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  • BOTTEGHE OSCURE | Cementine di Calabria, il bello del mattone

    BOTTEGHE OSCURE | Cementine di Calabria, il bello del mattone

    Nel dicembre del 1906, dopo un un’estate e un autunno inclementi di pioggia, una spaventosa tempesta di grandine provocò le ire del fiume Crati che si abbatté sulle tane dei cosentini. Ma, ieri come oggi, la natura è responsabile solo in parte della furia distruttiva. Già dalla fine dell’Ottocento, infatti, una vera e propria “febbre edilizia”, con abitazioni tirate senza alcun criterio estetico ed edilizio affiancate a eleganti palazzotti, aveva gonfiato a dismisura i quartieri bassi della città di Cosenza.

    L’epopea di Mancuso e Ferro

    Alla “Castagna” aveva sede l’opificio Luigi Mancuso e C. (poi “Ditta Mancuso e Ferro”) che con i suoi innumerevoli manufatti in cemento contribuì per decenni alla grande espansione della città verso Nord. E fu anche uno dei siti maggiormente danneggiati dalla tempesta del 1906. Insieme al Tannino, collocato sulla sponda opposta del Crati, la fabbrica di laterizi che aveva aperto i battenti nel 1903 contribuì a dare alla città di Cosenza un primo germe di sviluppo industriale.

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    Un campionario di cementine che si producevano alla Mancuso e Ferro

    Cementine

    Più di mezzo secolo dopo, alla fine di novembre del 1959, la furia degli elementi si abbatté sulla fabbrica. Le acque raggiunsero i due metri di altezza, inghiottendo materiali e attrezzature – si apprende dalla documentazione del Genio Civile. All’epoca la Mancuso e Ferro era la fabbrica più importante della città, dava lavoro a circa 150 operai e da soli tre anni aveva aperto dei saloni di rappresentanza in piazza Fera. In poco più di mezzo secolo di vita i suoi manufatti in cemento erano apprezzati soprattutto fuori regione, oltre a ornare gli edifici borghesi della città dei bruzi. Il fiore all’occhiello del campionario era rappresentato dalle cosiddette “cementine” in pasta colorata, dette anche “pastine”. Si trattava di mattonelle dai motivi delicati ed eleganti utilizzate anche oltre gli anni ’30 del Novecento in sostituzione dei vetusti pavimenti in argilla pressata.

    Fabbrica, amianto e musei mancati

    Delle pregevoli cementine della Mancuso&Ferro dai motivi geometrici o floreali restano solo alcuni esemplari che ornano il muro di cinta del vecchio stabilimento alla Castagna. Beffarda memoria di un’eccellenza che fu. Nonostante da alcuni anni siano stati rimosse le tettoie in amianto, causa di patologie tumorali per gli abitanti di via Carducci e dintorni, la vecchia fabbrica-zombie è ormai l’ombra di se stessa. «In questo quartiere in passato trascurato, e in particolare sul sito dove sorge l’ex fabbrica, il Comune ha in programma di realizzare il Museo di arte contemporanea nell’ambito di un percorso culturale che inizia dal Museo all’Aperto Bilotti e termina proprio nella città antica» scriveva nell’aprile del 2015 l’Ufficio del portavoce dell’allora sindaco Mario Occhiuto. Una reinterpretazione visionaria rimasta carta morta per un glorioso reperto di archeologia industriale che (forse) è più facile dimenticare che recuperare.

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    Il rendering del museo che aveva in mente Occhiuto sul sito della Mancuso&Ferro

    La ciminiera e il pompiere

    Tra le prime fotografie pubblicate dai giornali calabresi troviamo, nel 1905 sulla prima pagina della Cronaca di Calabria, quella della grande ciminiera della fabbrica di laterizi “Aletti” a Rende. Il terremoto dell’8 settembre di quell’anno aveva provocato ingenti danni alla struttura. La ciminiera doveva essere demolita, ma nessuno ovviamente aveva intenzione di arrampicarsi fino all’altezza di 45 metri. «Si era in sul forse se demolirlo a colpi di cannone – scrive il periodico cosentino – o se far venire da Bologna un’apposita scala per raggiungere l’altezza del fumajuolo», quando un coraggioso alla fine spuntò fuori: il caporale dei pompieri Estro Menabue.

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    La ciminiera Aletti sulla Domenica del Corriere del 26-10-1905

    Il bolognese Menabue, insieme al tenente Barattini e al pompiere Finelli che rimasero sulla tettoia, si arrampicò per iniziare il lavoro e riuscì, dopo sei ore, a demolirne una parte consistente. Le foto dell’evento rimbalzarono sugli organi di informazione, passando dalla Cronaca di Calabria ai giornali nazionali. Perfino sul diffusissimo La Domenica del Corriere si diede spazio all’evento con tanto di foto della ciminiera ancora intera, compreso il pompiere arrampicato in lontananza, e foto della ciminiera ormai dimezzata.

    Imprenditori del Nord

    La fabbrica di laterizi della famiglia Aletti rappresentò una realtà industriale di importanza notevole per il territorio, sia per la portata della produzione e per la mole dello stabilimento, sia perché la famiglia non si limitò alla produzione di mattoni ma estese la sua azione in molti settori, dalle ferrovie alle piccole miniere, dalle segherie agli impianti idroelettrici. Ne ricostruisce le vicende, attraverso i fondi superstiti dell’archivio della famiglia, una pubblicazione edita nel 1989 da Editoriale Progetto 2000 e curata da Roberto Guarasci e Silvia Carrera. Uno spaccato interessantissimo della vita economica calabrese tra fine ‘800 e inizi ‘900, quando questa famiglia di imprenditori giunti dal Nord, da Varese per la precisione, incrociò la propria storia con quella di molti “simboli del progresso” di una Calabria che con un po’ di ritardo si affacciava nell’età contemporanea.

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    La fabbrica di Laterizi ‘Aletti’ di Rende alcuni anni fa

    L’acquedotto dello Zumbo, ad esempio, quello del Merone, e soprattutto vari tronchi ferroviari tra cui la tratta Cosenza-Pietrafitta, e ancora ponti, strade, palazzi. In molte di queste opere si possono ancora vedere grandi porzioni realizzate proprio con i mattoni prodotti nella mattoneria di Rende e marchiati con il caratteristico simbolo della “A” stilizzata in un triangolo inscritto in un cerchio. A Rende, nella zona di Surdo, la presenza della fabbrica di laterizi fu una svolta. Lavoro sul posto e materiale a portata di mano possono spiegare il gran numero di edifici a mattoni a faccia vista che sorsero nella zona attorno alla vasta fabbrica, caratterizzando quella porzione del territorio di Rende. Nel 1906 gli Aletti costituirono una società per aprire una nuova fabbrica a Trebisacce, sullo Ionio, un’altra realtà vivace in cui la fabbrica Aletti impiegò un gran numero di operai.

    I mattoni rendesi

    Rende, in verità, ha una “storia di mattoni” molto più antica, che getta le radici nella presenza di argilla utilizzabile per la realizzazione di diversi manufatti in terracotta. Gli oggetti da cucina in terracotta, “terraglie”, erano da secoli una delle produzioni tipiche della zona, evolutisi poi nella produzione su più larga scala di laterizi tanto che a metà Ottocento, come scrive Giovanni Sole, vi operavano ben sette fabbriche di vasi, tegole e mattoni che impiegavano sessanta dipendenti, tra cui ventuno donne. Si trattava comunque di opifici artigianali e a conduzione familiare e per trovare esempi di dimensione più “industriale” ci volle il nuovo secolo, quando oltre a quella di Aletti operavano anche le fabbriche di laterizi Magdalone e Zagarese.

    Dodici ore di lavoro al giorno

    Nella metà dell’Ottocento quella dei laterizi era, comunque, una delle industrie più importanti della Calabria Citra, con opifici sparsi oltre che a Rende anche a Fiumefreddo, Lago, Longobardi, Carolei, Roggiano, Paola e Cosenza. Il lavoro era duro, le fornaci e le calcare richiedevano tanta fatica, sudore e legna da ardere. Le fabbriche di mattoni di Fiumefreddo, riporta ancora Sole, occupavano otto uomini e due donne per 12 ore al giorno, con una produzione di tegole e mattoni concentrata nei mesi estivi, quando si lavorava di continuo giorno e notte, mentre per gli altri oggetti di terracotta la produzione continuava tutto l’anno.

