Oltre alle lettere di licenziamento anche le parole di sfida contro gli operai saliti sul tetto della Casa di cura Misasi-San Bartolo di Cosenza. A pronunciare frasi dai toni accesi è stato Saverio Greco, uno dei fratelli che detengono la proprietà anche della struttura sanitaria in questione.
il video è stato girato e poi pubblicato su Facebook da Ferdinando Gentile, sindacalista Usb della confederazione di Cosenza che sta seguendo la vicenda dei 51 lavoratori.
Il gruppo imprenditoriale da poco ha rilevato le case di cura che erano in mano alla famiglia dell’ex consigliere regionale, Ennio Morrone. I Greco hanno da subito fatto capire che avrebbero mandato a casa 51 dipendenti sui 129 totali in forza alla struttura. Il giornale I Calabresi ha sollevato la vicenda già il 9 novembre scorso.
«Questa realtà imprenditoriale decide di lasciare a casa decine di lavoratori e lavoratrici così da poter ulteriormente aumentare i propri profitti». È quanto si legge nel comunicato stampa del sindacato Usb Confederazione di Cosenza. Che continua: «La città di Cosenza non può permettersi che decine di famiglie rimangano senza risorse per poter vivere dignitosamente. Questa ennesima crisi sociale va evitata in ogni modo».
I sindacalisti «chiedono poi un intervento immediato del presidente Roberto Occhiuto affinché convochi al più presto un tavolo di confronto vero, alla presenza delle sigle sindacali, dell’ASP di Cosenza e della San Bartolo srl».
I Greco scaricano sulla Regione
Gli imprenditori di Cariati hanno sin da subito scaricato sulla Regione Calabria la responsabilità di quanto avrebbero poi messo in atto. In una nota stampa hanno sottolineato «il tardivo rimborso delle prestazioni erogate negli anni che vanno dal 2002 al 2014, nonché la insufficiente remunerazione delle prestazioni relative all’anno 1995, e la continua contrazione dei budget che non hanno consentito la copertura dei costi fissi».
[…] Un altro dei simboli popolari della crisi d’identità che affligge oggi la Grande Cosenza è il calcio cittadino. Precipitato nelle polemiche della gestione Guarascio e ben al di sotto dei fasti del passato. Un adagio ben noto tra gli appassionati di pallone dice che la piazza calcistica di Cosenza ha un tifo da serie A, una storia da serie B e una dirigenza di quarta serie. Oggi la squadra che fu arena consacrata da atleti simbolo come Bergamini e Marulla, è rimasta orfana di calciatori-bandiera. Quelli che segnano un’epoca e diventano leggenda, anche lontano dai campi di calcio.
Una serata fredda di dicembre di anni molti fa, un po’ prima di Natale ero in un bar di Roges, periferia urbana di Cosenza, e mi capitò di incontrare forse l’ultimo dei grandi pedatori passati dal prato declassato del San Vito-Marulla di Cosenza. C’era un’aria ferma, i vetri appannati. Fuori quasi si gelava per la gala di ghiaccio che scende dalla Sila. Dentro solo pochi avventori. Un paio seduti a un tavolino. Poi io e una mia amica bionda che rivedevo dopo molto tempo. Un po’ di chiacchiere lontano dagli affanni.
L’attuale San Vito-Marulla visto dall’alto
Solo, in piedi, affacciato sui gomiti davanti al banco, c’era un ragazzo magro e dinoccolato. Un tipo sopra la trentina, i capelli lunghi tirati indietro a coda, fermati da un elastico. Qualche filo di grigio già a inargentare le tempie. Un orecchino gli dava invece un’aria un po’ truce. La ragazza che serviva dietro al bancone con lui fa la gatta. Si mostra, si affaccia col petto sul bancone. Gli fa smorfie per invogliarlo. Lui sembra il più annoiato e taciturno dei presenti. Addosso ha una tuta sportiva e un marsupio, calza scarpe da ginnastica. Ha la faccia stanca e un’aria persa e stralunata. I suoi gesti sono lenti, come rappresi nell’aria. Poche parole scambiate con la barista gli escono di bocca come spezzate dalla noia dell’abitudine.
«Un lattuccio»
Potrebbe essere uno dei tiratardi, borgatari del posto. Però parla troppo basso, senza la voga strascicata di questi rioni di periferia. Un buon italiano corretto e senza accenti, che gli esce di bocca con un rintocco gentile e malinconico. A un certo punto è lui che si rivolge alla ragazza del banco, dopo che lei gli aveva chiesto con smorfie più insistenti cosa poteva preparargli. Lascia cadere l’invito in una pausa che dura quasi un minuto, l’aria assente. Poi le dice piano piano: «Per favore puoi scaldarmi un lattuccio?». Dice proprio: «un lattuccio».
Uno così mi sembra d’averlo già visto, lontano da questo bar di periferia. Certe cose non sono mai come te le immagini. Quella sera nel freddo di quel bar di Roges mi sono chiesto cosa stava a farci a Cosenza in una squadretta da campetti parrocchiali scivolata nell’inferno della D uno bravo come lui. Prima di ricominciare dalla quarta serie del pallone, gli avevano offerto di nuovo soldi buoni e ingaggi di prestigio la Fiorentina in B e pure la Sampdoria in A. Ma quel ragazzo triste aveva preferito il Cosenza in D ed era pronto a dare una mano alla squadra che aveva lasciato in B prima del fallimento.
Capitani impolverati
E invece era stato messo fuori squadra da allenatori da oratorio. Si era allenato, ma è chiaro che in D non erano i suoi soliti ritmi. Non si gioca di fino sui campetti spelacchiati dei semiprofessionisti. Sono ring da zuffa, rettangoli sconnessi dove si suda e si sgomita senza complimenti. Dicevano che ormai era spompato, che gli mancava la partita vera. Ma aveva lavorato con gli altri per fare il capitano, per presentarsi bene. Non giocava, ma non se l’era sentita lo stesso di lasciare Cosenza.
Gigi Lentini in azione sulla fascia con la maglia del Cosenza
Chissà se c’è un vero perché in storie così. Forse era rimasto per un amore che voleva resuscitare, forse per la speranza di ricominciare in provincia una vita normale dopo le mille illusioni ruffiane del grande calcio. Forse a 35 anni Gianlugi Lentini era solo un uomo che non aveva più voglia di rientrare nel tritacarne del sistema-calcio. Uno che viene solo per tirare calci alla palla, che gioca solo per giocare e non per caricarsi di responsabilità che ti schiantano, di nuove delusioni. Pensai che forse era rimasto perché ancora, non importa su quale campo, davvero gli piaceva correre così come sapeva fare lui. Scartando e caracollando dietro a una palla persa per inventare un cross che non ti immagini, per cercare lo spazio più imprevisto, come un acrobata che rimane in bilico sul filo bianco teso a bordocampo.
Campioni malinconici
Forse a Cosenza ci si poteva stare senza farsi male, perché in un bar di periferia, da solo in una serata fredda di dicembre, uno come lui, un campione vero, può chiedere «un lattuccio» alla ragazza che serve al bancone senza vergognarsi, senza sentirsi addosso tutta la nostalgia e il peso del declino. Un artista malinconico del football, Lentini. La sua era una storia di passione luminosa, di grandezza vera. Di quelle rare nel calcio già ridotto a un Barnum per televisioni e affaristi magliari.
Sarà sempre così. In questo sport contano gli incanti della fantasia, le ascese degli uomini quanto le cadute. Senza la passione il football è una cosa morta. Solo 22 uomini grandi e grossi che corrono su un prato e danno calci ad una palla. Sono solo la passione e la fantasia che ci mettono certi giocatori di genio a farlo diventare una cosa importante, una cosa estetica. Un istante di bellezza adolescente, un’acrobazia figurata che somiglia all’arte.
Tre generi di giocatori
Sono passati molti anni da quella sera, ma ricordo bene. Il Cosenza di adesso se la batte malissimo in B, una squadra raccogliticcia, senza capitani veri e uomini simbolo come fu Lentini. Raccolgo a mente i ricordi e gli ultimi istanti di quello strano incontro in una notte d’inverno al bar di Roges. Non c’erano stelle in cielo, e nemmeno la luna. Tirava il vento della Sila, quella tramontana che taglia la faccia. Io e la mia amica ci avviamo senza parlare. Poi mi torna in mente un grande racconto all’interno di Fútbol di Osvaldo Soriano.
«Lo conosci?», chiedo alla mia amica distrattamente, prima di accompagnarla fuori nelle strade senza nome di quella periferia. Ad un certo punto, le dico che c’è una pagina in cui Soriano scrive che “ci sono tre generi di calciatori. Quelli che vedono gli spazi liberi, gli stessi spazi che qualunque fesso può vedere dalla tribuna, e li vedi e sei contento e ti senti soddisfatto quando la palla cade dove deve cadere. Poi ci sono giocatori che all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, uno spazio che tu stesso e forse gli altri avrebbero potuto vedere se avessero osservato attentamente. Quelli ti prendono di sorpresa. E poi ci sono quelli che creano un nuovo spazio dentro un rettangolo di gioco, dove non avrebbe più dovuto esserci nessuno spazio, nessun pallone”.
Quello lì, quello che alla barista lì dentro chiedeva di scaldargli «un lattuccio», è uno di loro. Uno di questi profeti dell’innocenza che inventa figure impossibili, uno che aveva nei nervi quel tremore che spinge gli uomini a giocare su un prato dietro a una palla di cuoio. È un poeta sconfitto, era un astro tramontato del gioco del pallone. Tu non lo conosci. Si chiama Gianluigi, Gigi Lentini, era un campione.
Gigi Lentini contrastato da Jocelyn Angloma durante la finale di Champions League tra Milan e OM del 1993
Prima di andare via dal bar con la mia amica, mi sono avvicinato. Ho chiesto un autografo a quel ragazzo dalla faccia triste. Sorrise, sorpreso che qualcuno lo avesse riconosciuto in quel posto, a quell’ora, in quella situazione. Qualcuno che si ricordava di lui come calciatore, quando fino a qualche anno prima calcava i palcoscenici del calcio vero. Lentini scrisse su un pezzetto di carta, con una biro che le passò la ragazza dietro al bancone, calmo e gentile. Poi quasi sottovoce mi chiese per chi era l’autografo. «È per mio figlio», rispondo io. Non è vero. L’ho tenuto per me.
Cosenza oggi
Oggi Cosenza per me è questo: l’aria di periferia di certi bar e negozietti fuori moda, certi angoli svisti tra i palazzoni di periferia, l’odore delle cucine che la domenica preparano il pranzo di buon’ora tra le case popolari. Rumore di stoviglie, i balconi spalancati sul mattino, i panni stesi, le stanze che si affrettano al riordino. Un vecchio in pigiama che è sceso nel cortiletto di una vecchia casa colonica assediata dal cemento ad annaffiare del basilico che cresce in una grossa lattina di conserva arrugginita. Una imprecazione che sembra un proverbio antico, qualche risata di gola che arriva da lontano, una donna che rimprovera un bambino in un dialetto che sa ancora di cantilena.
