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  • Cosenza frana e i soldi per salvarla restano un mistero

    Cosenza frana e i soldi per salvarla restano un mistero

    «Le frane sono un evento imprevedibile, ma le aree a rischio si conoscono bene, per questo la minaccia per la popolazione può essere mitigata», spiega Fabio Ietto, geologo e docente all’Unical. Il centro storico di Cosenza è interamente cresciuto su un’area a rischio e di frane ce ne sono state parecchie, per fortuna senza che nessuna abbia causato morti.

    Incidente mortale

    La sola vittima, indiretta, di una frana è stata Giampiero Tarasi, che l’otto marzo si è andato a schiantare con la moto contro i blocchi di cemento che chiudevano via Vittorio Emanuele II. Ad uccidere Giampiero non è stato un masso venuto giù dalla collina, ma l’inerzia di chi, pur avendo chiuso la strada da mesi, non solo non aveva provveduto a mettere in sicurezza la parete franosa, ma non aveva nemmeno adeguatamente segnalato l’interruzione.

    Striscione di protesta sui muri del Comune di Cosenza dopo la morte del giovane Tarasi
    Striscione di protesta sui muri del Comune di Cosenza dopo la morte del giovane Tarasi

    Eppure quella frana era caduta mesi prima e ancora oggi, a dispetto di tutto, la via principale di accesso a Porta Piana resta chiusa. Eppure «alcuni provvedimenti – continua Ietto – sono possibili. Sono diverse le soluzioni che il geologo può proporre alle amministrazioni di realizzare, come il posizionamento di reti, o semplicemente individuare i massi pericolanti e rimuoverli in sicurezza. Spesso però non ci sono risposte dalle autorità a tali sollecitazioni».

    Rischi diffusi

    «La decisione di chiudere via Vittorio Emanuele II è emersa da un tavolo di concertazione», afferma Antonella Rino, ingegnere e dirigente del settore Protezione civile del Comune di Cosenza. La Rino ricorda la presenza di tutte le autorità di riferimento in quelle circostanze, quindi i rappresentati della Prefettura, i Vigili del Fuoco, la Protezione civile regionale. La dirigente esprime tutta la sua preoccupazione, ma anche l’impotenza, davanti alla diffusione di situazioni a rischio, come la zona di contrada Jassa, «dove esiste una minaccia relativa a uno scenario idrogeologico, con un certo numero di famiglie a rischio di evacuazione in caso di allerta meteo». Rischio che si è puntualmente presentato nel corso dalle recenti forti piogge.

    Quanti soldi ci sono?

    Si dovrebbero mettere in campo interventi di prevenzione, ma è difficile senza risorse adeguate. Con tono sconsolato la dirigente dichiara che il suo ufficio «è ridotto al lumicino, senza nemmeno un dipendente». Ad occuparsi degli interventi dovrebbe essere il settore Infrastrutture, il cui dirigente è assente per motivi di salute. Senza di lui nessuno sa di preciso se e quanti soldi ci sono per il dissesto idrogeologico. Nemmeno il neo assessore Damiano Covelli è certo dell’esistenza di risorse per provvedere alla messa in sicurezza delle frane, avendo a che fare la nuova giunta con un dissesto di ben altra natura.

    Cosenza frana- Il neo assessore comunale cosentino Damiano Covelli
    Il neo assessore comunale cosentino Damiano Covelli
    Prevenire è meglio che curare

    Il dissesto, quello idrogeologico, intanto non aspetta. Ed è ancora Ietto a spiegarci che nel frattempo altre situazioni a rischio sono emerse, «come quella del 2019 a via Corsonello, strada di accesso alla città vecchia e a contrada Macchia». Si estende dunque l’area a rischio e «l’ente competente dovrebbe fare prevenzione, non limitarsi a chiudere le strade dopo una frana», dice ancora il geologo. Letto, però, è consapevole che spesso «il singolo comune non ha soldi per affrontare per intero l’emergenza e perciò servirebbero risorse a livello ministeriale»

    Occasioni sprecate

    Per la verità di soldi dallo Stato ce ne sarebbero pure stati. Quelli, ad esempio, del Dipartimento per gli affari territoriali, Direzione centrale della Finanza Locale del Ministero dell’Interno, che aveva emanato un bando per l’accesso a cospicue risorse destinate a «opere pubbliche di messa in sicurezza degli edifici e del territorio». Per i comuni con popolazione oltre i 25mila abitanti, c’erano disponibili cinque milioni di euro, ma incredibilmente il Comune di Cosenza fece spallucce e non aderì al bando.

    Frana a Portapiana
    Frana a Portapiana

    Ma se credete che quelle siano state le sole risorse destinate alla sicurezza del territorio perse dalla passata amministrazione vi sbagliate. Infatti nel 2016 nel Repertorio Nazionale degli interventi per la difesa del suolo erano previsti ben sette milioni di euro per interventi mirati alla mitigazione del rischio di qualche nuova frana nel Centro storico. Quei soldi però non sono mai arrivati, bloccati da questioni burocratiche che hanno fatto scadere il contratto con la ditta che avrebbe dovuto gestire i servizi.

    L’ultima speranza
    Fabio Ietto
    Il geologo Fabio Ietto (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Ancora una volta l’ultima speranza viene dai famosi 90 milioni, alcuni dei quali sarebbero destinati proprio a «interventi strategici per la qualificazione del quartiere dove è ubicato il Conservatorio e l’adeguamento del muro di sostegno Portapiana»
    Il fatto è che, come insiste Fabio Ietto, «il centro storico di Cosenza vive una condizione e di degrado notevolissima». Ma oggi dire una cosa del genere potrebbe diventare rischiosa: anche Giustino Fortunato, che descrisse la Calabria come «uno sfasciume pendulo» potrebbe essere denunciato.

    La locuzione originaria – “sfasciume pendulo sul mare”– è ascritta a Giustino Fortunato (“La questione meridionale e la riforma tributaria”, 1904)

  • Il centro storico crolla, non ditelo o sono guai

    Il centro storico crolla, non ditelo o sono guai

    Pericolo scampato. Cosenza rischiava di ricordarsi che la sua parte più antica e bella si sgretola sotto il peso di anni di incuria dei privati e chiacchiere del pubblico. Una trentina di facinorosi di ogni età aveva fatto notare il susseguirsi dei crolli nel centro storico, passeggiando tra i vicoli del quartiere in una calda mattina di fine luglio. Ne erano successe di tutti i colori: persone che indicavano tetti caduti o calcinacci sparsi qua e là, altre addirittura che se ne lamentavano, magari pure ascoltando la gente del posto che gli apriva casa. Un clima di tensione tale da far temere il peggio, come dimostra il video girato dal nostro Alfonso Bombini in quell’occasione.

    https://www.facebook.com/ICalabresi.it/videos/421174852474766

    Manifestazione o camminata?

    Ma i leader di quel manipolo di sovversivi, a quanto pare, non la passeranno liscia. La Questura di Cosenza ha notificato a tre di loro che dovranno rispondere di fronte alla legge di quella camminata non autorizzata. E che la sanzione da pagare ammonterebbe a 1180 euro ciascuno. I tre, invece di avvisare con almeno altrettanti giorni d’anticipo le autorità come se la loro fosse una vera e propria manifestazione, hanno dato appuntamento a chiunque volesse partecipare in piazza Valdesi.

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    “Il sesto senso” di marcia tra le macerie del centro storico di Cosenza
    Il senso della questione

    Da lì, apriti cielo: qualche decina di persone ha passeggiato chiacchierando con residenti e stampa delle «gravi omissioni e l’incuria contestate alla Provincia, alla Soprintendenza ai Beni culturali, al Comune e alla Prefettura, ritenuti degli imputati responsabili dello stato di abbandono dell’intero centro storico». Il tutto dando pure un nome alla passeggiata – Il sesto senso di marcia – che prendeva in giro nientepopodimeno che i Cinque sensi di marcia, tour a piedi tra le bellezze ancora in piedi della città storica organizzato periodicamente da Palazzo dei Bruzi. Irriverenza ai limiti del vilipendio alla bandiera, meglio intervenire subito. Il buon nome di Cosenza vecchia è salvo, il buonsenso chissà. E se crollano i palazzi meglio non dirlo.

  • Libri gratis alle elementari? A Cosenza e Reggio pagano le famiglie

    Libri gratis alle elementari? A Cosenza e Reggio pagano le famiglie

    Anche quest’anno niente soldi per i libri degli alunni delle scuole elementari di Cosenza. Il Comune in dissesto non paga le librerie scolastiche che, a loro volta, dopo avere fornito i libri nel 2019 senza essere stati pagati in tempo e integralmente, hanno deciso di fare anticipare – come già successo nel 2020 – il costo dei libri alle famiglie dei bambini anche per quest’anno. Somme che saranno restituite non appena il Comune liquiderà le fatture alle librerie. «Non è mancanza di volontà», ribadiscono in coro i librai della città, «purtroppo siamo arrivati al limite delle nostre forze. Non riusciamo più ad anticipare somme che poi non ci restituiscono».

    Oltre metà incasso volatilizzato

    I titolari delle librerie scolastiche di Cosenza portano ad esempio quanto accaduto nel 2019. «Abbiamo fornito a tutti coloro che presentavano le cedole di acquisto i testi richiesti. Sapete come è andata a finire? Che siamo stati “costretti” ad accettare una transazione con cui il Comune ci ha liquidato il 40% del totale fatturato». E dal momento che sui testi scolastici l’utile è di appena il 15%, il conto è presto fatto: su circa 90mila euro che il Comune avrebbe dovuto rimborsare, i librai ne hanno intascati appena 36mila.

    Il nocciolo della questione sta qui. A Cosenza, complice il dissesto finanziario, il Comune non eroga somme che dovrebbero già essere in bilancio su uno specifico capitolo di spesa. Così le librerie devono sospendere le forniture e ai genitori tocca aprire il portafogli.
    Laura G. è la mamma di una bambina in prima elementare. «Nel mio caso – dice – non sono i 50 euro per i sussidiari di Aurora a fare la differenza, ma cerco di mettermi nei panni anche di chi sta passando un periodo difficile. Magari non è in condizione di anticipare neanche una somma relativamente modesta come questa».