    Operai nella fabbrica di Trebisacce nel 1931 (foto tratta dal volume di Guarascio e Carreri, Editoriale Progetto 2000)

    Archeologia industriale

    I ruderi di molte di queste fabbriche sono ancora oggi i testimoni muti ma eloquenti di quell’epoca. Delle fabbriche rendesi i ruderi della Aletti, sulla strada che da Saporito va a Marano Marchesato, sono i più imponenti. Un complesso di archeologia industriale che riflette ancora la cura con cui venne realizzato, utilizzando quegli stessi mattoni che vi si producevano sia per le parti strutturali che per le parti decorative. Nel corso degli ultimi anni le proposte di riutilizzo sono state tante, perfino la creazione di un Museo della civiltà industriale, ma allo stato attuale tutto sembra ancora fermo.

    Migliore sorte è toccata allo stabilimento di Trebisacce, che conserva ancora l’alta ciminiera in mattoni, dove la ex fornace Aletti-Palermo è al centro di un consistente progetto di recupero. Molto altro è andato invece perduto irrimediabilmente sotto i moderni picconi dello sviluppo edilizio a tutti i costi. A Cosenza, ad esempio, la ciminiera e ciò che restava della Mattoneria Pupo, posta proprio accanto allo stadio San Vito-Marulla, è stato demolito intorno al 2010 per fare posto a moderni edifici. È il progresso, bellezza.

     

  • I padri so’ piezz’e core: dopo Pina, anche Luigi Incarnato nella squadra di Caruso

    I padri so’ piezz’e core: dopo Pina, anche Luigi Incarnato nella squadra di Caruso

    I padri so’ piezz’e core. Da Palazzo dei Bruzi arriva la nuova versione della celebre canzone di Mario Merola sui figli, protagonista un volto noto della politica locale: il socialista Luigi “Gigino” Incarnato. Tra i grandi sostenitori del vincitore delle ultime Amministrative, Franz Caruso, Incarnato aveva già messo piede nel Comune di Cosenza per interposta persona: sua figlia Giuseppina, eletta nella lista del Psi, è infatti uno degli assessori dell’attuale Giunta. Ora però anche suo padre avrà ufficialmente un ruolo nella nuova amministrazione di centrosinistra. Come riportato da Antonio Clausi sulle pagine di Cosenzachannel, Incarnato senior ha infatti ottenuto un incarico di collaborazione dal sindaco.

    Due Incarnato al fianco di Caruso

    Si occuperà, questa la formula, dell’espletamento di attività di supporto alla realizzazione delle linee programmatiche di governo. In estrema sintesi, farà il capo gabinetto, ruolo che il dissesto targato Mario Occhiuto ha lasciato giocoforza scoperto. Proprio le disastrate finanze municipali imporranno l’assenza di qualsiasi compenso per colui che i detrattori più maligni chiamano “Gigino ‘u gommista”. L’incarico per Incarnato sarà infatti a titolo gratuito (rimborsi esclusi), non per particolari ragioni etiche ma, più semplicemente, perché non potrebbe essere altrimenti. E, va detto, tra Franz e Gigino i rapporti sono ben più datati di quelli del primo con la figlia del secondo, vista la lunga comune militanza politica socialista.

    Un inedito

    Resta però la bizzarria di vedere il padre di un assessore fare da consulente a un altro membro – il più importante, tra l’altro – della Giunta. Non che nel passato in municipio parenti e amici degli amministratori non abbiano beneficiato dei loro rapporti (di sangue e non), ci mancherebbe. Ma quella di Luigi Incarnato nel suo genere, se la memoria non ci inganna, è una prima assoluta anche per Cosenza. D’altra parte i suoi successi come assessore regionale e commissario liquidatore della Sorical sono sotto gli occhi di tutti. E, visto che era libero, come rinunciare a un talento simile, per di più gratis?

     

  • 1943, fuga da Cosenza: il bombardamento tra propaganda di regime e realtà

    1943, fuga da Cosenza: il bombardamento tra propaganda di regime e realtà

    Agli inizi del 1943, incalzati da un possente esercito britannico, i soldati italiani e tedeschi erano costretti a ritirarsi dalla Libia in Tunisia e a Cosenza cominciarono ad arrivare le famiglie emigrate nelle terre dell’impero. In tutta fretta, si erano imbarcate sulle navi per raggiungere Brindisi. Accolti alla stazione i profughi raccontarono spaventati che gli inglesi erano spietati, affondavano le navi con i civili, mitragliavano gli ospedali e maltrattavano i prigionieri. In Russia, nel gennaio 1943, dopo ripetute sconfitte, le truppe italiane si avviavano verso una disastrosa ritirata. I soldati dell’Armir, senza mezzi e senza armi, attaccati costantemente dalle truppe regolari e dai partigiani, fuggivano terrorizzati lungo le steppe innevate. Decine di giovani cosentini e della provincia morivano in battaglia, congelati o nei campi di prigionia dell’Unione Sovietica.

    La ritirata delle truppe italiane dopo la disastrosa campagna in Russia

    La propaganda fascista

    I fascisti cosentini ammettevano che i Russi avevano iniziato una grande controffensiva ma sostenevano che alla fine avrebbe vinto chi a una ferrea resistenza avesse unito «le più pronte doti di recupero». Altre volte affermavano che i bolscevichi erano stati fermati dal glorioso esercito italiano, saldamente schierato, in eroici atti di valore e abnegazione. Per rassicurare la popolazione, pubblicavano sui giornali lettere di combattenti in cui si leggeva che stavano «spezzando le reni» ai bolscevichi. Il soldato Tullio De Simone, ad esempio, scriveva che al fronte russo andava tutto bene, che l’inverno era passato e tutti erano al proprio posto per la vittoria finale. Egli pensava con nostalgia a famiglia, parenti e amici ma, sopra ogni cosa, gli era cara la Patria, per la quale era disposto a combattere sino alla fine.

    Aerei alleati sganciano le loro bombe sull’Italia meridionale

    La popolazione, tuttavia, non credeva più alla propaganda del regime, perché ormai la guerra si combatteva anche in Italia. Centinaia di sfollati arrivavano a Cosenza. Da Genova, Torino, Milano, Messina, Palermo e, soprattutto, da Taranto e Napoli, bombardate costantemente dall’aviazione alleata. Il prefetto De Sanctis, informava il Ministro degli interni che, a seguito delle incursioni aeree, alla fine del gennaio 1943 erano giunti in provincia 1.249 profughi ospitati in genere da amici e parenti. L’afflusso degli sfollati dalle regioni italiane dava l’impressione che Cosenza sarebbe stata risparmiata da un eventuale bombardamento. E, del resto, le stesse autorità avevano sempre rassicurato che difficilmente il nemico l’avrebbe scelta come meta da colpire: non c’erano fabbriche, depositi militari e scali ferroviari importanti.

    Amantea devastata dalle bombe

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    Il ricordo delle vittime del bombardamento su Amantea

    Il Comitato provinciale della forza antiaerea invitava costantemente la popolazione a rispettare le norme sull’oscuramento. Squadre della Mvsn giravano nei quartieri per assicurarsi che non trapelassero luci dalle abitazioni, ma molti cittadini disattendevano le misure ritenendole inutili. L’atteggiamento generale mutò quando, agli inizi del 1943, alcuni centri della provincia subirono tremende incursioni aeree. Particolare impressione suscitò il bombardamento del 20 febbraio ad Amantea, nel quale morirono 21 persone e centinaia furono i feriti trasportati nell’ospedale del capoluogo. Nel paese marino, sede delle colonie estive, letteralmente sconvolto dall’improvvisa devastazione, durante i solenni funerali la popolazione seguì silenziosa il corteo di camion militari adibiti a carri funebri.

