attualmente sotto curatela fallimentare, togliere i quattrini. L’alternativa, fa capire il sindaco, sarebbe procedere all’esproprio previo inserimento dei terreni della Legnochimica nelle apposite liste del Ministero dell’Ambiente. Ma dalla Regione tutto tace. «Abbiamo fatto molte istanze a Catanzaro, tutte finite in rimpalli burocratici», argomenta ancora Manna.

    Ma la burocrazia è solo uno dei problemi. Un altro, gravissimo, è dovuto alla mancanza di un piano di caratterizzazione. Sul punto, è intervenuto con chiarezza Francesco Azzato, dirigente dell’Ufficio tecnico del municipio: «Noi abbiamo finanziato una borsa di studio dell’Unical per ottenere una nuova perizia», il cui scopo non è «la caccia al colpevole ma dare indicazioni efficaci per una bonifica». Il risultato è lo studio del professor Salvatore Straface, che riprende il leitmotiv della vecchia ricerca dell’Arpacal: i laghi non sarebbero inquinati in maniera pericolosa. Punto e a capo?

    Ancora lutti a Rende

    Se ci si attiene invece ai risultati della perizia di Crisci, bonificare costerebbe circa dieci milioni di euro. Una somma di cui non dispone il Comune e che è difficile da captare da altri fondi, regionali e nazionali.
    E, come già anticipato, i lutti continuano: dal 2016 a oggi se ne contano altri dodici, con la stessa tipologia dei precedenti nove. Quasi tutte le persone sono morte di tumori alle parti molli, tutti i decessi si sono verificati a via Settimo e dintorni, quindi a distanza significativamente breve dall’ex Legnochimica di Rende, tutti sono avvenuti in un lasso breve, poco più di tre anni.

    Ciò che pesa di più su questa vicenda è il nuovo silenzio surreale. I suoi spazi mediatici sono ridottissimi e le poche voci del territorio quasi spente. La XAssociazione Crocevia, per anni in prima fila nella battaglia sull’ex stabilimento, ha perso la propria sede e ha ridotto le proprie attività. Gli altri comitati si limitano a comunicati stampa duri ma poco ascoltati.
    A Rende, come a Taranto, per decenni si è barattato l’ambiente (e quindi la salute) col lavoro. Ma al posto delle ciminiere è rimasto un fantasma. Inquietante, pericoloso e forse letale, come in un romanzo horror che difficilmente potrà avere un lieto fine.