    Le difficoltà del Comune ricadono sugli altri

    Dal canto loro, le librerie scolastiche della città non ci stanno a fare da parafulmine alle inadempienze della pubblica amministrazione. E, dopo avere chiuso con una transazione estremamente onerosa (per loro) la vicenda dei vecchi crediti, hanno (ri)proposto di fare anticipare alle famiglie il costo dei libri.

    cedola libri primarie
    Una ricevuta consegnata a un genitore di un alunno delle primarie a Cosenza

    A pagare i testi delle scuole primarie, per legge erogati gratuitamente dallo Stato, sono state le famiglie. Che poi, quando e se il Comune sarà nelle condizioni di liquidare le fatture, riavranno i loro soldi direttamente dalle librerie. Basterà presentare le cedole di acquisto, «ed entro 60 giorni effettueremo il rimborso», spiega il titolare di una delle attività che hanno proposto questa soluzione.

    Cantanzaro, Crotone e Vibo? Tutto gratis

    Nelle altre province la situazione è molto diversa, fortunatamente. Ad agosto il settore Pubblica istruzione del Municipio di Catanzaro ha divulgato un avviso per lo stanziamento di 140mila euro per l’acquisto gratuito dei libri di testo delle scuole primarie. Le librerie accreditate sono state 11; gli aventi diritto 3.958.
    Luana P., mamma di Andrea: «Noi abbiamo pagato solo un euro per le copertine “obbligatorie”, per il resto più nulla». Manuela C.: «A gennaio abbiamo scelto la scuola per la piccola Ginevra, in primavera sono arrivate le cedole on-line e a settembre, non appena abbiamo avuto indicazioni delle classi, siamo andati in libreria a ritirare i testi».

    il comune di Catanzaro
    La sede del Comune di Catanzaro

    Anche a Catanzaro qualcuno aveva provato a chiedere di anticipare i soldi dei libri. «Ma il Comune ha bocciato subito l’attività dichiarandola illecita», spiega Liana N., mamma di Giuseppe e Gaia. L’iter previsto dalla Legge 448/98 dovrebbe essere uguale per tutti: i genitori acquistano i libri tramite le cedole ricevute a scuola e i librai fatturano al Comune. Funziona così un po’ dappertutto, anche a Crotone e Vibo Valentia.

    Anche a Reggio tocca anticipare

    Il meccanismo si è inceppato a Cosenza ed a Reggio Calabria. Anche qui i genitori devono anticipare i soldi per l’acquisto dei libri per le scuole primarie. Il motivo è sempre lo stesso: pure in riva allo Stretto i librai non riescono ad incassare in tempo le fatture dal Comune. Che, in questo caso, non può neanche sfruttare l’alibi del dissesto finanziario per difendersi.
    Amaro lo sfogo di una mamma sui social: «Abbiamo tre figli. Se consideriamo una spesa media per i libri di 65 euro a testa, viene fuori che la somma da anticipare per una famiglia non benestante non è per nulla indifferente».

    Le rassicurazioni della vecchia amministrazione

    Lo scorso anno ci ha provato l’assessore Spadafora Lanzino a gettare acqua sul fuoco delle polemiche giustificando i librai e rassicurando le famiglie: «Purtroppo, la consueta anticipazione degli importi da parte delle librerie su ricezione delle apposite cedole, non è resa possibile, oggi, dalla circostanza che le librerie stesse sono, al momento, in attesa della liquidazione delle spettanze relative all’anno scolastico 2019/2020, oggetto della procedura di liquidazione dinanzi alla Commissione straordinaria operante presso l’Amministrazione Comunale. Ciò giustifica la soluzione dell’anticipazione, ossia del temporaneo e provvisorio pagamento dei libri di testo da parte delle famiglie degli alunni, che tempestivamente riceveranno la restituzione di quanto versato non appena, con sicura tempestività, il Comune procederà a liquidare, su presentazione delle fatture da parte delle librerie, le somme in credito».

    L'ex assessore Matilde Lanzino
    L’ex assessore Matilde Lanzino
    I dubbi di quella nuova

    A piazza dei Bruzi solo in questa ultima settimana è arrivata la nomina dei presidenti delle commissioni consiliari e la nuova giunta del sindaco Caruso sta iniziando ad avviare la macchina amministrativa.
    Dai banchi della maggioranza fanno sapere che «stiamo iniziando ora ad esaminare il bilancio. Solo dopo saremo in grado di capire dove sono finite e come sono state usate dalla precedente Amministrazione le somme per l’acquisto dei libri e come fare a recuperarle».

    Una cosa però è certa: il capitolo Istruzione è tra i più complessi nel bilancio del Comune di Cosenza. Stessi fondi ministeriali, destini diversi per le risorse della scuole primarie e secondarie a Cosenza. Le fatture dei librai delle primarie sono finite nella massa passiva. Per recuperare i soldi integralmente – salvo stralci dal 30 al 60% – ci vorranno dai sei ai dieci anni. I fondi destinati alla scuole secondarie di 1 e 2° grado, invece, sono finiti su un capitolo di spesa ad hoc. Questo ha garantito già dallo scorso anno l’erogazione di 450mila euro.

    Sempre più sconcertati i librai : «Non riusciamo a capire come essendo anche i nostri fondi ministeriali siano finiti nella massa passiva. Certo è che se anziché destinare le risorse ad altro le avessero impiegate per pagare le cedole oggi non ci troveremmo in questa situazione».

  • L’Avaro del Marulla, se il Cosenza è in mano ad Arpagone

    L’Avaro del Marulla, se il Cosenza è in mano ad Arpagone

    Molière è vivo e lotta insieme a noi. Lo fa attraverso Arpagone, il suo Avaro (e avaro per eccellenza della commedia dell’arte), che in Calabria ha raggiunto la versione 4.0 e a Cosenza sta per evolversi ulteriormente. Il nuovo Arpagone non ha la faccia di Paolo Villaggio (che lo interpretò alla grande tra un Fantozzi e l’altro a fine anni ’90) ma quella di Eugenio Guarascio, il big dello smaltimento rifiuti col pallino dell’editoria e un incompreso – soprattutto incomprensibile – interessamento al calcio.
    Pecunia non olet, i soldi non puzzano, ci mancherebbe. E non c’è nulla da obiettare se il duce di 4EL, brillante e carismatico per autodefinizione, ha fatto un botto di quattrini con la monnezza. Ché anzi è un servizio nobile reso alla comunità. Il problema è che i soldi non possono restare in cassaforte.

    Un'edizione dell'Avaro di Molière
    Un’edizione dell’Avaro di Molière
    «Peste all’avarizia»

    Nessuno si permette di fare i conti in tasca a mister Guarascio. Però una cosa va detta: c’è una differenza – a volte sottile, ma c’è sempre – tra un imprenditore e un tirchio. Sta in una parola rara, altrove scontata ma quasi magica al Sud: investire.
    Quel che il presidente di Ecologia Oggi ha promesso puntualmente per il Cosenza Calcio e, finora, disatteso con altrettanta puntualità.

    Ora, che certe dichiarazioni se le siano bevute Mario Occhiuto e Franco Iacucci ci sta. Ma il sindaco uscente e non ricandidabile della città che ha tra i simboli proprio la squadra di Guarascio non poteva dire altro. Così come non poteva dire altro un presidente di Provincia che aspirava al salto a Palazzo Campanella.
    Non ci si può aspettare che certe promesse se le bevano i cittadini, che magari sborsano quattrini per andare al San Vito-Marulla. Pecunia non olet ma pesa. Nelle sue tasche aggiungiamo noi.

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    Striscione contro Guarascio durante una partita del Cosenza

    Nell’Avaro i servi, chi più chi meno, protestavano e si ribellavano come potevano ad Arpagone, dissimulando quel minimo per non farsi prendere a bastonate. I tifosi, invece, non le mandano a dire: lo testimonia la valanga di commenti che esplode ritualmente dopo le partite del Cosenza.
    «Peste all’avarizia e agli avari», gridava Freccia, un servitore di Arpagone, al padrone che lo perquisiva. «Guarascio, facci un regalo: vattene», invocano a gran voce i cosentini sui social. Come si vede, non c’è quasi differenza.

    Investire vuol dire spendere

    I numeri parlano. E quelli del calcio sono tra i più eloquenti: nelle sue partite più recenti, il Cosenza ha inanellato quattro sconfitte, tra qui quella dolentissima con la Reggina, e un pareggio. È quintultimo in classifica, cioè in posizione di agonia con unica aspirazione la salvezza.
    La si direbbe una squadra “avara”. In realtà, è solo una squadra povera che celebra costantemente le nozze coi fichi secchi sotto lo sguardo severo del patron.

    Guarascio parla poco, ma sta sempre attento, come Arpagone, che a tavola non si sprechi il cibo. Neanche nel banchetto nuziale ordinato alla meno peggio per accasare la figlia con un agiato anziano, disposto a sposarla «senza dote», e per impalmare una ragazza, da cui spera invece una dote.
    Questa citazione riassume il duplice rapporto, calcistico e imprenditoriale, che ha con Cosenza.

    Investire nelle emozioni

    Non entriamo nel merito del ciclo rifiuti, sebbene le lamentele sull’andamento della differenziata e non poche polemiche sindacali siano eloquenti. Concentriamoci solo sull’aspetto sportivo: se c’è un settore in cui i risultati costano, è lo sport, il calcio in particolare. E il campionato del Cosenza è l’esito di una campagna acquisti fatta a velocità lampo con un budget risicato. Più o meno come i cavalli, denutriti e senza ferri agli zoccoli, con cui Arpagone voleva andare alla fiera.

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    Nel calcio non si può risparmiare tagliando sui costi, come in un’azienda normale. A volte si può guadagnare (coi biglietti, gli sponsor e i diritti). Ma per farlo occorre spendere, perché l’investimento è nelle emozioni, prima ancora che negli uomini e nei mezzi. Le emozioni dei tifosi e dei cittadini comuni, che magari sui disservizi chiudono pure il classico occhio, ma allo spettacolo settimanale non vogliono rinunciare.

