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  • Cosenza, la città che fa acqua da tutte le parti

    Cosenza, la città che fa acqua da tutte le parti

    Quando si chiede ai cosentini quali siano stati i fallimenti dell’amministrazione Occhiuto, rispondono tutto d’un fiato: il traffico, il centro storico e l’acqua. Che il servizio idrico in città sia carente lo confermano migliaia di testimonianze e lamentele quotidiane affidate da cittadini di quartieri diversi ai social media. Su questo grave disservizio, sia in passato che in anni recenti sono stati scritti libri e realizzate inchieste.
    Autorevoli esperti hanno studiato il problema, analizzato le cause, individuato le responsabilità, prospettando delle possibili soluzioni.

    Propaganda vs Realtà

    Il video diffuso più di un anno fa da Sorical in merito alla questione della mancanza d’acqua a Cosenza attesterebbe il miglioramento quantitativo del servizio, in virtù di un’asserita razionalizzazione del sistema. È un report che testimonia un impegno per cercare di affrontare il problema, ma traspira un tono propagandistico che rivela una scarsa aderenza alla realtà dei fatti.

    Sebbene rispetto ai decenni precedenti un sensibile miglioramento della situazione in effetti sia avvenuto, è proprio il caso di dire che questa rappresentazione fa acqua da tutte le parti. In ogni quartiere, dal centro alla periferia, nella fase attuale dell’anno i rubinetti domestici rimangono a secco dal tramonto all’alba. L’acqua arriva nelle case solo in ore diurne. Nelle stagioni calde la durata dell’erogazione si riduce ulteriormente.

    L’ultima classifica

    Non se ne accorgono le famiglie che usufruiscono di cisterne condominiali. Un po’ di più lo percepisce chi ha installato nella propria abitazione un serbatoio autonomo: il rumore della pompa idraulica segnala che nei tubi la pressione è talmente bassa da richiedere l’attivazione del motorino. Soffrono invece, e bestemmiano in cosentino stretto, commercianti e residenti sprovvisti di autoclavi.

    Eppure, a leggere i dati forniti una settimana fa da Legambiente nella classifica annuale pubblicata da “il Sole 24 ore”, Cosenza sarebbe la quindicesima città italiana nella graduatoria sull’efficienza del servizio idrico, la più virtuosa del meridione. La differenza tra l’acqua immessa in rete e consumata per usi civili, industriali e agricoli si attesterebbe al 22,6%, contro il 50 di Catanzaro. Stando a questi dati, nel capoluogo calabrese metà dell’acqua si disperderebbe a causa delle condutture colabrodo. Nella città dei Bruzi, invece, il problema sarebbe addirittura ridotto della metà.

    Acqua e fonti

    Viene da chiedersi come sia possibile. Una prima risposta è contenuta nelle spiegazioni che Legambiente fornisce sui criteri adottati nel redigere la speciale classifica: «Fonte: dati originali dei Comuni».
    È noto che ormai per i gestori di ristoranti, pizzerie, hotel e B&B vale più una recensione positiva di qualsiasi altro attestato di merito. Qualche lamentela pubblicata da un cliente su una delle tante piattaforme dedicate al turismo può imbrattare un’immagine luminosa della propria attività ricettiva, costruita con tanti sacrifici nel tempo. Nel caso dell’indagine Quanto è verde la tua città, è come se Legambiente avesse chiesto a un ristoratore di recensirsi da solo.

    Un ulteriore elemento di dubbio sui risultati dello studio sorge quando si osservano le differenze tra le cifre relative al 2016 e all’anno successivo. In soli 12 mesi a Cosenza la percentuale di dispersione dell’acqua si sarebbe ridotta dal 77 al 36%. A meno che, pur di rattoppare la rete idrica, nelle viscere della terra l’amministrazione Occhiuto e la Regione Calabria non abbiano impiegato forze paranormali, è molto difficile valutare questo dato come attendibile.

    Gli interventi effettuati

    I lavori di rifacimento ci sono stati, sì, non v’è dubbio. Nell’aprile scorso, l’ingegner Giovanni Ioele, capo struttura del Dipartimento tutela dell’ambiente della Regione Calabria, informava la commissione Ambiente di Palazzo dei Bruzi che in tre anni sul territorio comunale sono stati sostituiti 12 chilometri di rete idrica e riparate circa 200 perdite, 400 gli interventi di rifacimento degli allacci, 360 le saracinesche sostituite e 44 gli idranti installati.

    Preso atto anche di questa relazione, la tempistica appare però ancor più anomala. Se gli interventi sono stati effettuati solo a partire dal 2018, non si capisce come la situazione sia potuta migliorare già nel biennio precedente, addirittura fino a dimezzare la dispersione. In realtà le perdite continuano a riguardare gran parte della città. E sono di almeno tre tipi:

    Sotto accusa rimangono anche le autoclavi condominiali. Secondo alcuni esperti e amministratori di Palazzo dei Bruzi, essendo prive di “sistemi di ritenuta”, cioè di valvole e galleggianti, continuerebbero ad accaparrare milioni di litri per scaricarli direttamente nelle fogne.

    Tutta colpa dei cittadini?

    C’è chi fa notare che per le amministrazioni locali è ormai tattico colpevolizzare la cittadinanza su presunti comportamenti incivili nella raccolta differenziata dei rifiuti come nel rispetto del codice della strada. Non poteva mancare lo scorretto utilizzo dell’acqua. Ed è comunque spontaneo chiedersi come mai in questi anni il Comune non abbia ordinato delle ispezioni tecniche, condominio per condominio.

    Nel tentativo di recuperare crediti derivanti da tributi, multe e canoni d’affitto delle case popolari, l’amministrazione guidata da Mario Occhiuto ha affidato onerosi incarichi a società private. A prescindere dagli scarsi risultati conseguiti con questi affidamenti, se avesse agito con la medesima solerzia nel pretendere il corretto funzionamento delle cisterne condominiali e nei controlli sull’effettiva funzionalità dei contatori, forse il problema sarebbe stato in parte risolto.

    Beni comuni e privatizzazioni

    Intanto, mentre per gran parte della giornata i rubinetti cosentini rimangono a secco, il prossimo sabato 20 novembre a Napoli è prevista la manifestazione nazionale per l’acqua bene comune «minacciata – scrivono i promotori del corteo – dal governo Draghi di privatizzazione con il DDL Concorrenza. In più il neosindaco di Napoli tra le prime cose da fare intende privatizzare l’azienda pubblica dell’acqua e lo stesso Draghi tramite i soldi del PNRR vuole realizzare la Multiutility SUD, raggruppando e privatizzando tutta l’acqua delle 6 regioni Sud continentali».

    Dal canto loro, l’assemblea dei sindaci dell’Autorità Idrica della Calabria e la Giunta regionale avrebbero idee poco chiare su chi dovrà amministrare la nostra acqua e quanto ci costerà. Si profilano due strade. O il gestore sarà una società per azioni a capitale pubblico oppure la captazione e l’adduzione spetterebbero a Sorical, ma distribuzione e depurazione passerebbero nelle mani di un nuovo soggetto, che potrebbe essere una Spa a capitale pubblico oppure un’azienda speciale consortile.
    Il coordinamento calabrese “Bruno Arcuri” sostiene che «acqua bene comune non vuol dire capitale pubblico, ma gestione pubblica».
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    L’azienda speciale

    In sintonia con quanto prospettato dal presidente della Regione Roberto Occhiuto, il coordinamento chiede che il servizio sia affidato a un’azienda speciale, purché tale forma giuridica sia permanente, non temporanea.
    La situazione è resa ancor più complicata dalla nota indirizzata due giorni fa al presidente della Provincia Franco Iacucci, dal presidente dell’Autorità idrica della Calabria, Marcello Manna. Al momento la decisione non è ancora definita, ma la Sorical dovrebbe restare come gestore all’ingrosso, mentre a valle si avrebbe un’azienda speciale. Questo cozzerebbe però con l’indicazione del presidente della Regione sulla gestione unitaria.

    Da un Occhiuto all’altro

    Dunque, mentre un Occhiuto si appresterebbe a trovare una risposta concreta alle istanze dei comitati per l’acqua pubblica in Calabria, l’altro Occhiuto, impegnato com’era nella ricerca del “bello”, si è congedato dal ruolo di primo cittadino senza però aver garantito il funzionamento effettivo di questo come di altri settori nevralgici del Comune bruzio. La “grande bellezza” sarà pure un orizzonte monetizzabile, ma rimane un risultato superficiale. Per ingegnerizzare davvero la rete idrica, per riparare i guasti, sarebbe necessario impegnare risorse consistenti, scendere in profondità, scavare, svolgere un lavoro oscuro che tuttavia non fornirebbe alla cittadinanza l’immediata evidenza dei fatti.

    Se il servizio idrico fosse garantito per 24 ore, forse in tanti nemmeno se ne accorgerebbero, perché le cisterne private e condominiali ammortizzano la drammaticità del disservizio. Nella società virtuale, quel che non appare non esiste. E ci si abitua a tutto. Persino dell’acqua si può fare a meno, magari fingendo a se stessi di averla a disposizione per tutta la giornata. Se poi si vive in una città ai primi posti della graduatoria nazionale, «è una città che ci ha reso orgogliosi». Allora la doccia può attendere.