    12 aprile 1943, il bombardamento su Cosenza

    I cosentini, scriveva il Questore, in seguito al raid aereo di Amantea, erano rimasti profondamente turbati non solo per le vittime e la devastazione, quanto perché la città non aveva rifugi sicuri ed era del tutto impreparata per contrastare eventuali attacchi.
    Il 12 aprile, uno stormo di bombardieri Alleati partiti dall’Africa, sganciò i suoi devastanti ordigni anche su Cosenza. L’obiettivo principale era la stazione ferroviaria e tuttavia buona parte del bombardamento colpì il centro urbano provocando la morte di numerose persone, tra cui alcuni scolari.

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    Il mobilificio Giuliani distrutto dal bombardamento alleato. Sullo sfondo, il Palazzo degli Uffici nell’attuale piazza XI settembre

    I fascisti denunciarono la vile aggressione definendo gli anglo-americani uomini di razza inferiore che, accecati da bieco livore e incapaci di distinguere il bene dal male, si scagliavano contro gente innocente. L’ignobile bombardamento aveva l’obiettivo di deprimere il morale della popolazione ma le bombe che avevano avuto ragione della carne non avevano intaccato l’incrollabile fede nel fascismo. I cosentini avevano reagito all’incursione aerea fornendo prova di fierezza, fermezza, disciplina, abnegazione e solidarietà; con ogni mezzo si erano prodigati per sgomberare le macerie e portare soccorso ai sinistrati e avevano manifestato odio verso il barbaro aggressore che non aveva avuto pietà neanche per i bambini.

    Il giorno dopo

    Il giorno dopo il bombardamento, fu affisso un manifesto del Federale nel quale si accusavano gli inglesi di avere colpito in maniera spregevole una città indifesa. I degni figli d’Albione avevano sempre disprezzato gli italiani ed erano stati anche responsabili della fucilazione dei patrioti cosentini e dei fratelli Bandiera! Gli effetti devastanti dei quadrimotori avevano provocato il crollo di decine di palazzi e sul selciato erano rimaste numerose vittime incolpevoli ma bisognava stare calmi, stringere i denti e continuare a lavorare: alla fine gli italiani avrebbero vinto la guerra e si sarebbero liberati dalle catene degli schiavisti inglesi! Per la messa dedicata alle vittime del bombardamento, nella navata centrale della cattedrale era stato eretto un catafalco sormontato da una croce bianca e con festoni, ceri e drappi neri.

    Il vescovo Calcara, rivolgendosi alla folla silenziosa e commossa, condannò con parole dure la crudele incursione aerea e invocò la benedizione divina sulle vittime. Il giorno prima della cerimonia, il podestà Angelo Ippolito aveva fatto affiggere sui muri della città un manifesto in cui ricordava che i cosentini nel corso dei secoli avevano dato un largo contributo di sangue alla Patria e che, anche durante il bombardamento, dando prova di fierezza e coraggio, si erano stretti intorno al Fascio littorio. I fratelli morti sotto le bombe chiedevano che ognuno restasse al proprio posto e conservasse la calma dei forti, con la consapevolezza di servire la causa della civiltà contro la barbarie, del puro spirito contro la bruta materia. I micidiali ordigni nemici non avrebbero piegato la resistenza di Cosenza, da sempre madre generosa di combattenti ed eroi.

    Il panico collettivo durante il bombardamento

    In realtà durante il bombardamento, in preda al panico, la popolazione non rispettò quanto stabilito durante le esercitazioni. L’allarme delle sirene suonò in ritardo e le squadre di pronto soccorso si dimostrarono inadeguate. Equipaggiate con tute blu, badili, piccozze ed estintori, non furono all’altezza della situazione. I Vigili del fuoco, che si dettero un gran da fare per estrarre i corpi dalle macerie, erano pochi e scarsamente equipaggiati. Qualche giorno prima dell’incursione, il Comandante aveva avvertito il prefetto che, di fronte alla costante attività aerea nemica, il Corpo non aveva uomini sufficienti per agire in caso di bisogno.

    Soldati impegnati a scavare tra le macerie

    La Milizia della contraerea, composta da soldati riformati, anziani o disoccupati, non aveva reagito in alcun modo e persino i soldati del presidio militare non avevano dato esempio di coraggio e ardimento durante l’incursione aerea. In libera uscita, al segnale d’allarme, avevano occupato i ricoveri pubblici e, allontanatasi gli aerei nemici, erano tornati in caserma senza prestare soccorso ai sinistrati. Questo comportamento indignò la popolazione e lo stesso federale Rottoli chiese una punizione esemplare. Ne seguì un’inchiesta che coinvolse due colonnelli, anch’essi accusati di avere avuto un atteggiamento passivo durante il bombardamento e di aver protetto con rapporti compiacenti i propri uomini.

    Dopo il raid aereo, molti sinistrati furono accolti in capannoni alla periferia della città. Grazie grazie alle offerte di alcuni benestanti, si approntò una mensa per fornire loro un pasto caldo. I senzatetto trascorrevano le giornate nei paraggi delle case crollate, mentre di notte pattuglie di militi e vigili perlustravano i quartieri colpiti per scoraggiare lo sciacallaggio. L’1 maggio, il prefetto De Sanctis scriveva che, nonostante il rilevante numero di vittime provocato dagli ordigni, i cosentini mostravano virile compostezza ed esemplare disciplina, rimanendo tenacemente al proprio posto.

    1943, fuga da Cosenza

    In realtà, come scriveva il giornale dell’arcidiocesi, per causa degli aerei nemici che continuavano a sorvolare sulla città, si registrò un forte esodo della popolazione verso campagne e paesi vicini. Durante il giorno, Cosenza appariva semideserta, anche perché gli studenti d’ogni grado disertavano le aule e il Provveditore ammetteva che il numero dei frequentanti si era ridotto di circa quattro quinti. In una lettera riservata, il questore di Cosenza scriveva che, dopo l’incursione aerea del 12 aprile, si era verificato un largo esodo dei cittadini nelle campagne e nei paesi vicini. Le linee ferroviarie erano continuamente bombardate, gli aerei mitragliavano ogni cosa e la vita in città era spenta.

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    Corso Mazzini semideserto dopo il bombardamento

    «Calabria Fascista» riconosceva che i quartieri si erano spopolati ma molti abitanti avevano raggiunto le case di campagna più per desiderio di uova fresche che per paura delle bombe e la maggior parte degli sfollati conduceva vita da «villeggianti»: spendereccia, festosa e brillante! A fuggire erano state soprattutto le famiglie di ricchi proprietari, professionisti, commendatori e pezzi grossi della burocrazia cittadina, gente verso la quale il partito non nutriva antipatia, consapevole che l’umanità non era fatta solo di audaci eroi, ma anche di persone caute, timide e paurose.

  • Orsomarso e i suoi segreti nel cuore della montagna

    Orsomarso e i suoi segreti nel cuore della montagna

    A Orsomarso, meno di 1.200 anime nel nord della Calabria, il mare non c’è. Chi vuole goderselo va nelle vicinissime Santa Domenica Talao, Santa Maria del Cedro o Scalea. Ma, al riparo del turismo di massa, c’è un attrattore potenziale per un pubblico più specializzato ed esigente: la parte meridionale dell’Appennino Lucano, nota come Monti di Orsomarso, meno alti del Pollino, ma altrettanto massicci.

    E poi ci sono i loro tesori nascosti, accessibili solo agli appassionati più spericolati e qualificati: gli speleologi. Parliamo di grotte che si aprono sulle pareti dell’Appennino e si inabissano a grande profondità. Una in particolare, che si affaccia sul Pianoro di Scarpuri, è una cosiddetta “risorgenza”, cioè una sorgiva montana da cui emerge un fiumicattolo sotterraneo. È profondissima, circa 70 metri. L’altezza di un edificio. E non è un caso che si chiami Risorgenza Palazzo.