    Spendere non è sprecare

    Guarascio ha una nemesi, che non proviene dal teatro ma dal cinema. È Benito Fornaciari, il presidente del Borgorosso Football Club, a cui prestò il proprio volto Alberto Sordi, che si cappottò finanziariamente per salvare la squadra ereditata dal padre.
    Fornaciari è l’esempio opposto da non seguire, intendiamoci: nessuno si deve rovinare per farsi amare dai tifosi. Ma da qui a mettere in cima alle preoccupazioni il “rigore nei conti”, come ha dichiarato e ribadito Guarascio, ne corre. I conti devono essere tenuti sotto controllo, ci mancherebbe, ma non sono tutto, quando si lavora con le emozioni del pubblico. Altrimenti, il confronto con Arpagone, disposto a sacrificare gli affetti dei figli pur di salvaguardare i suoi diecimila scudi, diventa troppo calzante…

    La fortuna è un merito solo per quelli bravi

    Sotto Natale, sempre a proposito di avari, si potrebbe citare il vecchio Scroodge di Dickens. Ma la vicenda del Cosenza non è una favola, anzi merita un’ironia per la quale non basterebbero dieci Molière particolarmente ispirati: si ride per non arrabbiarsi troppo.
    Ciononostante, due fortune arridono a Guarascio: il miracoloso ripescaggio a danno del Chievo Verona e l’amore dei tifosi per il simbolo della città.
    Ma la fortuna non è eterna e premia chi la cerca, non chi se ne approfitta. E prima o poi i tesori si volatilizzano. Come quello di Arpagone, che alla fin fine e a dispetto di tanti sacrifici, riempiva sì e no un cofanetto.

  • BOTTEGHE OSCURE | Quando a Parigi facevamo i… fichi

    BOTTEGHE OSCURE | Quando a Parigi facevamo i… fichi

    Dalle neviere ai fichi ci fa da trait d’union la scirubetta. Era una e una sola l’essenza per eccellenza che si mescolava alla neve raccolta al momento e trasformata in granita nel bicchiere: il miele di fichi. Questa leccornia tanto ricercata quanto complessa da ottenere, è solo uno dei prodotti che nella Calabria e nel Cosentino si ricavavano dalla coltivazione dei fichi. Oltre al frutto da mangiare fresco e al miele ricavato tramite la sua bollitura e spremitura, a tenere alta la bandiera calabrese negli scorsi decenni sono stati i fichi secchi, che nella seconda metà dell’Ottocento raggiungevano le tavole di mezza Europa rappresentando per la Calabria una significativa fonte di guadagno.
    Altro che “non valere un fico secco”!

    Ficu prene

    La cultura popolare e contadina ha poi elaborato il prodotto in varie altre declinazioni, in base alla forma, all’intreccio, all’essiccazione, al passaggio in forno o all’abbinamento con altra frutta secca. Le crucette, che Accattatis nel suo Vocabolario del dialetto calabrese chiama anche ficu prene e definisce «due o quattro fichi spaccati, imbottiti di noci e simili ingredienti, incastonati a forma di croce e tostati al forno», sono forse i prodotti più noti, ma non sono i soli. Ficu ‘mpurnate, cioè passate al forno, jette, trecce di fichi secchi infilzati ad un’asta di canna, ficu a pallune, i fichi secchi e infornati, uniti all’interno di foglie a formare una palla dalla grandezza di un pugno, sono solo alcune delle specialità tradizionali più ricercate. Ma a volerle elencare tutte… te salutu ped’e ficu!

    Fichi al forno
    Fichi al forno (foto Rosalia Spadafora)
    Influssi astrali

    Tra Cinquecento e Seicento i fichi calabresi erano rinomati soprattutto fuori regione. Ne offre una preziosa testimonianza lo storico Giovanni Fiore da Cropani in Della Calabria Illustrata (1691): «Nientemeno più prezioso, e per la copia e per la perfezzione egli è il raccolto delli Fichi. Principia egli nel mese di Giugno, e si allunga fin all’altro di Decembre». Fiore scrive a proposito della coltivazione, della diversità delle specie e dell’esportazione verso Napoli, Sicilia, Roma e addirittura Malta.

    Ma come tutti i prodotti della terra, si credeva che anche i fichi fossero soggetti agli influssi astrali e che richiedessero particolari attenzioni nella coltivazione. L’astronomo/astrologo cosentino Rutilio Benincasa nel suo Almanacco Perpetuo divideva i frutti in tre gruppi di dodici. Li distingueva tra quelli che «si mangiano tutti», quelli che «si mangiano dentro» e quelli che «si mangiano quello di fuora». I fichi «che si mangiano tutti» erano dominati dall’Orsa maggiore. Nel calendario annuale, invece, era da annotare la data del 31 agosto, in cui «Andromeda appare, e fa freddetto, ed in questi tempi si domesticano li fichi, e s’incomincia dai 14 di luglio ad innestare et insertare».

    Secondo Benincasa persino il lattice, cioè la sostanza bianca che stilla dal fico non ancora maturo appena raccolto o dalle sue foglie, aveva proprietà benefiche, tanto che a chi avesse voluto far passare il gonfiore di punture di api o di vespe consigliava: «Sopra detto morso vi metterete latte di fico».

    Dalla seta ai fichi

    Dalla fine del Settecento la coltivazione prendeva sempre più piede nelle campagne calabresi, con un particolare incremento nel Cosentino. Nel 1792, nel corso di un viaggio in Calabria, attraversando il Cosentino l’economista e intellettuale napoletano Giuseppe Maria Galanti notò che i fichi stavano lentamente prendendo il posto dei gelsi, a testimoniare un’involuzione dell’economia della seta. Quella dei fichi era infatti una delle “estrazioni della provincia” e «olio, fichi ed uve passe, qualche volta grano» erano le uniche esportazioni che giungevano «fuori dal Regno».

    Certo, il commercio era ostacolato da numerose “vessazioni”. Tra queste, il “lasciapassare” che era necessario anche all’interno della Calabria «per trasportarsi i generi d’olio, di cotone, formaggio, lana, lino, canapa, fichi secchi, da un lato all’altro». Galanti non può fare a meno di notare e annotare che «la miseria sembra estrema ne’ casali di Cosenza. La principale industria era la seta; si tagliavano prima li castagni per piantare gelsi: oggi si esercita a pura perdita ed in luogo di gelsi si piantano fichi». Anche nel Vallo, cioè nei paesi della Valle del Crati, «da pochi anni si sono fatte gran piantagioni di olivi e di fichi dove i gelsi si sono invecchiati».

    Così pure nel «litorale da Amantea a Belvedere» l’industria della seta, un tempo principale, era in declino, mentre era attivo un discreto commercio di fichi secchi. La coltivazione dei fichi era praticata abbondantemente anche nelle altre aree della regione, ma non sempre riusciva a travalicare i confini territoriali. A tal proposito lo stesso Galanti fa notare che nei dintorni di Tropea «i fichi secchi si reputano i migliori del paese» ma la loro esportazione era scarsa: «si seccano i fichi e le prugne damascene, che sono ottime, ma sono per l’uso del paese».

    Trecentomila quintali

    A fine Ottocento le qualità più pregiate venivano coltivate a Cosenza, Rende, Rose, Castiglione Cosentino, Roggiano, Torano, Rovella e Zumpano. La produzione in media raggiungeva i 300 mila quintali. La gran parte di questi veniva esportata «al prezzo medio di L.34 per ogni quintale». Il prodotto di prima scelta veniva confezionato e spedito all’estero.

    La Francia ne importava ancora agli inizi del Novecento le quantità più significative, ma fichi calabresi giungevano anche in Olanda, in Austria e, ovviamente, in tutte le regioni d’Italia. Se ne trova menzione anche nel carteggio di Filippo Turati, uno dei fondatori nel 1893 del Partito dei lavoratori italiani dai quali nascerà lo storico Partito socialista. In una sua lettera del 1920, infatti, Turati accenna a un Berardelli indicandolo come «quello dei fichi di Cosenza».

    Non mancavano le note dolenti. Non sempre i prodotti calabresi riuscivano a imporsi all’estero, e a difettare non era la qualità, ma spesso la capacità di saperli presentare in modo efficace. Durante un congresso di frutticoltura nel 1927 uno dei relatori, a proposito dell’esportazione dei fichi di Cosenza, notava che spesso «difetti nella scelta delle razze, nella cernita e nella confezione del prodotto, nei sistemi di imballaggio, tengono i nostri fichi secchi in condizione di inferiorità» ma allo stesso tempo ricordava che «i migliori fichi di Cosenza, esportati in Francia e pagati a prezzi modici, vengono quivi accomodati in modo civettuolo in eleganti cestini e rimessi in commercio col nome di fichi di Smirne!».

    Siccaficu e leghe bianche

    Ogni quintale di fichi secchi richiedeva un notevole lavoro. Trattandosi di un prodotto essiccato al sole la variabile metereologica incideva molto. La parte destinata all’essiccazione veniva raccolta dagli alberi una volta giunta a maturazione, i passulùni, e riposta sulle cannizze, graticci di canne intrecciate, pronte a essere ritirate in fretta all’asciutto al primo accenno di pioggia. Ma anche dopo riposte sulle cannizze, il lavoro non era finito. Periodicamente era necessario girarle da un lato, dall’altro, e anche con la punta in alto, perché si essiccassero in maniera uniforme.

    Fichi sulla cannizza
    Fichi in essiccazione sulla “cannizza” (foto Rosalia Spadafora)

    Distese di cannizze colme di fichi al sole costellavano così le campagne attorno alla città e quelle più vicine ai paesi attorno a Cosenza. Per gli abitanti di Sant’Ippolito, ad esempio, Vincenzo Padula riporta il soprannome di siccaficu, a conferma che l’attività era tanto diffusa da caratterizzare il paese. E una simile cosa doveva avvenire a Torzano, attuale Borgo Partenope, dove ancora negli anni ’20 del secolo scorso si era soliti fare anche una “raccolta delle fichi”, oltre che di grano e mosto, per sovvenzionare le feste di Santa Maria e dell’Immacolata che si tenevano all’inizio e alla fine di settembre, il mese dei fichi per eccellenza.

    Donne al lavoro in una fabbrica di fichi
    Donne al lavoro in una fabbrica di fichi – I Calabresi

    In questi centri, così come a Donnici e negli altri paesi del Cosentino, gli intermediari acquistavano la parte migliore per poi immetterla sul mercato. Le famiglie, invece, tenevano quelle di minore qualità da ‘mpurnàre o trasformare in crucette conservandole in apposite ceste o nei casciùni. A contrastare l’attività lucrosa degli intermediari provò don Carlo De Cardona che, nel primo decennio del Novecento, tramite le sue “leghe bianche” aveva incentivato la nascita di una cooperativa di produzione. La cooperativa aveva rappresentanti a Marsiglia, dove giungeva una parte significativa dei fichi calabresi.

    Un frutto, tante varietà

    «Che dir dobbiamo ai venditor di fichi?» si chiede Nicola Leoni in Della Magna Grecia e delle Tre Calabrie (1844). Nel suo pistolotto lirico lo scrivente ammonisce i contadini calabresi dediti a ogni sorta di magheggio pur di piazzare la propria mercanzia: «I buoni esporre de’ canestri in fuori […] i viziosi e i duri occultare in sotto». E di fichi eccellenti, o almeno di buona qualità, in quelle ceste non dovevano essercene in grande quantità. I pezzi migliori, cioè quelli più grassi e intonsi, erano destinati all’esportazione.