  • Cultura, lettera a un assessore mai nato

    Cultura, lettera a un assessore mai nato

    La sera del 7 novembre, domenica, il neoeletto sindaco di Cosenza, Franz Caruso, ha parcheggiato la sua Smart tra la biblioteca Civica e il teatro Rendano: è stato come appuntare una delle sue prime uscite pubbliche tra due simboli della decadenza culturale della presunta Atene della Calabria.
    Da un lato la sede della gloriosa Accademia cosentina, dall’altro il teatro di tradizione dove si celebrava Astor Piazzolla a cento anni dalla nascita: due dei tanti contenitori in cerca di contenuti, nel tempo dissestato in cui par di capire che di “contenuto” ci dovrà essere solo il budget dedicato alla cultura.
    Fine del prologo

    Car* assessor*

    O meglio, come sembra dovrà essere, car* consiglier* delegat*, il decennio di Occhiuto ha lasciato le macerie di un eventificio perpetuo di cui non resta alcuna traccia se non nelle lamentazioni social – anche postume – dei cosiddetti “odiatori” in modalità leoni da tastiera.

    Il biennio della pandemia ci ha precipitati in un nuovo riflusso in cui in maniera direttamente proporzionale si sono ristretti gli spazi pubblici di incontro e confronto e dilatati quelli della fruizione domestica – serie tv ma anche musica e persino mostre.
    Eppure Cosenza aveva iniziato a desertificarsi ben prima dell’emergenza Covid: ai lustrini dell’isola pedonale puntellata di opere d’arte e degli stand in centro o lungo il fiume ha fatto da contraltare il depauperamento dei simboli stessi di quella che si beava di essere l’Atene della Calabria, appunto, che per nemesi è stata scavalcata da Vibo capitale del libro, tanto per dirne una.

    Caro assessore o consigliere delegato alla Cultura, fondi permettendo ci sarà da intervenire anzitutto sui teatri cittadini: Rendano, Morelli e Italia giacciono come pachidermi fiaccati da una lunga agonia giunta, per paradosso, proprio dopo la rinascita strutturale, e quasi bisogna ringraziare i privati che con stagioni mainstream quanto si vuole almeno li tengono in vita.
    Al Rendano non si produce prosa dal 1990 – una volta decaduto il Consorzio teatrale –, lo stesso stallo riguarda la lirica ora che si è perfezionata la mutazione degli enti lirici in fondazioni lirico-sinfoniche (solo 2 su 14 hanno sede al Sud).

    A un assessore o consigliere delegato – o consigliera delegata, come pare in queste ore più probabile – si chiede di mettere in campo un progetto fattibile con cui cercare di accedere ai finanziamenti statali (il famoso Fondo unico per lo spettacolo del ministero della Cultura), per cui è richiesto un periodo di attività continuativa che al momento latita.
    Anche in questo caso converrebbe guardarsi attorno con umiltà, ispirarsi magari a esempi virtuosi nella gestione di strutture magari con meno storia ma più visione: dalla Fondazione che gestisce il Politeama di Catanzaro alla grandeur del nascituro (?) Museo del Mediterraneo impreziosito dal waterfront di Zaha Hadid a Reggio Calabria. Per ora un rendering magniloquente quanto il Museo di Alarico alla confluenza Crati-Busento.

    Cosa c’era, cosa c’è

    «A Cosenza (…) non c’è il problema di un assessore nuovo, manca invece il dibattito, la discussione politica e culturale e conseguentemente le scelte: quale cultura, quale arte, vogliamo per la nostra città?»: così Radio Ciroma nella lettera aperta “Per la cultura a Cosenza non serve un assessore ma una discussione”.
    Si sa che, soprattutto a sinistra, il “dibbbattito” (no, il dibattito no!) finisce spesso per trasformarsi in una paludosa riunione di autocoscienza che si inviluppa, si invischia e involve fino alla produzione del Documento Finale; seguirà buffet.
    Eppure per chi ricorda Petrucciani al Rendano, Ferlinghetti o Kusturica alla villa vecchia, i concerti di Lou Reed e Patti Smith o i tamburi del Bronx all’ombra dell’attuale ponte di Calatrava (nell’estate 1998 un totem più futuribile del planetario) fare un confronto con l’offerta culturale di oggi è alquanto desolante.
    Non va meglio se si cercano luoghi di aggregazione.

    Il grande Lou Reed, scomparso nel 2013

    Dal momento che la neo eletta maggioranza non ha fatto mistero di rivendicare una impronta socialista e un legame con la rinascita mancinianaben più della discutibile trovata grafica nel manifesto elettorale di uno dei candidati sindaco Civitelli –, al netto delle ristrettezze di cassa sarebbe allora il caso di ripartire da alcuni dei luoghi (pubblici) in cui il sindaco già ministro e segretario del Psi individuò altrettante opportunità di ripartenza, tanto più in questa fase post-pandemica.

    Senza bisogno di scomodare le Invasioni – davvero un precedente troppo ingombrante benché recentemente brutalizzato come si sfregia un monumento – è il caso di citare almeno la Casa delle culture e la Città dei ragazzi: un non-luogo nel palazzo un tempo sede del municipio e un unicum che, nella zona nord della città, dopo vent’anni non riesce a trovare una identità per imporsi (tra i cubi di via Panebianco, di recente la lodevole iniziativa Bibliohub con le scuole).

    La Città dei ragazzi su via Panebianco

    Ora che si avvicina il primo Natale de-cerchizzato è forse il caso che dal dissesto locale e dalla crisi globale venga nuova linfa: crisi deriva dal greco krino, ovvero decido, ed è nei tempi peggiori che possono nascere le cose migliori.
    Qualcosa in realtà a Cosenza non ha mai smesso di muoversi, e proprio nel centro storico che crollava sono nate nicchie di resistenza come Gaia, Arcired e Coessenza; ma altrettante premesse non sono diventate fatti: il Bocs Museum e la Casa della Musica forse sono gli esempi più lampanti di un torpore che prelude al fallimento pubblico.

    L’interno del Bocs Museum a San Domenico
    Conclusioni

    L’impressione è quella di una città che non fa tesoro delle proprie potenzialità. A cinquant’anni dalla nascita, l’Unical resta un oggetto misterioso per la comunità eppure indicizzato tra le eccellenze accademiche italiane.
    Altri fiori all’occhiello come il Conservatorio musicale “Stanislao Giacomantonio” continuano ad operare con non poche soddisfazioni e ricadute sociali oltre che culturali (con il decreto del Fus 2022 è stato peraltro annunciato dal ministro Franceschini un contributo straordinario per la nascita di orchestre stabili), così come alcuni premi (il “Sila ‘49” e quello per la Cultura mediterranea organizzato dalla Fondazione Carical) contribuiscono almeno ad ampliare lo sguardo oltre la dimensione strapaesana dei consumi culturali.

    C’è una città che in questi anni ha continuato a lavorare nel silenzio e nell’ombra, ma con impatto e seguiti invidiabili, senza pietismi e lamentazioni: forse adesso chiede solo di ricevere, se non riconoscenza, almeno un po’ di ascolto.

  • Sanità cosentina, la carica post elettorale dei 680 Oss

    Sanità cosentina, la carica post elettorale dei 680 Oss

    Come fa un semplice concorso, tra l’altro piuttosto piccolo, a diventare un concorsone? In Calabria si può. Come si fa ad avere tanto personale disponibile e non poterlo utilizzare? Nella Sanità calabrese capita questo e peggio.
    Stavolta è toccato agli operatori socio-sanitari reclutati a ottobre dall’Azienda ospedaliera di Cosenza con un concorso bandito nel 2017. Una procedura alla calabrese, in cui all’allungamento dei tempi è corrisposta una dilatazione dei posti, che dai 24 previsti in origine sono diventati 80 effettivi con una “magia” amministrativa degna di un alchimista.
    Ma tanta arte potrebbe non bastare perché, suggeriscono gli addetti ai lavori, anche ottanta risultano troppo pochi.

    Grandi numeri per piccoli posti

    Nelle pubbliche amministrazioni si entra per concorso o ricorso. Ma anche per graduatoria.
    Già: i concorsi amministrativi non si limitano a stabilire un numero (limitato) di vincitori e uno di “perdenti” (i più) tra i candidati.
    I concorsi servono anche per abilitare. Non a caso, tra vincitori e “sconfitti” esiste una terza categoria: gli idonei non vincitori.
    Per il concorso oss del 2017 il numero è mostruoso: sono circa 600 su una graduatoria effettiva di circa 680. In pratica, poco più di un decimo dei candidati (oltre 5mila) che nel 2017 avevano aderito al bando.

    Questi 600 ora premono alle porte della Sanità calabrese. Hanno in parte la legge dalla loro, che li considera comunque idonei a servire ospedali e ambulatori pubblici e sperano di essere assorbiti quanto prima, perché il tempo per far valere i propri interessi non è tantissimo: 3 anni a partire dalla fine del concorso, ché tanto dura l’efficacia della graduatoria.
    Ma questi 600, complici anche molte promesse fatte durante l’ultima campagna elettorale, sperano anche nel fatto che il nuovo commissario regionale alla Sanità, Roberto Occhiuto, possa dare una risposta “politica” alle loro domande. In altre parole, che si comporti più da assessore della sua Giunta regionale, che da commissario.
    Come si è arrivati a tutto questo?