Sullo stradone il camioncino del venditore viaggiante di patate della Sila che chiama a raccolta donne col suo verso da muezzin, la macchina con gli scarichi truccati che passa correndo via e lo stereo acceso forte sulle canzoni di un cantante neomelodico. Il buongiorno di una domenica qualsiasi in un posto senza grilli per la testa, le officine e i gommisti che armeggiano tra i marciapiedi e le strade piene di buche, il mercato degli ambulanti, i saluti e la festa del mattino nel quartiere popolare in cui sono venuto ad abitare da un paio d’anni.
La città-chimera
Da qui, da questo margine, si dileguano come in una nebbia opalescente le sagome tristi della teoria infinita di casermoni, strade e circonvallazioni, luci al neon, semafori intermittenti e file d’auto incolonnate nel traffico del rientro pomeridiano. La vita che ristagna tra le siepi di palazzoni multipiano degli attici in vetrocemento che riflettono il profilo scialbo della Grande Cosenza. La città-chimera, che non c’è mai stata e che non si farà. E con lei eclissa forse per sempre da queste sponde antiche anche il mito della città ribelle, socialista, colta, libertaria.
Resti di palazzi crollati si affacciano su corso Telesio
Restano solo le spoglie del suo centro storico svuotato di senso e popolato solo da invisibili e clandestini. La ridotta sbriciolata dei palazzi patrizi di Cosenza Vecchia, nobile e decaduta, e fuori da quella cerchia vetusta, a far perno nel vuoto del cielo invernale solo il lungo traliccio strallato del ponte di Calatrava. Poi le orbite involute del traffico e i pilastri di cemento armato di quella foresta di cubature sfuse che occupa lo spazio sfilacciato come una bandiera al vento che si prolunga per miglia e miglia oltre i ponti nella valle del Crati.
Una periferia senza centro
Il fiume di cemento si arresterà mai prima di sboccare la sua corsa finale verso lo Ionio? Fin lì Cosengeles per ora è solo un groviglio di centri commerciali, strade che si perdono nella campagna scassata dagli abusi, tra gli avamposti delle burocrazie e del terziario rigonfiato. Cosenza è oggi un organismo aspira-tutto che prospera risucchiando il vuoto intorno a sé e assommando intorno ad un’enorme periferia senza centro tutta la popolazione di giovani che si raccoglie nei paraggi dell’Università.
Studenti in attesa dei bus all’ingresso dell’Unical
Qui si radunano nel posatoio provvisorio degli studi, delle lauree tecnologiche e delle specializzazioni da Silicon Valley in riva al Crati, i pochi giovani rimasti a vivere in tutta la Regione. Ma anche loro restano giusto il tempo di ripartire. Prima che volino via altrove, come uccelli di passo. Un flusso provvisorio che ancora per un po’ terrà viva Cosenza e tutta la sua cosiddetta area urbana.
Mito e apparenze
È questa in fondo l’unica forza viva che alimenta da quarant’anni il mito della Grande Cosenza. Un mito provvisorio che sembra di tanto in tanto risorgere senza mai diventare vero oltre le apparenze. Ma solo perché è la Calabria intera che si squaglia intorno a Cosenza, che ogni giorno rimpicciolisce e diventa sempre più scarsa, più scolorita e spaesata.
Era una regina del Tirreno, bella e capricciosa. Dal dopoguerra ai primi anni ’80, quando Paola e Torremezzo ne presero il posto, Amantea era anche la spiaggia dei cosentini, che vi arrivavano in tre quarti d’ora attraverso la vecchia, scassatissima “via del mare”, che passa per Potame, alle pendici del Monte Cocuzzo. Ancora: Amantea, specie negli anni ’70, era piuttosto “avanti”: parrebbe che Coreca, al riguardo, vanti il primato dei primi topless, esibiti con generosità, va da sé, dalle “forastìere”.
La mafia? C’era senz’altro, ma era poca cosa: fece giusto scalpore, il 13 maggio 1981, il triplice omicidio di Francesco Africano, Emanuele Osso e Domenico Petrungaro, avvenuto nel contesto – particolarmente tragico – della guerra tra i clan Perna-Pranno e Pino-Sena.
Ma il grasso colava e copriva molte cose, comprese alcune forme di sviluppo urbanistico, iniziate prima della “legge Galasso” ma che dopo sarebbero state censurate, più che dagli uomini dalla natura: ci si riferisce al lungomare, costruito attorno alla vecchia “rotonda”, e all’urbanizzazione della costa nei pressi della foce del fiume Oliva e di Campora San Giovanni. Su queste opere, va detto, sarebbe piombata la vendetta del mare, nella duplice forma delle ondate e dell’erosione, che, in particolare, ha divorato un bel tratto della scogliera di Coreca.
Ma il presente di Amantea va oltre le peggiori dietrologie. La regina, dopo essere stata detronizzata, ha le rughe.
Le rughe della regina
Queste rughe sanno più di malattia che di fisiologico invecchiamento. Lo rivela il decreto con cui, il 30 giugno 2021, la Presidenza della Repubblica ha deciso di prorogare su indicazione del prefetto di Cosenza, il commissariamento della cittadina tirrenica.
Un dato colpisce in maniera particolare: insediatisi nel 2020, i commissari prefettizi erano riusciti sì e no ad approvare i rendiconti del 2016 e del 2017, relativi cioè all’ultima fase dell’amministrazione Sabatino, e si redigono tuttora i rendiconti del biennio successivo.
I risultati di questa prima, importante attività finanziaria sono già micidiali: certificano un debito che oscilla tra i 27 e i 30 milioni di euro. Su scala, queste cifre ricordano non poco il dissesto di Cosenza. Vediamo come.
Il municipio di Amantea
Amantea, che ha circa 13mila e rotti abitanti, dovrebbe pareggiare il Bilancio con più o meno 12 milioni di euro. Ciò basta a far capire come il debito, gestibile o fisiologico in città più grandi, possa risultare micidiale e quindi ripiombare la città nel dissesto. Il problema, come per il capoluogo, è soprattutto il mancato incasso dei tributi comunali, relativi alla rete idrica, alla Tari e alla Tasi, che sfiora percentuali da capogiro, che si attestano attorno al 60%.
Ma c’è di peggio: molti esercenti e residenti non ricevono le tasse da circa due anni e tutto lascia pensare che il default, il secondo in meno di 10 anni sia un’ipotesi quasi certa.
Di fronte a questo disastro, la ’ndrangheta, che pure c’è e condiziona tantissimo, potrebbe non essere il male principale.
Tutto mafia è?
La prima emersione giudiziaria dei retroscena amanteani è nell’ordinanza di “Omnia”, la maxi operazione antimafia condotta nel 2007 dalla Dda contro i Forastefano di Cassano. Cosa curiosa per un’inchiesta gestita dai Carabinieri del Ros, il nome di Franco La Rupa, all’epoca dei fatti (2005) sindaco di Amantea, vi appare grazie a una velina della Digos, che lo tampinava da tempo: secondo i poliziotti, La Rupa trescava con Antonio Forastefano, detto “il Diavolo”, per ottenerne l’appoggio nelle Amministrative regionali a cui partecipava in quota Udeur.
Franco La Rupa
In seguito alle accuse di Omnia, La Rupa finì in galera e subì un procedimento che, tra vicende alterne, è terminato nel 2018 con la sua condanna definitivaa cui è seguita l’interdizione dai pubblici uffici e l’applicazione della sorveglianza speciale.
I problemi di La Rupa non finiscono qui: nel 2007 l’ex sindaco finì in un altro guaio grosso, assieme a un suo ex sodale, Tommaso Signorelli, suo compagno di avventura fino al 2004. Ci si riferisce all’operazione “Nepetia”, in cui era emersa l’eccessiva vicinanza dei due amministratori al boss Tommaso Gentile.
Per amor di verità, occorre ricordare che La Rupa e Signorelli sono risultati prosciolti dal processo Nepetia. Ma ciò non è bastato, evidentemente, al Prefetto e alla Commissione d’accesso, che menzionano i due a più riprese nella relazione inviata al ministro dell’Interno sulla base di un assunto: la loro vicinanza ai clan resterebbe comunque provata, anche a dispetto delle assoluzioni. Di più: a dispetto degli “omissis” La Rupa e Signorelli restano riconoscibilissimi, anche perché i loro nomi sono associati alle ultime elezioni amministrative, svoltesi nel 2017, in cui entrambi hanno avuto ruoli di primo piano. Signorelli come candidato sindaco e La Rupa come organizzatore della lista civica di Mario Pizzino, risultato vincitore e poi commissariato.
Lo diciamo con tutto il garantismo possibile: quando la polvere è troppa, non la si può più nascondere.
Il disastro che viene dal passato
A settembre è franata una strada che collega il centro storico di Amantea alla marina. E non è stato possibile intervenire in alcun modo, anche perché il municipio era già con le pezze al sedere: sono rimasti otto funzionari, tre dei quali prossimi alla pensione e uno “a scavalco”, cioè che lavora non solo per Amantea. Il grosso dei servizi è appaltato, inoltre, a cooperative e aziende esterne e i fondi scarseggiano.
Il grande buco finanziario emerge tra il 2016 e il 2017, quando salta la maggioranza della sindaca Monica Sabatino, sostenuta dal Pd e vicina a Enza Bruno Bossio, e il Comune finisce in commissariamento.
Monica Sabatino
La sindaca Sabatino, tra l’altro figlia dello storico ragioniere del municipio, non presenta la relazione finale del suo mandato. Ciò spiega il successivo immobilismo di Pizzino, che scarica agevolmente ogni responsabilità sui predecessori. E spiega come mai i conti di Amantea somiglino un po’ troppo a quelli dell’Asp di Reggio Calabria. Cioè risultino misteriosi e, in buona parte “orali”. Ma il disastro risulta enorme e ha più responsabili. Soprattutto, non può essere imputato alla sola Sabatino e al solo Pizzino.
Occorre un ulteriore passo indietro. Cioè al dramma politico e alla tragedia umana di Franco Tonnara.
Morire col tricolore
Tonnara è il classico sindaco del “dopo”. È stato l’amministratore che si è dovuto far carico del post La Rupa. Proveniente anche lui dalla Dc, Franco Tonnara si candida nel 2006 contro una coalizione guidata dal superbig ex scudocrociato Mario Pirillo e da La Rupa. Vince ma paga dazio: nella sua giunta c’è Tommaso Signorelli, già sodale dell’ex sindaco. Come già accennato, Signorelli finisce nell’inchiesta Nepetia e il Comune subisce lo scioglimento nel 2008.
Per fortuna dura poco: l’anno successivo Tonnara e i suoi vincono il ricorso al Consiglio di Stato e vengono reintegrati con tante scuse e un cospicuo risarcimento. La giunta Tonnara si ripresenta nel 2011 e rivince a man bassa. Ma l’ebrezza dura poco, perché il sindaco muore poco dopo di un brutto tumore allo stomaco e Amantea torna al voto nel 2014, dopo tre anni di reggenza del vicesindaco Michele Vadacchino. Vince la Sabatino e tutto il resto è storia nota. O quasi.
