Gianni Di Marzio conosceva bene il paradosso di Achille e della tartaruga. E lo applicava. Su un muro di Città 2000, il quartiere dove abitò da allenatore e lavorò da dirigente – la società si era trasferita lì tra un’esperienza e l’altra – del Cosenza, nell’anno culminato con la promozione c’era un adesivo che celebrava l’amore del mister per l’andatura lenta ma costante di quell’animale. Sarebbero stati i piccoli passi a permettere alla squadra di arrivare al traguardo lasciandosi alle spalle le rivali in classifica. Lo diceva spesso Di Marzio e i risultati gli diedero ragione.
Il Cosenza di Gianni Di Marzio, primo in Serie C1 al termine del campionato 1987-88
“Occh’i vitro”
Lo chiamavano occh’i vitro già all’epoca, quando il politically correct era più lontano della regola dei tre punti a vittoria. Ma sembrava uno di quei soprannomi un po’ cattivi che si affibbiano a un amico ironico, convinti che il primo a riderne sarà lui. Diventò occhio stuartu, con tanto di coro in facile rima col più classico degli insulti locali, poco tempo dopo. Il tentativo dei tifosi rossoblù di ostentare indifferenza nei suoi confronti non riuscì granché bene. Si era ripresentato in città da allenatore del Catanzaro, che pure aveva già guidato fino alla serie A ben prima di approdare a Cosenza. E il calcio in quei giorni era passione viscerale e identitaria, certi tradimenti era difficile mandarli giù in fretta.
Il Catanzaro di Gianni DI Marzio promosso in serie A: nella stagione 1975 – ’76.
L’uomo che aveva scoperto Maradona
Ma Di Marzio, oltre che di calcio, era uomo di mondo e sulla panchina dei Lupi ci tornò in breve tempo. Una salvezza insperata non bastò per una vera riconciliazione con la città. Quella arrivò quando portò in riva al Crati da direttore generale la sua esperienza di talent scout pochi anni dopo. E che talent scout: era l’uomo che aveva “scoperto” Maradona quando era solo un ragazzino in Argentina. Quel calcio di stadi pieni a mezzogiorno, partite la domenica, numeri da 1 a 11 ed entusiasmo popolare, però, era già al crepuscolo. Rimanevano brandelli di sogno, sepolti sotto il fuoco della passione che per fortuna ancora oggi la tv non ha spento del tutto.
Prigionieri di un sogno
Sogno pieno, e più reale che mai, era stato quello della promozione di pochi anni prima e Di Marzio tornò presto ad esserne l’iconico protagonista nella memoria collettiva. Un eroe, come un simpatico Achille dal tallone giallorosso. E come i giocatori della sua squadra tartaruga che i tifosi ripetono ancora oggi in sequenza, quasi fossero versi di una filastrocca. “Mai più prigionieri di un sogno”, quello del ritorno in B atteso dagli anni ’60, avevano scritto d’altronde in uno striscione in curva gli ultrà quando il trionfo era ormai cosa fatta. E di striscioni ne erano spuntati un po’ ovunque nei quartieri durante i giorni della festa. Perché la città festeggiò per giorni, non una sera soltanto come si fa adesso.
Le scritte sui muri diventano cult cittadino
I ragazzini facevano collette per comprare la vernice e lasciare il loro segno sui muri e nei cortili, fosse anche una semplice lettera B. Pubblicità e proverbi ispiravano le scritte dei più grandi. Alla Massa erano più tecnologici, col telefunkeniano “Potevamo stupirvi con effetti speciali, ma noi non siamo fantascienza: siamo i tifosi del Cosenza”. A via degli Stadi il mitico “L’uomo del monte ha detto Bi”. Il migliore? “Il lupo perde il pelo ma non il B…izio”, probabilmente. Di Marzio, quando glielo ricordavano, sorrideva. A ripensarci, ora che non c’è più, viene da piangere.
I Gentile non si creano, i Gentile non si distruggono, i Gentile si trasformano. E ritornano, eccome se ritornano.
Prendiamo Andrea Gentile, ripreso di recente dalle telecamere del Tg3 davanti a Montecitorio.
Il giovane avvocato cosentino, noto per una lunga serie di consulenze, dentro e fuori regione, è riuscito a entrare a Montecitorio in seguito alla vittoria di Roberto Occhiuto alle Regionali di ottobre.
Infatti, Andrea si era candidato alla Camera nel 2018 nella lista di Forza Italia ed era stato travolto dallo tsunami grillino.
Andrea Gentile, figlio di Tonino e deputato di Forza Italia
L’eclisse dei fratelli Gentile
Due anni dopo, si verificò la massima eclissi per la sua famiglia, che fu assente in maniera totale dalle istituzioni per la prima volta dagli anni ’90: zio Pino non fu eletto in Regione, papà Tonino non era in Senato da oltre due anni e la cugina Katya non era più a Palazzo dei Bruzi.
Poi, la scomparsa prematura di Jole Santelli rimescola le carte: Katya, grazie anche al formidabile aiuto di papà Pino, fa il pieno di voti e diventa la donna più votata in Regione, Roberto lascia la Camera e i Gentile tornano in versione 2.0: non più fratelli, bensì cugini, ma con ruoli simili a quelli dei rispettivi papà.
Piccoli scandali, grandi consensi
Una leggenda metropolitana tramanda che i fratelli Gentile furono di fatto costretti a lasciare il Pdl nel 2013 perché, come aveva rivelato un giornale dell’epoca, Pino era amico del magistrato che, prima di condannare Berlusconi, aveva esternato cose non proprio bellissime sull’ex Cavaliere.
Vera o meno che sia questa storia, la scelta di mollare l’ex premier e di approdare a Ncd, il partito salva-notabili di Angelino Alfano, si dimostrò vincente: di lì a poco, (2014) Tonino Gentile sarebbe entrato come sottosegretario nel governo Renzi. Vi durò pochissimo, perché fu colpito dall’Oragate. Questa vicenda è diventata un pigro ricordo, ma allora esplose a livello internazionale e accese i riflettori sull’informazione in Calabria.
L’Ora chiude, gli altri restano
I protagonisti furono Andrea Gentile, finito nel mirino della Procura di Paola per la sua attività di legale dell’Asp di Cosenza, L’Ora della Calabria, il giornale fermato in tipografia quando la notizia stava per uscire, Alfredo Citrigno, l’editore del giornale, e Umberto De Rose, il tipografo accusato di aver stoppato le rotative.
Alfredo Citrigno bacia suo padre Piero in un’occasione pubblica
Com’è andata a finire è noto: a Tonino è rimasto il nomignolo di “cinghiale”, De Rose è stato assolto dopo cinque anni e passa di processo. In compenso, Pino Gentile ha ottenuto la condanna per diffamazione di Piero Citrigno, papà di Alfredo ed ex editore dell’Ora della Calabria. L’Ora, invece, ha chiuso i battenti nel giro di un mese. A dispetto del fatto che l’inchiesta sui Gentile e sulla Sanità cosentina avesse spinto in alto le vendite della testata.
Ma erano cifre insufficienti: l’Ora raggiunse al massimo 6mila copie di vendita in un giorno. Invece i fratelli Gentile erano quotati ancora attorno ai 16mila voti. Tanti elettori in una terra di grande astensione contro pochi lettori in una regione in cui si legge pochissimo… di cosa parliamo?
De Rose è per sempre
Ciò spiega la prudenza con cui, nel 2016, la stampa diramò la notizia della condanna inflitta dalla Corte dei Conti a De Rose per danno erariale durante la sua presidenza a Fincalabra. In particolare, al tipografo furono contestate le consulenze date ad Andrea e a Loredana Gentile. Loredana, detta Lory, è la sorella di Andrea. Sui due fratelli, che non risultano indagati nel procedimento penale legato ai fatti di Fincalabra, la magistratura contabile ha espresso giudizi diversi: Andrea non è causa di danno erariale, sia perché la sua parcella era piuttosto “contenuta” (35mila euro), sia perché con la sua attività aveva consentito un risparmio. Su Lory, invece, è emerso un dato curioso: coi suoi circa 50mila euro per un incarico a tempo determinato, la sorella di Andrea aveva causato il danno erariale.
Lo stampatore Umberto De Rose
Tuttavia, si affermò che la giovane Gentile avrebbe lavorato per circa 370 giorni in un anno. Un refuso marchiano o un adattamento dello spazio-tempo a misura dei Gentile?
Come per l’Oragate, De Rose si è sobbarcato il processo, con qualche difficoltà in più: è stato prosciolto dalla Corte d’Appello di Catanzaro nel novembre 2020 dall’accusa di abuso di ufficio che gli era costata un anno e mezzo di condanna in primo grado.
Scarpelli, l’appendice sanitaria
Un altro gentiliano che ha passato qualche guaio è Gianfranco Scarpelli, primario di Neonatologia all’Annunziata e direttore generale dell’Asp durante l’era Scopelliti. Proprio quest’ultimo ruolo ha procurato grane giudiziarie a Scarpelli, uscito solo di recente da processi spinosi. Ma il medico cosentino non può lagnarsi: sua figlia Rita è diventata dirigente del Settore farmaceutico della Regione grazie a una determina firmata da Roberto Occhiuto in persona. Ad appena 33 anni, la giovane Scarpelli è una delle dirigenti più giovani della storia della Pa. C’è di che rincuorare papà Gianfranco per le disavventure subite.
Gianfranco Scarpelli è stato direttore generale dell’Asp di Cosenza
Super Pino
Il gentilianesimo, a Cosenza, non è una corrente filosofica ma una dottrina quasi religiosa, che si basa su un solo elemento: il consenso elettorale.
Le cattedrali in cui si celebra questa fede, che conta tuttora oltre 9mila adepti, sono la Sanità e altre importanti centraline di spesa pubblica, come ad esempio l’edilizia popolare.
Infatti, il nome di Pino Gentile è emerso in vari procedimenti penali legali all’edilizia pubblica, come indagato e, a volte, come imputato. C’è da dire che questi procedimenti sono prossimi alla prescrizione. Tuttavia, proprio questa situazione giudiziaria avrebbe costretto Pino a fare un passo indietro nelle ultime Regionali a favore di sua figlia.