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    Esploratori in azione tra le viscere dei monti dell’Orsomarso

    Un mistero a metà

    L’esistenza di questa grotta, spettacolare non solo per le dimensioni, non era un segreto: non a caso è regolarmente censita da anni nei registri del catasto.
    Quel che non si conosceva e che è emerso solo di recente è la dimensione enorme e, soprattutto, la disposizione particolare e articolata di questa cavità, che è un’opera sofisticata di architettura naturale, lavorata per millenni dai corsi d’acqua e tuttora di difficile accessibilità e in parte inesplorata.
    La prima esplorazione seria risale al 2017 ed è opera di due gruppi di speleologi: Le forre del Tirreno, già protagonista di altre scoperte importanti, e Mercurion,
    Ma com’è fatta questa grotta? E, soprattutto, quali sono i suoi misteri?

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    L’ingresso del sifone sotterraneo

    I segreti della montagna

    L’ingresso è un triangolo piuttosto ampio nella parete della montagna, da cui sgorga un fiumiciattolo che finisce nella valle.
    La cavità iniziale è piuttosto ampia, circa 100 metri, e si sviluppa in orizzontale. Alla fine di questo antro c’è una biforcazione particolare che obbliga gli esploratori a improvvisarsi, rispettivamente, alpinisti o sub.
    Il primo percorso, sconsigliato a chi è sovrappeso o non ha capacità atletiche decorose, porta a una stanza superiore, raggiungibile con un’arrampicata su corda di 12 metri. La fatica vale la pena, perché il paesaggio è davvero spettacolare ed evoca immagini a metà tra il film horror e il Paradiso Perduto.

    Speleologi si calano nel corridoio sotterraneo della grotta

    I padroni di casa sono i pipistrelli, disturbati a malapena dai ragni delle grotte e da piccoli invertebrati, che si dividono un ecosistema costituito da un laghetto che genera piccole cascate. Il tutto in un tripudio di “concrezioni”, cioè di stalattiti, stalagmiti e vele, scolpite dal lavorio incessante dell’acqua sul calcare delle rocce. Proprio la presenza di pipistrelli, spiega Paolo Cunsolo, il presidente de Le forre del Tirreno, fa pensare all’esistenza di un secondo passaggio sulla parete della montagna, che gli speleologi stanno tuttora cercando. La vera sorpresa, tuttavia, è al piano più basso.

    Un mondo a parte

    «Qui c’è un mondo intero», ha esclamato Piero Greco, sub convertitosi alla speleologia e autore della scoperta, avvenuta a settembre 2017 nell’Appennino lucano che parla calabrese. Torniamo alla biforcazione del piano terra per capire meglio. Oltre che scalare con le corde, si può proseguire dritti, ma in questo caso la situazione si complica, perché la grotta termina in un sifone pieno d’acqua. Per esplorarlo, Greco ha dovuto indossare muta e bombole. Per fortuna, il condotto non è lunghissimo (circa 5 metri), tant’è che il resto del gruppo lo ha percorso in apnea.

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    Piero Greco, sub convertitosi alla speleologia, si muove all’interno del sifone

    La grotta nel cuore dell’Appennino lucano a cui si accede è l’elemento più spettacolare della struttura: 400 metri di superficie e di ampiezza ancora non calcolata, perché, spiega Cunsolo, «le torce riescono a malapena a illuminare parte della cavità».
    In parte, ricorda la cavità superiore, solo che è tutto più ampio e non ci sono pipistrelli. E tutto lascia pensare che gli esploratori del 2017 siano i primi esseri umani che ci hanno messo piede. Ma c’è un’altra sorpresa, ancora tutta da scoprire.

    Fango, acqua e freddo nelle grotte dell’Orsomarso

    La terza grotta 

    Anche questa seconda grotta termina con un sifone. Il che indica che le acque sotterranee hanno un percorso piuttosto lungo, caratterizzato da altre importanti cavità. Alla fine di questo sifone, racconta ancora Cunsolo, potrebbe esserci una terza grotta, forse grande come quella scoperta di recente nel Pollino. Ma raggiungerla può essere davvero difficile e più rischioso. E non è improbabile che l’impresa richieda l’impegno di speleologi subacquei. Una sfida importante per specialisti che non temono i pericoli ma li conoscono benissimo. Chi la raccoglierà?

  • Nessuno tocchi il mio Telesio

    Nessuno tocchi il mio Telesio

    Chi ha “vissuto” il Liceo classico Bernardino Telesio nei miei stessi anni sa benissimo che tra me e la dirigenza c’è stato un rapporto quinquennale di odi et amo, non sempre idilliaco insomma, con fasi molto positive, ma anche con aspetti negativi. Non è facile avere a che fare con il carattere del dirigente Antonio Iaconianni. Nonostante ciò ho sempre cercato di essere il più obiettivo possibile.

    In un momento delicato come quello che sta attraversando il mio liceo, sento il dovere morale di esprimere la mia opinione in qualità di “prodotto” del modello formativo del Liceo cosentino e come testimone diretto del Convitto Nazionale “B. Telesio” (eh sì, hanno lo stesso nome) essendone stato ospite per quasi quattro anni. Nelle ultime settimane attraverso articoli di giornale e social media sono stato informato sui fatti che coinvolgono la mia ex scuola e sulle numerose critiche indirizzate soprattutto al suo dirigente, oggetto di numerose polemiche da parte di studenti, di famiglie e anche di commentatori di ogni tipo. A dar inizio a tutto è stata l’occupazione da parte degli studenti della sede distaccata del liceo, “Le Canossiane”, da poco inaugurata.

    L’ira della “comunità cosentina” si è indirizzata, in particolare, nei confronti di Iaconianni, accusato di guidare il liceo Telesio in modo “manageriale”, cioè di aver “privatizzato” la scuola pubblica. A molti, inoltre, non è piaciuto l’ampliamento della offerta formativa, che ha aggiunto negli anni nuovi indirizzi al tradizionale liceo di ordinamento, quali il “Cambridge”, il “Biomedico” e il “Quadriennale”. Ciò ha permesso, tuttavia, che le domande di iscrizione aumentassero sensibilmente negli ultimi anni, al punto di far diventare il Telesio il liceo classico italiano con il più alto tasso di studenti iscritti per nuovo anno scolastico.

    La scintilla che ha fatto scoppiare le polveri, insomma la colpa più grave di Iaconianni – questa l’accusa -, è stata quella di ospitare nella struttura liceale il Convitto Nazionale. Il Convitto – la cui sede originaria è a pochi metri dal Liceo – aveva visto scendere praticamente a zero gli studenti convittori e semiconvittori a causa della fatiscenza dell’edificio e della lunga ristrutturazione ancora in corso. Nominato reggente anche di questa antica istituzione, l’ingegnere Iaconianni tre anni fa ha pensato che per poterla rilanciare bisognava ottenere prima il consenso della Provincia, proprietaria degli immobili scolastici, e poi delle famiglie dei futuri studenti delle elementari e medie.

    Il primo passaggio è stata la costruzione di una mensa moderna, e poi di una offerta formativa che abbinasse ai tradizionali studi elementari e medi i corsi di inglese del Cambridge e, perfino, l’accompagnamento a scuola con specifici bus per i piccoli studenti del Convitto. Non esistendo più l’edificio del Convitto nazionale il dirigente ha ricavato le aule dentro quello del Liceo.

    Il problema: con l’aumento del numero dei bambini delle elementari e dei ragazzi delle medie (tutti studenti del Convitto) gli spazi hanno iniziato a scarseggiare, e questo ha portato alla decisione di spostare parte dei “telesiani” nell’antico edificio delle Canossiane, ristrutturato con qualche ritardo dalla Provincia. Visto da un’altra prospettiva, quella delle famiglie dei convittori e dei lavoratori del Convitto, il risultato è stato invece straordinario: mezzi e strutture di alto livello e crescita dei posti di lavoro. Credo si possa dire che se ci sono responsabilità del dirigente, forse ben più gravi sono quelle della politica locale che, da una parte, non ha provveduto a ristrutturare il Convitto (la Provincia), e dall’altra, non ha più istituito le “borse di studio” per aiutare le famiglie a pagare la retta convittuale (Comune di Cosenza).