Coppole e debiti
Potrebbe essere una scena degna di un film di Cetto La Qualunque: durante la campagna elettorale del 2017, Pizzino ringrazia dal palco Franco La Rupa. La Rupa, spiega la relazione del prefetto, si sarebbe dato dato un gran da fare per organizzare la lista che porta Pizzino alla vittoria. Anzi, si è dato da fare un po’ troppo: la lista si chiama “Azzurra”, proprio come le liste che ha organizzato nei suoi anni d’oro. Ancora: nell’aiutare a compilarla, l’ex sindaco non sarebbe andato troppo per il sottile. Infatti, pende a suo carico un’inchiesta per intimidazione, in cui è rimasto coinvolto anche Marcello Socievole, un consigliere di maggioranza costretto alle dimissioni nel 2018.
Mario Pizzino
Tuttavia, questi non sono i problemi principali, perché, come si apprende ancora dalla relazione del Prefetto, il Bilancio resta un’entità virtuale e il Comune continua a non incassare. In particolare, varie aziende e cooperative non pagano i tributi. A scavare un po’ più a fondo, ci si accorge che in alcune di queste lavorano o hanno ruoli importanti persone imparentate con i boss di Amantea e altri personaggi, legati a loro volta ai clan di Lamezia e Gioia Tauro.
Non è il caso di approfondire oltre, perché si rischia di scrivere intere pagine di storia criminale. Che però non basterebbero a spiegare perché una cittadina una volta ricca e aperta sia finita in un declino così profondo e, probabilmente, con poche vie d’uscita.
La ex regina si prepara al voto per la prossima primavera. Ancora non è dato capire chi si sacrificherà per sanare un disastro nato in lire a fine ’90 e poi esploso in euro.
Nel frattempo, il territorio è presidiato in continuazione dai Carabinieri ed è pieno di poliziotti in borghese. Come se non bastasse, gli elicotteri dell’Arma sorvolano di continuo la città, che sembra vivere un paradossale coprifuoco.
Gli anni ’80 sono lontani e irrecuperabili. Ma, in queste condizioni, anche la normalità sembra un miraggio.
Prima che Cosenza diventasse lunga e scheletrica com’è adesso, l’Unical di Arcavacata, la prima Università dei calabresi, fu per molti di noi provinciali un incubatoio di vite in movimento. L’università è stata la nostra Utopia. Oggi è semplicemente il serbatoio di Cosenza, il suo unico motore sociale, la linfa vitale che nutre tutta l’area vasta. Tra quei cubi da paesaggio surrealista ha messo radici il progresso disunito di questa Calabria, e anche buona parte della vita di sponda della Cosenza di adesso si gioca lì. Un progresso che per noi generazione di arcavacanti si è affacciato sull’orlo della Storia, e subito si è dato via con un risucchio, attratto all’indietro da una forza d’entropia.
Ora gli studenti del campus sono circa quarantamila. Ma l’università sembra un altro pezzo sfuso del domino di periferie senza centro che si allarga oltre il villaggio totale di Cosenza e di Rende. Ordinata ed efficiente in apparenza, ordinaria, spenta e molto normalizzata vista da dentro. Se quel posto ha cambiato da giovani la vita di molti di noi, non ha però cambiato granché Cosenza e la Calabria intorno. È andato tutto poco oltre la sua cerchia. Fuori è arrivato poco. Ma dopotutto, qualcosa di quello che è accaduto lì ad Arca ancora resta significativo: in fondo è la storia di un sogno. E un sogno frantumato si espia lungo la storia come una pena.
L’Arca di Cosenza
Studenti sul ponte Bucci all’Unical prima della pandemia
L’affresco post-meridionale della sua parabola è diventato l’allegoria capziosa di un’antropologia del casino calabrese. Dove il casino è tutto contemporaneo, ma stratificato e multiforme, una sinossi della storia che ancora sale di spessore come un soufflé ma non cancella nessuno degli strati irrisolti che vengono a galla dal bolo di un passato mai veramente oltrepassato, rubricato e digerito. L’Arca di Cosenza è un’erma bifronte, un sistema perfetto. Doveva essere l’inizio di un tempo nuovo. La rinascita, il meridionalismo applicato bene, il riscatto dei figli delle plebi, il trionfo della cultura meridionale.
Delle facoltà di un tempo oggi sono rimaste le sigle da app alla moda, i Cal park, l’innovescion solo digitale, un recinto di poteri convergenti controllato da vecchi e nuovi lupi d’accademia. Ma quelli di adesso non fanno sogni d’utopia e non sanno insegnare come i buoni e i cattivi maestri di una volta, non sanno amare e non sanno scrivere bei libri. Sono lupi senza nulla di seducente, famelici e basta. In fondo in lingua calabra Arcavacata, il posto in cui è cresciuta l’università, significa “arca-vuota”, vacante, svaligiata. Un luogo dissacrato.
Vecchie e nuove diarchie
E a Cosenza da dove si ricomincia? Come si ricostruisce l’idea di un orizzonte comune, un’immagine di città? Cosenza oggi fa fatica a ritrovare i suoi simboli dopo il tramonto della sua grandeur provinciale, che si trascina ancora nella retorica un po’ stucchevole di “Atene delle Calabrie”, difficile da rinverdire. Come rimettere in piedi una classe dirigente credibile e adeguata ai tempi, dopo i fasti della Prima Repubblica, scandita da personalità discusse ma di grande rilievo come Mancini e Misasi.
Dopo i due dioscuri cosentini, ministri della modernizzazione, del rigonfiamento terziario, delle opere pubbliche e del cemento, gli ormoni che hanno ingrandito a dismisura la nuova Cosenza senza farne però un organismo urbano dalla fisionomia compiuta, gli anni più vicini a noi sono stati quelli di una diarchia minore che ha però comandato da Cosenza sulla Calabria intera, regnando sui palazzi della politica cittadina, provinciale e regionale.
Mario Occhiuto e Mario Oliverio a Palazzo dei Bruzi
L’era dei due proconsoli, oggi tramontati e superati dai successori (anche in linea dinastica). L’età dei “due Maruzzi”, Occhiuto e Oliverio, di cui restano a futura memoria le feroci contrapposizioni e gli incroci di interessi trasversali, lo sciupio di luminarie e concertoni, i rodeo di cowboy in Sila e altre discutibili imprese. Da viale Parco incompiuto al tentativo abortito della metropolitana di superficie, fino alla celebrazione dei fasti di seconda mano dell’isola pedonale e del museo all’aperto su corso Mazzini.
Il tramonto della cultura
Una città che dall’avere avuto in passato un assessore alla Cultura di prestigio come Giorgio Manacorda, opta per non averne più(ancora oggi, sotto il neosindaco Caruso) neanche uno. Un movimento musicale e teatrale ormai privo di riferimenti, con la crisi cronica del teatro di tradizione Rendano, con la fine della leggenda off del Teatro dell’Acquario (diventato un bistrot) e con lo stop definitivo dato alla prosa pubblica, cessata a Cosenza con il Teatro Stabile di Produzione, il Morelli (oramai disabilitato, ma diretto in passato da uno scrittore come Enzo Siciliano), la vita culturale della città di Telesio è scesa dalle poltrone di velluto della cultura dei salotti buoni di un tempo alle parodie postmoderne dell’impegno.
La Fiera di San Giuseppe a Cosenza
Il declassamento è presto approdato ai surrogati ultra popdegli “eventi” e degli happening piccoli e grandi, come la fiera di San Giuseppe, i concertoni di Capodanno, la Festa del cioccolato sul corso. E anche peggio alla quota dei festivalini celebrativi dell’eclettismo post-tutto intitolati a invasioni e re barbarici, fino alle celebrazioni elevate a idoli identitari farlocchi. Mentre servizi pubblici, scuole, istituzioni e centri culturali con alle spalle tradizioni centenarie presenti in città rimangono orfani e languenti, la Casa della Culture sbarrata, biblioteche e importanti archivi pubblici disertati e allo sbando.
La città tra resistenza e retorica
Qualche residuo fermento antagonista e qualche punto di resistenza culturale e civica sopravvive comunque o ha fatto in città storia recente: l’eredità del collettivo Gramna, Radio Ciroma, i gruppi di lotta per la casa, gli attivisti per il centro storico e i beni pubblici, un po’ di associazionismo laico e di solidarismo cattolico, una piccola casa editrice indipendente, CoEssenza, che anima il centro storico abbandonato, e una casa editrice senior che nonostante la crisi festeggia i settant’anni di vita (Pellegrini, la più antica fondata in Calabria e attiva a Cosenza dal 1952, con più di 5.000 titoli in catalogo).
Ironia e devozione al cuddrurieddru sui muri di Portapiana a Cosenza
Pochi simulacri di gusti popolari, trasversali e bipartisan, facilmente assimilabili al neofolklore cittadino, sopravvivono strenuamente all’omologazione. Superimposti, aldisopra di tutto e sempre presenti nella fiorente retorica identitaria che a Cosenza abbonda e celebra gli sparuti simboli eredità di una presunta autenticità e di un passato metastorico in cui si fatica a riconoscersi. Fin troppo elementari però, anzi alimentari, se il richiamo di consolazione sempre più sbiadito da opporre alla crisi di valori e al caos dei tempi nuovi è quello offerto dalla insuperata triade gastronomica di tradizionelocale formata da scirubbetta invernale (neve e miele di fichi), dal must silano delle patate ‘mbacchiuse (patate al tegame), e infine dal trionfo incontrastato dei sempiterni cuddrurieddri, le ciambelle fritte (prodotto non originalissimo in verità) presenti in ogni stagione e in ogni dove, assunte in funzione totemica, autentiche e insuperabili colonne d’ercole della più autentica distinzione cittadina.
Un patto civico
Ma quel che difetta oggi in città è, soprattutto, il tratto culturale, una tradizione di stile che contraddistingueva un tempo non solo le elìtes vere, ma segnava il carattere stesso dei cosentini. Una sorta di principio fondativo, di patto civico. Doti che certo non facevano difetto tra gli intellettuali e le diverse famiglie politiche cosentine del passato, intorno alle quali si tenevano circoli e cenacoli culturali come quelli che si formarono intorno a personalità di opposte appartenenze ideologiche, ma di pari valore cultuale e peso politico.
Dario Antoniozzi
Figure colte e appassionate come quelle dei comunisti Gino Picciotto (che fu il primo a sollevare le questioni del centro storico abbandonato già alla fine degli anni ’80) e di Umile Peluso; di democristiani interpreti delle istanze del solidarismo cattolico e popolare come Riccardo Misasi e Dario Antoniozzi; di fuoriclasse della politica ragionata in forma di diritto e di azione riformatrice come Fausto Gullo e Giacomo Mancini, a cui si deve nel 1949 l’istituzione del prestigioso Premio Sila, riesumato dall’oblio nel 2010 per volontà della Fondazione Premio Sila, attiva in città con appuntamenti letterari e un premio nazionale.