Comunque, questa “sostituzione” cambia poco: quando si parla di fede l’importante è pregare, a prescindere che si preghi un santo o il Padre Eterno in persona.
Le metamorfosi di Pino
Il gentilianesimo ha un suo dogma particolare, che richiama in maniera stramba quello della Trinità: i calabresi quando dicono Gentile pensano a una famiglia, tuttavia il capo resta Pino, che vanta oltre cinquant’anni in politica, iniziati in quella grande chiesa che era il Psi e proseguiti, salvo qualche incidente, in Forza Italia, Ncd e di nuovo Forza Italia. E una piccola parentesi come sindaco di Cosenza da indipendente eletto con il Partito Repubblicano.
Ma restando sempre Pino, perché a un leader religioso come lui nessuna confessione può negare il ruolo di arcivescovo. Nel suo caso, di assessore regionale a oltranza nei dicasteri in cui ci sono risorse vere da gestire. Tonino, invece, è il cardinale. Esploso con Forza Italia negli anni ’90, è diventato subito senatore e da allora non ha più mollato Roma.
All’apice del loro successo, i Gentile contavano oltre 20mila voti, che li rendevano forti quando erano al governo e, ancor più forti, all’opposizione, da dove potevano negoziare meglio…
Lo scontro con gli Occhiuto
Chi ha a che fare i due fratelli, come alleato o avversario, sa benissimo due cose: si vince se si ha un loro pensiero Gentile, si governa per Gentile concessione.
E c’è da dire che quasi tutti hanno avuto a che fare coi Gentile sia come alleati sia come avversari.
Il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto con il suo vice Katya Gentile prima di rimuoverla dalla poltrona
Prendiamo il caso dei fratelli Occhiuto, che si rifugiarono nel Ccd e poi nell’Udc a partire dagli anni ’90, quando i Gentile li defenestrarono da Forza Italia.
Dopo anni di guerre feroci, Mario Occhiuto divenne sindaco di Cosenza anche grazie all’apporto dei Gentle Bros, che resero Katya la consigliera più votata nelle Amministrative del 2011. Poi ci fu la rottura tra Katya e Mario.
Quest’ultimo sopravvisse benissimo perché si rifugiò in Forza Italia assieme al fratello Roberto, approfittando del fatto che Pino e Tonino se n’erano andati con Alfano. Ma il prezzo lo pagò Wanda Ferro, candidata alla presidenza della Regione nel 2014 sotto le insegne azzurre. I Gentile non fecero coalizione ma corsero da soli. E si impegnarono parecchio, proprio contro la candidata berlusconiana, che perse in malo modo grazie alla loro campagna elettorale martellante.
Il posto di Katya Gentile lasciato vuoto al tavolo della Giunta di Cosenza (foto Camillo Giuliani)
Il soccorso a Manna e Talarico
Discorso leggermente diverso a Rende. Avversari di Sandro Principe, i fratelli Gentile furono determinanti nella prima vittoria di Marcello Manna, grazie a un listone in cui figuravano un battaglione di medici e Annarita Pulicani, moglie di Granfranco Ponzio, ex consigliere provinciale di provata fede gentiliana.
Poi arrivò la rottura. Ma niente paura: c’è sempre qualcuno che ha bisogno dei Gentile. In questo caso, Mimmo Talarico, che tentò l’elezione a sindaco nel 2019 anche con l’appoggio dei Fratelli Terribili.
Talarico non arrivò al ballottaggio, dove i gentiliani si ritrovarono schierati con Principe. Anche lui perse, ma pazienza: un pensiero Gentile lo aveva avuto comunque…
Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)
La sfida per il futuro
Mario Occhiuto non è più sindaco di Cosenza. Roberto ha il suo da fare per gestire anche i gentiliani in Regione.
L’unica certezza è che i Gentile, a dispetto del calo di voti, sono vivi e vegeti. A questo punto, è obbligatoria una domanda: riusciranno i cugini Gentile a perpetuare il potere dei rispettivi genitori?
Tutto lascia pensare che il loro cognome resterà a lungo sinonimo di potere in una terra, la Calabria, che critica i potenti perché in realtà li venerae li combatte solo per potercisi accordare meglio. E resteranno a lungo anche le villone di Muoio Piccolo con le piscine a forma di ostrica. Perché, si sa, non c’è potere vero senza un tocco di kitsch.
Gentile direttrice Rossana Baccari, gentile sindaco Franz Caruso, mi perdonerete per questa lamentela aperta, pubblica, ma sia sabato che domenica scorsa, ho tentato di fare visita alla Galleria Nazionale di Palazzo Arnone. Senza successo, perché ho poi scoperto, non senza rammarico e delusione, addirittura dalla pagina Facebook della Galleria, che sabato e domenica la Galleria è chiusa!
A prescindere dallo stato di degrado e abbandono in cui versa l’esterno (non mi è stato possibile verificare l’interno), dai cartelli sbiaditi delle mostre, dalla (ex) segnaletica completamente illeggibile, sfido chiunque a rintracciare una qualsiasi minima informazione sul museo, sugli orari, sulle possibilità di accesso, su un telefono. Insomma, sull’attività di una istituzione pubblica regionale, di interesse nazionale. Ed è paradossale, ripeto, che si debba cercare, non senza difficoltà, tali notizie su un social, per l’unico museo pubblico importante di Cosenza.
Pali divelti all’ingresso della Galleria Nazionale di Cosenza
Le informazioni su una mostra su un totem sbiadito all’esterno di Palazzo Arnone
Tutti aperti, non la Galleria Nazionale
Pertanto, sarebbe davvero un gesto civico, che apprezzerei non poco, se mi fosse spiegato perché mai i giorni di sabato e domenica, in cui ognuno di noi dispone di maggiore tempo libero (e in cui solitamente i Musei fanno il pienone), a Cosenza il Museo Nazionale invece è chiuso, contro la larga tendenza nazionale che prevede la chiusura il lunedì e l’afflusso maggiore nei weekend!
Forse capisco da questo che i numeri risibili, circa 17.000 visitatori all’anno, per un Museo che contiene opere d’arte importantissime sono dovuti ad una scelta del tutto fuori dalla prassi consolidata. E per questo signor Sindaco, mi rivolgo a lei, per confermare il triste bilancio realistico che la cultura, l’arte, la bellezza, a Cosenza, sono Cenerentole di quella che lei si ostina ancora, con nostalgia, a chiamare l’“Atene delle Calabrie”!
Opere esposte alle pareti di una delle sale di Palazzo Arnone
Un problema che va oltre i fondi
Un Museo come questo, in una terra difficile e povera di spinte alla meraviglia come la Calabria, merita ben altra dinamicità. Merita di fare sistema, di essere guida di un modello diffuso di conoscenza su tutto il territorio. Merita di ospitare mostre ed eventi di livello nazionale, stimolare la conoscenza sulle Arti, ospitare con regolarità scolaresche, turisti, comitive di calabresi. E la sfida è proprio qui, ovvero sapere attrarre i visitatori in un’epoca in cui la competizione è sempre più tra reale e virtuale!
Sono stanco e stufo, io come molti altri calabresi e meridionali, però di sentirmi rispondere che non ci sono fondi, perché non è questa la ragione. Temo invece non ci sia passione, entusiasmo, voglia di guardare oltre e cambiare un modello scontatamente perdente. Non c’è nemmeno cura, perché cambiare una sbiadita segnaletica, mettere su i paracarri, aprire i fine settimana costa pochissimo!
Una proposta per la Galleria Nazionale
Una proposta semplice: di recente, proprio il Ministero della Cultura ha stabilito che molte opere che giacciono nei magazzini dei grandi Musei, che non hanno spazio per esporli al pubblico, possano trovare luogo nei piccoli musei di provincia. Che possa essere questa la volta buona per un rilancio della Galleria Nazionale e l’apertura di altri spazi per l’arte? Per aprire un dialogo tra le città conurbate, tra enti pubblici e quel privato disponibile a investire e che gestisce spazi idonei, come il Castello di Cosenza, tra tutti, per offrire ai cittadini una scelta di selezione di luoghi da visitare, che contemplino secoli di storia dell’arte e non qualche brandello di mostre tra degrado e incuria?
La sede del Ministero della Cultura a Roma
Sindaco, si faccia portavoce di una richiesta collettiva al ministro, e con la direttrice Baccari, arricchite le collezioni cosentine. Fate di questo Museo un luogo di eccellenze, attrattivo. Questo sì che sarebbe un bel segno di vitalità culturale, tanto semplice, immediato, ma di grande efficacia e lungimiranza, apprezzato dai calabresi e da chi ama l’arte e la bellezza!
Con i più cordiali saluti e l’auspicio di stimolare una seria riflessione su temi dirimenti,
Tra i big politici che hanno iniziato dal centro storico di Cosenza, Nicola Adamo vanta almeno un primato: è il più alto. Una sfida piuttosto facile: Ennio Morrone è di altezza media, Pino e Tonino Gentile sono decisamente bassini e Luigi Incarnato non potrebbe comunque candidarsi in una squadra di basket. Questa è una prima certezza sul leader ex comunista. La seconda certezza su Adamo riguarda i faldoni delle inchieste giudiziarie in cui è risultato coinvolto a vario titolo: se qualcuno si prendesse la briga di metterli in pila, risulterebbero decisamente più alti di lui.
Pd, Cosenza 2022
Non sappiamo come finirà la partita dei congressi provinciali del Pd, rinviati per i consueti casini interni a febbraio. L’unica sicurezza, ancora una volta, è che Nicola Adamo c’è e,d’accordo con Carlo Guccione, ha lanciato a Cosenza la candidatura del giovane Vittorio Pecoraro. Il tutto, dopo aver negoziato un sì scontato alla candidatura di Nicola Irto alla segreteria regionale e a dispetto della lite furibonda di novembre col malcapitato Italo Reale, il presidente della commissione per il tesseramento del Partito democratico.