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    Il preside del liceo classico di Cosenza, Antonio Iaconianni (foto A. Bombini) – I Calabresi

    In una situazione del genere, soprattutto se non ben spiegata, è quasi normale reagire d’impulso come hanno fatto i liceali del Telesio, che hanno inneggiato al mantenimento dell’unità studentesca pretendendo di rimanere tutti insieme nell’edificio di piazza XV Marzo. Con l’occupazione delle “Canossiane” è partita anche una bufera mediatica che mi ha lasciato perplesso e con l’amaro in bocca. All’improvviso il mio Telesio sembrava divenire il male assoluto.

    Vorrei proporre una riflessione più obiettiva possibile, cercando di tenere da parte la mia esperienza personale a favore di una visione collettiva. Dal mio punto di vista la dirigenza ha sbagliato in molte cose nel corso di questi anni. Alcuni errori li ho vissuti sulla mia pelle, altri li ho visti ricadere direttamente sulla vita quotidiana della comunità telesiana. Ho imparato però che nella vita non bisogna giudicare solo in base agli errori. Errare è umano e tante volte non è altro che segno di attivismo. Il “non facere” è semplice: non si rischia mai di sbagliare. Per non cadere nel tranello di fidarsi delle apparenze bisogna avere una visione d’insieme.

    Nonostante qualsivoglia errore, il liceo Telesio negli ultimi anni (e proprio grazie alla dirigenza Iaconianni) ha raggiunto dei risultati eccezionali per una scuola del Meridione (è scomodo da dire, ma al Sud è tutto più difficile) e soprattutto per essere un liceo classico (indirizzo in crisi da anni in Italia). L’eccezionalità del “Telesio” l’ho notata subito. Mi sembrava diverso da tutte le altre scuole calabresi. E questo fu il motivo principale per il quale decisi di cambiare scuola al secondo anno delle superiori. Da un istituto tecnico di Lamezia Terme, dove risiedevo, mi trasferii al “Telesio” per frequentare il suo Liceo Classico Europeo, uno dei pochi in Italia. Per farlo chiesi di essere convittore, cioè studente residente, nel contiguo Convitto Nazionale. Ho avuto modo, quindi, di vivere a 360 gradi l’esperienza delle due istituzioni.

    I due “Telesio” sono stati un’ottima palestra di vita. Negli anni hanno subìto numerosi cambiamenti, sempre peggiorando il Convitto, e non per colpa degli educatori, ma per il disinteresse dei politici, e migliorando il Liceo per la cura che dirigente e docenti mettevano nel lavoro. Comunque sia, grazie a loro ho avuto l’opportunità di vivere un’esperienza unica. Come dimenticare le nuove modalità didattiche che ci hanno portato all’esterno delle aule in mille attività extra scolastiche, come la Robotica (in un liceo Classico!), la Tv Radio web, il teatro, il gruppo di lettura, la partecipazione ai festival culturali da protagonisti e i gemellaggi con scuole italiane e straniere? Sono soltanto alcuni esempi delle numerose “offerte” che puntualmente venivano pubblicizzate dal sito web del Telesio.

    “Controllate quotidianamente il sito per non perdervi nessuna opportunità”, ci diceva Iaconianni quando passava per le classi nella sua “ronda mattutina”. Ed era vero. Bastava distrarsi al momento sbagliato, e si riempivano tutti i posti disponibili per quell’attività a cui avresti voluto tanto partecipare. Ogni anno la scuola si impegnava direttamente ad organizzare scambi internazionali, cercando e selezionando scuole partner in tutto il mondo. Questi erano sicuramente il fiore all’occhiello della mia scuola, una delle esperienze più formative in assoluto nella vita di un adolescente.

    Quello che più mi è piaciuto, però, fu l’inaugurazione della biblioteca del nostro liceo, intitolata al giurista calabrese Stefano Rodotà. Nel seminterrato della scuola giacevano da molti anni in disordine e nella polvere migliaia di libri. Non ne veniva valorizzato il potenziale. Per opera della dirigenza, degli insegnanti e degli studenti è stata riqualificata inserendola in spazi nuovi e gradevoli. Oggi la Biblioteca “ Rodotà” è divenuta la più grande biblioteca scolastica del Mezzogiorno ed è a disposizione di tutta la comunità cittadina con volumi dal valore storico inestimabile.

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    La biblioteca del liceo classico Bernardino Telesio di Cosenza (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Non si possono condannare con superficialità anni di lavoro per colpa di qualche decisione dirigenziale che può apparire sbagliata. Non ho nessun interesse da difendere, ma – viste da lontano – mi infastidiscono alcune polemiche che, invece di puntare al bene comune, mi appaiono strumentalizzazioni di parte o “vendette” personali. Il “Telesio” è un grande liceo classico. Ne ho avuto conferme ripetute volte dopo il diploma. Confrontandomi con i miei colleghi universitari a Milano ho notato come un buon liceo sia cruciale per la formazione e di come io sia stato fortunato ad aver frequentato il liceo Telesio.

    Mi sono reso conto che non era eccezionale solo al Sud, ma era un esempio di ottima scuola conosciuta in tutto il territorio italiano. In ragione di tutto questo, vorrei esprimere vicinanza e solidarietà ai miei ex professori e al mio ex preside per tutte le “brutte parole” che stanno subendo in queste ultime settimane. Andate avanti. La scuola italiana è al collasso e non è per niente al passo con l’innovazione che stiamo vivendo. In questa decadenza i casi come quello del liceo “Telesio” fungono da modello virtuoso per tutte le comunità scolastiche.

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    Ex convittore e studente del Liceo classico “B. Telesio”

     

    ******************

    Siamo lieti di pubblicare la lettera di un giovane che ha vissuto l’esperienza di studente del liceo Telesio e dell’omonimo convitto.
    Di quei quattro anni trascorsi a Cosenza Saad conserva orgogliosamente un positivo e persistente ricordo al punto da qualificarsi «per sempre telesiano».
    L’orgoglio e la gratitudine per il liceo classico cosentino sono comuni a decine di migliaia di giovani e di ex giovani che lo hanno frequentato nella antica e nuova sede.
    Se una scuola merita il ricordo grato dei suoi alunni e delle loro famiglie, se – addirittura – come nel caso del Telesio, si colloca in una virtuale classifica nazionale tra le più prestigiose, questo va a merito dei dirigenti, dei professori, del personale e degli stessi studenti .
    Noi abbiamo scritto che dalle critiche e dal dissenso, in sé legittimi, non è immune neppure una scuola di eccellenza oggi guidata da un dirigente stimato e apprezzato, ma anche criticato per iniziative da lui assunte ma non generalmente condivise.
    Per questo avevamo chiesto al dirigente Iaconianni di spiegare e motivare le sue scelte per non lasciare che le voci legittimamente critiche fossero prevalenti. Ma ha preferito declinare il nostro invito.

    Ora la lettera del giovane «europerista, convittore e telesiano sempre» offre una testimonianza sui frutti che la sua formazione ha tratto dal Telesio, soprattutto dal suo attuale dirigente e dai docenti, pur non rinunciando ad un atteggiamento critico quando necessario, che è il complemento della cultura e della passione civile. (F. P.)

  • La regola di Ennio: la poltrona passa di padre in figlio… e nuora

    La regola di Ennio: la poltrona passa di padre in figlio… e nuora

    A novembre 2020 esplode una protesta a Cosenza contro l’istituzione della zona rossa.
    Tra i bersagli della piazza ci sono i fratelli Gentile ed Ennio Morrone, accusati di aver distrutto la sanità calabrese, pubblica e privata.
    A metà gennaio 2022 gli ex dipendenti della clinica Misasi-San Bartolo salgono sul tetto della storica struttura cosentina per protestare contro i licenziamenti che hanno colpito 51 dei 129 lavoratori. Le lettere di licenziamento provengono dai fratelli Greco, che hanno rilevato la clinica dai Morrone.

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    Operai protestano sul tetto della Clinica Misasi-San Bartolo dopo l’arrivo delle lettere di licenziamento per 51 di loro

    Dopo il figlio ecco la nuora 

    Nel frattempo, sono successe alcune cose importanti: Luca Morrone, figlio di Ennio, non è più in Consiglio regionale, dove sedeva tra i banchi della maggioranza in quota Fratelli d’Italia. Al suo posto è subentrata la moglie, Luciana De Francesco, eletta nella medesima lista meloniana con 4mila 500 e passa voti. Il pacchetto di famiglia, che fu di Ennio e poi di Luca è rimasto in casa, anche se ha cambiato sesso e cognome.
    Potenza delle dinastie, che rendono il potere una proprietà transitiva.
    E con buona pace di chi protesta: saranno pure molti, ma sempre meno di chi vota senza fiatare.