    Lo strano concorso

    Le pubbliche amministrazioni ci hanno abituato a tante stranezze. Ma questo concorso ne batte molte. Infatti: come fa un concorso bandito in fretta e furia per procurarsi personale a durare quattro anni? La risposta è piuttosto semplice: sciatteria.
    L’Ao di Cosenza non è riuscita a lungo a trovare un’azienda specializzata a cui appaltare lo svolgimento delle prove. Poi è intervenuto il Covid a far slittare il tutto ed ecco che le prove si sono svolte a partire da giugno 2020, in una situazione completamente mutata.
    Di quanto fosse mutata, se n’è accorta Isabella Mastrobuono, la commissaria straordinaria dell’Ao, la quale nella tarda primavera scorsa ha chiesto, in seguito a un burrascoso incontro in prefettura, altri 14 posti da aggiungere ai 24 previsti in origine.

    Il commissario dell’Ao di Cosenza, Isabella Mastrobuono

    Occhio alle date: la richiesta risale a poco prima di aprile scorso, cioè tra lo svolgimento delle preselettive (giugno 2020) e la prova pratica.
    Occhio anche ai dettagli: la commissaria non ha modificato il bando, ma lo ha solo integrato con una domanda inviata alla Regione senza risposta. Perciò i 14 in più non sono “vincitori” ma “idonei”. Certo, nei fatti non cambia nulla. Ma nelle amministrazioni la forma pesa più della sostanza: questi 14 posti presi con un “silenzio-assenso” sono la prima pesca dalla graduatoria. Un precedente tra i tanti che incoraggia i candidati a ben sperare.

    Chi vive sperando…

    Infatti, le speranze non sono state disattese. Subito dopo gli orali, svoltisi lo scorso giugno, la commissaria si è accorta che il buco da colmare era più grande. Perciò ha chiesto e ottenuto altri 42 posti, fino ad arrivare a 80. Ed ecco la prima stranezza del concorso: gli idonei assunti sono più dei vincitori.
    La seconda stranezza sta nel numero enorme di idonei, che ha trasformato gli aspiranti oss in un vero e proprio bacino. Ma pure in una potenziale bomba sociale, che potrebbe esplodere se certe aspettative non venissero soddisfatte.

    I buchi e i bisogni

    La storia di questo concorso si lega alla vicenda complicatissima degli oss cosentini.
    Una domanda innanzitutto: quanti ne servono? Una risposta certa non c’è. Comunque tanti. A sentire alcuni esponenti sindacali, il fabbisogno effettivo sarebbe di circa 250 oss per il solo Ospedale dell’Annunziata.
    Se si allarga lo sguardo agli altri due Ospedali dell’Ao (il Mariano Santo di Mendicino e il Santa Barbara di Rogliano) e alle strutture dell’Asp la cifra diventerebbe iperbolica: servirebbero 2.500 oss.
    A questo punto i 680, che sembrano “troppi”, risulterebbero troppo pochi. È così? A livello legale no.

    Il fabbisogno legale dipende da tre fattori. Il primo è costituito dalle Linee guida, redatto e approvato dalla direzione regionale della Sanità. Il secondo è determinato dalle singole Aziende (Asp e Ao) attraverso gli Atti aziendali, che contengono gli organigrammi.
    Il terzo fattore risulta dalla differenza tra le previsioni dell’Atto aziendale (che possono essere più basse del fabbisogno reale) e il personale che effettivamente opera nelle strutture.

    Per chiarire: se il fabbisogno di fatto è 1.000, nulla vieta che l’Atto aziendale dichiari, a causa del Piano di rientro, un fabbisogno di 100 e che, per esempio, il personale impiegato sia di 70 unità. Risultato: il fabbisogno legale sarà di 30 e non di 930.
    Tuttavia, non mancano indizi. Innanzitutto, il fabbisogno del 2019 del solo Ospedale di Cosenza era calcolato in 190 unità. Fino a quel momento i vertici dell’Ao avevano rimediato utilizzando il personale di Coopservice, l’azienda subentrata nel 2014 a Dussman nella gestione esternalizzata dei servizi ospedalieri (pulizie, ecc.).
    Sappiamo com’è andata a finire: la giurisprudenza ha messo uno stop all’uso di personale esterno per svolgere le mansioni di oss e Coopservice, nel frattempo finita anche sotto inchiesta, non solo ha mollato il settore ma ha licenziato quaranta suoi dipendenti.

    Il garbuglio e le promesse

    Ma allora: quanti oss possono permettersi l’Ao ed, eventualmente, l’Asp di Cosenza? Per avere una risposta occorreranno i nuovi Atti aziendali, che dovrebbero essere emanati a fine novembre, e le nuove Linee guida. E qui iniziano le magagne: per quel che riguarda l’Asp, ad esempio, non sono chiare le disponibilità finanziarie, visto che la giustizia amministrativa ha dichiarato illegittimi i bilanci, tra l’altro non rosei, del biennio 2016-2017.

    Poi, a dirla tutta, non è detto che i vertici dell’Azienda sanitaria siano obbligati a pescare dalla graduatoria dell’Ao. Così, almeno, si apprende dai piani alti di via Alimena.
    Certo, le regole di buona amministrazione imporrebbero la “pesca” in un bacino già qualificato anziché fare nuovi concorsi. Tanto più che l’Asp, proprio di recente, ha emesso avvisi per il reclutamento di oss per fronteggiare l’emergenza sanitaria…
    D’altronde non mancano i precedenti di “pesca”: tale l’assunzione a tempo determinato, fatta dall’Ao di Cosenza nel 2019, di 17 oss presi da una graduatoria di Reggio Calabria. Tale anche l’“invio” a Vibo di infermieri reclutati a Cosenza.

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    Roberto Occhiuto

    Ma tutto resta appeso alla volontà politica dei nuovi vertici della Sanità regionale, oltreché ai mezzi finanziari. Questi 600 idonei della graduatoria cosentina rischiano di diventare la prima grana per Roberto Occhiuto, finora prodigo di buone intenzioni sulla nostra scassatissima Sanità.
    Già: chi vive di speranze, in questo caso alimentate dalla campagna elettorale, di speranze può morire. Ma, come insegna la vicenda degli ex Coopservice, non lo fa in silenzio…

  • Giunta Cosenza, 4 assessori di Franz erano con Occhiuto

    Giunta Cosenza, 4 assessori di Franz erano con Occhiuto

    Giunta nuova, nomi vecchi a Cosenza? In larga parte sì. Quattro assessori, che oggi sono al fianco di Franz Caruso, erano in maggioranza con Mario Occhiuto. Il più noto è Francesco De Cicco, l’unico ad essere in Giunta prima. Gli altri sono Pasquale Sconosciuto, Mariateresa De Marco e Massimiliano Battaglia. I tre erano consiglieri comunali.

    Il vice sindaco in quota Boccia

    Il Partito democratico porta a casa, come da indiscrezioni, il vicesindaco con Maria Pia Funaro. Per lei anche le deleghe all’Ambiente e al Territorio. Capolista e seconda eletta nelle file del Pd, è stato Francesco Boccia in persona a indicare il suo nome a Franz Caruso e a spingere perché i tentativi di preferirle Damiano Covelli andassero a vuoto. Non è andata, comunque, male a Covelli. Porta a casa un super assessorato: Lavori Pubblici; Viabilità e Trasporti; Mobilità; Organizzazione, Innovazione e Risorse Umane. La vicenda Amaco, una questione spinosa per il prossimo esecutivo, sarà pure di sua competenza. Resta questo boccone amaro del vicesindaco e si percepisce. Stamane era praticamente attaccato al primo cittadino, quasi a voler comunicare che il suo ruolo va oltre la dimensione amministrativa.

    Il sindaco di Cosenza, Franz Caruso e il vice sindaco Maria Pia Funaro
    Gli altri assessori 

    Due posti in Giunta per la lista Franz Caruso sindaco. Massimiliano Battaglia ha le deleghe al Commercio, Artigianato e Attività produttive. Mentre Maria Teresa De Marco, ex consigliere delegato alla Sanità con Occhiuto, questa volta si occuperà della stessa materia ma da assessore.
    Scontate le deleghe a Francesco De Cicco: Manutenzione e Polizia Municipale. Per il suo fedele compagno Pasquale Sconosciuto: Verde Pubblico, Servizi al Cittadino, Quartieri e Frazioni.
    Urbanistica ed edilizia vanno a Pina Incarnato in quota PSI. Figlia di “Giggino”, consigliere politico più fidato del primo cittadino. Pare che lo segua ovunque e lo marchi stretto a Palazzo dei Bruzi, raccontano dalla stessa maggioranza di Franz.
    Primo volta in Giunta a Cosenza per il Movimento 5 stelle, dopo il gran rifiuto di Bianca Rende. Veronica Buffone si occuperà di Attività istituzionali, Protezione Civile, Legalità e Puc.