Questi brevi cenni dovrebbero far capire una cosa: passano i decenni, passano le inchieste, ma Adamo resiste.
Enza Bruno Bossio e Vittorio Pecoraro prima del comizio di Enrico Letta a Cosenza (foto Alfonso Bombini) – I Calabresi
Onda araba
I tempi in cui l’ex mattatore del Pci faceva il pieno di voti sono lontani. Dopo le disavventure dell’era Scopelliti, Adamo ha capito che è meglio fare il “padre nobile” dietro le quinte che mettere la faccia nelle contese, tanto più che c’è chi lo fa per lui: sua moglie Enza Bruno Bossio.
L’Adamo degli ultimi otto anni ricorda l’ultimo Gheddafi, che non aveva più ruoli pubblici nello Stato e nell’esercito libico e tuttavia gestiva le sorti della Libia dalla sua tenda nel deserto. E forse questa similitudine, più di ogni altra cosa, fa capire come il termine “democratico”, nel partito di Letta, molte volte sia solo un aggettivo.
Amore e potere
Quello tra Enza Bruno Bossio e Nicola Adamo è un amore politico cementato dalla militanza e sublimato dal potere. Quando i due si conobbero – tra l’altro in maniera burrascosa, come tramandano alcuni sapidi pettegolezzi – esistevano ancora il Pci, dove lui si era fatto le ossa, e la sinistra indipendente o “extraparlamentare”, da dove proveniva lei, che aveva esordito col gruppo del Manifesto. Più che una coppia, Nicola ed Enza sembrano una staffetta.
In una prima, lunghissima fase, lui ha macinato elezioni e incassato incarichi istituzionali mentre lei si è dedicata al management nell’informatica e nelle telecomunicazioni.
Poi è esplosa Why not, la maxi inchiesta di Luigi de Magistris, e la parabola di Adamo entra in fase discendente. Non è il caso di soffermarsi su polemiche e dietrologie vecchie: l’inchiesta, in cui era coinvolta anche Enza, è finita in nulla, ma si è rivelata comunque una mazzata forte a livello politico e d’immagine. Soprattutto, costrinse una parte del Pd calabrese, fresco di nascita, a mutare atteggiamenti di fronte alle inchieste giudiziarie e ad assumere atteggiamenti garantisti simili a quelli di Forza Italia.
Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio ai tempi di Why Not
Adamo, nel frattempo, ha rotto anche con Mario Oliverio, ha suicidato il centrosinistra alle Amministrative di Cosenza del 2011 ed esce dal gruppo del Pd in Regione.
La pace con Oliverio, siglata a partire dal 2012, ha un costo politico: l’elezione di Enza in Parlamento. Già: qualcuno che tenga un piede nelle istituzioni in famiglia serve sempre, perché in democrazia il potere puro non si giustifica.
Il passaggio di testimone è celebrato nelle elezioni politiche del 2013, a dispetto del fatto che l’avvento di Renzi riduce un po’ gli spazi per gli ex comunisti, ed è confermato nel 2018, quando Bruno Bossio sopravvive allotsunami grillino, che travolge tutti ma soprattutto il Pd, bollito ovunque e a rischio evaporazione in Calabria.
Nicola Adamo contro le toghe
Nel frattempo, Nicola sopravvive a ben altro. Esce da Why Not nel 2016, ma entra in altre quattro inchieste:Eolo (2012), che passa da una Procura all’altra e finisce praticamente in prescrizione; Rimborsopoli (2015), Lande desolate (2019), da cui viene prosciolto per non aver commesso il fatto, e Rinascita Scott (2019), tuttora in corso. Le uniche conseguenze per l’ex vice di Agazio Loiero sono piccole misure cautelari, tra l’altro revocate a velocità lampo. In pratica, dei graffietti.
L’opinione pubblica, italiana e calabrese, non è più quella di Tangentopoli e dei tempi delle prime inchieste di de Magistris. Non è un caso, allora, che Nicola ed Enza contrattacchino alla grande, con esposti al Csm e polemiche furibonde a mezzo stampa. Il risultato è un pari: nessuno tocca i magistrati (soprattutto quando si chiamano Gratteri) e i due restano al loro posto, dove continuano a passarsela bene.
Una geometria trasversale e variabile
Meno grosso di quello dei Gentile, il pacchetto di voti di Nicola Adamo è comunque resistente e capace di condizionare gli equilibri politici del centrosinistra e non solo. Lo si è visto in occasione della diatriba con Mario Oliverio, la cui leadership fu prima incrinata e poi rafforzata da Adamo.
Ma lo si vede anche dal rapporto con Carlo Guccione, se possibile più burrascoso di quello con l’ex governatore. Ora che vanno d’accordo, Adamo e Guccione condizionano Cosenza, tornata al centrosinistra dopo i dieci anni di Occhiuto.
Carlo Guccione e Nicola Adamo nella segreteria di Iacucci durante le ultime elezioni regionali (foto A. Bombini) – I Calabresi
Ma in realtà il rapporto è triangolare: nel 2011 Adamo diede una prova di forza contro Guccione e Oliverio, che non riuscirono a sostenere adeguatamente Paolini; nel 2014 Adamo e Oliverio spinsero alla grande su Guccione che, grazie anche ai voti di entrambi, risultò il consigliere regionale più votato.
Ora, con l’eclissi del sangiovannese, i due cosentini sono padroni del campo e mirano a rafforzarsi in provincia. Anche a dispetto del fatto che il Pd continua a perdere consensi. Non importa, in altre parole, che la casa sia piccola: l’importante è che ci stiano bene loro.
Il futuro
È difficile capire, al momento, se Enza Bruno Bossio riuscirà a tornare a Montecitorio, dove comunque ha dato prova di attivismo.
Certo, grazie al taglio dei parlamentari passato a furor di popolo nel 2019, gli spazi elettorali sono minori. Ma c’è da dire che la famiglia Adamo ha dimostrato che la politica, a volte, può essere l’arte dell’impossibile.
Soprattutto, gli Adamo hanno dimostrato di essere una famiglia resistente. Anche all’infedeltà di Nicola, che a suo tempo ha fatto il giro d’Italia.
Finché morte non li separi, nel loro caso, può non essere solo un modo di dire.
Nicola, Enza, figli e figliocci (politici) al seggio qualche anno fa: sulla destra l’attuale capogruppo deo Pd in consiglio comunale a Cosenza, Francesco Alimena (foto C. Giuliani) – Calabresi
Perciò i cosentini stiano tranquilli: il centro storico potrebbe spopolarsi del tutto, ma resterebbe comunque un primo circolo del Pd dominato da Adamo e Bruno Bossio e capace di condizionare la città. Ancora: potrebbe finire tutta l’informazione cartacea, ma Nicola resisterebbe imperterrito con la “mazzina” di quotidiani sotto il braccio e col cellulare più vintage del suo linguaggio politico.
Di più: i magistrati passano, ma Nicola ed Enza restano. E resteranno anche se il Pd dovesse finire, come sono finiti l’Urss, il blocco orientale il Pci, il Pds e i Ds.
Chi dice che il Gattopardo è solo di destra?
Sangineto è ciò che non si vede. E, di conseguenza, non è ciò che vedete. Tanto per cominciare non è un “posto di mare”, piaccia o non piaccia, ma semmai è un territorio pedemontano “prestato” al mare. Prestato e mai restituito, o restituito malamente e in parte, con gravi segni dell’uso. Il mare, insomma, non è nelle sue corde e per convincersene basterebbe osservare la brevità della costa sanginetese (meno di 2 km) rispetto a quelle dei Comuni immediatamente confinanti (i 5,5 km di Bonifati – per intenderci: Cittadella – o i ben 10 km di Belvedere Marittimo): una costa che sembra più il residuato di una servitù di passaggio dal paese antico verso il mare, alla foce del torrente omonimo. Ancor più se si tiene presente quella strozzatura della mappa comunale a metà tra il mare e il paese, dove la larghezza massima è di appena 500m in linea d’aria.
Prova del nove del carattere poco balneare di Sangineto? Dal paese, in genere, il mare nemmeno si vede, se non da un paio di angoli panoramici o da qualche balcone fortunato. Non basta? Parte del territorio comunale ricade nel Parco Nazionale del Pollino. Anzi, ha il primato di esserne la punta più meridionale. Come a dire: a Sangineto crescono i pini loricati, bisogna farsene una ragione. Anzi, i loricati più meridionali d’Italia, e quindi – superando addirittura i colleghi greci – i più meridionali d’Europa (e quindi del mondo, visto che fuori d’Europa non ve ne sono). Ancora non basta? Il confine comunale orientale, quello con il Comune di Sant’Agata d’Esaro, è una linea in mezzo ai boschi lunga ben 8 km. Altro che spiagge.
Dal re agli amici degli amici
Schema del sistema viario del Comune di Sangineto (1901).
Una mappa del 1901 segnala su Sangineto un sistema viario degno di una metropoli, e pertanto difficile – ma non del tutto impossibile – da riconoscere nell’attuale teoria di strade rurali secondarie. Una cartolina degli anni ’40 mostra ben 6 vedutine del luogo: ce ne fosse una del mare, o delle spiagge… niente di niente, non se ne raffigura neppure il castello, benché in quegli anni venisse visitato finanche dal prossimo Re di maggio, con tanto di foto d’ordinanza (ben prima di diventare discoteca in libero crollo per il pubblico pagante).
La Sangineto conosciuta è invece un’altra: è quella chiassosa – anche metaforicamente – che nacque all’indomani delle speculazioni edilizie della prima metà degli anni ’60, quando per particolari congiunture vi confluirono interessi di investitori, appaltatori e amici degli amici.
Sangineto, fase n. 1:
Ne nacquero prima un grande albergo con i suoi improbabili bungalow (ora smantellati, dopo anni d’abbandono) e tutto un complesso residenziale più pretenzioso che realmente elegante, chiuso tra la ferrovia, l’albergo, il torrente e il mare. E poi altre ville più su, verso la statale, su quel pianoro che la toponomastica inopportuna ha pomposamente intitolato a un antico popolo (come ad altro popolo una sua traversa) e che io continuo a chiamare così come era sempre stato indicato sulle mappe: Renga. Lì dove spuntava un piccolo casino gentilizio e ancora spunta, sebbene oggi soffocata, l’antica Torre della Finanza (in cima alla rupe sopra al vecchio mulino) diventata poi per qualche tempo una discoteca dal nome fatato. Altro che Finanza.