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    Luciana De Francesco, eletta in consiglio regionale con Fratelli d’Italia

    Il patriarca Enniuzzo

    Viso paffuto, aria paciosa e modi sornioni, Giuseppe Ennio Morrone, detto Ennio e a volte Enniuzzo, è il meno vistoso tra i big cosentini di lungo corso.
    Non ha la popolarità di Pino Gentile né il radicamento di Nicola Adamo. Soprattutto, non ha la loro capacità di trasformare le clientele in seguito.
    A voler fare un paragone irriverente, Ennio somiglia a un gatto: astuto, aggressivo quando serve, spregiudicato e calcolatore, l’ex esponente socialista (quindi democratico, poi mastelliano e infine azzurro) è un maestro nell’arte della sopravvivenza politica in posizioni di potere. Soprattutto, è il più determinato a trasformare il potere in eredità. Vediamo come.

    Quattrini e seggi

    C’è una regola non scritta che pochi possono permettersi di violare: la separazione tra attività d’impresa e la politica. In Calabria, le eccezioni eclatanti sono due: Sergio Abramo e, appunto, Ennio Morrone.
    Morrone senior, di professione ingegnere, ha esordito come imprenditore attraverso Geocal, un laboratorio di analisi specializzato sui materiali utilizzati nei lavori pubblici.
    Il battesimo politico di Morrone, invece, è stato propiziato da Pino Gentile. Con buoni risultati, tra l’altro: il Nostro fa il vicesindaco a fine anni ’80. Poi, finita la Prima Repubblica, quindi il Psi, riemerge come assessore di Giacomo Mancini.
    Il salto di qualità avviene col centrosinistra nel 2000, quando Morrone si candida ne I Democratici e diventa consigliere regionale.
    Nel 2005 il big cosentino aderisce all’Udeur di Clemente Mastella e torna in Consiglio regionale con gran scioltezza.

    L’anno doro di Ennio Morrone

    La giunta Loiero e la vicinanza a Super Clemente si rivelano meravigliosi trampolini di lancio: diventato assessore regionale al Personale, Ennio si gioca la promozione romana nel 2006. E vince: diventa deputato e, in maniera non troppo indiretta, occupa una casella al Comune di Cosenza, dove suo fratello Giancarlo (medico andrologo e poi direttore sanitario della “Misasi”) diventa vicesindaco.
    Questo è l’apice di Ennio, che non bisserà più il record di potere e presenze. Ma capitalizza comunque quel che ha a dispetto di tanti scivoloni, che ad altri sarebbero costati più cari. Vediamoli.

    Le rogne

    Già nel 2003 Morrone era finito nel mirino della Dda di Catanzaro per presunte infiltrazioni delle ’ndrine nei lavori dell’allora A3. L’inchiesta finì in niente per tutti gli indagati.
    Nel 2006 Morrone fu intercettato durante un colloquio in carcere con Franco Pacenza, all’epoca notabile dei Ds, mentre ne diceva di tutti i colori di alcuni magistrati. Lo scandalo mediatico rientrò con la velocità con cui era esploso.
    Nel 2007 è la volta di Why Not?, la megainchiesta di Luigi de Magistris, allora sostituto procuratore a Catanzaro.
    Why Not? finì per Morrone allo stesso modo che per altri indagati eccellenti (tra cui Nicola Adamo): in nulla.

    La famiglia prima di tutto

    Il principale motivo d’orgoglio di Ennio è la famiglia. In particolare, sua figlia Manuela, che ha fatto per anni la magistrata a Cosenza, prima a livello penale poi nel Tribunale fallimentare. Manuela, tra le varie, è moglie di Stefano Dodaro, già capo della Squadra Mobile di Cosenza.
    Il sogno di molti padri “che contano” è avere figli “che contano” altrettanto. E quando non ci riescono da soli, arriva il consiglio paterno.
    È il caso di Marco e Luca, gemelli quasi indistinguibili, che hanno ereditato i due core business di papà Ennio: l’imprenditoria (Marco) e la politica (Luca).
    Marco diventa socio e ad della San Bartolo, la società proprietaria delle cliniche – Misasi, San Bartolo e Villa Sorriso – di famiglia. Luca si dà alla politica, dove riprende e prosegue la carriera paterna.

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    Stefano Dodero, ex capo della Mobile a Cosenza e attualmente direttore della scuola di Polizia a Vibo Valentia

    Rinascere in Azzurro

    Nel 2010 Ennio si candida in Regione in quota Pdl. Non ce la fa per un soffio, ma l’aiuta la sfortuna altrui: prende il posto di Franco Morelli, finito in galera per concorso esterno in associazione mafiosa.
    Intanto, nel 2011, Luca diventa presidente del consiglio comunale di Cosenza nella prima sindacatura di Mario Occhiuto. Poi succede un fatto curioso: nel 2014, Ennio torna in consiglio regionale con Forza Italia. A inizio 2016, Luca partecipa alla sfiducia, che fa decadere Mario Occhiuto a pochi mesi dalla scadenza del mandato. Contestualmente, Ennio diventa presidente della Commissione regionale di controllo e garanzia, durante l’amministrazione Oliverio.

    L’impero scricchiola

    L’avvisaglia è in una dichiarazione rilasciata da Eugenio Facciolla, procuratore di lungo corso, durante una famosa ispezione ministeriale sul Tribunale di Cosenza. Facciolla, in quell’occasione, aveva lanciato l’allarme sul possibile conflitto d’interessi rappresentato da una magistrata moglie del capo della Squadra mobile e figlia di un politico. Dodaro verrà trasferito da lì a poco.
    Nel frattempo, anche le cliniche danno problemi: accumulano debiti, soprattutto nelle retribuzioni e nella previdenza, ed entrano nel mirino dei sindacati.
    Il punto più alto della crisi si registra nel 2015, quando per tamponare i problemi la San Bartolo ricorre ai contratti di prossimità. Il risultato è accettabile a livello economico ma pessimo a livello politico-sindacale.
    Infatti, la situazione si trascina fino alla primavera del 2021, quando i Morrone decidono di vendere tutto o quasi ai Greco, specializzati nel recupero delle cliniche decotte (avevano già acquistato La Madonnina e il Sacro Cuore di Cosenza e La Madonna della Catena di Laurignano), non prima di aver tentato di vendere a un altro big: Piero Citrigno.

    Migranti e guai

    Un’altra buccia di banana si rivela nel 2015, in seguito alla protesta di alcuni migranti ospiti della struttura, il Centro d’accoglienza di Spineto, frazione di Aprigliano vicinissima alla Sila. Un’inchiesta giornalistica dell’agosto di quello stesso anno rivela che il centro d’accoglienza è gestito dalla Cooperativa Sant’Anna, di cui tra l’altro era stato amministratore Marco Morrone. Nel giro di pochi mesi, la struttura viene chiusa. Ma intanto lo scandalo è scoppiato a livello nazionale e finisce addirittura in Profugopoli, il libro di Mario Giordano.
    La coop Sant’Anna, detto per inciso, gestisce anche i servizi ausiliari delle cliniche riconducibili ai Morrone più altre attività terziarie. Ma scoppia un’altra rogna: l’inchiesta Passepartout, in cui è indagato e rinviato a giudizio Luca Morrone.
    A causa di questo procedimento, Luca deve rinunciare alla candidatura alle Regionali dello scorso ottobre.