    Disastro finanziario ma non andrà in Procura

    «Non è un dissesto ma un disastro finanziario» quello trovato dal sindaco Caruso nel Comune di Cosenza. Non a tal punto da recarsi in Procura e consegnare le carte ai magistrati. Franz Caruso ha detto esplicitamente che non lo farà. Terrà per sé la delega al Bilancio per poi affidarla a un tecnico di valore. La materia e le finanze di Palazzo dei Bruzi fanno tremare i polsi. Esiste una soluzione politica? L’attuale sindaco spera nello Stato centrale, perché possa farsi carico di questa situazione insostenibile. E cerca alleati importanti come il sindaco di Napoli. Governare sarà davvero impresa difficile senza una qualche misura salva-Cosenza.
    Per ora testa bassa e lavorare. Franz lo ha detto con due parole: «È una Giunta operaia».

  • Politici cosentini sulle orme dei padri

    Politici cosentini sulle orme dei padri

    Sono in molti oggi a denunciare che gran parte della classe politica locale è poco colta ed egoista. Afflitta da quei mali indicati da Banfield, persegue solo gli interessi particolari e non quelli della comunità, con conseguenti effetti disastrosi nella gestione del bene pubblico e della vita politica. La difesa dell’interesse comune è attuata prevalentemente in caso di vantaggio personale e la trasgressione delle regole è prassi comune e garantita dall’immunità. Molti “politicanti” tendono alla migrazione nei partiti più forti del momento, determinando così l’instabilità delle forze politiche e delle amministrazioni; una volta eletti, cercano di assicurarsi vantaggi materiali a breve termine e sono portati a ricambiare con favori coloro che li hanno votati e a penalizzare gli avversari.

    La 285 e un popolo di bibliotecari

    Si dice che gli amministratori odierni sono incapaci e per questo motivo Cosenza ha perso l’importanza che aveva negli anni trascorsi, centralità determinata da parlamentari che le davano lustro e prestigio. Mancini e Misasi, i più noti politici cosentini, avevano svolto importanti incarichi di governo e coperto ruoli di dirigenza nazionale nei rispettivi partiti. I giudizi di alcuni storici locali su questi due leader sono stati lusinghieri dimenticando che anch’essi non erano estranei a una politica clientelare e familista, che le loro segreterie erano affollate da gente che chiedeva favori.

    L’ex ministro e segretario del PSI, Giacomo Mancini

    Erano tempi di «vacche grasse». Grazie alla legge 285, ad esempio, negli uffici della città si moltiplicarono impiegati e funzionari. La Soprintendenza per i Beni Culturali e l’Archivio di Stato furono arricchiti da un tale numero di dipendenti che non si riusciva a collocare negli uffici per mancanza di stanze, sedie e scrivanie. Presso la Biblioteca Nazionale oltre cento impiegati dovevano occuparsi di un patrimonio di appena seimila libri e su alcuni quotidiani come Repubblica si scriveva che i cosentini erano diventati un popolo di bibliotecari!

    L’ex ministro democristiano Riccardo Misasi
    Le responsabilità dimenticate

    Molti rimpiangono i politici del passato dimenticando la loro responsabilità riguardo allo scempio edilizio. Le riflessioni degli addetti ai lavori sulle vicende urbanistiche della città sono state superficiali e addomesticate. In un volume curato dal Dipartimento di Pianificazione Territoriale dell’Università della Calabria, si leggono generiche considerazioni sui piani regolatori e solo in pochissimi scritti emergono critiche alla classe politica. Sabina Barresi ricordava che Cosenza viveva una profonda crisi di identità e che la crescita, senza alcun disegno urbanistico, aveva causato la perdita dei confini urbani e la creazione di «spazi muti contenitori del disagio».

    L’inizio del ponte Pietro Bucci all’Università della Calabria

    Tali trasformazioni, succedutesi nel tempo, non erano state indotte da pressioni economiche, ma da atti di volontà politica. Faeta aggiungeva che la città era stata abbandonata alla prepotenza della logica di mercato e che solo amministratori responsabili, dotati di idee chiare e capacità di progettazione, avrebbero potuto evitare una espansione edilizia tanto devastante.

    Cemento e cattedrali nel deserto

    La città nuova è caratterizzata da edifici anonimi, scialbi, privi di valore architettonico. I rioni popolari, come quelli di via Popilia, Torre Alta e via degli Stadi, presentano strutture urbane degradate, simili a quelle delle periferie delle grandi metropoli. Ad osservarla dall’alto del colle Pancrazio, Cosenza nuova si presenta come una distesa di cemento che continua a svilupparsi in modo caotico in tutte le direzioni, un ammasso di palazzi dove è impossibile distinguere un quartiere dall’altro.

    Degrado nel popoloso quartiere di Via Popilia a Cosenza

    Nel corso del tempo, l’incontrollato aumento delle costruzioni, ha annullato i confini e così il capoluogo si confonde con i paesi limitrofi e si assiste alla fuga dei cittadini dal centro. Al saccheggio della città hanno partecipato tutti. Quando si decise di smantellare la vecchia stazione ferroviaria e costruirne una nuova nella decentrata contrada Vaglio Lise nessuno ha protestato. Col senno di poi, si critica quella scelta sciagurata riconoscendo il danno irrimediabile arrecato a Cosenza. La vecchia stazione si trovava in pieno centro mentre la nuova non è che un ecomostro semi-abbandonato, dalle pareti scrostate e cadenti, da cui partono e arrivano solo pochi treni per Paola e Sibari.

    Si tratta di una struttura in calcestruzzo armato, con ben sette binari per i viaggiatori e tre per il servizio merci, dotata di palazzine e di un enorme atrio adatti per una metropoli. Al viaggiatore appare come una spettrale cattedrale nel deserto, lontana dalla città e mal collegata, con parcheggi sotterranei bui e sporchi. Oggi si discute se abbattere questo inutile quanto orribile mausoleo.

    La città degli avvocati

    I politici di oggi non posseggono carisma, non ricoprono incarichi di rilievo nel governo centrale, non sono conosciuti sul panorama nazionale, ma il loro modo di intendere la politica non è molto diverso da quello dei loro predecessori. Del resto molti di loro sono figli o parenti di quei politici, altri sono cresciuti nelle segreterie o «correnti» di partito. Tutti appartengono a quella piccola e media borghesia impiegatizia e del lavoro autonomo che teneva saldamente il potere in città e che, come scriveva Gramsci, si rivelava incapace di svolgere un qualsiasi compito storico.

    Tra le categorie professionali che hanno condizionato maggiormente la vita cittadina, emerge quella degli avvocati. Piovene, alla metà del Novecento, si meravigliava dello «spettacoloso» numero di legali di Cosenza che condizionava perfino i ritmi della vita sociale: in città si faceva colazione tardi perché i legali comparivano in tribunale fra le undici e mezzogiorno. Oggi il numero degli avvocati è addirittura aumentato. Quasi ogni portone mostra la targa di uno studio legale, a volte si tratta di studi associati dove lavorano sino a dieci professionisti.

    Presso l’Ordine degli Avvocati di Cosenza, qualche anno fa risultavano iscritti 1067 avvocati al settore civile ed affari giudiziari, 538 a quello penale e 188 a quello tributario-contabile-amministrativo, per un totale di 1793 professionisti. A questa cifra bisognava sommare le centinaia di dottori praticanti e i giovani laureati in giurisprudenza che, di fronte alla concorrenza spietata e all’impossibilità di avviare un proprio studio, sceglievano altre carriere.

    L’ingresso del tribunale di Cosenza
    Lo stupore degli stranieri

    I viaggiatori stranieri che nel corso dei secoli visitarono Cosenza erano colpiti dall’ambiguità e dalla doppiezza dei loro «anfitrioni altolocati». Tavel agli inizi dell’Ottocento scriveva che quando avevano interesse a persuadere qualcuno, usavano astuzia e maniere striscianti e, se non si aveva esperienza della perfidia di cui erano capaci, si rimaneva puntualmente beffati; dotati di grande talento nel giudicare il carattere delle persone, estremamente furbi e adulatori, non risparmiavano alcun mezzo per raggiungere i propri fini.

    De Custine affermava che erano allo stesso tempo gli uomini più falsi e più sinceri che aveva conosciuto: quando l’interesse lo esigeva mentivano con tanta finezza e abilità da far apparire vero il falso; mostravano un’ingenuità disarmante, che faceva paura quando si scopriva che era menzognera e lontana dall’innocenza. Ogni volta che conversava con i calabresi il francese era confuso non riuscendo ad afferrare il loro reale pensiero. Capitava che essi accusavano un uomo per infamarlo e contemporaneamente lo giustificavano, che ne criticavano le azioni aggiungendo che in fondo il suo scopo era lodevole: in sostanza, dopo aver dimostrato la meschinità del malcapitato, ne diventavano avvocati difensori. Per qualsiasi estraneo era praticamente impossibile riconoscere la verità in contraddizioni così artificiosamente combinate.