Sangineto, fase n. 2:
Le “Costellazioni” di Sangineto in un vecchio depliant di un albergo del posto
Dove già esisteva qualche sparuta casa di contadini nasce, a nord del suddetto albergo, tutta una teoria scriteriata di edifici privati, villini bi e quadrifamiliari, villette a schiera e residence di gusto non proprio eccellente che, lasciando incredibilmente sopravvivere qualche ulivo secolare, si arrampicano dalle spiagge (allora sconfinate e punteggiate di bunker bellici, ora ridotte all’osso le prime, ingoiati dal mare i secondi) fin sulla strada statale. Terreno buono per ex bambine, mie coetanee, che diventeranno mogli di comici napoletani e, oggi, per padri di calciatori in vista o finanche per il fu Coriolano, mosca bianca stufa di posarsi sulla solita cosentinità a vocali sguaiate per lui poco renzelliane.
Di case vecchie, qui, ne resta una in particolare, nel bel mezzo della piazzetta: da almeno 30 anni imbavagliata e incatenata a un sequestro giudiziario. Fa la sua Resistenza.
Un’altra stava sotto al curvone alla fine del lungomare: se la mangiò in pochi bocconi una mareggiata, dopo il ’66. Come tante cose qui, era dei nobili Spinelli di Belvedere, che ancora in quegli anni venivano a cavallo, spiaggia spiaggia, a riscuoterne pigione.
Sangineto Lido, danni di una mareggiata. 30 agosto 1991 (foto L.I. Fragale).
Le mareggiate, ho detto: ammesso che Sangineto e i suoi ‘utilizzatori’ abbiano abusato del mare, è altrettanto vero che il mare, qui violentissimo, s’è vendicato a piene mani, negli ultimi decenni, distruggendo più volte case e lungomare (fotografai una mareggiata, a fine agosto di trent’anni fa che, per quanto esistessero già le massicciate a T, creò una voragine in pieno lungomare, a due passi da quella casa ora in totale abbandono ma che già allora meritava il soprannome di “casa di Beirut”, per quanto oggi sembri sul serio bombardata).
Sangineto, fase n. 3 (abbastanza coeva alla seconda):
Nasce Pietrabianca, straordinario esempio di quartiere-dormitorio balneare, che usurpa il nome della collina alle sue spalle. Solo villini, a due passi dalla Torre omonima, oggi abitazione privata, immersa nel bosco lungo il fiume. Per anni, ricordo, l’unico modo per raggiungere questo gruppo di case evitando la statale era una passerella di legno sul torrente, in mezzo al canneto. Al buio più totale (quel torrente che, leggenda vuole, un politico villeggiante negli immediatissimi paraggi avrebbe fatto addirittura deviare, novello proconsole imperiale).
Mancini, pippibaudi e cotillons
Fu così, insomma, che a Sangineto mise radici, anzi, fondamenta, prima di tutto la Cosenza manciniana: amici, collaboratori, parenti, e chi più ne ha più ne metta, si trovarono muro a muro, siepe a siepe tra di loro. Medici, farmacisti, imprenditori, avvocati, professionisti d’ogni risma acquistarono nella seconda metà degli anni ’60 quei primi cubi bianchi vagamente merlati alla moresca. Convenienza economica e sociale: spirito di gruppo, per non dire forse tribale. Perché comprare una villa molto più bella in un luogo molto più bello (per dire, in tratti di costa certamente più scenografici; in località con centri storici gradevoli), quando c’è la possibilità di essere vicini d’ombrellone di chi, alla fine dei conti, appunto “conta”? Perché andare in ferie quando in spiaggia si può parlare di affari mentre le mogli spettegolano in perfetto stile “Donna Pupetta”?
Lina Wertmüller con Giancarlo GIannini sul set di “Pasqualino Settebellezze”
Si aggiunsero, sulla collina, quelli che preferivano maggiore privacy o il nido più alto (la saga dei Gullo o Mario Misasi che qui morì), mentre Mancini restava nella sua villa defilata ma crocevia di personaggi dello spettacolo (tra cui la recentemente scomparsa Wertmüller, ma giusto per dirne una). Perché – panem et circenses – tra Mancini e l’altro villeggiante storico, Covello, la Sangineto dei tempi d’oro era anche passerella non irrilevante per il cinema, con tanto di festival, pippibaudi e cotillons.
E forse funzionava ancora la stazione ferroviaria, che di sicuro nel ’55 c’era già (sebbene in ritardo rispetto ai caselli di cinquant’anni prima) ma personalmente ho sempre visto abbandonata e semmai utile a due cose: posizionare gli spiccioli sulle rotaie e sottoscrivere l’isolamento di Sangineto (benché qualcuno di mia conoscenza abbia talvolta preferito addirittura scendere a Capo Bonifati e raggiungere Sangineto via spiaggia o scendere a Belvedere e farsela in bici).
Napoletani e cosentini
A Sangineto si arriva in tre modi (escludendo dal mare e dal cielo e, volendo, dal sottosuolo). E già questo indica i tre diversi approcci caratteriali, per non dire “sentimentali”. I napoletani vi arrivano da Nord, a 200 all’ora, con vano spirito di conquista (parentesi: esistono molti, dico molti napoletani che vengono qui da quarant’anni e ritengono ancora Cosenza un paesino di montagna. Senza esservi ovviamente mai stati). I cosentini vi arrivano da Sud, pigramente comodi, con spirito domenicale o, peggio, dominicale. Chi, come me, non è né l’uno né più si sente l’altro, arriva dall’interno, già in polemica col resto, per spirito di contraddizione. Ovvero da una strada che è già un punto d’osservazione elevato e panoramico sul tutto. Quella strada-balconata che taglia con una riga netta l’ultimo fianco del Parco del Pollino.
La si prende da Sant’Agata, per esser chiari, e porta fino ai piedi di Belvedere. Su questa strada interna si scollina al Passo dello Scalone e poi è tutta discesa con vista sul mare. Strada antica, senza ponti o gallerie. Una di quelle strade che definisco “a misura d’uomo”. Una volta vi si poteva deviare direttamente per Sangineto paese, qualche tornante più giù del Passo, a patto di non soffrire di vertigini. E vi sareste trovati nel bel mezzo di un paesaggio marziano, sulle rupi della zona archeologica di Timpa di Civita. Oggi quella strada è chiusa per motivi di sicurezza, addirittura da una cancellata, non essendo stato forse sufficiente il divieto di accesso che già da qualche anno campeggiava all’incrocio incustodito. Al sito suddetto si può arrivare da un’altra parte, ma il bello delle cose è soprattutto scoprirle da sé. Detto diplomaticamente.
Verso Sangineto tra panorami e cartomanti
C’è poi, più su, un altro bivio tutto sanginetese e conosciuto a pochi forestieri: quello che volta a Sud per l’impenetrabilissimo bosco lungo la stradina per il Lago La Penna. A continuarlo, dopo il lago, vi porterebbe sull’antica dorsale che corre da Torrevecchia di Bonifati fino a Fagnano Castello. Non roba per chi ama l’ombrellone, va detto. O c’è quello che gira a Nord per i panorami mozzafiato della Contrada Pantana, luoghi dove l’antropizzazione arriva piuttosto ad ogni tornante sotto le sembianze degli immancabili manifestini colorati di quei noti cartomanti monopolisti di un buon quarto di Tirreno (bravo Brunori ad averlo osservato, pur se omettendo – forse per metrica – la fu Madame Fifì, mica inferiore in fatto di marketing capillare).
Sangineto (in basso a sinistra)e la valle del torrente omonimo (foto L.I. Fragale).
E sempre sulla strada-balconata incrociai, tempo fa, una coppia di sconosciuti motociclisti. S’erano fermati nel punto più panoramico. Felicemente d’accordo, lui fotografava lei – graziosa bionda vestita di un romper in denim – gioiosamente a braccia aperte e seno al vento. Sarà stata la strada? Sarà stato il primitivo e totale senso di libertà che quel panorama riesce a restituire?
La Banalità del mare
E anche questa è una metafora, appunto, dell’approccio: Sangineto è stato un ottimo punto d’osservazione, suo malgrado. Già da bambino, in spiaggia, sedevo con le spalle al mare, a guardare quant’era strano il profilo di quelle montagne, oppure a indovinare dal solo modo di gesticolare dei lontani passanti sul lungomare se erano cosentini o napoletani (facilissimo). Gli altri mi parevano tutti rimbambiti a guardare l’orizzonte, la piattezza dell’acqua. La Banalità del Mare. (CONTINUA…)
Si pensa spesso al mare, che in realtà è più bello d’inverno, quando le località costiere sono vuote e le attività inquinanti al minimo.
Ma si trascura il suolo, che forse può diventare molto attrattivo, specie per chi invoca il turismo di nicchia. Al riguardo, il basso Tirreno cosentino è pieno di forre e di grotte, sotterranee e non, alcune delle quali sono anche giacimenti archeologici, che raccontano come, nella preistoria, la Calabria – oggi in vistoso calo demografico – fosse popolosa.
Forra tirrenica
Resti umani risalenti al Paleolitico
Lo rivela ’a grotta da ’ntenza – scoperta da Gianluca Selleri che vi si è calato nel 2017 – a cui si accede dalle pareti rocciose dei monti tra Falconara Albanese e San Lucido.
All’interno di questa cavità vi sono reperti poveri e antichissimi, che spiccano sul biancore della roccia calcarea: strumenti di osso e selce e vasellame in terracotta grezza che risalgono al Paleolitico. Più qualche resto umano.
«È una delle tante sepolture preistoriche che stanno venendo alla luce in quest’area», spiega Paolo Cunsolo, presidente dell’associazione Forre del Tirreno, che raduna un gruppo consistente di speleologi.