    Ficu citrulare
    “Ficu citrulare” – I Calabresi

    Gli almanacchi di cultura popolare calabrese e le istruzioni a uso del contadino citano molteplici varietà. Tra queste:

    • il dottato (volgarmente ottato), «varietà squisita che viene principalmente e specialmente adoperata per seccare»
    • i fichi melignana, che per forma e colore rassomigliavano a una melanzana
    • il calastruzzo, «piccolo e saporito»
    • i fichi biferi
    • i fichi fiore (fioroni), con buccia verde, frutto paonazzo «grossi e di sapore gradito»
    • il messinese
    • il natalino nero
    • il troiano
    Cosenza vs Smirne

    Nella seconda metà dell’Ottocento il fico dottato bruzio era rinomato e secondo soltanto a quello coltivato nella città turca di Smirne. Il motivo è presto detto: il fico cosentino «è più ricco in glucosio, ma più deficiente in sostanze proteiche dei fichi di Smirne: in confronto a quelli i prodotti calabresi sono più piccoli». Anche in termini di peso medio la differenza era macroscopica: 22 grammi contro 10.

    Ciò secondo gli “addetti ai lavori” era dovuto a una coltura praticata in maniera non razionale, senza cure alla pianta e in maniera promiscua, cioè affiancata ad altre piante. Anche per quanto riguarda le fasi successive il caro vecchio almanacco si premura di sentenziare: «Converrebbe migliorare la tecnica dell’essiccamento che si fa al sole pei primi fichi e al forno per gli ultimi, ma sempre con mezzi deficienti, in caso di variazioni dell’andamento della stagione».

    Figues de Cosenza
    Dal gruppo Facebook "Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza"
    Dal gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”

    Bertini, Garritano, Colavolpe, Aloisio sono solo alcune delle decine di aziende del Cosentino con una solida tradizione famigliare alle spalle dedite alla lavorazione e al commercio di fichi infornati, ricoperti, imbottiti. Molti anni prima delle fortune di costoro altri imprenditori, autentici pionieri nel settore, guardavano Oltralpe per piazzare la propria migliore mercanzia.

    Una preziosa testimonianza sulle qualità e le tipologie di fichi esportati è offerta dai marchi e modelli originali custoditi nei corposi registri dell’Archivio Centrale dello Stato. La città di Cosenza e il suo produttivo hinterland (Bisignano, Torano, Vaccarizzo, Montalto Uffugo) si presentavano sul mercato transalpino con un tripudio di etichette sulle quali campeggiavano ancore, pavoni, docili mucche e felini, stemmi inquartati e divinità alate.

    Alcuni sono davvero essenziali, come quello studiato da Catiello Florio, dedito alla fichicoltura dal 1883. C’è poi la ditta Barone&C. di Bisignano, che negli anni ’30 del Novecento si presentava sulle piazze di Parigi, Lione e in tutta la Francia con addirittura quattro specialità a base di fichi e una “prima scelta” propagandata da due falchi divisi da una stella. Infine nel 1906 Guglielmo Pellegrini Lise si rivolge senza mezzi termini ai propri affezionati clienti: «Tra i fichi di Cosenza preferite “la marca sette colli”, esclusiva produzione del luogo».

    Dal gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”

     

  • IN FONDO A SUD | Il treno della memoria all’incontrario va

    IN FONDO A SUD | Il treno della memoria all’incontrario va

    Il FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano) ha eletto la linea Cuneo-Ventimiglia-Nizza “Luogo del cuore” per il 2021. Ovunque cresce l’interesse, anche turistico, per le ferrovie storiche. Nessuno in Calabria ha finora pensato che valesse la pena di fare sul serio qualcosa per salvare e ridare valore a quel che resta del tracciato dismesso dell’epica tratta Paola-Cosenza. Eppure ha una storia che richiama fatti, personaggi e circostanze che sono patrimonio comune e meritano di ritornare a fare memoria, per tutti.

    La vecchia cremagliera

    La Paola-Cosenza fu una straordinaria realizzazione dell’ingegneria ferroviaria dei primi del ‘900. Ai suoi tempi sfidò i limiti fisici e i vincoli geografici della vecchia Calabria preunitaria per creare finalmente il primo collegamento moderno tra la costa e l’interno. Rompeva così, col suo tracciato ripido e pericoloso, vinto con la potenza delle grandi macchine a vapore, una separatezza plurisecolare. Cosenza poteva vedere il mare che non aveva mai visto. La vecchia linea ferrata fu dismessa dalle Ferrovie dello Stato nel 1987. Cessò la sua vita a favore della nuova tratta veloce in galleria, la Santomarco, che buca ben 25 chilometri di Appennino calabro e unisce Paola e il resto d’Italia a Cosenza in meno di 25 minuti.

    Passeggeri in attesa della littorina a Paola
    Passeggeri in attesa della littorina a Paola
    La prima vaporiera

    “Il treno speciale” cominciò solo il 2 agosto del 1915 a risalire la china tortuosa verso la costiera con tre carrozze e un bagagliaio. Il convoglio partito dal capoluogo era «folto di sindaci, deputati e autorità prefettizie, e reso più gentile dalla partecipazione di alcune distintissime signore del pubblico». Quel giorno «fu accolto in trionfo alla stazione di Paola, alle 18 e mezza, dopo appena due ore e mezza di comodo viaggio».
    Prima dei treni si percorrevano i 40 chilometri tra Paola e Cosenza in non meno di 14 ore. Era un viaggio incerto e fortunoso su una scomoda vettura postale a cavalli, o un tragitto solitario a dorso di mulo o a cavallo. Chi non aveva fretta e denaro sufficiente per pagarsi la diligenza o non disponeva di un mezzo proprio (ed erano i più) non di rado si recava al capoluogo a piedi per sentieri di montagna. Non solo per il disbrigo di affari. Anche ogni giorno, a piedi, per frequentare le scuole d’avviamento o il liceo Telesio, come ricorda nelle sue memorie il medico paolano Francesco Ferrari.

    Dai soldati agli emigrati

    A Paola la stazione della tratta Battipaglia-Reggio Calabria, prima tra le “Grandi Opere” costruita dallo Stato unitario per il Sud, inaugurata nel 1895 dopo 20 anni di lavori, collegava già la costa al resto del paese. Scarsi i passeggeri, rarissime le merci movimentate. Questa prima grande strada ferrata per il Sud servirà per decenni, sin dalla guerra di Libia (1912) e poi oltre il primo conflitto mondiale, quasi esclusivamente, come le grandi strade dell’antichità romana, al trasporto di truppe nelle interminabili tradotte ferroviarie. Poi al deflusso umano di quell’altro immenso esercito in esodo che partirà dal Sud verso le due Americhe. E, dagli anni del boom in poi, per alimentare l’ininterrotta emorragia dell’emigrazione interna ed europea.

    La morte corre sui binari

    Questi binari ricordano anche l’orgoglio del lavoro dei ferrovieri, custodi delle ansimanti locomotive a vapore, e poi delle automotrici. Le eleganti littorine si arrampicavano un dente dopo l’altro su un percorso temerario e pendenze massime, solo grazie a tre tratte armate con “cremagliere speciali di tipo Strub”, dipanate per 23 chilometri sempre in salita tra boschi e burroni. Il convoglio solitario attraversava alti viadotti ad archi e gallerie buie e lunghe prima di aprirsi all’orizzonte chiaro e libero del Tirreno e alla vista liberatrice dell’agave.

    In “Aurora”, un vecchissimo film di Murnau, c’era un treno a vapore che attraversava una di queste foreste minacciose come se avesse appunto fretta di uscirne. Su una cartolina inviata da Cosenza negli anni ‘20 la mano anonima di un viaggiatore di passaggio aveva aggiunto a penna, accanto alla legenda stampigliata sull’immagine della “Stazione ferroviaria di Cosenza”, la parola “liberatrice”. Da quei primi tempi per anni sulle carrozze di terza classe della Paola-Cosenza è sfilata un’anonima moltitudine umana. Di questi eventi minuti rimasti senza memoria le cronache restituiscono come sempre soltanto le tracce più spesse e rumorose. Come gli incidenti mortali, i viaggi fatali di cui purtroppo la vicenda della Paola-Cosenza non è mai stata avara. Sin da principio.

    La vecchia stazione di San Lucido
    La vecchia stazione di San Lucido

    Era la primavera del 1916 quando «una tradotta militare, percorrendo la tratta da San Lucido a Falconara Albanese, subì uno svio all’imbocco di uno dei ponti provvisori in legno gettati sul vallone di San Giovanni. Lo svio, dovuto al cedimento della sponda su cui poggiava il ponte, causò il ribaltamento di un paio di carrozze della tradotta affollata di militari e conseguentemente il precipitarsi delle stesse verso il fondo del vallone». Alla fine fra le lamiere sul fondo del burrone «si contarono 5 militari morti e il ferimento di numerosi altri». La tragedia si ripeté nel 1942, l’incidente fece allora 17 morti e 41 feriti.

    Testimoni di un’altra epoca

    La storia di questa ferrovia è anche storia della fatica degli uomini che giorno e notte, in condizioni spesso difficili e pericolose, vi hanno lavorato insieme lungo 72 anni. «Negli ultimi anni di servizio della tratta – mi raccontava un vecchio macchinista della Paola-Cosenza, Salvatore Manes (1923-2019) – il convoglio, stracarico di gente, per l’usura dei mezzi qualche volta scivolava sulle livellette. Oppure bisognava ripartire dopo una sosta urgente per riparazioni, sempre frequenti, che eseguivamo lungo la linea. Nel dopoguerra era ancora fresco il ricordo del disastro del ‘42 con tutti quei morti, e anche dei crolli sul vallone di San Giovanni, sempre lesionato e rabberciato alla meglio. Attraversarlo era un problema per tutti, per i viaggiatori e per noi ferrovieri. Ogni volta tiravamo un sospiro di sollievo. Mi è capitato di farlo finanche con le macchine a bassa velocità per le prove di carico, partendo dopo qualche scossa di terremoto. C’era sempre una nuova lesione. Ma quel ponte ancora sta lì».