    Chiacchiere e ricerca di visibilità

    Padula definiva eruditi e politici cosentini «eloquenti chiaccheroni». Vantavano una formazione classica, dirigevano le Società Economiche preposte a promuovere lo sviluppo di agricoltura e industria, ma non distinguevano un’erba da un’altra, sprecavano tempo e parole perdendosi in astratte generalità senza che arti ed industrie se ne avvantaggiassero. Sempre Padula, il 9 marzo 1864 scriveva: «Far visite e ricevere visite dall’autorità, accompagnarle al teatro e al passeggio, correre ogni mattino ad informarsi della salute del loro signore e delle loro gatte è la massima delle sue felicità… Signor Intendente, signor Generale, signor Giudice, mi permetta che prenda un sigaro; e dice questo a voce alta, perché la gente che si trovasse sulla via sapesse ch’egli era amico del Giudice, del Generale e dell’Intendente».

    I partiti si dividono perfino la toponomastica

    I rappresentanti della piccola e media borghesia cittadina, militando in diversi partiti, si sono fronteggiati per governare la città e, tuttavia, sono stati sempre coesi come ceto sociale. Ciò è evidente anche nella scelta dei nomi con cui intitolare strade e piazze. A parte alcuni nomi «ad effetto», come quelli di Andy Warhol, Keith Haring o Jean-Michel Basquiat, sconosciuti alla maggior parte della popolazione e forse agli stessi amministratori, le altre scelte sono il frutto della spartizione tra i vari partiti politici.

    Chi ha proposto la nuova toponomastica, ha sottolineato di avere selezionato nomi noti e meno noti di persone che hanno lasciato un segno nella vita della comunità a prescindere dall’appartenenza politica. Entrando nel merito, si trovano politici e professionisti responsabili del caotico sviluppo edilizio e della gestione clientelare e familistica della cosa pubblica.

    La tendenza ad affermare il primato del proprio gruppo sociale nella storia è un processo iniziato molto tempo fa. Vie e piazze della città erano in passato dedicate ai mestieri e al commercio che vi si svolgeva. C’erano vie e piazze dei Cordari, dei Casciari, delle Concerie, degli Orefici, dei Mercanti, dei Sartori, dei Pignatari, dei Sellari, dei Forni, dei Pettini, della Neve, delle Uova e dei Follari. Nel settembre del 1898, la Commissione Municipale di Cosenza composta da legali, insegnanti e ingegneri, comunicava di aver cambiato la denominazione di alcune strade e piazze perché le intitolazioni «consigliate dal popolo» erano «volgari e poco simpatiche».

  • Traffico e trasporti: Cosenza nel caos, come salvarla?

    Traffico e trasporti: Cosenza nel caos, come salvarla?

    «Vuole risolvere il problema del traffico a Cosenza? Servono trenta vigili e dieci carroattrezzi», ride della propria idea draconiana Giuseppe Scaglione, docente di Urbanistica presso l’Università di Trento. Magari non basta, perché il problema è più complesso e il professore lo sa, però ha ragione visto che da «Trento a Cosenza, la tentazione dell’automobilista medio è quella di trasgredire». Insomma è anche una questione culturale e temere sanzioni può aiutare ad assumere comportamenti più civili e a non lasciare la macchina in doppia fila per andare al bar.

    Sosta selvaggia genera caos

    In realtà la questione esige uno sguardo più lungo, che per Scaglione è mancato e che deve partire dall’analisi dello stato delle cose. «Cosenza non è come Rende, che attraverso il piano regolatore dell’architetto Malara ha lunghe e larghe strade principali con altrettante ampie corsie trasversali» spiega Scaglione. Il capoluogo, aggiunge, è cresciuto in modo caotico, saltando ogni programmazione. Ed oggi si trova con i pochi assi viari direzione nord-sud e trasversali strettissime e inaccessibili per la sosta selvaggia. La città si è sviluppata in modo eccessivo rispetto le sue reali esigenze abitative, consumando suolo, ma senza poter adeguare alla crescita la sua rete viaria.
    La conseguenza è il caos.

    Trasporti pubblici inaffidabili

    A questa condizione di partenza va sommato il disastro del servizio pubblico. «A Cosenza il servizio di trasporto pubblico si può dire inesistente. Mancano o non sono rispettate le corsie riservate, la puntualità dei mezzi nei loro percorsi è del tutto inaffidabile, mentre a Trento, per esempio, ci si potrebbe regolare gli orologi per la loro precisione».

    A Cosenza a governare la mobilità durante la giunta Occhiuto è stato Michelangelo Spataro. Se gli si domanda un parere sulla viabilità subito ci tiene a spiegare che sono due cose diverse. «C’è un equivoco, io mi sono occupato di trasporto pubblico, non di strade», dice mettendo le mani avanti. Ovviamente è stato uno dei protagonisti della stagione politica appena conclusa e difende la scelte compiute dalla giunta di cui era parte. Per esempio la decisione di chiudere via Roma, che oggi alimenta un acceso dibattito – con tanto di sit-in previsto per oggi pomeriggio – dopo l’ipotizzata volontà del sindaco Caruso di riaprirla al traffico.

    Tutta colpa della Lorenzin?

    «Noi rispondemmo a una lettera dell’allora ministro Lorenzin che chiedeva di chiudere al traffico gli spazi antistanti le scuole e quelle di via Roma erano le più esposte all’inquinamento dell’aria e acustico, con le sirene delle ambulanze che entravano nelle aule dei bambini». Di qui la decisione di chiudere quell’area, con un appalto che Spataro assicura fu pochissimo costoso, ma che chi ha buona memoria ricorda fosse di 300 mila euro. Oggi quel posto è uno dei punti di impazzimento del traffico.

    La sede dell’Amaco, la municipalizzata che si occupa del trasporto pubblico locale a Cosenza

    Se il nodo più stretto da sciogliere che riguarda la mobilità cittadina è il trasporto pubblico, Spataro assicura che l’Amaco «tutto sommato sta bene, che molti dipendenti sono andati in pensione, sgravando l’azienda di costi e i nuovi assunti sanno di prendere solo mille euro». La strategia di rilancio pare dunque quella di pagare meno quelli che vi lavorano, mentre i debiti complessivi viaggiano più veloci dei mezzi dell’azienda: sui 12 milioni circa.

    Un parcheggio in controtendenza

    Senza un servizio pubblico vero, la città è destinata a restare assediata dalle auto, non solo dei residenti, ma anche dei moltissimi che arrivano nel capoluogo che mantiene una sua centralità in termini di uffici e commercio. La soluzione sarebbero anche più parcheggi, «ma non solo come quello di piazza Bilotti – spiega ancora il professor Scaglione – posto nel cuore di Cosenza. Ormai da tempo, in molte città, i parcheggi di grandi dimensioni vengono concepiti ai margini delle città, sono dei terminali della mobilità dai quali si raggiunge il centro con navette».

    La città green che ancora viene raccontata da alcune graduatorie di cui l’ex sindaco si inorgoglisce in realtà non esiste. «Cosenza ha eroso spazi verdi, per esempio nell’area campione intorno alla sopraelevata di via Padre Giglio, che il nuovo sindaco dicono voglia abbattere: oggi sono 44 gli ettari di terreno edificato e solo 20 destinati al verde. Forse sarebbero da abbattere un po’ di edifici e non la sopraelevata» dice Scaglione. Legambiente dice cose diverse, ma i dati sui quali si costruiscono quelle classifiche sono in gran parte forniti dai comuni, come Legambiente stessa ammette. Insomma me la canto e me la suono.

    O si programma o si muore

    La strana vicenda di Viale Parco non poteva rimanere fuori da questo tema. Il mito della metro leggera si è perso strada facendo. Anche perché, come spiega il docente «quella idea è sorpassata rispetto alle aspettative di fruizione, esattamente come è accaduto altrove, per esempio a Messina, perché il flusso di passeggeri giornalieri non giustifica l’investimento». Resta il dilemma: riaprirlo al traffico? «Come per il tratto chiuso di via Roma, sarebbe solo un palliativo. La soluzione è la programmazione complessiva del sistema città-mobilità, con una visione unitaria, che non c’è stata. Si sono chiuse strade senza mai creare alternative vere». Però per Scaglione potremmo salvarci e non morire di traffico. Toccherà al nuovo sindaco programmare il futuro, grazie alle ingenti risorse del Pnrr e progettare una città diversa, basata su una mobilità intelligente capace di coniugare la vivibilità degli spazi con la necessità di spostarsi.

  • Dal clochard al parrucchiere, la città di vecchi e nuovi poveri

    Dal clochard al parrucchiere, la città di vecchi e nuovi poveri

    La povertà non si vede più. Nessuna illusione: non è stata sconfitta, si è solo trasformata, anche a Cosenza. Mettete da parte lo storpio davanti alla chiesa e la bambina rom con la mano protesa al semaforo. Queste figure continuano ad esistere, ma “il presepe della miseria” oggi conosce nuovi protagonisti, impensabili fino a ieri.  Se volete scoprire cosa accomuna lo straniero che attende una moneta all’ingresso del supermercato alla signora che si accorge di non poter fare la spesa, dovete domandarlo a chi nella trincea delle vecchie e nuove povertà ci sta da parecchio.