La Grotta da ‘ntenza
Varie di queste tombe primitive, in cui i nostri remotissimi antenati si facevano seppellire assieme agli strumenti della loro quotidianità, sono state scoperte un po’ più a Sud, per la precisione a Coreca, la bellissima scogliera tra Amantea e Campora San Giovanni.
Di questi ritrovamenti eccezionali si sta occupando ora Felice Larocca, archeologo e ricercatore dell’Università di Bari, che attualmente gestisce gli scavi e la manutenzione di un altro luogo antichissimo: la Grotta della Monaca, nella Valle dell’Esaro.
Grotta Sant’Angelo
Ma lo spettacolo più forte lo offre la natura. Ci si riferisce, in particolare, al sistema di grotte in località Sant’Angelo, sempre a cavallo tra Falconara Albanese e San Lucido.
La più importante di queste enormi cavità è Grotta Sant’Angelo, nota fin dai primi anni ’70 e tuttora meta degli speleologi calabresi e siciliani.
L’ingresso di questa grotta è un laminatoio, cioè una fessura scavata dalle acque, nella parete della montagna. Lo si attraversa strisciando per circa quattro metri e si arriva in una galleria ampia, di quasi un chilometro nel cuore del monte. Questa galleria termina con alcuni laminatoi, scavati da due sorgenti sotterranee importantissime.
L’acqua ha lavorato le rocce per secoli. E ha creato un vero e proprio mondo parallelo, fatto di tunnel e collegamenti quasi inaccessibili all’uomo.
Per esempio, quello tra Grotta Sant’Angelo e la vicina Grotta “Mario e Andrea”, che ha una storia particolare.
L’ingresso della grotta “Mario e Andrea”
In ricordo della tragedia di Rigopiano
La Grotta di “Mario e Andrea”, infatti, è stata scoperta cinque anni fa, in coincidenza con la tragedia di Rigopiano. E non è un caso che sia stata dedicata a due soccorritori morti nel tentativo di salvare gli ospiti del resort travolto dalla valanga.
Tralasciamo le coincidenze e dedichiamoci alla grotta, più difficile da esplorare e forse più spettacolare della sua vicina.
L’accesso è tutt’altro che facile e, specifica Cunsolo, quasi impossibile per i non speleologi: è una spaccatura sulla parete della montagna che conduce a due pozzi che si inabissano per quindici metri.
La grotta di “Mario e Andrea”
Al termine dei pozzi c’è una pietraia, che gli esploratori hanno dovuto aprire a mani nude. La loro fatica è stata premiata da una visione spettacolare: uno stanzone di circa novanta metri quadri e profondo tra i dieci e i quindici metri, pieno di stalattiti e stalagmiti. Segno di un forte lavorio delle acque, che è confermato dalla presenza di un fiume sotterraneo.
Profondissimo anche il vicino Inghiottitoio Provenzano, un’enorme cavità che si inabissa per quasi cinquanta metri.
La prossima sfida
La natura ha i suoi collegamenti che, tuttavia, non sono adatti all’uomo. Proprio per questo, gli speleologi di Forre del Tirrenotentano di aprire dei varchi tra queste grotte, sotto la guida del paolano Piero Greco, già tra i sub più forti a livello regionale.
Lo scopo, spiega ancora Cunsolo, è «rendere fruibile a un pubblico più vasto quest’impressionante mondo sotterraneo», praticamente ignoto, aggiungiamo noi, ai villeggianti, cosentini e non, che invadono le spiagge ogni estate».
Tuttavia, gli speleologi lavorano soprattutto d’inverno e in primavera, al riparo dai curiosi e, soprattutto, dagli imprudenti che potrebbero farsi davvero male nel tentativo di emularli.
Il momento più importante di quest’attività di esplorazione e ricerca, che confina quasi con l’archeologia, è giugno, quando le associazioni speleologiche calabresi e siciliane svolgono il loro raduno annuale, intitolato “Azzoppa ’u pede”, con un palese riferimento a una storia meno antica ma più suggestiva, cioè ai briganti che infestavano nella seconda metà dell’Ottocento l’antica via del mare che passava per il Monte Cocuzzo.
Il turismo nelle viscere della terra
Il turismo di massa ha poco a che fare con le grotte e le forre, che però attirano comunque una quantità non proprio trascurabile di specialisti, studiosi, speleologi (appunto) o semplici ambientalisti.
E queste scoperte recenti, se opportunamente valorizzate, potrebbero in effetti essere il punto di partenza per una nuova concezione del turismo, senz’altro più sostenibile di quello che ci si ostina a praticare, a dispetto dell’impatto ambientale alto e dei numeri in calo.
«La speleologia non è per tutti, specie nelle fasi di scoperta e nelle prime esplorazioni», spiega ancora Cunsolo, perché in questi casi richiede «addestramento e conoscenza di una serie di tecniche ben precise». In altre parole occorre essere un po’ alpinisti, un po’ minatori e, in qualche caso, anche un po’ sub. A tacere del fatto che queste attività non sono assolutamente adatte a chi soffre di claustrofobia.
Ciò non toglie che, una volta stabiliti dei percorsi sicuri, le grotte non possano essere visitate con guide adeguate, da un pubblico più vasto.
Un pubblico di nicchia? Senz’altro. Ma chi dice che nicchia sia sempre sinonimo di piccolo?
Non è passato giorno in cui il neosindaco Franz Caruso non abbia parlato dei debiti “insostenibili” («centinaia di milioni di euro») lasciati in Comune dal suo predecessore, Mario Occhiuto. Intervistato dal direttore de I Calabresi – Franco Pellegrini-, il primo cittadino afferma: «Non pensavo di dovere approvare un bilancio preventivo con un disavanzo già di 11 milioni di euro».
Condannato a non riaprire Viale Parco
Viale Parco non tornerà come prima. Franz Caruso lo fa capire espressamente: «Dobbiamo terminare il Parco del benessere». Poi continua: «Uno degli errori più grandi è stato distruggere l’opera più importante realizzata nella città dal Dopoguerra ad oggi».
Ma ne esistono diverse versioni che sopravvivono. Quantomeno nei finanziamenti. La Regione Calabria, per esempio, continuerà ad inviare ogni anno 140mila euro fino al 2026 per la versione manciniana dell’infrastruttura, soldi impegnati nei giorni scorsi. Intanto il Rup è cambiato ancora una volta, dopo due anni di vacatio: adesso è Giuseppe Iiritano. E nelle prossime ore una riunione alla Cittadella potrebbe di nuovo cambiare le carte in tavola. Pare, infatti, che si possa riallargare lo spazio destinato alle auto in transito, ma solo nell’area delle ex ferrovie su cui ora sorge il Rialzo.
Occhiutiani in Giunta
Rispetto alla discontinuità sbandierata nei programma, Franz ha poi portato in Giunta quattro esponenti che militavano nella ex maggioranza di Occhiuto. Questione di criteri oggettivi, sottolinea il sindaco: «In Giunta siedono tutti i primi eletti delle liste che mi hanno sostenuto». Il Cencelli del penalista cosentino diventa: «Ho rispettato la volontà dell’elettorato».
L’Atene delle Calabrie sognata da Caruso
«Cosenza è stata un punto di riferimento sul piano culturale e politico per l’intera Calabria e anche per il Meridione». Parole che precedono le promesse: «Ridare vita alla Casa delle Culture, alla Biblioteca Nazionale, alla Biblioteca civica e soprattutto al teatro Rendano». Che torni, quest’ultimo, ad essere «teatro di tradizione e, quindi, di produzione».
La Grande Cosenza arriva al Savuto
Ma quale città unica, Caruso vuole ricostruire ridisegnare la geografia della Calabria Citra. Mette dentro tutto: Cosenza, Rende, Zumpano, Castrolibero, Montalto e pure la zona del Savuto.
L’eterna vicenda dell’Unical
Caruso lavora per un maggiore «coinvolgimento e integrazione dell’Università della Calabria nel territorio cosentino». Perché crede che «il Campus non abbia sviluppato un rapporto simbiotico con la città capoluogo». Poi rincara la dose: «Arcavacata non è nemmeno l’università di Rende». Un Ateneo di gente che «vive quella città solo nei giorni della movida».
Nel concreto Caruso dice di «aver già chiesto al rettore Nicola Leone di poter collaborare con l’università per i progetti del Pnrr».
Una leghista per i 90 milioni del Cis
I 90 milioni del Cis per il centro storico di Cosenza? Venerdì 21 arriva il sottosegretario per i Beni e le attività culturali, Lucia Borgonzoni. Seguirà il tavolo tecnico. Lo ha annunciato lo stesso sindaco.
Ciclabili ma con giudizio
La viabilità di Occhiuto ha danneggiato il commercio. È il pensiero di Franz e non solo. E se – come sostiene il primo cittadino – «Cosenza è la sua provincia, allora dobbiamo consentire alle persone di raggiungere la città». E gli amanti della bicicletta? La città sostenibile di Caruso non vuole diminuire le piste ciclabili. Piuttosto vuole aumentarle. Distruggendo parte delle vecchie però e senza quella proliferazione di circuiti per scalare, fittiziamente, le graduatorie delle città ecosostenibili.
Un jolly da giocare sulle confluenze
«ll Jolly abbattuto è stata opera importante di Occhiuto, ma non ho nessuna intenzione di proseguire nella costruzione del museo di Alarico». Franz dixit. E se proprio c’è da scegliere qualcuno che rappresenti lo spirito della città? C’è già il buon «Telesio». Sull’immobile pende un vincolo di destinazione. Franz Caruso vorrebbe rimodulare tutto e fare di quel posto un «grande parco verde che ricongiunga città vecchia e nuova».
Cosenza verde
Nella visione di Caruso dovrebbero essere eliminate «tutte quelle mattonelle cinesi di Piazza Bilotti per lasciare spazio al verde». Spostando il parco del benessere «lungo gli argini dei fiumi magari navigabili». Ecco il manifesto di Franz contro la cementificazione del verde in salsa Occhiuto. Per ora solo intenzioni.