    La storia infinita

    Il resto è noto. L’elezione della De Francesco ha inaugurato un altro filone di ereditarietà politica: quello che al posto dei figli premia i loro coniugi.
    Un filone, tra l’altro non proprio inedito, visto che l’ha sperimentato con successo sulla costa Tirrenica l’ex europarlamentare del Pd Mario Pirillo, che ha sponsorizzato alla grande la carriera di Graziano Di Natale, il marito della figlia.
    In un modo o nell’altro, la dinastia resiste. Passano i decenni, cambiano i sistemi, crollano gli imperi (anche i loro), ma i Morrone sono vivi e lottano.
    Nel loro caso, il Gattopardo può essere un paragone insufficiente…

  • Ottocento anni insieme: Cosenza festeggia la sua Cattedrale

    Ottocento anni insieme: Cosenza festeggia la sua Cattedrale

    Ottocento anni. Una data importante, un compleanno differente, quello che si appresta a festeggiare la Cattedrale di Cosenza, il grande tempio della nostra città, cuore vivo e palpitante dell’intero centro storico e che porta con sé i segni di cambiamenti, di passaggi, di disfatte e di rinascite. Il 30 gennaio 1222, alla presenza dell’imperatore Federico II, veniva solennemente consacrata per opera del cardinale Niccolò dé Chiaromonti, vescovo di Tuscolo e delegato apostolico, la Cattedrale di Santa Maria Assunta a Cosenza.

    Il ruolo dell’arcivescovo Luca Campano

    Nel 1184, un rovinoso terremoto aveva distrutto molta parte della Calabria, tra cui l’antica costruzione medievale del Duomo di Cosenza. A partire dal XIII secolo, con la nomina ad arcivescovo del monaco cistercense Luca Campano, già abate della Sambucina in Luzzi, oltreché collaboratore e scrivano di Gioacchino da Fiore, iniziò un importante e fondamentale lavoro di ricostruzione della Cattedrale cosentina.
    Luca Campano, figura centrale nei rapporti tra impero e papato tra la fine del secolo XII e gli inizi del secolo XIII, contribuì a rendere la città di Cosenza un crocevia culturale e politico di primaria importanza, posizione culminata con la presenza in città dell’imperatore, arrivato con un solenne quanto nutrito corteo imperiale, in occasione della riapertura del nuovo tempio cittadino.

    Il tesoro più prezioso della Cattedrale: la Stauroteca

    In occasione della consacrazione, inoltre, si fa corrispondere il dono, da parte dello Stupor mundi al Capitolo della Cattedrale, della preziosa croce reliquario in oro, pietre e smalti, contenente una reliquia della croce di Gesù Cristo e perciò detta Stauroteca. Il reliquiario, realizzato nei laboratori del Tiraz palermitano a cavallo tra XI e XII secolo rappresenta un raro e concreto esempio della convergenza multiculturale presente nella corte normanna di Palermo. L’opera riformatrice dell’arcivescovo Luca, e la sua capacità di mediazione con le strutture dell’Impero, a partire dallo stesso Federico II, trova il suo momento di massimo splendore e di coronamento ideale nella consacrazione della Cattedrale.

    La Stauroteca donata da Federico II

    Sepolture illustri

    Il rapporto con gli Hohenstaufen fu sancito da un ulteriore quanto drammatico accadimento. Nel 1242 a seguito della morte nei pressi di Martirano di Enrico VII, figlio di Federico II e di Costanza d’Altavilla, fu deciso che fosse sepolto nella Cattedrale di Cosenza, all’interno di un antico e prezioso sarcofago romano, decorato con scene della caccia al cinghiale di Calidone.
    A questa sepoltura regale, sempre all’interno della Cattedrale, si aggiunse dopo il 1271 il monumento funebre della regina di Francia, Isabella d’Aragona, moglie di Filippo III l’ardito; la regina, incinta di sei mesi del quinto figlio, quando di ritorno dalla sfortunata crociata di Tunisi, trovò la morte nella Valle del Savuto.

    La Madonna del Pilerio

    Nella Cattedrale è inoltre conservata l’antica e miracolosa effige della Madonna del Pilerio, patrona della Città di Cosenza e dell’intera diocesi; si tratta di un’icona attribuita dagli studiosi al XII secolo, immagine a cui tutti i cosentini sono intimamente legati.
    Questi brevi accenni alla storia europea dimostrano come nel corso degli ultimi otto secoli, le tante testimonianze materiali e documentali, richiamino il passaggio della micro storia e della macro storia nella nostra Cattedrale; ma la Chiesa madre, così è conosciuta nel popolo, ha svolto sempre un ruolo centrale nella vita religiosa, sociale e politica della comunità.

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    L’icona della Madonna del Pilerio, patrona della città di Cosenza

    Dai Telesio alle bombe

    Nella Cattedrale, insieme ad altre famiglie nobili della città, aveva il giuspatronato la famiglia Telesio, da cui nel 1565 divenne arcivescovo di Cosenza Tommaso, fratello minore del più noto filosofo Bernardino.
    In una cappella laterale hanno trovato iniziale sepoltura i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, unitamente ai loro gli eroici compagni; e poi le vicende che la videro protagonista durante la fine del XIX secolo, con una nuova e importate campagna di restauri, diretti dall’architetto Giuseppe Pisant; e ancora gli eventi bellici e i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale.

    La storia della città nella sua Cattedrale

    Nel corso dei secoli, la città ha sempre vissuto la piazza grande e la Cattedrale come un luogo centrale della propria vita nella fede, ma anche della sua esistenza sociale e culturale, lasciandosi attraversare.
    Gli 800 anni della cattedrale sono in qualche modo anche gli 800 anni della nostra città, sono la storia di Cosenza e dei cosentini. È nostro dovere celebrarne la memoria.
    L’azione programmatica non trova solo pieno riscontro nello specifico indirizzo religioso e teologico, ma vuole coinvolgere tutta la comunità e la cittadinanza, in quanto la conoscenza della storia, la conservazione del territorio e la sua tutela, oltreché la formazione alla loro consapevolezza, necessitano di una coscienza unitaria attiva e partecipata.

    Ottocento anni dopo: tanti eventi e un francobollo celebrativo

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    Il francobollo emesso per gli 800 anni del Duomo di Cosenza

    Il 2022 perciò deve essere anche, e soprattutto, un anno in cui iniziare, in cui partire dalla chiesa madre, e da li unirsi intorno a grandi progetti con uno sguardo di fiducia e speranza solida, un messaggio di vita: procediamo in questo anno giubilare e afferriamo la capacità di cogliere nelle nostre radici i valori che orientano il futuro, spesso meravigliandosi, e a credere con speranza in un progetto più alto cui guardare.
    Un anniversario, un anno di eventi, tra musica, arte, storia, esperienze immersive, circolazione di idee e di progetti, ma soprattutto la presenza di persone, nel riappropriarsi del tempo e dello spazio.
    L’anno di eventi pensato per celebrare questo ottocentenario si apre con un francobollo celebrativo e rappresenta un importante sforzo in tale direzione: trasversali e inclusive, le diverse iniziative si pongono infatti l’obiettivo concreto di fare della chiesa madre della città la casa di tutti, senza distinzione.
    Buon compleanno Cattedrale, e auguri a tutti i cosentini.

    Antonella Salatino
    Presidente Associazione 8centoCosenza APS

  • “Tu vuò fà l’americano”: Telesio, la scuola pubblica che non lo sembra più

    “Tu vuò fà l’americano”: Telesio, la scuola pubblica che non lo sembra più

    Le colonne del pronao del “vecchio” Telesio di cose ne hanno viste parecchie, dagli amori adolescenziali a occupazioni con qualche pugno tra studenti di destra e sinistra. Ma quello che sta accadendo ora era del tutto imprevedibile. Una audace e ben congegnata opera di marketing sta proiettando il liceo classico di Cosenza verso una modernità vagamente yankee. Fatta di divise, trasporti privati, ambienti destinati al relax, cucine e mense, un brand identitario che si chiama Casa Telesio, rette pagate dalle famiglie e qualche non marginale forzatura delle normative.