Ritratto di un califfo
Quello stesso Mancini a lungo idolatrato come idealtypus weberiano del cosentino da esportazione, il cui carisma di grande politico, insieme all’indubbia caratura culturale, risaltano anche da un indimenticabile ritratto a firma di Gianpaolo Pansa (in una pagina de La Repubblica del 1987). Quando Pansa lodando la raffinata retorica della “orazione manciniana”, definiva Mancini «Califfo di Calabria». Poche righe, ma balza fuori prepotente la sua personalità da ottimato, il notabile di un Sud giunto al successo della scena politica nazionale.
Giacomo Mancini
Il socialista modernizzatore e l’uomo di Stato che non perde però – nelle più pastose pennellate del dipinto di Pansa- il suo tratto aristocratico e l’aura da gran provinciale, con quel suo parlare lento e colto e le sz arrotate da cosentino di lignaggio, con «quel profilo da gran signore che tutto ha visto e tutto ricorda, quelle occhiate di sbieco che suggeriscono tante cose, quell’eloquio lento e solenne, senza impennate, le parole bene incise dalla voce nasale ma ricca di zeta che son lame di rasoio».
La classe dirigente dei galoppini
Pansa senza saperlo metteva in enfasi in Mancini anche quel tratto di vanità colta e di autorevolezza affluente che tutta l’intellighèntzia cosentina di un tempo aveva ereditato o appreso a forza di educazione colta e di buoni studi, senza i quali non si faceva politica e non si diventava classe dirigente. Una classe dirigente tutta passata, sino agli anni del boom, dalle severe e pensose aule neoclassiche del prestigioso liceo-ginnasio Bernardino Telesio.
A sostituirla sulla scena politica cittadina di oggi, sbriciolati i partiti e le ideologie novecentesche, è il rampantismo social di un generone politico ignorante e rozzo, specie antagonista naturale di libri e sensibilità culturale, ma sempre in primo piano, fungibile e riposizionabile a piacere, che vanta gli addottoramenti dell’università della strada e carriere veloci percorse all’Asp o a Calabria Verde, per lo più formato da galoppini ed ex portaborse, tenutari di clientele spesso eredità di notabili di terza fila della vecchia politica non ancora in disarmo.
Princìpi condivisi
Gli ultimi testimoni di quella stagione trascorsa della buona politica cosentina, raccontano invece un tratto colto e dialogante che, dalla politica al costume, quale che fosse poi il colore di queste élite cittadine, improntava lo stile della vita collettiva sino agli strati più popolari. Formando una solida comunità di presupposti di convivenza e di princìpi civici e culturali condivisi. Significava saper stare al gioco della dialettica, saper tollerare e comprendere le ragioni opposte alle proprie.
C’era un peso per la cultura e i per i ragionamenti. Le parole spese nella dialettica che alimentava la cultura e il dialogo politico tra questi grandi cosentini del secolo appena trascorso che frequentavano i libri e parlavano un italiano di buon gusto erano un contributo devoluto sempre alla causa della convivenza civile. Anche nella polemica più aspra c’era il sapore della civile conversazione, della conoscenza progredita, del pensiero alto e della buona critica.
Lo stile smarrito
Era un costume, una postura di stile a cui la città aderì fino a quando si sentì provincia colta e civile, ancora lontana dalle smanie degli arruffapopolo in cerca d’autore e dei palazzinari speculatori con la fissa della Grande Cosenza. Ora Cosenza è una città che ha smarrito lo stile, la misura di una terza via che non sia quella punzonata dal potere avventizio degli snob dialettofoni e ignoranti al potere, dei radical chic con risvoltino e premio letterario prêt-à-porter.
Auto sul ponte di Calatrava
Quella dei nuovi ricchi col Suv, della cricca dei populisti più rozzi che fanno la gara ai quattrini con gli ipermercati e il nuovo cemento spalmato in giro dagli immobiliaristi d’assalto. Quelli della Cosengeles dei grattacieli tirati su ben oltre i 15 piani, gli artefici della stesa di cemento sterile e privo di socialità che ha stampato la stecca di casermoni stile eclettico e finto international style che adesso corre ininterrotta dal nuovo land marker artificiale del più recente ponte sul Crati, opera modaiola e seriale dell’archistar Calatrava. Un blob di conglomerati edilizi che, scivolando da Macchiabella di via Popilia primo lotto, oltrepassa abbondantemente la frangia di Quattromiglia, fino a spandersi oltre gli ultimi compound dei capannoni di concessionarie di auto di lusso e dei lotti dell’area industriale di Rende-Castiglione Cosentino-Montalto.
Il fantasma della città
Di notte il fantasma scheletrico della nuova Cosenza sbiadisce nel gelo umido della valle del Crati distesa nelle luci fatue di questa Cosengeles disciolta nel buio intermittente dei suburbi. L’oblunga città-stradale, cullata da un’inquietudine che lentamente illumina il paesaggio fuori dalle auto che sfilano tra le cortine di costruzioni nuove e gli scheletri di palazzine mezzo abitate sorte tra gli spigoli di campagne smangiate, ormai guaste e desolate. Così per evitare la sensazione disunita e precaria che si apre sulle albe insonni di certe strane giornate, qualche volta cambio strada e vado a guardare la città dall’alto.
Dalla rotabile che dai quartieri in collina porta dentro la città dal canalone di Laurignano, fin dentro le vecchie case della Riforma, vicino ai padiglioni scorticati dell’ospedale dell’Annunziata, e poi si perde dentro il labirinto dei cantieri non finiti, tra le strade provvisorie e senza nome dei nuovi lotti dietro via Popilia e Malavicina.
Sotto la luce stordita di pochi lampioni la città nuova si macchia di una consistenza fatua e polverosa, ha qualcosa di stregato. Già dalla strada di mezza costa verso la città, i grossi pezzi del Lego che compongono i quartieri nuovi distesi come una colata di lava rappresa nella lunga valle del Crati, diventano immagini inutilmente vaste, imprecise e sfocate. I semafori si illuminano esitanti sul giallo, qualche corriera di linea parte per destinazioni più lontane dalla stazione degli autobus e qualcun’altra si infila stancamente lungo il viale degli arrivi, già carico di studenti e pendolari raccolti dalle pensiline dei paesi della provincia.
L’autostazione a Cosenza
I piazzali della stazione dei bus già molto prima del mattino sono fitti di impiegati partiti nel cuore della notte per arrivare in tempo negli uffici. Le facce smunte e intontite dal sonno delle donne ucraine che vanno a prendere servizio nelle case borghesi, o che staccano da una notte passata a fare le pulizie nei condomini. Il resto della ressa sono migranti, operai e manovali dei paesi che devono ancora arrivare a destino, comandati come me ad aprire svogliatamente il turno della vita del mattino.
Hinterland, traffico e casermoni
Poi il traffico si riversa di nuovo alla periferia nord di Cosengeles, dalle parti di Roges, dove si distende l’hinterland assiepato di enormi casermoni squadrati e di crocevia illuminati da grandi lampade che guidano come rastrelliere il traffico dei viali verso l’imbocco dell’autostrada. Ancora oltre, il traffico va a sfiatare verso l’università e la statale che riporta alle colline scure della vecchia Arintha e alla branca della 107.
Il Tirreno visto dalle montagne tra Cosenza e Paola
Lì la strada si lascia alle spalle le ultime sagome della Grande Cosenza, e risalendo prende la rincorsa per prepararsi a scavalcare tra una spira di tornanti la sella più alta dell’Appennino, precipitando subito dopo dall’altra parte della costiera fino a Paola. Solo in quel punto gli ultimi sentieri della grande periferia sembrano assottigliarsi e scomparire, dileguando i loro confini contro il buio denso e magnetico della montagna che separa Cosenza dal Tirreno, col mattino che si apre già davanti al presagio del mare e ai suoi spazi smisurati. [continua…]
Il tentativo dell’amministrazione Occhiuto di trasformare Alarico in un brand e di dedicargli un museo virtuale non ha funzionato, come ribadiscono anche alcune disavventure amministrative non proprio leggere. L’attuale sindaco Franz Caruso, ha dichiarato di preferire Telesio al re barbaro, mettendo probabilmente una pietra tombale su tutta la vicenda.
In Alarico la storia universale si mescola a quella locale, com’è avvenuto a Cosenza, dove il re goto sarebbe morto di malaria e quindi, sarebbe stato sepolto nel letto del fiume Busento, deviato per l’occasione, come tramanda la bella poesia di August von Platen.
Ma il dibattito, anche acceso, esploso sui social prova anche che Alarico continua a “fare immaginario”. Abbiamo chiesto al famoso storico del Medioevo, Franco Cardini, cosa ne pensa della questione Alarico.
Quanto c’è di vero o di verosimile in questa leggenda?
«Quanto ci sia di vero non è mai stato accertato. La verosimiglianza è valutabile in relazione a usanze funebri variamente attestate in ambito tanto celtogermanico quanto uraloaltaico (specie le sepolture equestri)».
Assieme ad Alarico e al suo cavallo sarebbe stato seppellito il tesoro razziato dai visigoti a Roma. Esiste davvero questo tesoro?
«Sepolture principesche caratterizzate da ricchi e preziosi corredi sono attestate. Per quanto Alarico fosse cristiano ariano, è probabile che, dato il suo rango principesco, le antiche tradizioni folkloriche gote fossero in qualche modo rispettate. Quella del “tesoro” razziato a Roma e sepolto nell’alveo del Busento sembra avere tutti i caratteri della leggenda folklorica».
A Cosenza si è tentato di trasformare Alarico in un brand e di dedicargli, addirittura, un museo virtuale. Queste operazioni “simboliche” possono avere un senso? E, se sì, quale?
«Credo che, più che “simbolica”, l’iniziativa in questione dipenda in parte dalla prospettiva di costruirvi sopra un business e in parte dalla speranza che tutto ciò costituisca uno scoop. Ora, business e scoop hanno senza dubbio entrambi un senso e uno scopo nella società attuale. In questo caso, tuttavia, parliamo di un problema “simbolico”: simbolico di che? Simbolico a che scopo? L’Alarico-“barbaro” e l’Alarico-“eroe” sono entrambe dimensioni scarsamente spendibili oggi a livello mediatico, a meno d’introdurvi al riguardo criteri di “radicamento” e di “identità” oppure, al contrario, di cancel culture, che mi parrebbero entrambi sciocchi e inopportuni».
La gaffe sul tesoro di Alarico diventato di “Talarico” nel totem della Regione Calabria
Veniamo al punto centrale: barbaro distruttore per molti, figura eroica per altri. A quale di questi schemi corrisponde Alarico?
«Si tratta, appunto, di schemi valutativi: per giunta di carattere etico-retorico, soggetti ai cambiamenti di interpretazione delle vicende storiche e alle corrispondenti tavole di valori».