    Suor Floriana in prima linea contro il disagio

    Suor Floriana, per esempio, monaca da prima linea contro le forme di disagio che da sempre esistono nella perifericità urbana e sociale della città vecchia. Il suo quartier generale è lo Spirito Santo, zona del centro storico di confine tra vecchi e nuovi bisogni sociali. «Qui troviamo condizioni diverse, microcriminalità, famiglie con congiunti costretti ai domiciliari, oppure detenuti. Tutti contesti di sofferenza e fragilità», spiega suor Floriana. Da qui parte la sua opera di soccorso dei marginali, conoscendo le singole storie accomunate da una sorte di fatica umana. «Dal 2015 nel centro storico si sono spostate molte famiglie rom», continua suor Floriana spiegando che «pagano un fitto per le case che occupano, ma quasi mai alle persone che sono proprietarie degli appartamenti». Infatti quelle case sono state abbandonate dai proprietari e a governare questo fenomeno sono individui che non operano proprio nella legalità.

    Rione di antico degrado

    La frontiera di questa città dolente è ancora Santa Lucia, rione di antico degrado umano, per il quale in passato la vecchia amministrazione aveva annunciato il risanamento grazie a fondi che mai si sono visti. «Qui l’intervento è a tutto campo, dal doposcuola per i bambini, all’assistenza di vario genere rivolta a persone che pur essendo cittadini comunitari, non godono di alcun diritto», spiega ancora la suora, parlando di una schiera di invisibili per le istituzioni che diventano automaticamente indesiderabili per il resto della comunità.

    Crolli e macerie a Santa Lucia, nel centro storico di Cosenza
    Il parrucchiere, il negozio chiuso e il mutuo da pagare

    Ma nemmeno gli “italiani” si salvano, la miseria risucchia pure chi fino a ieri si considerava in salvo. «La vita era quella di prima, non questa» sussurra Anselmo, un parrucchiere la cui quotidianità prima del lockdown era promettente: una discreta clientela, un mutuo per una casa, un orizzonte tutt’altro che cupo. Poi l’imprevedibilità dell’epidemia, il negozio chiuso, il fitto e il mutuo da pagare e l’esaurirsi rapido dei risparmi. Così si è varcato quel confine sottile tra un relativo benessere e lo scivoloso declivio dell’inattesa povertà.  Di qui alla necessità di trovare il coraggio di rivolgersi alle associazioni per avere un sostegno. «Non immaginavo sarebbe mai successo e invece mi sono trovato obbligato a chiedere aiuto e non è stato facile». Non facile, ma inevitabile per Anselmo che ora va a casa delle signore a fare loro le acconciature e da qui prova a ripartire.

    Sergio Crocco: pasti portati pure nei quartieri borghesi

    «Quelli che si vergognano maggiormente sono quelli che non immaginavano di diventare poveri, gli altri sono abituati a chiedere aiuto», spiega Sergio Crocco, punto di riferimento della Terra di Piero, nota associazione cittadina impegnata sui vari fronti del bisogno sociale. Oggi la geografia dell’emergenza povertà si è allargata dalle periferie fino a quelle strade dove le luci del benessere sembravano destinate a non spegnersi mai.
    Sergio Crocco racconta che con i volontari della Terra di Piero nel corso del lockdown ha portato centinaia di pasti ogni sera a chi ne faceva richiesta, dai luoghi storici dell’emergenza economica, fino ai quartieri borghesi.

    Sergio Crocco, presidente e fondatore de La Terra di Piero
    Le istituzioni assenti

    Il rapporto con le istituzioni fin qui è stato vano. «Alessandra De Rosa, esponente dell’amministrazione Occhiuto, è spesso venuta da noi, mostrando sincero coinvolgimento personale – prosegue Crocco – ma mai il suo impegno si è potuto trasformare in intervento reale a causa della mancanza di risorse destinate al bisogno delle persone». Dentro questa mappa della disperazione ci sono gli ultimi tra gli ultimi, quelli che dormono sotto i ponti, quello di Calatrava per l’esattezza. «Sono circa una quarantina di stranieri, che trovano rifugio lì sotto, nell’assoluta indifferenza dei Servizi sociali», continua Crocco rammentando che «quando c’era padre Fedele, di gente che dormiva per strada non ce n’era».

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    Un rifugio di fortuna costruito da un clochard sotto il ponte di Calatrava nell’estate del 2021
    Il nemico si chiama pure povertà educativa

    Alla miseria materiale corrisponde quella immateriale. Si chiama povertà educativa. Riguarda non solo l’assenza di opportunità culturali, ma anche di consapevolezza dei diritti di cittadinanza. Giorgio Marcello, sociologo dell’Unical, impegnato da tempo su questo fronte, spiega che è qui che maggiormente si consuma l’ingiustizia sociale. «Il contesto familiare, la mancanza di opportunità culturali, segnano le nuove generazioni», dice il sociologo, confermando che le aree maggiormente deprivate di tali opportunità restano quelle periferiche dell’area urbana. Contro questo nemico sono stati messi in campo interventi delle associazioni di volontariato, «ma la diffusione del tempo pieno a scuola sarebbe lo strumento di maggiore efficacia contro l’impoverimento culturale», spiega il sociologo aggiungendo che «questo comporta una politica educativa, mentre i processi di scolarizzazione sono stati considerati residuali». L’impoverimento della città è un nemico difficile da battere a mani nude, servono strategie e risorse.

  • Terme Luigiane, il Tar boccia i due Comuni: atti illegittimi

    Terme Luigiane, il Tar boccia i due Comuni: atti illegittimi

    Il Tar Calabria mette il primo punto fermo su quel gran pasticcio delle Terme Luigiane accogliendo il ricorso presentato dalla società Sateca contro le Amministrazioni comunali di Guardia Piemontese e Acquappesa.
    Dunque secondo il Tribunale amministrativo i Comuni «hanno impedito a Sateca l’esercizio del diritto previsto dalla clausola dell’accordo del 2019 e la prosecuzione dell’attività fino al subentro del nuovo sub-concessionario». Pertanto, «sono senz’altro illegittimi gli atti di esercizio del potere di autotutela pubblicistica posti in essere dai Comuni».

    Fin qui l’avvocatesca interpretazione dell’arcinota vicenda che ha visto contrapposte la società Sateca e i Comuni di Guardia e Acquappesa. L’ennesimo scandalo calabrese su cui si è giocata la solita partita a perdere tra personaggi politici schierati su fronti opposti ma accomunati tutti dalla fallimentare gestione del dossier “Terme Luigiane”.

    La stagione saltata

    Ma mettiamo sul piatto qualche cifra, dal momento che questa vicenda ha avuto conseguenze ben più sostanziose di un chiacchiericcio politico. L’impasse generata dal mancato accordo ha fatto saltare la stagione termale ed ha lasciato sul lastrico i 250 lavoratori dello stabilimento termale. E non è possibile quantificare con precisione quante prestazioni socio-sanitarie e servizi termali sono stati cancellati, quanti turisti sono stati indotti a cambiare destinazione e a quanto ammonta il danno prodotto agli oltre mille lavoratori dell’indotto che ruota attorno alle Terme Luigiane. Altrimenti, dati alla mano, avremmo la fotografia di un collasso socio-economico di proporzioni gigantesche.

    Le responsabilità di sindaci e Regione

    Un dato certo è che, di questo pasticciaccio, la politica porta un pezzo importante di responsabilità. I sindaci dei comuni di Guardia Piemontese ed Acquappesa, anzitutto, per avere pervicacemente, di fatto, provocato uno stallo nella vertenza certificato dalla fallimentare gestione della gara indetta per individuare il nuovo gestore dello stabilimento che non a caso è andata deserta. Un fallimento politico-amministrativo certificato adesso dalla pronuncia del Tar.

    Non meno grave è la responsabilità della Regione, proprietaria del solo sfruttamento delle acque termali (legge 40/2009) che non ha voluto – o non ha saputo – creare le condizioni affinché dal 2016, anno di scadenza della subconcessione, potesse essere messo a bando lo sfruttamento delle acque termali, eventualmente anche revocando la concessione ai Comuni alla luce delle continue inadempienze rispetto a scadenze e cronoprogrammi.

    Un voto in controtendenza

    Una disfatta su tutta la linea: le Terme Luigiane sono diventate l’emblema di una politica compiacente, inadeguata e irresponsabile che provoca danni, cancella posti di lavoro e non si preoccupa di rispondere del proprio operato.
    Per una degna conclusione di questa brutta storia, torniamo alle ultime Amministrative di ottobre. Perché nonostante tutto quello che è accaduto e il ruolo svolto nell’affaire delle Terme, il sindaco uscente di Guardia Piemontese, Vincenzo Rocchetti, si ricandida e viene rieletto a pieni voti.

  • VIDEO | Cavallerizzo è una piccola Vajont di Calabria

    VIDEO | Cavallerizzo è una piccola Vajont di Calabria

    Cristo si era già fermato a Cavallerizzo, una piccola Vajont senza morti. La provocazione è di Fabio Ietto, geologo e professore dell’Università della Calabria. Era il 2005 quando una frana ha colpito una parte del piccolo centro arbëresh nel comune di Cerzeto.

    Da allora il paese è stato sfollato, la comunità sradicata e delocalizzata nella New town costruita in località Pianette, senza Valutazione di impatto ambientale. «Abusiva», così hanno sempre gridato gli attivisti di Cavallerizzo Vive.  Erano i tempi della Protezione civile targata Guido Bertolaso. A dicembre questo non-luogo compie 10 anni.