    Il lungo addio

    Poi ci sono i ricordi «di quegli anni Cinquanta così poveri, o degli anni Sessanta. Gli anni dell’emigrazione: ricordo le automotrici ogni giorno stracariche di gente, gli emigranti con le facce scure, le valige logore arrangiate alla meglio. Partivano tutti a cercare lavoro: Milano, Torino, la Germania, la Svizzera, la Francia, il Belgio, il Brasile, l’Australia. Ricordo quegli addii alla stazione fra pianti, baci e lacrime. La gente li salutava e li piangeva come morti quelli che partivano. In quegli anni noi ci sentivamo traghettatori di poveri e di dannati, non ferrovieri! Gente che portavamo via a migliaia dalle case di campagna, dai comuni del Vallo cosentino soprattutto, e della Presila. Li sbarcavamo a Paola sui lunghi marciapiedi della stazione da dove, i treni del sole si chiamavano, i direttissimi a lungo percorso, 12-15 carrozze e più, li avrebbero avviati come deportati, assieme ad altri calabresi, siciliani e lucani, nelle città del Nord o fuori dall’Italia».

    emigrati alla stazione di Milano
    Emigranti in attesa a Milano Centrale

    Sulle littorine fino al 1981 il vecchio macchinista ha trasportato ogni giorno da Paola a Cosenza anche tanti giovani. Sul vagone che partiva ogni mattina per Castiglione Cosentino e l’Unical, nei primi anni ’80 c’ero anch’io, studente di Filosofia. Figlio di ferroviere. Anche dopo l’apertura della superstrada 107, con l’autoservizio sostitutivo delle FF.SS, i treni della cremagliera Paola-Cosenza non si fermarono. Spesso le vecchie e fedeli littorine restavano l’unico mezzo di trasporto utile a tutti, studenti, lavoratori, pendolari, per raggiungere Cosenza e l’Università.

    Il treno per Ferramonti

    Col fascismo e la guerra, alla Calabria più povera sulle carrozze di terza classe della Paola-Cosenza si mischiarono i deportati a Ferramonti di Tarsia. Accanto ai contadini di Falconara, ai braccianti poveri di S. Fili e del Vallo di Crati, agli studenti di Paola sedettero, sorvegliati e in catene, ebrei italiani, polacchi, greci, austriaci, ungheresi e tedeschi. Con i suoi 4000 internati Ferramonti divenne il più grande campo di concentramento per ebrei costruito in Italia. Poco lontano dai reticolati del campo, correva la diramazione del tronco ferroviario. Numerosi fra gli ex internati a Ferramonti hanno conservato un ricordo vivido di quei viaggi carichi di angoscia e poi schiusi alla speranza.

    L’ingegnere cecoslovacco Erik Novak con altri 300 ebrei stranieri, dopo tre settimane nel carcere di Poggioreale, era stato condotto verso la fine del settembre 1940 alla stazione di Napoli e da lì avviato con un treno sorvegliato verso una destinazione ignota: «Il treno viaggiò molto a lungo costeggiando il mare finché non si fermò alla stazione di Paola». Giunti a Paola, gli internati furono fatti salire a gruppi sui convogli a vapore diretti a Cosenza. «Lì a Paola – prosegue Novak – ci fecero trasbordare su un altro treno che in mezzo alle rotaie aveva una cremagliera. A me pareva di andare su una funivia, come quella del parco Petrìn, di Praga. Salimmo col treno molto in su, verso le montagne, attraverso bellissimi castagneti».

    Internati a Ferramonti
    Internati a Ferramonti

    A Cosenza gli internati cambiavano nuovamente per andare ancora più a nord, verso quel «un campo che sembrava costruito da poco». Molti ebrei in fuga da Ferramonti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 ricordano ancora il trenino come un’immagine liberatrice: «Dalla collina dove presto ci trovammo si vedeva la ferrovia per Paola e si sentiva il treno che passava sotto il tunnel». Il 6 settembre 1945, «ultimo giorno di vita del campo», un convoglio partito dai binari di Mongrassano avrebbe riportato i profughi rimasti fino a Paola e da qui verso la libertà.

    L’ultima cremagliera della notte

    Anche nella letteratura il fato ha inciso indelebilmente la storia della cremagliera da Paola a Cosenza nell’ansiosa geografia dei viaggi dei fuggiaschi. Un giorno d’estate del 1938 il destino si compie per Nora Almagià tra le pagine de La Storia di Elsa Morante. La scrittrice narra nelle prime pagine del suo romanzo sul destino dei vinti la triste vicenda di questa donna ebrea che per paura delle persecuzioni perde il lume della ragione.

    La scrittrice Elsa Morante

    Da Cosenza, dove abita insieme al marito, il maestro elementare anarchico Giuseppe Ramundo, fugge via con «l’ultima cremagliera della notte». Va a togliersi la vita lasciandosi annegare nel mare di Paola. «Qualcuno ricorda vagamente di averla vista, nel suo vestituccio estivo di seta artificiale nera a disegni cilestrini, sull’ultima cremagliera serale diretta al lido di Paola. E difatti è là in quei dintorni che è stata ritrovata. Lungo quel tratto della costiera, di là dalla ferrovia, si stendono dei campi collinosi di granturco, che ai suoi occhi vaneggianti nel buio con la loro distesa ondulante potevano dare l’effetto d’un’altra apertura marina. Era una bellissima notte illune, quieta e stellata».

    Della vecchia tratta Paola-Cosenza, della piccola stazione di fronte al mare, c’è ricordo anche in un’altra pagina del romanzo. Giuseppe sale ogni dì sul trenino e si reca a Falconara: «Qualcuno, in passato, m’accennava – scrive la Morante – che per arrivarci bisognava prendere una tranvia suburbana, se non forse proprio la cremagliera che sale da Paola su per il fianco della montagna. E io mi sono sempre immaginata che nel suo interno scuro e fresco all’odore del vino nuovo si mescolasse quello campestre dei bergamotti e del legname, e forse anche l’odore del mare, di là dalla catena costiera».

    I binari della stazione di Falconara Albanese
    I binari a Falconara Albanese
    Il progresso divenuto rudere

    Un miracolo d’ingegneria, uno scrigno di storie e paesaggi mozzafiato che, come il trenino di Harry Potter, potrebbe richiamare ancora oggi turisti e appassionati di ferrovie storiche da tutto il mondo. Invece ruggine, macerie, depositi dismessi, stazioni disabilitate lungo la linea sono tutto quel che resta del pathos di quella ingenua illusione di progresso. Oggi quei treni non ci sono più. Materiale da fonderia. Le vecchie stazioni sono ruderi scorticati, ricettacoli sfondati di rifiuti e rottami arrugginiti. Tracce di ricordi seppelliti nella fretta del presente.

    Scavalcata l’ultima cresta verde della costiera, quelli che una volta erano i chilometri finali percorsi in piano dai binari adesso svaniscono arruffati sotto il sole senza scampo di una periferia urbana. Auto incolonnate e traffico intenso a tutte le ore. Centri commerciali esagerati, capannoni di concessionarie di lusso e palazzoni pretenziosi dove una volta erano distese di olivi, campi verdeggianti di fichi, gelsi, tabacco e granturco che ombreggiavano accanto allo sbuffo delle locomotive. Accanto si alzano gli enormi cubi dell’Università disegnata dall’archistar Vittorio Gregotti.

    Un treno nella vecchia stazione di Cosenza
    Un treno nella vecchia stazione di Cosenza

    Siamo alle porte di Rende. Poi i binari soffocati dall’asfalto diventano viale Parco, fin dentro Cosenza, al capolinea della vecchia stazione cancellata, accanto al municipio. Tutt’intorno la conurbazione ingigantita dagli steroidi dall’edilizia intensiva dei quartieri nuovi e dalla crescita aggressiva della speculazione più distruttiva d’Italia. Al posto della ferrovia, sul lato dove più fiorisce il cemento, adesso scorre un filare quasi ininterrotto di costruzioni ecletticamente assiepate sul bordo della 107. La strada trafficatissima per il mare, che dal caos della Statale 18 risale da Paola fino alla Sila. Una vetrina ininterrotta di crescenti orrori urbanistici e di misero sfarzo provinciale. La Calabria di adesso.

  • Università della Calabria, senza dialogo con istituzioni e territorio non si cresce

    Università della Calabria, senza dialogo con istituzioni e territorio non si cresce

    Gentilissimo direttore,
    ho seguito con molto interesse il dibattito apertosi su I Calabresi inerente il ruolo che le università hanno nello sviluppo del nostro territorio e, dunque, sull’importanza di quella che viene definita “Terza Missione”: su come, cioè, gli atenei possono e devono svolgerla, interpretarla, interagendo con la società civile ed il mondo imprenditoriale, i cittadini.
    Mi permetta da cittadina calabrese che si è laureata presso l’Università della Calabria, ha lavorato e fatto impresa nella propria terra e che oggi ha l’onore di rappresentarla tra i banchi della Camera dei Deputati, di condividere con Lei ed i suoi lettori qualche appunto mentale sull’argomento e raccontarle anche alcune esperienze personali ad esso correlate.

    Serve più dialogo

    Il ruolo delle università, va da sé, – ma è comunque giusto ricordarlo – è assolutamente centrale per la crescita culturale, sociale ed economica dei territori. Per questa ragione le istituzioni – locali soprattutto ma anche centrali – dovrebbero a mio avviso potenziare maggiormente il dialogo con gli atenei e tessere un lavoro di contaminazione costante al fine non solo di tracciare le migliori e più aderenti politiche per la crescita del territorio in questione, quanto anche adoperarsi per consentire a tutte le fasce della popolazione, in particolar modo quelle più fragili, che oggi si sentono distanti e disamorate dalle aule universitarie, che addirittura considerano quasi controproducente l’accesso al sapere, di far propri quegli strumenti, pratici e cognitivi, che consentono una crescita personale e professionale tale da aggredire e non subire il mondo ed il mercato del lavoro.

    La cultura collegata alla comunità

    Da sottosegretario di Stato ai Beni Culturali nel Conte II, ho voluto fortemente coinvolgere l’Università della Calabria nella progettazione degli interventi per la riqualificazione del centro storico di Cosenza attraverso il Contratto istituzionale di sviluppo. Proprio per questo motivo ho chiesto all’Unical di sviluppare un progetto per la creazione di un incubatore per le imprese culturali e turistiche – che avrà sede all’interno dell’ex Convitto nazionale Telesio – con l’obiettivo di stimolare, attraverso la formazione e la diffusione della cultura di impresa, partendo dai bisogni del centro storico, nuove imprese di servizi proprio per la cultura e il turismo in grado di intercettare il mercato nazionale ed internazionale.