Non parliamo di un problema storico, insomma. Il sacco visigotico dell’Urbe fu un evento traumatico, considerato da tanti come il colpo letale all’impero e alla civiltà romane. Tuttavia, Alarico è considerato quasi un papà della patria da tedeschi e spagnoli. Come mai questa ambivalenza?
«Anche la valutazione da dare dell’evento del 410 deve essere spogliata da qualunque valore retorico o simbologico se si vuol darne una lettura storica. In realtà, ai primi del V secolo Roma aveva largamente perduto il suo carattere di centro politico e militare, mentre anche sul piano religioso il suo vescovo non aveva ancora la funzione che avrebbe avuto più tardi. Peraltro quella di Alarico fu più un’occupazione transitoria che un vero e proprio sistematico saccheggio (ben più grave sarebbe stato l’evento del 1527). La “paternità patria” di Alarico per tedeschi e spagnoli, a sua volta molto relativa, riguarda i secoli XVIII-XIX, quando questi valori venivano più densamente espressi».
Sempre a proposito di mito: i nazisti subirono la fascinazione di Alarico. Al punto che Himmler inviò degli agenti in Calabria per trovare le tracce della leggenda.
«Tutto va naturalmente riferito alla mitologia politica filobarbarica e postromantica che alcuni ambienti del governo e delle organizzazioni culturali nazionalsocialiste favorivano, con una buona dose di medievalismo wagneriano. Come in altri casi (l’interesse per il buddhismo-induismo che condusse a spedizioni antropologiche tra India e Himalaya, e quello per il catarismo, che comportò indagini nell’area pirenaica di Montségur), l’interesse nazista per il germanesimo – e quindi la rivendicazione di tutto quel che apparisse “germanico” – non condusse a esiti specifici sotto il profilo scientifico: nulla di paragonabile, ad esempio, rispetto al rapporto tra fascismo e romanità in tutti i loro aspetti. Tuttavia, nell’àmbito dell’organizzazione di ricerche archeologico-antropologiche della società Ahnenerbe (“Eredità degli avi”), sostenuta con forza dagli alti comandi delle SS, alcuni studi furono seri e interessanti: basti al riguardo il nome del grande Franz Altheim, che vi collaborò».
La brochure del Comune di Cosenza destinata ai turisti con la contestatissima foto di Himmler
Il tardo antico è un periodo storico suggestivo, carico di contraddizioni, come tutte le fasi di passaggio. È possibile esprimere un giudizio equilibrato sui capi barbari, più o meno romanizzati, che ne furono protagonisti?
«Tutte le fasi storiche sono, per un verso, “di passaggio”; e, per un altro, sono “convenzionali”, appartengono cioè più ai dibattiti storiografici che non alle realtà storiche effettive. I “capi barbari” in contatto con l’impero romano vanno pertanto considerati anzitutto appunto nel loro rapporto con una realtà dinamica caratterizzata però da grande flessibilità (basta pensare all’intelligenza, all’apertura e alla sensibilità con la quale l’impero guardava ai culti religiosi: se e quando in tale àmbito vi furono scontri, ciò va fatto risalire al rigore inflessibile di alcuni di quei culti, non all’incomprensione o al fanatismo romani che in genere non c’erano).
I capi barbari in contatto con l’impero furono molto spesso personaggi eccezionali, di grande intelligenza, in grado di mantenere la loro identità e di adattarla alle esigenze di un dialogo portatore di nuove sintesi. Casi come quelli di Ezio, di Stilicone, di Ataulfo, di Odoacre, di Teodorico, di Clodoveo, di Rotari, di Liutprando, sono per intelligenza, per lungimiranza, per cultura, la regola anziché l’eccezione. All’estremità di questo percorso c’è Carlomagno».
Dovrebbe essere sfatata l’idea dei barbari come “distruttori”?
«Dovrebbe senza dubbio: se tale idea esistesse o fosse mai esistita sul serio. In realtà, la “tesi” incolta e patriottarda dei “barbari germanici” quali distruttori dell’impero (che non a caso fa il paio con l’altra altrettanto ridicola e assurda, quella anticlericale del cristianesimo e dei cristiani come causa della decadenza e della caduta dell’impero romano) non è mai stata sostenuta sul serio da nessuno studioso valido, a parte qualche boutade spinta da esponenti dell’illuminismo più screditato e scadente: appartiene al sottobosco delle idee veicolate da dilettanti semicolti nell’ambito di una sottocultura-pseudocultura che è dura a morire proprio perché è troppo labile per uscire allo scoperto e confrontarsi in modo qualificato con la critica scientifica seria».
Particolare della statua di Alarico a Cosenza (foto Alfonso Bombini)
Perciò, non avendo mai prodotto nulla di serio e d’interessante, questa pseudocultura non è mai stata neppure degnata di una confutazione approfondita e sistematica. Ma, dal momento che non ha mai influito su nulla di scientificamente apprezzabile, riemerge di continuo a livelli di sostanziale ignoranza. Purtroppo la frana progressiva – e quindi la caduta a picco del tono culturale medio della società occidentale in genere, italiana in particolare, tipico degli ultimi decenni – ha finito col fornire un’autorevolezza specie mediatica del tutto fittizia e gratuita a solenni sciocchezze o addirittura a ridicole idiozie che hanno purtroppo libertà di diffondersi liberamente nei vari canali dei social. La falsa cultura acriticamente presa sul serio è una delle funzioni principali dell’analfabetizzazione della società in corso».
Codici rossi Interpol, estradizione, qualche mese di galera senza processo in Ucraina e, soprattutto, una bella rasatura dal barbiere. C’è un po’ di tutto nel video che Fernando Martinez Vela (queste le generalità indicate nell’account Youtube da cui posta i suoi messaggi) ha voluto dedicare al nostro collega Vincenzo Imperitura e condividiamo poche righe più giù. Vincenzo, infatti, pur tifando Reggina e non avendo mai incontrato in vita sua il presidente del Cosenza Calcio (che questo giornale ha peraltro attaccato più volte fin dal suo primo numero), Eugenio Guarascio, sarebbe un «amico de Guaracho». Mica un cronista che ha fatto il suo mestiere raccontando in un articolo le stranezze che hanno riguardato l’ipotetica compravendita della società rossoblù negli ultimi dieci giorni. Lo dicono i «soci in Calabria» di Vela e chi siamo noi diretti interessati per smentirli?
Un consiglio
Così, ecco un bel video anche per lui, dopo quelli di Fernando e altri su “Guaracho” apparsi nell’ultima settimana. È un «buonissimo consiglio» – ci tiene a precisare il presunto intermediario della sorprendente trattativa – e non certo «una minaccia». Fesso chi pensa male solo perché Fernando suggerisce al nostro collega che, se non ritratta il suo scritto, potrebbe essere oggetto di uno «scambio di figurine» tra il Belpaese e l’Ucraina. L’Italia, d’altra parte, è sempre pronta a consegnare in giro per il mondo un suo cittadino se lo accusano di aver commesso un’ipotetica diffamazione a mezzo stampa. Un cittadino che, sottolinea con sobria eleganza Vela, per di più guadagna meno del suo giardiniere «in una settimana». E che ha pure la barba troppo in disordine per i gusti dei potenziali acquirenti dei Lupi.
La nostra posizione
Nell’esprimere la massima vicinanza a Vincenzo, l’intera redazione e il direttore de I Calabresi ribadiscono che proseguiranno il loro lavoro come sempre, senza curarsi di intimidazioni, vere o false che siano, e nell’esclusivo interesse dei loro lettori.
Ringrazio l’architetto Guido per la replica che condivido nelle parti in cui segnala le responsabilità legate alla mancanza di manutenzione dell’area archeologica scavata nel cuore di Cosenza nel corso degli anni ‘90. Lo stato di abbandono di piazzetta Toscano, a ridosso della Cattedrale, è palesemente il sintomo di un disinteresse e di una mancanza di cura che mi addolorano per il semplice fatto che, da “forestiero”, amo questa città.
Le opinioni da me espresse nell’articolo, che il giornale I Calabresi ha avuto la bontà di ospitare, sono maturate a seguito di una esperienza vissuta sul campo qualche mese fa e riflettono il mio stato d’animo allorquando mi sono trovato di fronte al degrado in cui versano non solo le antiche rovine, ma anche l’opera di architettura che avrebbe dovuto valorizzarle. Evidentemente qualcosa non ha funzionato.
Cercare colpe e colpevoli è un esercizio sterile a cui mi sottraggo. Dico solo, e propongo come tema di dibattito (non di polemica), che forse fra le cause del degrado -oltre all’incuria, e ripeto, alla evidente mancanza di manutenzione – vi è anche il riflesso di una visione assoluta dell’opera d’architettura come “oggetto autoreferenziale”. Un punto di vista che mette in secondo piano il contesto per affermare l’urgenza di un gesto di rottura in nome di una “Creatività Contemporanea” che, a mio avviso, ha fatto il suo tempo. Il concetto di manutenzione possibile e di accessibilità per tutti dovrebbe essere parte integrante del progetto di un’opera pubblica.
La domus romana
Quanto poi alla affermazione che «nessuna domus romana» è presente in loco, ma soltanto eterogenei lacerti di epoche diverse, rimando al saggio Le indagini archeologiche a piazzetta Toscano di S. Luppino e A. Tosti, contenuto nel Catalogo del Museo dei Brettii e degli Enotri, p.503 e seguenti. Confortato dalla letteratura specialistica segnalo quindi che l’architetto quando indossa il camice del chirurgo dovrebbe premurarsi di avere una conoscenza approfondita del corpo su cui interviene e dei suoi resti. Egli è stato chiamato allo scopo di proteggerli, valorizzarli e custodirli, perché quelle pietre ci parlano di Cosenza e della sua storia.
Spero con tutto il cuore che questo scambio di opinioni possa servire a sensibilizzare la cittadinanza e i suoi rappresentanti sull’urgenza di riprendere le fila di un’azione di rilancio del centro storico che purtroppo è caduta nell’oblio.
Il magnate uzbeko e la società londinese, il giornalista spagnolo e il faccendiere italiano: sembra una storiella di quando eravamo bambini e invece sono (alcuni) dei presunti protagonisti che dalla notte prima della vigilia di Natale rimbalzano tra i muri di Cosenza, raccontando dell’interesse di un potente oligarca nei confronti della squadra di calcio della città, da anni nelle mani del “re dei rifiuti”, Eugenio Guarascio. Una storia urlata da un piccolo sito sportivo napoletano e lievitata piano piano, rimbalzando sui social e sui media tradizionali fino ad arrivare sulla scrivania del patron rossoblu, che ha bollato tutto sotto la voce boutade.