È sabato pomeriggio. Ci sono due ragazze abbracciate davanti all’obiettivo, sedute su un Sì Piaggio di colore blu. Fanno con le dita il segno della vittoria e profumano di Lulù de Cacharel. Sullo sfondo s’intravede Cosenza. Palazzo degli Uffici circondato dal traffico, le insegne verticali di negozi e agenzie di viaggi, gli autobus arancioni dell’Atac che fanno la gimcana tra le auto in doppia fila. Micidiale, questo è un tuffo negli anni ’90. È l’alfabeto minimo di una ragazza cresciuta negli anni Novanta.
A come aquile
Sono le “A” della scultura di Baccelli (che in realtà sono colombe nelle intenzioni dell’artista), simbolo di piazza Kennedy, la piazza di due generazioni di giovani cosentini. Il sabato sera era una bolgia, si parlava ininterrottamente, un brusio senza sosta, la vita che pulsava, seduti sui motorini parcheggiati, sui gradini, a terra, sul muretto. Uno scenario che i ragazzi di oggi non riuscirebbero neanche ad immaginare, senza schermi accesi e teste chinate, notifiche e storie.
Solo chiacchiere, ennesime sigarette, accendini Zippo che passavano da una mano all’altra. Qualcuno, il solito, che faceva la colletta: «Oh, ma soldi spicci?». Ognuno al suo posto perché ogni pezzetto della piazza segnava l’appartenenza a una tribù: il gruppo della farmacia Chetry, a via Mario Mari gli ultrà fuori e dentro le sale giochi (Matriarca, Number One e Romano), poi quelli della concessionaria e – i più grandi – sotto il monumento.
C’era addirittura chi aveva come riferimento una scritta sul muro, mentre per qualche tempo la piazza ebbe anche un bar eponimo. La piazza si divideva tra “borghesi” col Fay o col Barbour comprato da Mazzocca e “proletari”, quelli del centro sociale, con le borse colorate di Shiva Shop e gli anfibi militari (così originali che leggenda vuole che fossero stati sfilati ai soldati morti in guerra) presi ai mercatini di Lungo Crati.
B come bar
Non c’erano gli apericena, c’era la pizzetta doppia della pizzeria Romana con i suoi sgabelli altissimi e il rumore delle lame sulle teglie di alluminio. Il sabato era obbligatoria una puntatina al bar Mazzini o al Carbone (dietro il bancone c’era il mitico “zio Tonino”) per un cicchetto, una nuvoletta o un Angelo azzurro. La domenica mattina invece il bar era simbolo del vassoio di paste, ad esempio i cannoli alla crema di Cribari a piazza Loreto o lo zuccotto, poco più avanti, da Pedatella.
C come corso Mazzini
A Cosenza i ragazzi degli anni ’90 il sabato pomeriggio si davano appuntamento a piazza Fera, «sotto la E di farmacia Serra», alla fermata del Costabile. Hip hop e swatch al polso sincronizzati con il grande orologio sul display digitale della Cassa di Risparmio. Si ritrovavano e sciamavano verso corso Mazzini intasato dalle auto, altro che isola pedonale e museo all’aperto. Lungo il marciapiedi si respirava l’odore dei tubi di scappamento e le moquette dei negozi erano impregnate di fumo di sigarette.
La cantante cosentina Flavia Fortunato
Davanti alla Banca Nazionale del Lavoro si sentiva sempre la musica melodica calabrese di un cantante di strada che si esibiva al microfono in cambio di qualche moneta. E Cintuzzo, con la sua cassetta di legno per l’elemosina, andava a rimorchio: «Mintaci ancuna cosa per Sant’Antonio». La scala mobile dei grandi Magazzini Bertucci (dove ora c’è H&M) scendeva e saliva. Sopra tra giacche e maglioni a collo alto, fattura tutta italiana, e sotto tra i mille profumi e le sfumature rosa delle ciprie di Guerlaine. In filodiffusione il jingle cantato dalla cosentina (fresca di Sanremo) Flavia Fortunato: «Bertucci, è tutta un’altra co-sa».
D come domenica
La domenica mattina l’appuntamento era fuori o dentro le chiese, poi il pranzo con i nonni, naturalmente lo stadio quando il Cosenza giocava in casa (era il decennio della ritrovata serie B), infine per digerire si andava a ballare all’Akropolis. La discoteca apriva di pomeriggio e fuori c’era la fila di avventori con in una mano i tagliandi for lady. Nell’altra – occultata sotto i giubbotti – la bottiglia di Gin. Mentre il remix di “Please don’t go” faceva ballare mezza Italia, il 20 febbraio del 1993 i Double You arrivavano scortati all’Akropolis: fu il delirio.
E come epoche
La toponomastica racconta anche la storia di una città e negli anni Novanta se qualcuno vi avesse chiesto di via Misasi o piazza Bilotti, rispondere sarebbe stato impossibile. Ma siccome ci si affeziona al suono delle parole, per noi ragazzi degli anni ’90 piazza Fera, corso d’Italia e via Roma non hanno mai cambiato nome.
F come filone
Quando si “tirava filone” si prendeva l’autobus numero 1, Campagnano-Prefettura-Campagnano, per poi infilarsi furtivamente nel Parco Robinson. Nei recinti c’erano ancora i pavoni e i cavalli. L’alternativa era la Villa vecchia, con i cornetti di pasta sfoglia tra i più buoni della città, a guardare le partite dei “filonari” del Telesio. Gli studenti del liceo classico, dentro, erano invece segregati, la ricreazione la facevano chiusi nel cortile sorvegliati dai bidelli. Che invidia per quelli del Fermi. Essendo nel centro città, a ricreazione avevano un quarto d’ora di libera uscita e – si narrava – potevano andare dove volevano.
G come giri
Non c’erano monopattini elettrici ma si potevano noleggiare gli scooter da Ottorino Gualtieri: un’ora di adrenalina e di trasgressione per tutti quelli a cui i genitori non compravano il motorino, magari alla Piaggio, la concessionaria si trovava dietro piazza Europa.
H come hamburger
I cugini dei cugini ci facevano sognare raccontandoci della vita degli universitari a Roma o Bologna, di Mc Donald e concertoni. Noi gustavamo il nostro panino “America” al Free Pub (hamburger, pomodoro, ketchup e senape) e ballavamo sotto il palco dell’Auditorium del Telesio con i 99 Posse (dicembre ‘93) e Casino Royale (giugno ‘95). A metà anni 90, in piena renaissance del centro storico, la movida si sposta su corso Telesio tra Irish Pub e Beat. Una parte della città fino a quel momento off limit diventa luogo di aggregazione e nasce il mito della città europea.
I come Incontri
Uno squillo: richiamami. Due squilli: sto uscendo di casa. I ragazzi degli anni ’90 facevano la fila alla cabina telefonica. Per le chiamate più lunghe c’era la Sip in zona Autostazione dove – la parola privacy non esisteva – si garantiva più intimità e con una tessera da 5mila lire la telefonata, se urbana, era interminabile. S’incontravano alla fermata dell’autobus o nelle villette. Quella di via Roma dove adesso c’è il parco inclusivo della Terra di Piero era un rettangolo di terra ed erba, non illuminato e mal frequentato, con un enorme serpente in cui ci si poteva nascondere per fumare di nascosto una sigaretta o scambiarsi baci furtivi.
L come Luna Park
Quando i costruttori non avevano ancora colto le sue potenzialità, via Panebianco era il posto giusto per il luna park, così grande (si installava nell’area che oggi ospita un hotel) che c’erano persino le montagne russe. Il massimo era riuscire ad avere i biglietti gratuiti che il negozio di scarpe Big Ben, tra gli sponsor, faceva avere ai clienti più fedeli.
Il tagadà, un must per i frequentatori dei luna park degli anni Ottanta e Novanta
M come mercatini
I più famosi erano quelli di Lungo Crati, dove potevi trovare di tutto. Per la bigiotteria e gli orologi c’erano le bancarelle intorno alla fontana di Giugno. Il leader indiscusso per fama e anzianità, fino alla fine degli anni ’90, è stato Ciccio u cravattaru. La novità arrivò a bordo di grandi pullman fatiscenti provenienti da lontano, con quello che veniva definito “il mercatino dei polacchi”, itinerante, ricco di oggetti giunti clandestinamente con la caduta dei regimi: preziosi memorabilia del Partito Comunista, orologi da tasca, binocoli, stampe e tagliacarte di ottone.
N come negozi
Dove adesso impera Scintille c’era Hit Shop, all’interno l’iconica scalinata con la fontana e tutte le griffe del momento, da Best Company a Versace. I jeans, rigorosamente Levi’s, si acquistavano da Corallino, con l’orlo che negli anni si accorciava sempre di più fino a lasciare il posto al risvoltino.
In un’epoca in cui i vestiti erano sempre di buona qualità abbondavano le mercerie: Pinto, Tagarelli, la Carmagnola, luoghi sovrabbondanti di bottoni e nastri, colori e profumi, in cui le nonne facevano scorta di aghi, rocchetti, uncinetti e toppe. Alla libreria Il Seme di piazza Loreto compravamo le biografie dei Duran Duran e degli Spandau Ballet, spartiti e plettri, i libri di scuola da Percacciuolo a corso d’Italia. Ma la “libreria” era solo la Domus, con il suo labirinto di scaffali di legno e all’ingresso il raccoglitore dei poster più ambiti, da sfogliare.
I regali di compleanno si sceglievano da Cose Così, con il lettering bubble nella mitica nuvoletta bianca. Non c’era coppia di innamorati che non si fosse scambiato un cuore o un peluche preso qui. Due piani di gioia pura, tra lampade, specchi e le delicate fantasie Naj-Oleari replicate su borse, portafogli, cerchietti, portachiavi.