    Cavallerizzo non è scivolato a valle

    Le case sventrate non mostrano segni di cambiamento, di scivolamento. Tutto come prima. Troppo come prima. Il centro storico è stato quasi ignorato dallo smottamento. Il paese ha resistito, diventando uno dei set di Arbëria, audiovisivo finanziato dalla Calabria Film Commission. Di altri crolli nessuna traccia in vista. Di porte chiuse e imposte abbassate sì, tra le strade dove l’erba ha preso il sopravvento. Nella piazza principale senti solo cani abbaiare e il vento in sottofondo. L’insegna del bar “San Giorgio” appesa al muro e sotto una saracinesca arrugginita. Un classico dei luoghi abbandonati, a tratti pensi a Prypyat, la città fantasma vicina a Chernobyl.

    La piccola Vajont

    Il professore Fabio Ietto non è solo il consulente di Cavallerizzo Vive (Kajverici Rron nella lingua arbëreshë), associazione che si batte per la rinascita del paese. Viene spesso quaggiù, «a mangiare con chi resiste». La condivisione del cibo per ricostruire un pezzo di storia della comunità ormai frantumato. Spiega perché parlare di piccola Vajont ha un senso: «Una condotta interrata dell’acquedotto Abatemarco passava da qui, 400 litri di acqua al secondo all’interno di un corpo di frana dichiarato attivo». In giro non è difficile ascoltare la stessa versione dei fatti: i contatori correvano molto di più e troppo rispetto alle altre frazioni. Un consumo anomalo.

    Casa sventrata dalla frana a Cavallerizzo di Cerzeto (foto Alfonso Bombini)

    Non è possibile stabilire adesso se la frana abbia provocato la rottura o viceversa. L’ennesima stranezza calabrese è una condotta non costruita all’esterno in modo da verificarne eventuali perdite in una zona ad alto rischio idrogeologico.

    In entrambi i casi, e vista la natura del sottosuolo, l’acqua ha giocato un ruolo importante. Il professore ne è certo. «Una piccola Vajont, un disastro annunciato». Per fortuna senza morti in questo pezzo di Calabria.

    Gli effetti della frana del 2015 a Cavallerizzo (foto 2021 Alfonso Bombini)

    Non solo a Cavallerizzo si muove la terra

    C’è il rischio che la terra si muova persino vicino alla New Town. E il professore Ietto si chiede: «Perché hanno puntato sul nuovo sito invece di recuperare quell’11,5 % circa franato a Cavallerizzo?». I soldi spesi dal Governo Berlusconi di allora non sono stati pochi: 72 milioni di euro. Potevano essere destinati al paese poi abbandonato. Serviva pazienza e rispetto per chi da un giorno all’altro è stato sbattuto fuori casa. Invece, ancora una volta ha vinto la strategia dell’emergenza poi messa in atto compiutamente a L’Aquila.

    Una parte della New town costruita in località Pianette a Cerzeto (foto Alfonso Bombini)

    Quella di Kajverici è una lunga storia finita pure a carte bollate grazie alla voglia di non mollare dell’associazione Cavallerizzo Vive. Che aveva ragione. Mancava la Valutazione di impatto ambientale della New town. Era abusiva. Una vicenda formalmente chiusa nel 2019 quando è arrivata la assoggettabilità a Via da parte della Regione Calabria. Con una serie di indicazioni per mitigare il rischio attraverso interventi mirati. Altri soldi pubblici spesi.  I lavori sono stati già consegnati alla ditta – precisa il sindaco Rizzo – e si concluderanno in poco tempo.

    Fabio Ietto insegna Geologia, geomorfologia applicata e idrogeologia all’Università della Calabria (foto Alfonso Bombini)

    Agenzia immobiliare New town

    Il vecchio cede il passo al nuovo. C’è voglia di lasciarsi alle spalle questo capitolo. Il primo cittadino di Cerzeto, Giuseppe Rizzo, in quelle abitazioni tutte uguali non trova alienazione. Ma un posto che ha mercato. A buon mercato: «Dove la trovi una casa di tre piani a 50mila euro con metano, aria pulita e km 0?».

    Nei panni di agente immobiliare cerca di convincerci sul perché delle giovani coppie scelgono di abitare nella New town. Sono venti circa e alcune hanno scelto di trasferirsi dai paesi limitrofi.

    Rizzo non era primo cittadino quando costruirono il nuovo paese. Oggi cerca di cambiare la narrazione, sostenendo addirittura: «C’è poesia nelle New Town». Il resto della conversazione è un continuo tentativo di guardare oltre Cavallerizzo che, invece, diventerà sede nazionale delle esercitazioni dei vigili del fuoco. Magra consolazione per chi vorrebbe tornare ad abitare in quel posto.

    Crolli e abbandono nella parte superiore di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini)

    Liliana non lascerà mai Cavallerizzo

    Qualche centinaia di metri in linea d’aria più in alto restano segnali di vita nella vecchia Cavallerizzo. Quando tutti gli abitanti hanno obbedito allo sgombero, una cosentina di via Panebianco non ha abbandonato la sua casa. Liliana Bianco ha passato una vita laggiù con il marito morto da poco. La corrente elettrica arriva grazie a due generatori – dice -. Non è sola, c’è un figlio a cui donare il resto dei suoi anni. A proteggerla un piccolo esercito di cani. È diventata un simbolo di resistenza.

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    Liliana Greco, unica abitante di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini)

    Le lacrime di Silvio

    Non lontano Silvio Modotto, come ogni giorno, arriva da Cerzeto e coltiva il suo orto, apre la sua casa, beve il suo vino. Malvasia e Aglianico animano questo blend aspro, come lo sono i rossi fatti in casa. Discute con il cugino tornato dall’Inghilterra dopo la pensione. Storie di ritorno e radici alternando bicchieri undici al litro. E lacrime. Perché Silvio, vigile urbano in pensione, piange. Senza la sua piccola patria e senza più ragazzi con la voglia di cambiare lo stato delle cose. Quantomeno provarci. È pure un fatto anagrafico. Nella maggior parte dei casi non erano nemmeno nati nel 2005 e oggi sono troppo giovani per sentire nostalgia.

    Mani ruvide e voglia di continuare come se non fosse successo nulla, Silvio indica la chiesa rimasta intatta e senza fedeli. Ricorda la festa di San Giorgio: «Venivano da tutte le parti».

    Adesso l’unico a raggiungere Cavallerizzo è l’autore del murales sulla linea della frana. Quel Cristo in cima al Golgota della memoria di una comunità presa a calci e dimenticata.

  • BOTTEGHE OSCURE | Chiuso un “Tanninu” si apre una Legnochimica

    BOTTEGHE OSCURE | Chiuso un “Tanninu” si apre una Legnochimica

    Sono due i ricordi che la maggior parte dei cosentini di una certa età collega alla parola tanninu”. Il primo è la grande vasca d’acqua nella quale venivano raccolti gli scarti di lavorazione, ma che i ragazzi dei quartieri di Casali, Massa, Garruba, Spirito Santo utilizzavano per fare il bagno e fronteggiare la calura estiva. C’è persino chi in quella vasca imparò a nuotare.

    Cosenza, 1949. In basso a destra gli scivoli tra la stazione e la fabbrica (foto Stenio Vuono)

    Il secondo ricordo riguarda il suono deciso della sirena che scandiva i turni di lavoro dello stabilimento. Inevitabilmente, finiva per segnare i ritmi della vita quotidiana nei quartieri al di qua e al di là del fiume Crati. La sirena prima di andare a scuola, la sirena di mezzogiorno per “calare la pasta” e così via.

    La parola “tannino” si ricollega invece con una certa difficoltà al disastro ambientale connesso alla ex Legnochimica di Rende. Lì dove “u tanninu” si era spostato negli anni ’70 seguendo l’espansione a nord della città.

    “U tanninu”, ieri fiore all’occhiello oggi solo degrado

    Ma cos’era “u tanninu”? Oggi esempio eccezionale di archeologia industriale – da decenni nel degrado più totale – con i suoi capannoni che ricordano una cattedrale in rovina e la sua alta ciminiera in mattoni che reca ancora la data 1906. Rappresentò fino al 1970 circa una delle punte di diamante dell’industria locale, sia per quanto concerne i livelli di produzione sia per il numero di operai impiegati.

    L’interno del tannino trasformato in segheria (foto Mario Magnelli)

     

    Il liquido utilizzato per conciare le pelli

    Il nome richiama l’acido tannico che vi veniva prodotto attraverso un procedimento di estrazione dal legno di castagno, che ne contiene in natura una quantità significativa. Il legno veniva essiccato e, dopo diversi passaggi, era possibile estrarne il tannino. Poi veniva commercializzato inizialmente allo stato liquido all’interno di botti in legno e, successivamente, in polvere dentro appositi sacchi. Il tannino estratto veniva usato soprattutto nell’attività di concia delle pelli per la realizzazione di oggetti in cuoio e restò un elemento essenziale per il settore artigianale finché non si riuscì a sintetizzarlo chimicamente. 