Una storia che mischia nomi altisonanti, personaggi più che chiacchierati e funambolici appalti per “l’allargamento” del porto di Gioia Tauro o il waterfront di Lamezia. In attesa che le ruspe uzbeke spianino San Ferdinando per fare posto all’allargamento dello scalo, la storia della vendita del Cosenza, giorno dopo giorno, si arricchisce di nuovi improbabili elementi, in un caravanserraglio felliniano dove ormai mancano solo Gradisca e Saraghina.
https://www.youtube.com/watch?v=KkG-5Icd-zs
L’oligarca
In questa spystory dai contorni un po’ pecorecci, il ruolo da assoluto protagonista spetterebbe a Alisher Usmanov, quasi settantenne oligarca di origine uzbeka con un patrimonio stimato di 17 miliardi di dollari e un passato recente in club che hanno fatto la storia del football come l’Arsenal. Emerso da una prigione sovietica dopo sei anni di condanna (poi cancellata dal governo Putin), Usmanov si ritaglia un posto al sole con il nuovo regime.
Alisher Usmanov insieme a Vladimir Putin
Dirigente di primo piano di Gazprom, magnate dell’industria, alfiere della scherma e filantropo, Usmanov è stato a lungo sotto i riflettori dei media inglesi per le sue condotte più che spregiudicate negli affari, finendo anche sul taccuino dell’ex presidente Trump, a cui l’ala più oltranzista dei repubblicani si era appellata per ottenerne la messa all’indice. Famoso per avere un pessimo rapporto con la stampa non allineata, Usmanov avrebbe messo sul piatto 12 milioni di euro in tre trancheper ottenere il controllo del 90% del Cosenza Calcio.
L’ufficio stampa del gruppo del magnate uzbeko, però, ha tenuto a precisare con un’email alla nostra redazione che «le informazioni che indicavano Alisher Usmanov come possibile acquirente del club del calcio italiano Cosenza non corrispondono alla realtà. Il signor Usmanov non prende in considerazione né l’acquisto del club specificato, né di un altro club in Italia».
Calcio moderno
Partner di questa trattativa, ad andare dietro alle mille voci di questa strana vicenda, sarebbe la Devetia Limited, esempio paradigmatico della nuclearizzazione del calcio moderno. La società in questione, con base a Odessa, fu protagonista, in partnership con la inglese Media Sport Investment, della scalata al Corinthians, antica roccaforte brasiliana della “democratia” cantata da Socrates (l’ex stella della Selecao e leader anarchico della Fiorentina di prima anni ’80), e finita suo malgrado a vendersi e ricomprarsi giocatori che restavano di proprietà di Devetia e Msi.
Le future stelle Carlos Tevez e Javier Mascherano passano dal Corinthians al West Ham United: è il primo grande (e discusso) affare della Msi nel mondo del calcio
A rappresentare questa oscura società di intermediazione calcistica ci sarebbe poi – così racconta lo screenshot di una presunta pec inviata al rappresentante del Cosenza per confermare l’interessamento all’acquisto da parte del magnate Usmanov – l’avvocato Roberto Rodríguez Casas: già protagonista nelle tormentate trattative per il passaggio di mano di Malaga e Real Murcia ad altrettanti miliardari dell’est, il legale spagnolo è una vecchia conoscenza della giustizia iberica.
Nel 2011 finì agli arresti in una storia di riciclaggio di denaro proveniente dal business della droga sulle piazze della movida madrilena. Secondo gli investigatori sarebbe stato lui – difensore dell’uomo considerato a capo della mafia bulgara nella capitale spagnola – il punto di contatto con uno dei boss del narcotraffico.
La lettera di Rodríguez Casas che attesterebbe la veridicità della trattativa
Il circo
A confondere le acque ci sono poi una serie di link che da qualche giorno girano tra i cronisti di mezza Calabria. Vecchi articoli online in cui si parla di Guarascio come partner della Devetia con cui sarebbe in affari già dal 2014, oscuri blog spagnoli in cui si riferisce di un fantomatico processo a Odessa contro Campisano e Guarascio, del quale la magistratura locale avrebbe chiesto l’estradizione all’autorità giudiziaria italiana.
Il blog spagnolo che parla dei presunti legami in Brasile datati 2014 tra Guarascio e gli ipotetici acquirenti del Cosenza: il dettaglio sul presidente del Cosenza, però, da una verifica alla cache sarebbe stato aggiunto solo di recente al post
Secondo quanto si legge nei resoconti firmati con il nome del giornalista televisivo madrileno Ramon Fuentes – che sui social informa i suoi follower ogni volta che si soffia il naso e che retwitta compulsivamente ogni suo pezzo, meno, ovviamente, quelli che parlano di Guarascio e del Cosenza – i due sarebbero a processo (in Ucraina) per una presunta combine durante Pordenone–Cosenza e, testimone d’accusa, sarebbe Oleg Patakarcishvili, che della Devetia sarebbe il padre padrone.
Lo stesso blog spagnolo pochi giorni prima di Natale riferisce di un’inchiesta a Odessa sulla partita Pordenone-Cosenza
Un circo senza senso in cui è finito di tutto, anche una telefonata surreale, poi rimossa da Youtube, tra un rappresentante del Cosenza Calcio e i presunti rappresentanti del gruppo acquirente. Un circo dentro cui fa la sua figura anche il faccione di «Fernando del gruppo d’investitori Devetia», alias Fernando Martinez, che da sabato sera gira su Youtube con un video degno di Terry Gilliam.
Capello laccato e albero sullo sfondo, “Fernando del gruppo ecc” si rivolge direttamente al popolo, aizzandolo contro «Guaracho» e minacciando di portate a supporto delle sue tesi, testimoni «che hanno vinto la Champions e che non sono dilettanti come questo Guaracho». Un video che è un capolavoro di nonsense e che mischia «i lavori del porto di Lamezia che fruttano 3000 posti», presunte trattative con le squadre di mezzo pianeta e pistolotti di real politik sul marcio che gira nel calcio e dentro cui il suo gruppo, legittimamente, si pregia di prosperare.
Il precedente
Un circo da cui ci si aspetta, da un momento all’altro, un nuovo elemento che tenga alta l’attenzione su quello che succede attorno al Cosenza. Un circo su cui non è ancora calato il sipario e che ricorda da vicino la vicenda della scalata alla Lazio che Giorgio Chinaglia, oltre 15 anni fa, portò avanti a forza di bordate contro la dirigenza che «non voleva mostrare le carte». Nel 2006, il tribunale di Roma determinò l’arresto di “Long John”.
L’ex bandiera della Lazio e della nazionale era stato messo a capo di un fantomatico gruppo di miliardari dell’est che volevano allungare le mani sulla squadra della capitale, subentrando a Lotito, che quella squadra l’aveva presa dal crack Cragnotti e la cui luna di miele con la tifoseria biancoceleste era già finita da un pezzo. Una storia paradossale che, un paio di anni dopo, si arricchì di una nuova indagine della digos che dimostrò come dietro al fantomatico gruppo dell’est ci fossero i soldi dei Casalesi in combutta con criminali del calibro di Fabrizio “Diabolik” Piscitelli, giustiziato qualche anno dopo in un parco di Roma sud con un colpo alla nuca.
Fin dalla prima uscita de I Calabresi su queste pagine si è parlato del degrado del centro storico di Cosenza, l’ultima volta ospitando una riflessione di Giuliano Corti sullo stato in cui versa piazza Toscano. A quell’articolo diamo seguito ospitando le considerazioni del progettista della malridotta copertura che riveste l’area archeologica, l’architetto Marcello Guido. Una replica, quella di Guido, che pubblichiamo nella speranza che un dibattito allargato sia da stimolo per il recupero reale di un tesoro che appartiene a tutti.
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Gentile Direttore,
premetto che seguo la sua rivista e ne condivido le finalità culturali e di inchiesta volte ad una Calabria che tutti noi amiamo e vorremmo diversa rispetto alle criticità, purtroppo tante, che attanagliano la nostra regione.
Le scrivo dopo aver letto l’articolo dedicato a Piazza Toscano a firma di Giuliano Corti pubblicato sulla rivista che lei dirige e vorrei, in qualità di progettista dell’opera, fare alcune considerazioni su quanto scritto.
Puntuali, ogni due o tre anni, arrivano critiche e polemiche riguardanti Piazza Antonio Toscano, un’area del centro storico di Cosenza che, come architetto, ho avuto il compito di riprogettare alla fine degli anni ‘90 del secolo scorso. Sono abituato alla furia distruttiva di qualcuno che di volta in volta si scaglia contro questa opera. Alcuni anni fa, apparve finanche un cartello che invitava ad impiccarmi.
Il recente articolo intitolato “L’anima del centro storico contro l’orrore di vetro a piazza Toscano” solleva un’interpretazione nuova a cui risulta doveroso rispondere. L’articolo lascia intendere che sia stato il mio progetto di architettura a generare il degrado del luogo: opera demoniaca, poiché caratterizzata da un “furore compositivo che ha generato un mostro” si può leggere tra le numerose frasi di condanna. Chi conosce le cronache cosentine, sa bene che l’area retrostante il Duomo, nei decenni che hanno preceduto il mio intervento di ristrutturazione urbana, era caratterizzata da povertà, randagismo, spaccio e prostituzione, nonostante l’attivismo di associazioni e residenti che si sono mossi per denunciarne i problemi.
Bellezza e paure
Tra gli addetti ai lavori, sono molti quelli che ritengono Piazza Toscano un significativo esempio di architettura contemporanea. Le opere contemporanee suscitano sempre dibattito, soprattutto quando mettono in crisi dei valori precostituiti, sollevano dubbi, interrogano le coscienze. Tuttavia pensavo fossero finiti i tempi in cui si additassero le colpe del disagio sociale -e dell’inefficienza politica- ad opere d’arte o d’architettura giudicate degenerate.
L’autore del sopracitato articolo, riferendosi al mio progetto, ne riconosce lo status di “opera di ingegno” e lo descrive come una “macchinosa copertura in vetro [in] calcestruzzo e/o ferrame”, sentenziando che “laddove il brutto si afferma, lì si annida quasi sempre il disagio, l’emarginazione, l’orrore”. Ma le opinioni riflettono spesso paure subconsce, tanto che il brutto è solo ciò che non si uniforma ad astratti quanto personali standard estetici e morali. Per questo motivo, l’articolo non si limita ad una critica circostanziata al mio progetto, ma probabilmente esprime timori più profondi e radicati nei confronti di una società che non è in grado di offrire un’opera d’arte astrattamente bella e stabilizzante.
Nessuna manutenzione
In realtà, uno dei principali problemi che attanaglia Piazza Toscano e con essa anche gli altri beni storico-architettonici del centro storico di Cosenza, riguarda la manutenzione ordinaria e straordinaria. Purtroppo gli interventi sono stati troppo rari nel corso degli ultimi due decenni. L’erba è cresciuta indisturbata per anni nell’area archeologica e si sono accumulate buste di spazzatura e montagne di rifiuti in ogni angolo. Bande di teppisti hanno agito indisturbate, frantumando i vetri delle coperture e delle pavimentazioni, mentre altri malfattori hanno trafugato scossaline e pluviali indispensabili per la raccolta e il deflusso delle acque piovane. Inoltre diverse persone hanno utilizzato porzioni dell’area archeologica come spazio ricreativo dei propri animali domestici, preparandola a diventare un ricovero di randagi.