Le camerette poi, erano piene di oggetti acquistati da Famele, Chiappetta, Chiarello, Ianni: le cartolerie, luoghi del cuore di chi ha vissuto i ‘90. Felponi, accessori sportivi e attrezzatura per sciare erano da KamaSport, Alfieri e Montalto. I giocattoli più belli al Fagiolo magico su via Alimena. Le scarpe le compravamo da Spadafora, Forgione Rosso e Forgione Blu (a cui si è aggiunto Forgione Più per l’abbigliamento) ma i più arditi volevano le Cult, quelle con la punta di ferro. Il franchising Energie, a piazza Kennedy, fu tra i primi a mettere la musica a palla e a tenere le porte sempre aperte, bastava poco per ricreare, vagamente, l’atmosfera londinese.
Cult con la punta di ferro
O come offese
“Dietro le poste” era la perifrasi utilizzata per offendere o prendersi in giro, facendo riferimento alle prostitute in attesa di clienti a piazza Crispi. E da lì partiva il puttan tour dei giovani cosentini quando per strada non c’era più niente da fare. Passava dalla Villa Nuova davanti alle macchine parcheggiate con i fari accesi e si spingeva – superate le forche caudine del ponticello a S all’inizio di via XXIV Maggio – fino a via Popilia, dalla mitica “Felicetta” nella casupola che oggi ha lasciato il posto alla rotatoria a favore di discount, all’ombra del ponte di Calatrava. A quel punto i più intrepidi osavano varcare ogni confine lecito. Arrivavano a Gergeri, fino a vedere i fuochi accesi nei bidoni davanti alle baracche dove vivevano le famiglie rom in seguito trasferite nel Villaggio di via degli Stadi.
P come pizze e panini
Quando piazza Kennedy si svuotava, il sabato più classico delle comitive era al Free Pub (vai alla lettera H), con birra, panino e VideoMusic. In alternativa c’era la pizza della Luna Rossa in zona Tribunale o della Sfinge per chi si muoveva a piedi e si impossessava della città. Stella e Black Orchid su via Molinella si contendevano il popolo della notte.
Da Stella, Maurizio e i suoi fratelli sfornavano panini multistrato farcitissimi e il mitico “primavera” (mozzarella pomodoro e insalata) e si finiva a parlare per ore e ore. Il rito del sabato sera prevedeva un’altra tappa, per i più piccoli l’ultima prima di tornare a casa. La Casa del Gelato e del Frullato, «Ciao raga’», ad accoglierli il sorriso buono del titolare e il suo vocione, era un amico dei ragazzi.
Storico adesivo del Free Pub
Seduti ai tavolini si ordinava Banana split o un frullato che oggi chiameremmo frappè, ma c’era la frutta vera esposta al banco, niente polverine. Chi non era qui era alla Cornetteria di piazza dei Bruzi a scegliere tra tanti gusti la novità black and white. La pizza con i genitori o per le feste di famiglia era da Frank a Saporito, Quelli della pizza a Mendicino e Blade Runner a Castrolibero. Fuori dal centro la tappa più gettonata – magari dopo una sosta all’Ipanema per un Barone Rosso o un Angelo Azzurro – era all’Apocalisse, con le interminabili partite con le torri di legno innaffiate da pinte di birra alla spina.
Marco “Bamba” versione Punk
Tornando a Cosenza, da menzionare è la breve ma felice stagione della “Bamba” di Marco e Sonia, erano giovani e innamorati e il loro era il locale più originale del centro (via Galliano). Nei pomeriggi lenti di una città che offriva pochissimo ai ragazzi, c’erano il juke box e i giochi da tavolo e si potevano gustare tisane e piadine in stile romagnolo.
Nuovi gusti per una generazione pronta a sperimentare anche nel cibo e che ha poi scoperto l’esistenza della soia solo quando su via Alimena è comparsa l’insegna rossa del ristorante cinese, con le sue tavole rotonde su cui, portata dopo portata, ci si ritrovava a fine cena satolli e solo un fondino di grappa alla rosa salvava.
Q come quaglie
Il soggetto della scultura commissionata a Baccelli agli inizi degli anni ’70 per piazza Kennedy (il luogo rievocava l’impegno pacifista del leader americano) sono le colombe, da cui il nome dell’opera. Ma nella vulgata gli uccelli sono sempre stati indicati come quaglie, forse a causa dell’eccessiva stilizzazione operata dall’artista. O per sminuirne il valore.
R come radio
Il decennio 1990-2000 si è aperto con l’occupazione del cinema Italia e con la fondazione di Radio Ciroma e poi del centro sociale Gramna. Tutto in pochi mesi. La radio era la colonna sonora dei pomeriggi degli adolescenti. Lo stereo sintonizzato sulle stazioni locali: Radio Cosenza Nord, Radio Sound, Radio Queen, in attesa del momento juke-box, quello in cui si poteva richiedere un brano. Il numero di telefono? Quello di Radio Sound, grazie a un fortunato jingle. L’avevamo sempre in testa: «La musica che vuoi ascoltala con noi…7-3-0-8-4, uh!» (il prefisso divenne obbligatorio in seguito). Iguana Disco Shop, Orfeo e Piro Dischi erano le tappe irrinunciabili in un’epoca in cui la musica si comprava e vinili, cd e musicassette erano pane quotidiano.
Francesco “u dutture” Febbraio a Radio Ciroma con Oreste Scalzone
S come stampe
Le foto si stampavano, si attaccavano sul diario, sui muri della camera, si raccoglievano nei portafotografie. Raf Caputo, Centro foto meridionale, Restivo erano alcuni dei punti in cui consegnare i rullini da 12, 24 e 36 foto. Dopo qualche giorno la busta Kodak era pronta, con il suo carico di emozione e curiosità e l’odore inconfondibile dei negativi.
Lo storico fotografo cosentino Raf Caputo, scomparso pochi anni fa
T come Totonno lo squalo
“A Juventus è morta!” gridava spalancando la bocca. La giacca lisa, la mano tesa per chiedere i soldi spicci per un panino. È morto a Corigliano nel 2006 ma è stato per tanti anni una maschera (sdentata) della città. E oggi continua a vivere nella memoria dei cosentini: il suo volto, qualche anno fa, è stato impresso su un murales – purtroppo danneggiato dal tempo – realizzato dal Collettivo Fx sulle pareti del centro sociale Rialzo.
Piazza Loreto, il Generale nella sua tipica posa
Totonno u squalo (foto Benedetta Caira)
Corso Mazzini, Alberto e la sua immancabile sigaretta tra le mani (foto Ercole Scorza)
Insieme a lui restano nei nostri cuori anche il Generale (il soprannome dovuto alla sua giacca militare costellata di medaglie) col suo braccio destro alzato nel saluto (solo immaginato) al Duce e Alberto, presenza fissa su corso Mazzini, la sigaretta accesa sempre incollata alle labbra e la voglia di lasciarsi andare e ballare, ballare.
U come The Usual Suspect
I Soliti sospetti (1995), il film amatissimo – è ancora un cult – eppure in quel decennio oscurato da almeno altri due titoli forse più generazionali come Pulp fiction (1994) e Trainspotting (1996) poteva regalare emozioni nelle case dei ragazzi dei Novanta: una volta visti al cinema (niente multisale) si andava di Vhs. Dopo scelte che potevano durare ore davanti alle pareti piene di custodie da consultare per la lettura delle trame, le videocassette si noleggiavano da Only One a corso d’Italia (vedi lettera E). O, più tardi, da Blockbuster a via Panebianco, antro magico che ebbe tra i meriti quello di farci scoprire i gelati Haagen-Dasz.
V come veglioni
Le feste più “in” erano al Garden Club e allo Sporting Club. Luoghi eletti anche per i veglioni di Capodanno insieme al Cinema Garden e al Timer, la sala ricevimenti che si trovava sulla strada per Sant’Agostino e aveva imbroccato la strada fruttuosa delle feste a inviti. Boccoli, molto velluto, calze velatissime, le ragazze degli anni ’90 arrivavano all’appuntamento solo dopo essere state dal parrucchiere e con un outfit impeccabile. Peccato, erano i tempi in cui si poteva fumare anche nei locali e si arrivava alla fine della festa senza scarpe e completamente sfatte. Sì, esattamente come succede oggi.
Z come Zorro
Il gelato? Almeno tre opzioni tutte da provare: lo storico Zorro, bar Mary e Dante Gelo a Rende. Quanto di più distante dalle mousse pannose e burrose dei nostri giorni, che forse hanno bisogno di dolcezze surrogate.
Non volano elicotteri né abbondano i posti di blocco, che funzionano soprattutto per le normali esigenze di controllo del traffico e della sua sicurezza.
L’ultima volta che si è registrata un’abbondante presenza delle forze dell’ordine è stata a novembre 2012, nei giorni e nelle ore immediatamente precedenti l’arresto di Ettore Lanzino, primula per eccellenza della ’ndrangheta cosentina. A parte questo, Rende sembra la classica città tranquilla.
Già: Rende non è Saigon né Chicago. Tuttavia, ciò non toglie che la città modello, raro esempio di sviluppo urbano in cui estetica ed efficienza, ordine e crescita sono state a lungo in equilibrio quasi perfetto, ha tanti problemi e ne genera altrettanti.
Ettore Lanzino, uno dei boss storici della ‘ndrangheta cosentina
Il caso Manna
Tengono banco nelle cronache le notizie sul recente provvedimento cautelare con cui il Tribunale del riesame di Salerno ha sospeso Marcello Manna, il sindaco di Rende, dall’esercizio dell’avvocatura per un anno.
Ma questo provvedimento, per ora, è “platonico”: contro questa decisione del Riesame hanno fatto appello sia la Procura di Salerno, che per Manna aveva chiesto la detenzione cautelare in carcere, sia la difesa del sindaco, che ovviamente mira ad azzerare tutto.
Non è il caso di entrare nel merito, perché su vicende delicate come questa non si ragiona come in curva sud. Anzi, è doveroso il massimo del garantismo.
Il quinto amministratore sotto le lenti dei magistrati
A livello giudiziario, la decisione del Riesame risulta molto “salomonica”: il gip ha rigettato la richiesta dei domiciliari perché, a suo giudizio, non sussistono esigenze cautelari. Detto altrimenti, perché Manna non scappa e perché non può più inquinare le prove, a favore e contro, che evidentemente sono già in saldo possesso degli inquirenti.