    La vecchia fornace (foto Dalena Mmasciata 2016)
    Le cataste dei tronchi e la ferrovia

    A dispetto della marginalità odierna la posizione della fabbrica di Casali era fortemente strategica. Proprio a monte dello stabilimento era posta la stazione delle ferrovie Calabro-Lucane di Cosenza-Casali e questo garantiva l’approvvigionamento quasi sul posto della materia prima. I tronchi di castagno venivano trasportati tramite treni-merci e scaricati alla stazione di Casali. Da qui, attraverso un apposito sistema di scivoli, era possibile indirizzarli direttamente nel piazzale della vicina fabbrica.

    Per chi arrivava in zona, insomma, le alte cataste di tronchi di castagno disposte nei pressi della struttura erano, al pari della ciminiera, parte integrante del paesaggio. Ma non solo. Attorno alla fabbrica del tannino ruotava un significativo indotto. Col tempo sorsero nelle vicinanze anche delle case per gli operai e, tramite la ferrovia, la manodopera affluiva da numerose località del circondario. Tutto ciò era affidato alle cure della famiglia Merola, di origini francesi, giunta a Cosenza appositamente per gestire il tanninificio. 

    “U tanninu” diventa Legnochimica

    La società “TANCAL, Tannini di Calabria”, derivata dalla società francese “Rej et Fils” e che diede avvio alla produzione nel 1906, restò attiva fino agli anni ’50 con una significativa capacità produttiva raggiungendo le 2000 tonnellate annue di estratto. Nel 1954 venne ceduta alla società “LEDOGA” e così continuò a lavorare fino alla fine degli anni ’60, quando intervenne la chiusura dello stabilimento.

    La vecchia ciminiera con la data di costruzione della fabbrica

    La società ambiva ormai a realizzare una moderna struttura a Rende, che impiegasse moderni metodi di produzione e radunasse in essa più strutture in un nuovo assetto societario. Nasceva così la Legnochimica. Dopo il trasferimento dello stabilimento nella zona industriale di Rende, l’enorme struttura posta tra Casali e il fiume Crati venne utilizzata in parte come sede di una azienda di comunicazioni, e in parte come segheria e deposito di materiali di vario genere ancora per alcuni decenni. Oggi versa in uno stato di più completo abbandono.

    Le segherie in Sila

    All’alba del Novecento l’industria forestale era tra le più floride nella provincia di Cosenza, potendo contare su una serie di segherie in Sila che sorgevano in baracconi posti lungo le rotabili e che dalla primavera all’autunno lavoravano a pieno regime. I boscaioli o “mannesi” – forse per via della “mannaia” adoperata – erano addetti all’abbattimento e alla squadratura del legname che veniva accatastato e – prima dell’avvento della ferrovia – trasportato a Cosenza con traini tirati da muli. All’epoca circa il 25% dell’intero territorio provinciale (oltre 660mila ettari) era coperto da boschi. Il castagno faceva da padrone con oltre 14mila ettari che assicuravano una resa di circa 15quintali per ettaro e facevano balzare la provincia di Cosenza al secondo posto in Italia dopo quella di Genova. Ma dal 1906 buona parte del legno di castagno proveniente dal versante cosentino della Sila cominciò a essere assorbita dalla nascente industria estrattiva.

    Tannins di Cosenza

    Tannino si chiamava l’acida molecola che strappava il legname alle foreste silane dando il nome a una fabbrica, lavoro alle genti e pane alli Casali. Il 23 novembre 1906 Agostino Imard le directeur della pregiata Société Nouvelle de Tannins della “Rej et Fils” con sede a Marsiglia presentò alla Prefettura di Cosenza l’incartamento per la registrazione del marchio. Il fondo “Marchi e Modelli” dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma ci permette di conoscere la descrizione del logo originale. Un logo che campeggiava sulle prime etichette appiccicate sulle confezioni di estratti di materie tannanti e coloranti: «Impronta costituita da due triangoli equilateri incrociati in modo da formare una stella a sei punte, nel cui mezzo spiccano le iniziali S. N. T. Completa il marchio l’iscrizione intorno Société Nouvelle de Tannins Estraits de Cosenza».

    Registrazione marchio Société Nouvelle de Tannins Estraits de Cosenza_1906 (Foto @Archivio Centrale dello Stato)

     

    Il secondo opificio a San Vincenzo La Costa

    Nei primi anni di attività l’opificio francese di Casali si dimostrò capace di lavorare oltre 15mila metri cubi di legname all’anno. Le grandi potenzialità del legno di castagno a fini estrattivi furono sfruttate dalla Società Italiana per l’Acido Tannico. Nel 1907 decise d’impiantare a Gesuiti di San Vincenzo La Costa un secondo grande opificio, capace di trasformare 5mila metri cubi di legname all’anno.

    Brucia la fabbrica

    «Violentissimo incendio a Cosenza» titolava L’Avanti il 9 settembre 1914. Nel grande opificio francese il rischio d’incendi era all’ordine del giorno. A causa della disattenzione di qualche operaio il giorno prima era andata a fuoco l’intera officina per la fabbricazione delle botti nelle quali veniva conservato l’acido tannico destinato all’esportazione. Le fiamme divamparono inghiottendo buona parte della struttura e i vigili del fuoco e la truppa impiegarono diverse ore prima di estinguerle. L’episodio provocò la chiusura dello stabilimento per alcune settimane, la mobilitazione e il ritorno in patria di tutti gli operai di nazionalità francese.

    Gli stessi che per mezzo di una propria rappresentanza si dissero preoccupati per le condizioni di lavoro nell’opificio cosentino. A stretto contatto con estratti e coloranti nocivi per la salute, e quasi sempre senza alcuna forma di cautela e tutela, presto la maggior parte degli operai francesi chiese il trasferimento a Marsiglia anche se una rappresentanza transalpina continuò a esistere fra gli estrattori almeno fino a tutti gli anni ’30. 

    Le zanzare killer del Crati

    Ma i veri nemici degli operai del tannino, come di quelli che sulla sponda opposta del Crati erano addetti alla colorazione chimica delle “cementine” sfornate nella Mancuso&Ferro, erano le zanzare. Il rione Casali, con l’opificio francese che sorgeva a pochi passi dalla ferrovia, si trovava in piena “zona malarica”. Spinti dal vento e dalla necessità di trovare nutrimento, gli anofeli portatori della “dea febbre” infestavano le numerose pozze d’acqua stagnante e lurida, prodotto delle lavorazioni industriali.

    I lavoratori contraevano il “mal d’aere” e spesso ne morivano. Per effetto della legge del 19 maggio 1904 ogni titolare di opificio era stato obbligato alla somministrazione del chinino di Stato all’interno della propria fabbrica. A fine epidemia ciascun imprenditore sarebbe stato indennizzato dal Comune – e quest’ultimo dallo Stato – della cifra investita nell’acquisto di dosi del prezioso farmaco. A gestire per molto tempo la chinizzazione per bocca degli operai a scopo preventivo fu il dottor Antonio Rodi, direttore del dispensario di Caricchio. 

    L’operaio francese che giocava bene a calcio

    Tra gli operai impiegati nella catena estrattiva dell’acido tannico dal legno di castagno nell’opificio di Casali c’era un francesino che giocava bene al calcio e che di lì a poco avrebbe fatto parlare di sé. Si chiamava Ettore Chenet e proveniva da Prato. Incerte le sue origini, introvabile la fotografia. Francesco Magnini in Bandiera biancazzurra scrive: «Determinante alle spalle delle punte la tecnica di Ettore Chenet, un nome da opera pucciniana. Di questo centrocampista non è rimasta certa la provenienza e nemmeno il destino. Pare fosse di passaporto francese ma di lui raccontano fosse rimasto in città come meccanico dopo aver svolto il servizio militare a Prato (alquanto strano per un francese)». Chenet giunse a Cosenza nella seconda metà degli anni ’20 e, forse con un contatto già in tasca, trovò subito impiego nell’opificio francese.

    Di mattina al Tanninu, nel pomeriggio in campo

    Di mattina in fabbrica e di pomeriggio a sciorinare dribbling su uno di quegli sterrati ai margini della città di allora, quando l’“Emilio Morrone” era ancora un sogno. Crepas, Recanatini, Fresia, Solbaro, Chenet… erano i “pilastri” della formazione del Cosenza Football Club che il 27 novembre 1927 pareggiò con il risultato di 1-1 con il Dopolavoro di Taranto. Pur non entrando nell’azione del momentaneo vantaggio bruzio siglato da «Recanatini su passaggio di Fresia che fece riposare la palla nell’angolo sinistro» il ragazzo, che partita dopo partita si era guadagnato i gradi di capitano, si distinse per «piedi buoni e intelletto da vendere».

    La fabbrica dove si produceva il tannino come si presenta oggi
    Il crollo delle commesse e la fine del Tanninu

    Proprio al tempo in cui l’operaio Chenet custodiva le chiavi del centrocampo bruzio il tanninificio di Casali realizzò il proprio record di produzione: 5 mila metri cubi al mese! Ma nel 1932 a causa del crollo delle commesse e delle mancate esportazioni negli Stati Uniti d’America dovute alla sostituzione del tannino con altri preparati chimici, la produzione si era già drasticamente ridotta segnando praticamente l’inizio della fine del glorioso opificio bruzio.