Erbacce sotto la struttura che sormonta piazzetta Toscano
Adesso con furia iconoclasta ci si scaglia contro l’opera architettonica e non contro il degrado che pervade quest’area al pari delle tante periferie urbane delle nostre città. Chiunque si sia mai dedicato ad un orto o un giardino, sa che la pulizia e l’estirpazione delle erbe infestanti richiedono un impegno continuo. In fondo, se si lasciasse la propria casa nell’incuria generale, senza pulire, buttare l’immondizia, scaricare l’acqua del bagno, senza raccogliere le deiezioni dei propri animali domestici, senza aggiustare un qualche vetro che si rompe, insomma senza fare le azioni quotidiane necessarie, la casa collasserebbe nel giro di pochi mesi. Perché ci si stupisce che Piazza Toscano, dopo anni di abbandono, abbia bisogno di interventi di manutenzione?
La funzione sociale
Sarebbe intelligente chiedere che venga svolto l’ordinario servizio di pulizia ed attivare dei tavoli di discussione tra i vari enti coinvolti nella gestione dell’area, promuovere delle campagne di educazione nelle scuole, sensibilizzare i cittadini organizzando visite guidate, dibattiti e attivando gli assistenti sociali quando necessario. Gridare allo sfascio, senza individuare responsabili e senza fare proposte concrete, invocando un’astratta quanto mitica “bella” architettura, rischia invece di assecondare il degrado.
Per comprendere la situazione attuale è necessario conoscere la storia dell’intervento. Il progetto di quella che veniva chiamata Piazzetta Toscano, dopo cinquant’anni di disinteresse e controversie, fu definito all’interno di un programma di rigenerazione urbana attuato da Giacomo Mancini alla fine degli anni ’90. È con l’amministrazione di allora che concordammo di realizzare uno spazio che svolgesse una funzione sociale, all’interno di un progetto molto più ampio di sistemazione complessiva della spina dorsale del centro storico della città, rappresentata dal Corso Telesio.
Duemila anni di storia
Si trattava di uno dei primi interventi intesi a rivitalizzare la città storica, e si scelse appositamente una delle aree più problematiche del centro storico di Cosenza. La necessità di una campagna di scavi archeologici intervenne in seguito al ritrovamento di reperti antichi, di cui si era ipotizzata la presenza sin dal progetto preliminare. Dopo un anno di lavori, si portò alla luce un’area archeologica molto complessa e di difficile lettura, fatta di stratificazioni diversissime che si incrociano tra loro, con giacenze su diversi piani e con presenza di murature che impediscono il deflusso naturale delle acque.
Tuttavia, quando si conosce poco la storia dei luoghi, si finisce per evocarla continuamente. Nessuna “domus romana” come è stato scritto, ma lacerti in cui sono visibili i traumi subiti da più di duemila anni di storia: tra i tanti reperti vi sono un enigmatico cilindro in muratura costruito in epoca rinascimentale, frammenti di epoca Bruzia, porzioni di mosaici e cocciopesti romani, un pozzo utilizzato nei secoli più recenti per conservare la neve, tronconi di murature di epoca medievale e contemporanea. Tracce di tumultuosi terremoti, distruzioni, assedi, incendi, sono presenti nell’articolata stratigrafia in cui si sono riscontrate sepolture frettolose fatte a seguito dei medesimi eventi.
Chirurgia e puzzle
Piazza Toscano rappresenta concettualmente una ferita causata da un’incisione chirurgica. Non a caso l’intervento di ristrutturazione urbana nasceva dalla suggestione di un corpo umano disteso sul tavolo operatorio. Il chirurgo e il suo team di collaboratori hanno la straordinaria possibilità di osservare gli organi interni prima di passare all’azione. Si voleva offrire ai cittadini l’opportunità rara di penetrare virtualmente nelle viscere della città, per offrire uno spettacolo unico ed educativo.
Addetti ai lavori impegnati a piazza Toscano
Si può osservare così un tessuto urbano frastagliato e stratificato, fatto di piccoli episodi e frammenti architettonici, spesso non correlati tra loro. Un puzzle scomposto, di difficile interpretazione anche per gli addetti ai lavori. Da qui l’esigenza della Soprintendenza di realizzare delle coperture di protezione dell’area archeologica. Sarebbe bello e utile che Comune e Soprintendenza si mettessero d’accordo sulla manutenzione ordinaria dell’area archeologica e affidassero a qualcuno la predisposizione di alcuni pannelli illustrativi per spiegare ai visitatori la complessità e la ricchezza rappresentata da quelle tracce storiche.
Il tema è dunque quello del difficile rapporto tra antico e nuovo, un rapporto da sempre conflittuale che vede contrapposte diverse linee di pensiero, sulle quali non mi soffermo per non ricadere in discorsi di natura accademica. Voglio solo sottolineare che la genesi del progetto nasce dal sottostante tessuto edilizio, scomposto e frastagliato, e ne ha assecondato lo schema. Il progetto fin dalla nascita ha suscitato in egual misura scandalo e consensi. Il fatto che sia stato approvato, a seguito di un articolato iter burocratico, con parere positivo del Comitato tecnico-scientifico del Ministero dei beni culturali, fa capire la complessità della questione.
Un riconoscimento per pochi
Recentemente il Ministero della Cultura, attraverso la Direzione Generale per la Creatività Contemporanea, ha incluso il progetto di sistemazione archeologica di Piazza Toscano in una lista di opere ritenute tra le più significative realizzazioni italiane del secondo Novecento. Piazza Toscano è uno dei pochi interventi realizzati da architetti ancora in vita, in quanto la maggior parte delle opere selezionate riguardano i maestri dell’architettura italiana del dopoguerra. Tra i progetti di architettura e di ingegneria calabresi realizzati negli ultimi vent’anni ce ne sono ben pochi che possono contare su questo riconoscimento. Un riconoscimento che a ben guardare non va a me, ma alla città di Cosenza, ai cittadini che dispongono di questo bene pubblico e alle maestranze calabresi che l’hanno costruito.
Gli interventi su piazza Toscano hanno riguardato anche gli edifici intorno ai ruderi romani
Ho avuto il piacere di illustrare il progetto in diverse università, di vederlo in mostra in Italia e all’estero, di vederlo pubblicato in riviste nazionali e internazionali, ma a volte mi chiedo che reazioni avrebbe suscitato una copertura in tubi innocenti, come se ne vedono tante nelle aree archeologiche. Oppure cosa sarebbe successo se avessi proposto delle semplici coperture a forma di capanna, magari con coppi di cotto (una sorta di presepe)?
Credo che avrei commesso una violenza inaudita nei confronti del tessuto storico e temo che sarebbe passato tutto nell’indifferenza generale, poiché avrei offerto una soluzione consolatoria o effimera, a seconda dei casi.
Il degrado del centro storico
Personalmente, nel mio fare professionale, affido particolare rilevanza alla qualità del progetto di architettura ed affido ad esso un ruolo “sociale”, nella consapevolezza che questo si debba configurare come una componente fondamentale del benessere e della qualità della vita. Ciò che fa discutere è il segno moderno nel contesto storico, ma qui si aprirebbe una discussione che va bel oltre queste poche righe.
Su una cosa sono d’accordo con l’articolo che mi ha sollecitato a scrivere: oggi l’area è completamente vandalizzata e ruderizzata, sia il giacimento archeologico che le strutture architettoniche, ma lo è anche l’intero centro storico che cade a pezzi. Gli abitanti e le attività economiche sono sempre meno e tutti insieme lanciano un grido di aiuto, ma anche un monito per l’intera comunità.
Ogni città con la sua storia, con i suoi simboli, con le sue architetture, con il suo via vai, ci parla di sé come luogo sociale, perché è la casa di molti. Ma ogni città, e in Calabria non sono parecchie, nello stesso tempo è un luogo dell’immaginazione e della costruzione dell’avvenire. Le città più dei paesi ci mostrano un tempo in movimento. Dove comincia Cosenza? Per me Cosenza, e tutto quello che rappresenta, comincia da Paola. Il posto in cui sono nato. E da cui sono sempre fuggito.
A portarmi via era, da ragazzino, la vecchia littorina della cremagliera, poi il bus di Preite, poi l’autostop, anche due volte al giorno. Cosenza per me era come una calamita di irrequietezza pura. Era Cosenza in my mind. Eppure i mei primi ricordi di Cosenza non sono affatto simpatici, anzi.
La prima volta che ci sbarcai, in treno, avevo al massimo otto anni, dopo la metà degli anni ’60. Era per passare una visita oculistica all’Enpas, negli ambulatori tetri di Via Miceli. Ero un bambino miope e i primi occhiali li misi proprio a Cosenza. Comprati dopo la visita con la ricetta dell’oculista dell’Enpas che si chiamava Cozza. E che mi mandò a prendere montatura e lenti da un ottico che si chiamava Cozza-Le Pera, su Corso Mazzini.
Una cartolina degli anni ’60
Ma il ricordo di quelle prime volte a Cosenza era anche scendere dalla littorina che sbuffava lenta e vedere ancora davanti alla stazione in centro le carrozzelle con i cavalli alla stanga e i cocchieri di piazza che davano la biada e le carrube da secchi di latta e sacchi di iuta alle bestie ferme coi paraocchi di cuoio in mezzo al traffico del primo mattino, già fumoso e strombazzante di 600 e vecchie Fiat Millecento. Si faceva sempre con mio padre una passeggiata e io mi incantavo davanti alle vetrine fornite di tutto dei negozi di Corso Mazzini. Era la cosa più vicina al cinema che avessi mai visto. Ma l’incanto più grande era quando si entrava nei “grandi magazzini”, i primi templi provinciali del consumo nati negli anni del Boom.
Delizie di Cosenza
Sul corso c’erano Bertucci e, soprattutto, la Standa. Quando si entrava alla Standa non era solo per comprare qualcosa che a Paola non c’era. Alla Standa c’erano le “Signorine”. Le mitiche commesse, giovani e belle, con le divise color pastello all’ultima moda e una specie di crestina o foulard in fronte. Erano tutte ben pettinate, con le unghie laccate di rosso e un bel rossetto vivace sulle labbra che sembravano attrici. Le voci e gli accenti flautati risuonavano ai microfoni per le chiamate alla cassa. Era un paradiso di delizie la Standa.
Clienti osservano le vetrine della Standa di Cosenza negli anni del Boom
Fuori si passava davanti a un chiosco di cravatte fornitissimo e poi ad un altro dove c’era una specie di pasticcere-acrobata, Ciccillo u caramellaro, che dietro un bancone fabbricava al momento caramelle. Stendeva la pasta di zucchero bollente e colorata manovrando spatole e attrezzi con l’abilità di un funambolo, poi quel serpente coloratissimo si trasformava in bastoncini di zucchero. Il resto lo tagliava con una forbice e spezzava in tocchetti grossi le caramelle che si vendevano a dozzine. Io prendevo sempre quelle frizzanti al limone, colorate a strisce di verde e di giallo. Poi c’era la fermata all’edicola vicino al Comune, dove per consolazione dei pianti che mi facevo per gli occhiali che non volevo mettere, papà mi comprava gli albi a fumetti del grande Blek e di Capitan Miki e pure le bustine delle figurine Panini. Prima o dopo il passaggio dall’ottico, che nel frattempo era diventato Ambrosio.