    La motivazione è semplice: l’università con il suo background nel campo della ricerca e dello sviluppo, non solo di spin-off, ma anche di startup innovative, è il soggetto più indicato per realizzare un percorso che colleghi i luoghi della cultura di Cosenza innanzitutto alla comunità cittadina, e del centro storico in particolare, e di tutti i cittadini dell’area urbana.

    Serve volontà politica

    La volontà politica, dunque, all’interno delle istituzioni, ad ogni livello, è fondamentale per innescare una collaborazione concreta e proficua con le università rafforzandone la capacità di connettersi al territorio e trasferire saperi, strumenti ed opportunità. In tal senso, con l’ultima Legge di bilancio varata dal Conte II, quella per il 2021, si è dato vita agli ecosistemi dell’innovazione per le regioni del meridione d’Italia, con l’obiettivo di stimolare la creazione di veri e propri hub dell’innovazione tra soggetti pubblici, le università e i privati, ovvero aziende nel campo dell’ICT, startup e imprese tradizionali.

    Guardare oltre le mura delle proprie aule

    È fondamentale, infatti, incentivare il dialogo tra pubblico e privato, soprattutto in una regione come la nostra che soffre ancora oggi di insani campanilismi, spinte individualiste e divisive. Se, dunque, la “politica” ambisce ad essere definita tale, quella cioè con la “P” maiuscola (io per prima finché vorrò portarla avanti attivamente), deve altresì impegnarsi per trovare la strada giusta e stimolare gli atenei calabresi a guardare oltre le mura delle proprie aule.

    Così come è responsabilità delle università accelerare sui percorsi della Terza Missione non solo lavorando in sinergia tra di loro, ma pensando alla Calabria come un territorio “unico” dove, potenzialmente, ogni giorno, potrebbero nascere progetti ed idee che, magari, hanno solo bisogno di trovare riferimenti seri per crescere e far crescere il contesto intorno a loro. Solo così, ritengo, avremo una Calabria fertile di saperi condivisi e solo così le nostre università potranno continuare a crescere e raggiungere traguardi sempre più alti nel campo dell’offerta formativa, della ricerca e del sapere umano.

    Anna Laura Orrico
    Deputato M5S – ex sottosegretario ai Beni Culturali

     

  • Aborto, l’ospedale degli obiettori dove un solo medico dice sì a un diritto

    Aborto, l’ospedale degli obiettori dove un solo medico dice sì a un diritto

    Per abortire, la prima porta a destra. Percorri il corridoio, evitando di guardarti intorno, ti chiedi cosa ti aspetta e hai già la risposta a quella domanda: «Adesso non è il momento».
    Non è il momento giusto per un figlio, lo dicono quasi sempre le donne quando arrivano in ospedale con il certificato rilasciato dal consultorio familiare o dal medico curante, entro le dodici settimane di gestazione la loro gravidanza verrà interrotta.

    All’ospedale di Cosenza 250 Ivg l’anno

    Ospedale civile di Cosenza, reparto di ostetricia e ginecologia: qui ogni anno nascono in media oltre 2000 bambini e – sempre qui – vengono effettuate circa 250 interruzioni volontarie di gravidanza, a praticarle c’è un solo ginecologo, l’unico non obiettore di coscienza.

    aborto-cosenza
    Francesco Cariati, ginecologo dell’Azienda ospedaliera di Cosenza

    È il giovedì il giorno delle Ivg: una sigla per non dire, per capirsi al volo. È il giorno della settimana in cui l’unico medico pro-aborto dell’intera azienda ospedaliera si occupa delle donne che hanno deciso di non portare avanti la gravidanza ed esercitano il loro diritto a interromperla, un diritto sancito dalla legge 194. Fino alla nona settimana di gestazione l’aborto avviene attraverso il metodo farmacologico, dalla nona alla dodicesima settimana – ma fortunatamente si ricorre a questa pratica sempre meno – si deve intervenire chirurgicamente. Il turno in reparto del dottor Francesco Cariati il giovedì è diviso tra le gestanti e le donne in attesa di Ivg.

    L’ingresso dell’ospedale dell’Annunziata a Cosenza
    Un solo ginecologo non obiettore

    «Io sono abituato a dare la vita, è il mio lavoro – chiarisce – ed è molto difficile far coesistere la mia attività di ginecologo che accompagna le donne fino al parto con quella di medico non obiettore che aiuta ad abortire. Da una parte do la vita, dall’altra devo interromperla. Perché lo faccio? Per garantire un diritto: quello che hanno le donne di accedere a un servizio che la legge impone agli ospedali di fornire». Una questione che ne implica molte altre, che spesso rischiano di disperdersi nella pozza torbida del pregiudizio: «ci sono donne disperate – spiega Cariati – che se non hanno la possibilità di abortire in ospedale potrebbero finire in situazioni di illegalità e mettere a rischio la loro vita». Si sente solo? «Molto – ammette -. Soprattutto perché è complicato garantire ogni settimana questo servizio. I ginecologi obiettori di coscienza sono animali in via di estinzione» scherza. Ma poi torna serio, «lavoriamo sul filo dei giorni, il tempo è prezioso. Per le Ivg chirurgiche ho bisogno di anestesisti, ostetriche e infermieri anche loro non obiettori e sono pochissimi, bisogna organizzare e incastrare i turni di lavoro. Al di là delle ferie programmate sempre tenendo conto delle urgenze delle pazienti, non possiamo permetterci di assentarci. Altrimenti il servizio si interrompe».

    Leggere nello sguardo delle donne

    Nel silenzio ovattato rotto solo dai pianti dei neonati che reclamano la poppata, ad accogliere le donne che arrivano per abortire – dietro porte anonime per garantire la privacy di chi entra – c’è un piccolo staff di professionisti che, innanzitutto, non le giudicheranno. Proveranno ad afferrare sguardi sfuggenti, dopodiché, nel rispetto della volontà di ogni donna, si avvierà l’iter dell’Ivg.

    Manuela Bartucci, assistente sociale in ospedale a Cosenza

    Manuela Bartucci fa l’assistente sociale in ospedale e lavora in stretta sinergia con Cariati, ha costruito un dialogo costante con la rete territoriale dei consultori familiari. Con lei le pazienti hanno il primo colloquio quando arrivano in ospedale. «Ho imparato con il tempo e l’esperienza a leggere negli sguardi delle donne – racconta – a cogliere un segnale di tentennamento, a decifrare la comunicazione non verbale. Io sono lì per capire se c’è qualcosa che potrebbe far cambiare il destino di quella donna».

    Le precarie e le lavoratrici che non vogliono figli

    Alla base della scelta di interrompere una gravidanza, racconta, spesso – ma non sempre – c’è una condizione di precarietà: grosse difficoltà economiche, mancanza di una relazione stabile, situazioni lavorative senza garanzie. Ci sono ragazze che hanno appena trovato un impiego e hanno paura di perderlo o studentesse universitarie che temono di non riuscire a portare a termine gli studi. «In questi casi metto sul tavolo tutte le soluzioni che potrebbero rappresentare un appiglio – dice -. Magari non hanno consapevolezza delle opportunità e dei diritti, dal reddito di cittadinanza all’assegno unico. Sono sempre loro a scegliere, ma – afferma con orgoglio – molti bambini alla fine sono nati».

    aborto
    Un cartello di protesta del collettivo Fem.In contro gli antiabortisti

    Sono soprattutto italiane

    Le donne che intraprendono il percorso di interruzione della gravidanza arrivano sole, oppure accompagnate da un genitore, dal compagno o dal marito. Sono soprattutto italiane, hanno in media tra i 25 e i 35 anni. Poche, circa il 5%, le minori tra i 16 e i 18 anni, qualcuna al di sotto dei 15. Ci sono poi molte donne migranti soprattutto marocchine, nigeriane, romene, moldave.

    Ma il quadro non è completo. Dal lockdown ad oggi si è fatto largo un dato nuovo: a richiedere l’Ivg sono sempre di più donne italiane sopra i trent’anni, con una posizione lavorativa stabile ma fortemente determinate a non avere figli, «in questi casi ci troviamo di fronte ad una scelta di vita e dunque a una decisione irremovibile».
    Storie di ripensamenti e storie di abbandoni

    Adesso sua madre non vede l’ora di essere nonna

    Le storie sono tante e rimangono attaccate addosso a chi fa l’assistente sociale in un posto come questo, «è difficile tornare a casa e liberarsene facilmente». Ne ricorda tante, alcune a lieto fine altre no. «Qualche settimana fa si è presentata qui una donna di circa trent’anni. Voleva abortire ma nei suoi occhi ho letto il tormento. Ho provato a parlarle, lei è scoppiata a piangere, si è aperta. Non posso dirlo a mia madre, ha detto. In paese la gente mi criticherebbe e la mia famiglia si vergognerebbe di me. L’ho invitata ad affrontare tutto con lucidità e coraggio, a prendersi qualche giorno per parlare senza timore con sua madre. Beh, lo ha fatto e all’inizio non è stato semplice, ma continua a mandarmi dei messaggi, mi ringrazia per averla aiutata, adesso sua madre non vede l’ora di diventare nonna».

    La bimba affidata a una nuova famiglia

    Ci sono poi vicende che si evolvono seguendo strade imprevedibili. A luglio una donna si è presentata in un ospedale della provincia per abortire, aveva superato il limite delle settimane di gestazione, non ha potuto farlo. Ha portato avanti la gravidanza e la bimba è nata qui nell’ospedale di Cosenza ma la madre ha confermato la volontà di non riconoscerla. «Ho accompagnato questa donna all’uscita – ricorda – . Le ho chiesto di pensarci, di non avere fretta. Tieni il mio numero, le ho detto. Se dovessi ripensarci avrai tutto il sostegno che ti serve. Quella telefonata è arrivata, ma per comunicarmi la volontà di non tornare a riprendersi sua figlia. Alla piccola è stato dato un nome scelto dalle ostetriche, per venti giorni ha vissuto qui in neonatologia, accudita e coccolata da tutti. Poi è stata affidata ad una nuova famiglia».

    L’ingresso della Degenza ostetrica all’ospedale di Cosenza
    Le difficoltà non mancano

    Sono racconti che fanno brillare gli occhi dietro le mascherine, «spesso si danno dei giudizi sommari sull’aborto, diventa un tema politico, scalda i dibattiti – dice Francesco Cariati – ma bisognerebbe ricordare che dietro ogni storia c’è un dolore da rispettare. Noi qui facciamo il massimo per tutelare le donne e la loro scelta. Certo, le difficoltà non mancano. A partire dalla logistica».