Il merito, ovvero l’eventuale pronuncia sull’innocenza o meno del sindaco, non è assolutamente in discussione.
Detto questo, Marcello Manna è il quinto amministratore di Rendefinito sotto le lenti della magistratura. Si badi bene: nell’inchiesta della Procura di Salerno non c’è nulla che riguardi l’operato di Manna come sindaco. Però c’è un dato storico che proprio non si può tacere.
Il boss e i due politici
Quando fu arrestato Ettore Lanzino, Marcello Manna – che comunque faceva manifestazioni pubbliche coi Radicali ed era vicino a quell’area socialista a cavallo tra centrodestra e centrosinistra – non pensava alla carriera politica e, forse, non immaginava che sarebbe diventato sindaco di Rende.
Ma si limitava a fare, con la provata bravura, il difensore di indagati e imputati eccellenti. Anche di Lanzino, che ha continuato a difendere quasi fino al 2018, quando fu rinviato a giudizio Sandro Principe.
Con questo riferimento storico, non si vuol alludere a nulla. Al più, si coglie una coincidenza “suggestiva” troppo forte per passare in secondo piano.
Sandro Principe ha dominato la politica rendese per molti anni
Il gotha nei guai
L’inchiesta “Sistema Rende”, iniziata all’indomani dell’arresto di Lanzino, è esplosa nel 2016, con l’arresto di Sandro Principe, che fino a quel momento era comunque considerato un papà di Rende.
Le accuse, che si focalizzavano sulle Provinciali del 2009, erano di corruzione elettorale, corruzione in atti amministrativi e concorso esterno in associazione mafiosa.
Discorso simile per Umberto Bernaudo, sindaco di Rende dal 2006 al 2011 e Pietro Ruffolo, ex assessore della Giunta Bernaudo.
Principe, è doveroso ricordarlo, è stato prosciolto dall’accusa di corruzione elettorale, Bernaudo e Ruffolo, invece, sono stati prosciolti da quella di corruzione in atti amministrativi.
Umberto Bernaudo, ex sindaco di Rende
C’è un altro big di Rende coinvolto nella vicenda, sebbene non per fatti di mafia: è l’ex assessore comunale e consigliere provinciale Giuseppe Gagliardi, rinviato a giudizio “solo” per corruzione elettorale.
In questa vicenda, c’è un’altra vittima, per fortuna solo dal punto di vista politico: Vittorio Cavalcanti, altro brillante avvocato e sindaco di Rende dal 2011 al 2013. La sua amministrazione, l’ultima di centrosinistra e l’ultima legata al carisma di Sandro Principe, naufragò mentre la Commissione d’accesso antimafia spulciava le carte del municipio.
Vittorio Cavalcanti è stato sindaco di Rende
Chi tocca quella poltrona…
Ricapitoliamo: Manna è sotto inchiesta per la vicenda del giudice Petrini, con l’accusa di corruzione in atti giudiziari, che non c’entra un bel niente con la sua attività amministrativa.
Questo dato lo hanno colto benissimo anche i magistrati salernitani, che hanno applicato la misura cautelare solo alla professione e non al ruolo di sindaco, creando un paradosso apparente: gli impediscono di lavorare ma non di amministrare.
Tutti gli altri, sono stati finora travolti dal ciclone giudiziario, sul quale è doveroso il garantismo perché finora non c’è alcuna sentenza che autorizzi a pensare altro.
Fatto sta che, dal 2011 in avanti, la poltrona di primo cittadino di Rende è diventata “pericolosa”, non foss’altro perché porta un po’ sfortuna, e la città modello si è incamminata sulla via del declino.
Peyton Place
Più che Saigon, Rende sembra la Peyton Place del celebre romanzo scandalo di Grace Metallous: una cittadina in apparenza tranquilla, ma piena di scandali e contraddizioni.
Secondo i bene informati, proprio a Rende hanno trovato rifugio varie “vedove bianche” (mogli di picciotti finiti sotto lupara bianca o al 41bis).
I più maligni sussurrano altro, per fortuna al momento senza riscontri di rilievo: dietro tante fortune edilizie e aziendali vi sarebbero capitali non chiarissimi. Ma finora l’unico sospetto confermato riguarda i call center Blue Call, con sedi in Lombardia e a Rende, “scalati” dai clan reggini. Insomma, molte cose ardono sotto le ceneri ed è difficile dire in quante di esse la classe politica abbia responsabilità reali.
Rende ha perso colpi
Intanto, Rende, vive una situazione politica dura: non è in dissesto come la vicina Cosenza, ma ha comunque i conti a rischio. E soprattutto, corre pericoli forti, con una buona fetta di ex amministratori sotto torchio e col sindaco attuale finito comunque in un ciclone mediatico.
Una situazione ben diversa rispetto al decennio scorso, quando Rende ancora dava le carte e sembrava essere diventata il perno dell’area urbana di Cosenza.
Dopo di noi il diluvio? Ancora no, per fortuna. Ma stiamo ben attenti: dalle attività giudiziarie ancora in corso potrebbe scatenarsi la classica tempesta perfetta.
Il Pd calabrese dà due certezze: la vocazione masochista e il nuovo segretario regionale, che come sanno persino i muri, sarà Nicola Irto. Con un po’ di retorica, si potrebbe definire “bulgaro” l’imminente congresso che consacrerà il mattatore reggino.
Ma sarebbe riduttivo. In Calabria, anche nell’autoritarismo, riusciamo ad essere più estremi: il paragone più azzeccato, in questo caso, è l’Albania di Enver Hoxa.
Mario Franchino ha provato a sparigliare le carte in vista del congresso
L’unico tentativo di contrastare Nicola superstar è provenuto da Mario Franchino, che ha tentato di dar voce a un gruppo di ex big, ai quali solo l’età (in media over 65) impedisce pose e atteggiamenti rivoluzionari e ha suggerito un nome stereotipato: Ricostituenti, perché anche dirsi “riformisti” sarebbe troppo.
Parliamo, tra gli altri, di Cesare Marini e Agazio Loiero, che riescono a far sembrare credibile persino Piero Pelù quando si ostina a cantare rock e a portare i capelli lunghi sebbene l’anagrafe gli consigli altro.
Ovviamente, si parla di niente: l’“incidente” Franchino è rientrato per incapacità di portare cinque liste con centosessanta candidati, perché il potere di una volta è un ricordo.
Un Pd col cuore sullo Stretto
L’unica vera notizia, in questo casino, è il definitivo cambio di polarità geografica del Pd, che si focalizza a Reggio. E poco importano le recenti traversie giudiziarie di Giuseppe Falcomatà, che anzi agevolano Irto, che in riva allo Stretto non ha più rivali e, forte del notevole consenso alle Regionali di ottobre, si è imposto su tutto il resto della Calabria.
Ed è riuscito, grazie anche a un lavorio diplomatico non indifferente, a creare l’impressione di un unanimismo che nei dem calabresi non è solo innaturale ma, addirittura, contronatura.
Contrordine compagni
Ma per fortuna c’è Cosenza, che riesce a rasserenare i cronisti più maligni e conferma che, nonostante tutto, il Pd è un partito divertente. Lo è stato a fine novembre, quando la rissa dell’assemblea di Cosenza ha fatto il giro del web. E lo è anche ora che i congressi provinciali sono saltati.
Con una circolare stringata, il commissario regionale Stefano Graziano ha rinviato i congressi provinciali, previsti anch’essi a brevissimo, all’ultima decade di febbraio. Un tempismo significativo, il suo, che coincide in maniera un po’ troppo curiosa con alcune fughe di notizie che riguardano Cosenza.
La circolare inviata da Stefano Graziano
Non serve essere dietrologi a oltranza, perché quando si pensa male del Pd ci si azzecca sempre senza far peccato. È sufficiente, invece, mettere in ordine i fatti: la scadenza per la presentazione delle liste era prevista alle 20 del 13 gennaio, ma nelle prime ore del pomeriggio sono uscite alcune indiscrezioni giornalistiche sulla candidatura di Vittorio Pecoraro a segretario provinciale di Cosenza. A stretto giro di mail e di What’s App i militanti del Pd hanno ricevuto il “contrordine compagni” di Graziano. E forse con un po’ di sollievo si sono adeguati.
Una poltrona per quattro
C’è una sostanziale differenza tra Stefano Graziano e Francesco Boccia. Il primo è un po’ disperato, perché gestire il Pd calabrese è cosa che si augura a un nemico. Il secondo è anche sfigato, perché non gli va bene una manovra che sia una.
I bene informati riferiscono del tentativo del commissario cosentino di cucire un congresso unitario su Maria Locanto. Nulla da ridire sulle qualità della prescelta, tranne che forse non l’hanno mandata giù i cosentini per primi.
Infatti, Boccia aveva avuto ampie rassicurazioni dai consiglieri regionali bruzi sopravvissuti all’ecatombe di ottobre che ci sarebbero state le trecento firme per la sua attuale sub commissaria. Peccato solo che qualcun altro queste firme le aveva già raccolte. Si parla di Nicola Adamo, che avrebbe sponsorizzato la candidatura del giovane Vittorio Pecoraro (noto non solo per la militanza socialista ma anche per la genealogia: è figlio di Carlo, ex dirigente del Comune di Cosenza). Invece, alla Locanto non sarebbero arrivati i sostegni sperati. Di sicuro non quelli di Mimmo Bevacqua, che starebbe sponsorizzando un’altra candidatura femminile, di cui non è ancora emerso il nome.
Lo slittamento delle provinciali sembra un favore a Boccia, che ha tempo fino al quattro febbraio per recuperare le firme pro Locanto (o chi per lei). Ma questi giochi riguardano solo il Pd e non hanno nulla a che fare con la democrazia.
Anzi, fanno rimpiangere le vecchie primarie, che pure in Calabria ci si sforzava di celebrare. E non diamo la colpa al Covid, che impedirebbe l’organizzazione di seggi aperti al pubblico: il Pd, quando si impegna, riesce ad essere più virulento della pandemia.
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