Enzo Giudice, “Cicciu ‘u cravattaru”, nel suo chiosco
Due personaggi da cinema
A quei tempi si incontravano per strada altre due strane attrazioni cosentine, personaggi eccentrici che ricordo nitidamente, come fossero usciti da un film. Il primo era un tizio dal fare dimesso con una cassetta di legno e dei santini in mano che chiedeva con molliccia e querula insistenza un’offerta per Sant’Antonio. Erano dieci lire, dieci lire: «Picciri’. mi ci metti dieci lire pe’ piaciri?». La richiesta mi metteva sempre a disagio.
Poco più avanti si parava una donna grassa con i capelli giallissimi, vestita con stoffe colorate, collane vistose e grandi orecchini. Aveva sul marciapiede del corso una specie di banchetto per le riffe dietro cui stava seduta come una matrona, e un pappagallo sulla spalla che se compravi un numero l’uccello a un suo comando tirava via col becco da una specie di rastrelliera di carta il biglietto corrispondente.
Giacinto Tarantino, “Cintuzzu i Sant’Antonio i l’uartu“, pochi anni fa su corso Mazzini
Poi c’era l’immancabile visita di devozione (mia madre ci teneva che lo facessimo) alla chiesa di San Francesco di Paola, appena sopra il ponte Garibaldi. E prima di tornare a piedi alla stazione a riprendere la cremagliera per Paola, papà comprava un pane caldo e fragrante insieme a una guantierina di paste da riportare a casa. Era tutto buonissimo. Così, da quei primi viaggi, presi da ragazzo l’abitudine, anzi il vizio, di Cosenza.
Il richiamo della città
Era un posto pieno di richiamo: aveva l’aria della città, Corso Mazzini, il Rendano, i palazzi grandi, i bar sempre pieni e i negozi con le vetrine e le commesse eleganti, le automobili nuove. Una delle scuse per salire a Cosenza erano i traffici con gli zingari accampati tra le baracche di Gergeri e via Popilia. Io e una banda di lucignoli del quartiere ferroviario nei giorni di filone salivamo sul trenino per Cosenza e passavamo da loro a vendere il rame raccattato lungo i binari della stazione e dai resti avanzati dai lavori sulla ferrovia sotto casa.
Ne ottenevamo in cambio un po’ di soldi e meglio ancora: fibbioni di ottone molto beat (quelli erano gli anni dei Beatles e dei teddy boys). Oggetti bellissimi di artigianato che in realtà erano per loro solo finimenti per cavalli, o anche le bellissime zingarole, gli scacciapensieri, forgiate da un fabbro al momento, con la linguetta di ferro che se non la sapevi suonare bene ti tagliava la lingua come una lama di rasoio.
Pane e rose
Poi quando divenni ancora un po’ più grande Cosenza la frequentai per la vecchia libreria Feltrinelli di Corso Telesio. Qualche volta, complice un vecchio funzionario del Psi messo lì a fare da libraio che chiudeva un occhio, rubavo i libri di letteratura e filosofia che non potevo comprarmi.
Dopo il pane, le rose. Le rose erano le scorribande a Piazza Kennedy e quel formicaio di ragazzine vocianti che si aggrappavano sotto le ali del monumento di Baccelli. Poi venne il tempo del Teatro dell’Acquario e il Centro RAT, gli spettacoli di prosa impegnati di Antonante, i seminari del Living di Julian Beck e Judith Malina, di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret, Mario Martone e Memé Perlini, la musica e le parole colte del teatro al buio, e quell’aria da off-Broadway di provincia che si respirava lì intorno.
La vecchia piazza Kennedy a Cosenza col monumento di Baccelli trasferito poi su viale Mancini
E poi lì, accanto alla sala dell’Acquario, c’erano le ballerine della scuola di danza della Sisca. Giravo sempre lì intorno. Le ragazze della scuola erano belle, sottili, diafane, eleganti, allegre e garrule come rondini di primavera. Poi per me venne il tempo serio e pensoso dell’Università di Arcavacata, Arca, la nostra Macondo. L’Arca di Noè del nostro diluvio generazionale. Arca fu l’incubatore della mia metamorfosi da figlio di ferroviere scapestrato e sognatore a studente modello di sinistra-incazzato-impegnato e, infine, professore.
Tempi moderni
E intanto mi accorgevo che anche Cosenza un anno dopo l’altro dilatava i suoi confini, cambiava di fisionomia. Diventava grande, sempre più grande e piena di palazzoni di cemento, nuovi, grigi e colorati, attraversati da strade piene di auto. Tutti segni che si vedevano già dai finestrini della Littorina prima di scendere alla stazioncina-capolinea di Cosenza-Piazza Bruzi. Di mezzo c’era passata altra storia e gli effetti della politica, i grandi cambiamenti, la “modernizzazione”. La fame di terra e la crescita del cemento in alto e in basso, dopo l’ininterrotta spinta urbanistica e speculativa iniziata negli anni del Boom, giunge al suo apice a Cosenza dopo che una richiesta di “depennamento dall’elenco delle zone sismiche di secondo grado” trova accoglimento alla fine degli anni ‘60.
Il limite di prudenza che aveva stabilito sino ad allora la sopraelevazione dei nuovi edifici in città “sino ad un massimo di cinque piani” fu innalzato con un provvedimento ad hoc approvato dai governi di centrosinistra dell’epoca. Decisivo l’accordo dei due massimi dioscuri della politica cosentina,Giacomo Mancini e Riccardo Misasi. Sono entrambi alfieri della modernizzazione calabrese al cemento e dell’espansione clientelare del terziario assistito, settori che infoltiranno le fila della pubblica amministrazione e della piccola borghesia urbana che in quel momento rappresentano il contingente più significativo della nuova popolazione inurbata che affollerà la Cosenza in espansione di quegli anni.
Giacomo Mancini al tavolo delle trattative per la formazione del primo governo Andreotti
Il sacco di Cosenza
L’elevazione delle nuove costruzioni oltre il limite del quinto piano, svecchiando l’aspetto urbanistico della città, “avrebbe inoltre reso accessibile alle classi meno abbienti l’acquisto dell’alloggio”. Gli amministratori cosentini dell’epoca salutarono la rimozione del fastidioso vincolo sismico come “uno strumento idoneo per il ribasso dei prezzi delle aree fabbricabili”. In realtà risulterà presto chiaro che quell’abolizione, determinando “una sensibile riduzione per i costi dell’edilizia”, avrebbe favorito le crescita delle rendite immobiliari. S’intensificò l’attività di speculazione edilizia nelle aree in piano, un tempo agricole, ai piedi del centro storico. E si diede così la stura all’abbandono dei vecchi quartieri del centro storico e delle prime addizioni urbanistiche tardo ottocentesche e novecentesche.
Fu l’inizio del sacco edilizio della città. Da quel tempo dura ancora oggi in modo inarrestabile. Cosenza fu tutto un fiorire di gru e di cantieri. Quella poderosa spinta alla speculazione partita negli anni ’60 e non ancora arrestata dalla crisi si è rivelata una manna per cementisti, costruttori e palazzinari. Già nel 1971 Cosenza raggiunge di gran carriera la quota di quasi 118.000 abitanti residenti nel circuito della città nuova che si dilaterà ben oltre il limite del Campagnano. Un record che neanche la ricorrente retorica della “Grande Cosenza” di oggi sfiora, se non raccogliendo i cocci sparsi della cosiddetta area vasta formati dai comuni limitrofi, oramai conurbati.
Una zuppa di città
Nel frattempo sono cresciuti quartieroni sempre più nuovi e più grandi, nuove zone residenziali, periferie e suburbi, svincoli, rotatorie, semafori e incroci, bretelle, viali attrezzati, aree commerciali e dirigenziali. Tutto tenuto insieme solo dal traffico e da strade che spesso si perdono nel vuoto. Un groviglio più o meno fitto e disunito, che forma tutt’al più una zuppa di città. Per ora c’è solo il simulacro, il fantasma scheletrico del cemento armato, a disegnare le linee interrotte della Grande Cosenza. Ma non gli abitanti, i cosentini. Anzi i cusendini. Gli abitanti degli avamposti della nuova Cosengeles, sono invece sempre di meno: oggi assommano poco più di 65mila, da 118 mila che erano cinquant’anni prima. Cosenza però, pur se gonfia di ormoni consumistici e cemento da metropoli post moderna, non è ancora diventata una vera città metropolitana, nonostante le sue ambizioni provinciali.
I palazzi cresciuti intorno all’imbocco dell’ex Salerno-Reggio Calabria
Dove comincia e dove finisce Cosenza adesso? Non è mica davvero Cosengeles. Eppure non si capisce che geografia abbia, che volto voglia mostrare, che postura voglia tenere. Strade, e Cosenza in mezzo a un groviglio di strade: la 107 Silana-Crotonese, che valicando l’Appennino congiunge Paola all’autostrada del Mediterraneo (che una volta era semplicemente la Salerno-Reggio Calabria) e poi risale verso la Sila fino a toccare lo Ionio a Crotone; il lungo stradone che conduce ai Cubi Gregotti dell’università di Rende e a quella striscia slineata e disarmonica di grigi quartieri dormitorio che scende dalle colline presilane e dai suoi antichi casali e si salda come una frana che un chilometro dopo l’altro inghiotte tutto il fondovalle costeggiando le due sponde del Crati, fino alla soglie di Montalto, Taverna, Rose.
I quartieri sul Tirreno
È la Cosenza capitale del cemento facile che vorrebbe intitolarsi “area urbana”, dove l’urbano altro non è che il prolungamento isolato e zeppo di casermoni in cui la vita scorre ai lati della 107, della vecchia e nuova 19 delle Calabrie, prima di confluire nel traffico che si dirama ininterrotto sull’asse nord-sud, fino a scendere di nuovo verso Paola, sulla traccia tortuosa della statale 18, la prima Salerno-Reggio Calabria della storia. Per spegnersi poi a rivoli di sudore, polvere e catrame diuturni sulle spiagge del Tirreno.
In mezzo, quel vasto e sfrangiato compound delle vacanze pendolari e low cost che è fatto di fitti di fortuna e delle seconde e terze e quarte case dei dannati dei bagni con famiglia al seguito. Vacanze al mare che sono i cubicoli all’implacabile calura d’agosto e le scatole da imballaggio delle due settimane con le famiglie al mare, in fila sotto i cavalcavia e i binari della ferrovia tra Torremezzo, San Lucido, la marina di Paola, Fuscaldo, Acquappesa, Sangineto:i quartieri d’estate dei cosentini.
(le immagini d’epoca all’interno dell’articolo sono pubblicate sul gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza.”)
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