    L’aborto è anche un problema di privacy e lingua

    Le donne che vengono in ospedale per abortire devono condividere gli spazi con le donne col pancione e con quelle che hanno appena partorito, s’incrociano, si sfiorano. «Siamo molto attenti a garantire la privacy, ad agire con il massimo tatto – aggiunge Cariati – ma il problema c’è, non si può negare. È necessario avere un’ala riservata per le interruzioni di gravidanza. Siamo in attesa che venga realizzata, questo renderà tutto più semplice». Quando? «Non ho informazioni certe sui tempi. Posso dire però che il progetto c’è».

    Un altro problema è quello della mediazione linguistica, le donne che non parlano l’italiano precipitano nel vortice di adempimenti burocratici e qualche volta si perdono. «Spesso ho di fronte ragazze sperdute, con le quali ho difficoltà anche solo a spiegare dove devono andare, cosa devono fare, quando devono tornare» dice Cariati. Molte di loro non sono informate sui metodi contraccettivi e capita che tornino anche due o tre volte in un anno. «Ecco, in momenti come questi, in cui rivedo in reparto una donna che ha già avuto più di un aborto volontario, ho qualche difficoltà, la redarguisco. Sono un ginecologo – ripete – il mio compito è dare la vita, questo non lo dimentico mai».
    La chiacchierata si è protratta oltre i tempi stabiliti, ma le storie sono tante e tutte raccontano un pezzo di verità sull’aborto. Un’infermiera si avvicina alla porta, sta cercando proprio lui, da lontano gli fa segno con la mano, indica la sala parto. «Devo andare – dice Cariati – c’è un bambino che ha fretta. Lo faccio nascere e torno».

  • Cosenza, la grande truffa del beato con le ossa d’asino

    Cosenza, la grande truffa del beato con le ossa d’asino

    Un beato con le ossa d’asino. A Cosenza erano attivi molti abili falsari pronti a produrre documenti per soddisfare le esigenze di gente senza scrupoli. Grazie ad essi si potevano accampare diritti di possesso di terre, ottenere privilegi fiscali, impossessarsi di eredità e attestare nobili origini. Anche preti e monaci erano specialisti nel fabbricare false prove, cosa che spinse Emily Lowe a scrivere che, avidi di denaro e pronti ad arricchirsi in tutti i modi, manipolavano persino testamenti! Tra il Cinquecento e il Settecento sono numerosi i cosentini sotto accusa per aver esibito documenti falsi che certificassero un’origine nobile o per avere redatto falsi testamenti. Ma la truffa che suscitò scandalo anche fuori dai confini cittadini e del regno fu, senza dubbio, quella attribuita a Ferdinando Stocchi.

    La truffa di Stocchi

    Stocchi, presbitero appartenente a una famiglia patrizia della città, era secondo alcuni un uomo curvo e obeso, con occhi piccoli, capigliatura rada e trasandato nel vestire, ma apprezzato studioso, autore di alcuni componimenti poetici e scientifici, eletto addirittura presidente dell’Accademia dei Negligenti. Secondo Misarti era nato a Scigliano nel 1611 e, dotato di «non ordinario ingegno», aveva studiato a Napoli, Roma e Bologna, per stabilirsi a Cosenza dove si aggregò al Sedile dei nobili e fu acclamato principe dell’Accademia de’ Costanti. Subì un processo per le accuse di un «frate zotico» ma fu prosciolto e riprese la sua attività di studioso pubblicando due opere.

    L'ingresso della Biblioteca in piazza XV marzo
    L’ingresso della Biblioteca in piazza XV marzo, sede dell’Accademia cosentina

    Stocchi divenne amico di Carlo Calà, potentissimo e ricchissimo Presidente della Regia Camera della Sommaria. Approfittando del cruccio di questi, che non poteva ostentare nobili origini, gli confidò di essere a conoscenza di antiche memorie che attestavano la sua discendenza da una famiglia Calà imparentata nel XII secolo con i reali d’Inghilterra e di Svevia. Il Calà, scrive Paoli, entusiasta all’idea di poter vantare una genesi così gloriosa, diede a Stocchi ventiquattromila ducati per recuperare i documenti dei suoi illustri antenati.

    L’abate cosentino, per «ingannare anche gli esperti», assoldò abili falsari. Fece stampare libri e riprodurre in pergamene lettere, memorie, codici, epigrammi, iscrizioni, inni, orazioni e altre carte ingiallite e sforacchiate che in tutto «passavano il centinaio». Secondo queste fonti, i fratelli Giovanni e Arrigo Calà, presunti avi di Carlo, avrebbero seguito Enrico VI di Svevia in Calabria ricoprendosi di gloria e titoli nobiliari «di spada». Giovanni Calà, valoroso capitano, dopo avere incontrato a Corazzo Gioacchino da Fiore si ritirò in eremitaggio vivendo in santità per il resto della vita.

    Il profeta e gli «infiniti miracoli»

    Questi documenti “inediti” in cui si ricostruiva l’avventurosa storia dei fratelli Calà, fatti ritrovare in monasteri, archivi privati e biblioteche come la Vaticana e l’Angelica, suscitarono grande entusiasmo tra gli eruditi del regno. E molti li citarono nelle loro ricerche finendo «per impastare la stessa pessima farina».
    Sulla base della ricca documentazione fornita da Stocchi, il presidente della Sommaria scrisse e pubblicò una storia degli Svevi nel regno di Napoli e in Sicilia. All’interno, ampio spazio per i suoi illustri capostipiti. Diverse pergamene e memorie di «antichissimo carattere», di cui molte parole «non si potiano leggere perché cancellate dall’antichità», attestavano «cose stupende e meravigliose» su Giovanni che già in vita era appellato «santissimo padre, specchio degli anacoreti e profeta del Signore».

    Nel trattato Processus vitae Ioannis Calà, si leggeva che era nato nel 1167, aveva partecipato alla conquista del Regno di Napoli nel 1191 ed era trapassato a godere del cielo nel 1265, dopo sessantaquattro anni di vita santa. L’abate Gioacchino da Fiore, in una lettera all’imperatrice Costanza, scriveva che Calà aveva condotto vita eremitica morendo in santità, era un profeta e aveva fatto «infiniti miracoli». Egli stesso aveva visto, davanti all’uscio del suo romitaggio un gran mucchio di forcole e bastoni che «zoppi e stroppiati» avevano lasciato in segno della loro guarigione. Del beato Giovanni esisteva persino un ritratto dipinto da un pittore di Castrovillari a cui il Calà era comparso in sogno manifestando il proprio desiderio di tramandare ai posteri la sua figura.

    Spuntano anche le reliquie

    Grande meraviglia e commozione nella regione suscitò, nel 1654, il ritrovamento dei resti del «beato». Le reliquie, chiuse in una cassa preziosa con tre chiavi, divennero subito oggetto di culto. E, in quello stesso anno, furono solennemente portate in processione, secondo alcuni a Cosenza, secondo altri a Castrovillari, per dare loro degna sepoltura. Nel 1666, però, tra lo stupore generale, il Tribunale dell’Inquisizione di Roma privò del titolo di beato Giovanni Calà. Il cardinale Crescenzio, vescovo di Bitonto, incaricato dalla Congregazione dell’Indice di analizzare i documenti sulla vita del sant’uomo, al termine di una faticosa ricerca aveva stabilito che si trattava di carte false.

    Galileo Galilei, il più celebre imputato del Tribunale dell'Inquisizione
    Galileo Galilei, il più celebre imputato del Tribunale dell’Inquisizione – I Calabersi

    Negli ambienti napoletani la truffa era di dominio pubblico tanto che Fusidoro, pseudonimo di Vincenzo D’Onofrio, scriveva che il vanaglorioso Calà aveva pubblicato la storia degli Svevi per rivendicare alla sua stirpe origini reali e sante, costruendo l’opera con documenti e pergamene prodotte da esperti falsari, tra cui l’ingegnoso Farinello. Anche per Domenico Confuorto, alias Fortundio Erodoto Montecco, il libro sulla famiglia Calà era più zeppo di «bugie che di parole, più spropositi che righi», ove si leggevano «chimerazzi e favolosi personaggi» descritti nei romanzi e nei libri di cavalleria.

    Il beato con le ossa d’asino

    Erano state lettere anonime e ammissioni della truffa di alcuni falsari a spingere le autorità ecclesiastiche a intervenire sulla storia del beato Calà. Il gesuita Pietro Giustiniani aveva raccolto la confessione di un uomo che si era reso responsabile insieme a Stocchi della «tessuta ribalderia». Costui aveva dato licenza di rendere pubblica la propria confessione, ma chiedeva che non si rivelasse il suo nome per «timore di essere ammazzato». Secondo Paoli era stato invece lo stesso Stocchi, mosso da «crudel rimorso», a rivelare la truffa in punto di morte. Mentre per altri a svelare l’inganno era stato il gentiluomo cosentino Angelo di Matera, suo complice.

    Un asino

    Questi, gravemente ammalato e assalito dal rimorso, confessò l’imbroglio in una scrittura consegnata a un notaio, pregandolo di recapitarla al vescovo di Martorano dopo la sua dipartita finale. Egli rivelava che, insieme al «solennissimo ciurmatore» Stocchi, aveva prodotto pergamene false e che le reliquie del beato erano in realtà ossi d’asino. Venuto a mancare il Di Matera, il presule mandò l’incartamento a Roma, dove la Congregazione Generale Romana istituì un processo condotto da padre Giustiniani. Questi appurò che le carte erano effettivamente false e che la storia del beato era un’invenzione. Il 27 giugno 1680, il culto del beato Giovanni Calà venne proibito. Il destino di libri, pergamene, codici, libretti e immagini che lo riguardavano? Prima il sequestro e poi le fiamme.

    Una truffa che fece il giro d’Europa

    Gli studiosi si interrogarono a lungo sul perché una truffa così audace di cui si parlò in tutta Europa non fosse stata subito smascherata. Paoli scriveva che la storia del beato Calà inventata da Stocchi era indubbiamente ben architettata, ma «conteneva cose più degne di un poema che di storia». Le ricostruzioni storiche erano piene di evidenti errori, contraddizioni e fatti assolutamente inverosimili, quali le virtù attribuite a Giovanni Calà.

    Questi veniva presentato come un uomo dalla forza superiore all’«umana natura», non inferiore a quella di Sansone e pari solo a quella di Ercole. Paoli si stupiva che i contemporanei non avessero esaminato e contraddetto un tale «ammasso di contraddizioni» e fatti «degni di un poema d’Ariosto». Sarebbe stato facile capire che i testi citati dal Calà erano falsi: nessuno aveva mai sentito parlare degli autori e nessuno ne avrebbe trovato copie nelle biblioteche.

    Troppo potente per sbugiardarlo

    Il silenzio e l’omertà degli studiosi contemporanei probabilmente si doveva al fatto che Carlo Calà era un uomo molto temuto. Padre Russo lo descrive come arrogante e vendicativo nei confronti di coloro che osavano criticarlo: Giuseppe Campanile, che nel febbraio del 1674 aveva avanzato dubbi alla sua Istoria degli Svevi, finì subito in prigione! Calà era uno degli uomini più potenti del Viceregno e il processo che aveva dimostrato la non autenticità delle reliquie di Giovanni Calà e la non attendibilità delle fonti documentarie che lo riguardavano, sarebbe rimasto segreto. Se non avvenne, è solo per l’imprudenza del Vicario Generale di Cassano, Giacinto Miceli, che aveva autorizzato il culto del beato Giovanni.

    La Historia de' Svevi, con il racconto della vita del falso beato Calà
    La Historia de’ Svevi, con il racconto della vita del beato Calà

    A quel punto il Tribunale dell’Inquisizione dovette comunicare a papa Innocenzo XI il verdetto del processo istruito da Giustiniani. Calà era così sicuro della sua impunità che, pur essendo a conoscenza delle critiche sul suo libro e dell’inchiesta in corso, nel 1665 dava alle stampe una versione dell’opera in latino. Del resto, come ricorda padre Russo, scattò il divieto per il culto del beato, ma il volume di Calà non finì all’Indice dei libri proibiti.

    A Cosenza si festeggia

    La truffa di Stocchi fu una tra le più ardite e celebri mai realizzate in Italia, capace di produrre il culto di un falso beato e di coinvolgere addirittura il potente Presidente della Sommaria. Se nessuno avesse svelato l’inganno, i fedeli avrebbero continuato a venerare e a ritenere reliquie di un santo dalle ossa d’asino. Il ricordo di questo beffardo episodio rimase vivo nella memoria dei cosentini dal momento che Pilati, giunto a Cosenza nel 1775, scrisse che un tale Stocco, gran letterato e nemico del clero, un giorno decise di far venerare pubblicamente gli ossi di un asino come reliquie di un santo. Aveva organizzato così bene la beffa che l’arcivescovo prima e lo stesso papa poi canonizzarono un fantomatico beato. I cosentini, entusiasti per quella proclamazione, istituirono una festa per la venerazione delle reliquie. E lo stesso Stocco compose l’inno da cantare per l’occasione.

  • Centro storico, i novanta milioni possono attendere

    Centro storico, i novanta milioni possono attendere

    Ve li ricordate i 90 milioni per il centro storico di Cosenza? Quelli del Contratto istituzionale di sviluppo (Cis), di cui tutti hanno cercato di rivendicare la paternità? Ebbene forse stanno arrivando. Il forse è d’obbligo, visto che il cammino è ancora lungo e le buone intenzioni hanno sempre lastricato le strade finite peggio. Però alcuni segnali incoraggianti ci sono e la partita (gare, appalti e lavori) potrebbe essere avviata nell’ormai prossimo 2022. La scadenza originaria per chiudere la parte relativa alle gare era il 31 Dicembre di quest’anno e al momento praticamente nulla si era mosso. Ma, grazie alla proroga governativa, la data si è spostata alla fine del prossimo anno. Dunque di tempo per avviare procedure e canalizzare gli investimenti ce n’è.

    Solo la Provincia va avanti

    Tra i protagonisti di questa grande opportunità, Mic, Unical, Comune e Provincia di Cosenza, solo quest’ultima è un passettino più avanti. Sul sito dell’ente governato fino a ieri da Iacucci, diventato da pochissimo consigliere regionale, si legge che i 31 milioni che saranno gestiti dalla Provincia andranno a quattro progetti. Il primo è l’adeguamento strutturale e restauro dell’edificio Chiesa S. Teresa D’Avila annessa all’ex Convento dei Padri Carmelitani Scalzi noto altresì come ex orfanotrofio Vittorio Emanuele II° in Via Gravina attuale sede dell’I.I.S. “Mancini – Tommasi” (3.660.000 euro).

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    I resti della chiesa di Santa Teresa d’Avila

    Poi ci sono la ristrutturazione dell’edificio sede del Liceo “Lucrezia Della Valle” di Cosenza (7.700.000 euro); l’adeguamento strutturale e il restauro del “Convitto Nazionale – B. Telesio” per utilizzo a Scuola Superiore con annesso convitto ed area a destinazione incontri e convegnistica e realizzazione Incubatore culturale in sinergia con Unical ed associazioni presenti sul territorio (15.000.000 euro); adeguamento/miglioramento strutturale e restauro del Conservatorio “S. Giacomantonio” (4.930.000 euro).

    Anche il Ministero è in ritardo

    Per il resto perfino il Ministero dei Beni culturali è in ritardo, visto che Anna Laura Orrico, parlamentare dei 5Stelle ed ex sottosegretaria, ha dovuto formalmente sollecitare lo stesso Ministero a nominare il Ruc, che nel linguaggio burocratese è il responsabile unico di controllo. Insomma, si erano scordati il controllore e non si poteva cominciare. La Orrico è certamente tra quanti possono rivendicare l’aver lavorato affinché il centro storico di Cosenza rientrasse tra i destinatari di questo tesoro e racconta come stanno le cose ad oggi.

    «La Provincia è avanti – spiega la parlamentare grillina – e nella prima parte del 2022 potrebbero partire i lavori di sua competenza, mentre il Comune sconta i ritardi dovuti all’inerzia della vecchia amministrazione». L’amministrazione fino a ieri guidata da Occhiuto, per mettersi in moto pare abbia avuto bisogno di un «richiamo ufficiale proprio dal Mic», come ricorda ancora la Orrico. «Il Comune di Cosenza deve gestire la massima parte delle risorse, circa 40 milioni e solo a Luglio aveva cominciato a provvedere alle procedure necessarie», aggiunge.

     

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    Anna Laura Orrico, all’epoca sottosegretario ai Beni culturali, firma a settembre del 2020 il Cis destinato a Cosenza

    Si comprende subito che l’amministrazione comunale è uno dei protagonisti fondamentali di questa opportunità, per il ruolo strategico che svolge e per la quantità di denaro che deve gestire. Per questo il ritardo assume un gravità maggiore, «ma la nuova amministrazione eletta da poco ha già preso contatti con il Ministero», assicura la parlamentare cosentina.

    Neanche un euro dei 90 milioni per il sociale

    Il vero problema consiste nel fatto che questi famosi 90 milioni destinati alla città vecchia non sono finalizzati a migliorare la qualità della vita di chi vi abita. Infatti queste risorse non possono essere usate per finalità sociali, ma solo per il restauro di edifici pubblici di valenza culturale.

    In quelle vecchie mura intanto vive una umanità in affanno. «Gli abitanti censiti sono circa 2.500, altrettanti crediamo quelli non censiti, sono cittadini lasciati nell’abbandono da anni», dice Francesco Alimena, giovane consigliere comunale da tempo impegnato in attività sociali e di ricerca relative alla parte storica di Cosenza.
    Il degrado urbanistico e l’abbandono hanno generato il disfacimento del tessuto sociale nella città vecchia.

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    Francesco Alimena, eletto per la prima volta consigliere comunale, si occupa da tempo del centro storico di Cosenza
    L’altro tesoretto

    Se i 90 milioni sono inutili per dare sollievo a questo disagio, altre e non marginali risorse possono essere utilizzate. Per esempio i fondi dell’Agenda Urbana. Cosenza dovrebbe usarli per il risanamento sociale delle aree marginali e quindi anche del centro storico. Si tratta di 18 milioni e «quattro di questi sono destinati ad aiuti diretti, vale a dire mirati al sostegno contro il disagio povertà». Anche su queste risorse, spiega Alimena, si scontano i ritardi della vecchia amministrazione.

    L’ex assessore se la prende con Invitalia

    Francesco Caruso, prima vicesindaco di Occhiuto e poi candidato a guidare la città, non ci sta a fare la figura di chi ha tralasciato di impegnarsi per il centro storico. E fornisce la sua versione dei fatti replicando ad Alimena e alla Orrico. «Per il Cis erano state presentate tutte le schede al ministero e aspettavamo il via dalle autorità. Poi siamo stati fermati dalle richieste di integrazione pervenuteci da Invitalia», spiega Caruso.

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    L’ex vicesindaco Francesco Caruso nella redazione de I Calabresi. Si è occupato del Cis fino a poche settimane fa

    Poi rincara la dose, aggiungendo «che pure per quanto riguarda Agenda urbana i ritardi sono da imputarsi dalla eccessiva pignoleria di Invitalia. Vuole accentrare il potere decisionale sottraendolo alle realtà locali, forse perché ha interessi nell’affidare le progettazioni». Ma non basta, Caruso su Santa Lucia spiega che «avevamo recentemente rimodulato le particelle di esproprio al fine di acquisire gli immobili oggetto di intervento comunale». E torna all’attacco: «Adesso la gestione è loro, dimostrino, una volta che avranno finito di lamentarsi, di avere le capacità di portare a compimento quanto avviato».

    Il Contratto di quartiere al palo

    Per la verità, di finire il lavoro degli altri i protagonisti della nuova stagione politica non ne hanno per nulla voglia. La visione che propone la nuova amministrazione è quella che coniuga il recupero urbano con la qualità della vita delle persone che vivono in quegli spazi. L’obiettivo cui ambisce Alimena è quello di utilizzare le risorse del Contratto di quartiere Santa Lucia per creare realtà di convivenza sociale come il Social housing. Alimena ricorda che ci sono sei milioni di euro per far rivivere quegli antichi vicoli e restituire dignità a chi li abita.

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    Il tetto crollato di un edificio all’ingresso del rione Santa Lucia a Cosenza

    Sul campo intanto si sperimentano prove di rinascita urbana, proprio tra i vecchi vicoli di Santa Lucia. Il progetto Lucy, ad esempio, un’esperienza di riuso urbano e di riconquista degli spazi negati e abbandonati da parte dei cittadini. Si tratta di indicare una strada, che diventerà interamente percorribile solo grazie alle risorse attese. Ma Alimena è fiducioso: «I cantieri del Cis devono partire entro la fine del 2022, ma l’Agenda Urbana può trovare realizzazione anche prima». È l’ottimismo della volontà, come direbbe Gramsci. La ragione suggerisce di tenere gli occhi aperti.