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    Hashtag identitari sulle scalinate che portano al liceo (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Casa Telesio e l’occupazione

    È un cammino intrapreso da qualche anno e che solo recentemente ha assunto in modo palese i connotati di un embrione di scuola di élite. I primi a insorgere contro questo snaturamento dell’idea di scuola pubblica sono stati gli studenti che hanno occupato una parte della struttura scolastica, le aule presenti presso le Canossiane, dove erano d’arbitrio trasferite le classi del triennio. Quelle dove sono gli alunni le cui famiglie non pagano le rette. Proprio a seguito alla protesta, destinata a rientrare dopo l’accordo raggiunto tra gli occupanti e il preside Antonio Iaconianni e che prevede che tra le classi ci sia una turnazione mensile, il problema del Telesio è esploso in modo clamoroso.

    Ma cos’è Casa Telesio? Si tratta del frutto della mente del preside Iaconianni, uomo intelligente, capace di esprimere efficacemente lo spirito manageriale che oggi è richiesto ai presidi. E che ha capito che solo l’annessione del Convitto nazionale, di cui è reggente, trasformandolo in una scuola primaria e media, poteva garantire un bacino d’utenza in grado di andare successivamente ad alimentare le iscrizioni del Classico. Della serie: gli studenti me li prendo sin da bambini e poi me li tengo fino alla fine. Una strategia che in tempi di guerra spietata tra le scuole per accaparrarsi le iscrizioni, sarebbe risultata vincente. Ma non bastava.

    Attorno a questo progetto era necessario far crescere una idea di scuola speciale, migliore, più efficiente. Per farlo servono risorse, delle quali normalmente le scuole sono prive. Qui entra in gioco il Convitto nazionale. Nato come tutti i convitti come istituto educativo destinato ai ceti sociali meno abbienti, per garantire loro livelli base di istruzione, il Convitto nazionale ha una sua autonomia economica, perché destinatario di risorse necessarie a sostenete le spese dei convittori, quindi la mensa e una volta anche l’alloggio. Oggi quel ruolo è andato sbiadendo, i convittori sono diminuiti, ma le risorse sono rimaste. Queste, sommate ai 1600 euro chiesti alle famiglie, danno vita a una sorta di college, con servizi esclusivi negati ai comuni studenti. Una privatizzazione silenziosa dell’istruzione.

    Il Convitto annette il Telesio

    Ma questo mondo luccicante aveva bisogno di passi concreti, di tipo burocratico: fare in modo che le due entità didattiche, il Telesio e il Convitto, diventassero una cosa sola. Ma i Convitti non possono, per normativa, essere annessi, quindi era necessario il contrario. Ed ecco che sul sito della Provincia compare l’annuncio che il Convitto annette il Telesio. Del resto le due strutture scolastiche condividono già il nome e anche il dirigente.

    Sin da subito tutto questo appare come una forzatura, della quale presso l’Ufficio scolastico regionale di Catanzaro non sanno ufficialmente nulla. Lo dicono chiaramente i vertici dell’istruzione calabrese a Franco Piro, segretario della Cgil scuola, spiegando che fin qui per loro «tutto questo resta solo un annuncio», parole che sembrano anticipare una bocciatura del progetto di Casa Telesio. Su questo Piro è tranciante: «Iaconianni vuole fare una scuola non accessibile a tutti, seducendo i benestanti di Cosenza e acquisendo il Convitto».

    Ma pure dentro il Telesio, tra i docenti cresce un certo mormorio, anche se assai cauto. Infatti è sempre Piro a spiegare che i due passaggi fondamentali che riguardano il parere del Collegio dei docenti e del Consiglio d’Istituto pare non siano stati affrontati. La tempesta sollevata dall’occupazione da parte degli studenti e il clamore cresciuto attorno al progetto di Casa Telesio hanno indotto il preside a bloccare tutto, rinunciando anche a rilasciare ogni dichiarazione, rimandando i chiarimenti necessari ad una annunciata conferenza stampa.

    Pari e dispari

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    L’ingresso del liceo “vecchio” (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Nell’agonia dell’istruzione pubblica, relegata da sempre a ruolo di Cenerentola, l’idea di proporre alle famiglie, non tutte, ma a quelle più agiate, una scuola che trasmettesse il senso di una élite, non poteva che avere successo. Soprattutto in una città dove lo studiare al Classico significa ancora “marcare l’appartenenza” sociale, collocarsi dentro una gerarchia di status. Una visione della scuola ancora segnata da una impronta gentiliana, per la quale gli altri indirizzi didattici sono destinati a forgiare quadri intermedi, tecnici, comunque fuori dalla possibilità di diventare classe dirigente. Una visione evidentemente condivisa dal preside Iaconianni, che forse in altri tempi avrebbe invece apprezzato le parole con cui Erri De Luca spiega che «La scuola faceva uguaglianza. Non aboliva la miseria, però tra le sue mura permetteva il pari. Il dispari cominciava fuori». Oggi il “dispari” minaccia di entrare dalla porta principale del Telesio.

  • Ferramonti, dove l’umanità prevalse sull’Olocausto

    Ferramonti, dove l’umanità prevalse sull’Olocausto

    Il Giorno della Memoria in Calabria ci ricorda un frammento del secondo conflitto mondiale, fra i meno tristi e pur sempre angoscioso, legato alle leggi razziali e alla storia degli internati ebrei. Tra il 1940 e il 1943, per una serie di circostanze fatali alcune migliaia di ebrei deportati e di prigionieri provenienti dall’Italia e da altre nazioni europee, ebbero la ventura di concludere la loro odissea non nei vagoni sigillati davanti ai cancelli senza ritorno dei campi di sterminio polacchi o tedeschi, ma in un angolo remoto e dimenticato della Calabria interna. Approdando, dopo dolorose vicissitudini e peregrinazioni, nel campo di internamento di Ferramonti di Tarsia, «in provincia di Cosenza, una landa deserta e malarica». Lì ebrei «provenienti da tutte le terre d’Europa, il fior fiore della scienza e dell’intelligenza ebraica», ricorda lo scrittore e fotografo ebreo dalmata Luciano Morpurgo in Caccia all’uomo, un introvabile libro-memoriale pubblicato nel 1946, erano stati concentrati in una dozzina di «grandi baracche di legno costruite per la bonifica» dal fascismo nel 1940.

    Ferramonti, il primo campo liberato

    Il campo, un recinto di 16 ettari di superficie, fu costruito dallo speculatore Eugenio Parrini. L’impresa di Parrini, sodale di importanti gerarchi fascisti, era già presente a Ferramonti per eseguire i lavori di bonifica delle paludi del Crati. Alcuni dei capannoni predisposti con camerate da 30 letti erano in origine dormitori e alloggi per gli operai della bonifica agricola del Crati. Ferramonti con i suoi 4.000 internati divenne così il più grande dei 15 campi di concentramento per ebrei costruito in Italia da Mussolini dopo le leggi razziali del 1938. Fu il primo in Italia ad essere liberato dopo l’armistizio. Era sorto in una plaga del malarico vallo cosentino nei pressi di Tarsia, su di una grande spianata infestata dagli insetti e frequentemente inondata dal Crati.

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    Soldati all’esterno del campo

    A qualche chilometro lontano dai reticolati del campo, protagonista di alcune fughe senza fortuna, correva il binario della ferrovia Sibari-Cosenza, mentre a circa sette chilometri da Ferramonti restava lo scalo di Mongrassano-Cervicati, sulla diramazione del tronco ferroviario che da Paola, via Castiglione Cosentino, e proseguiva per Cosenza. Percorso attraverso il quale giunsero al campo, con tradotte in littorina e vaporiera in partenza dai binari della stazione di Paola molti degli internati. Mentre dai binari della linea ionica Sibari-Taranto furono raccolti a Tarsia anche gruppi di internati ebrei provenienti dal nord Europa, insieme a quelli rastrellati lungo il versante adriatico della penisola.

    Lontani dal genocidio

    Insieme agli ebrei furono detenuti nel campo anche prigionieri civili, partigiani jugoslavi, carcerati politici greci, militari francesi e persino un gruppo di prigionieri cinesi a cui venne affidata la lavanderia interna al campo.
    In questo luogo isolato del vallo cosentino appena sfiorato dal treno, remoto e inospitale come pochi altri, ma per questi stessi motivi rimasto a lungo intoccato e lontano dai fuochi divampanti della guerra e dal fanatismo antisemita dei regimi nazifascisti, gli internati ebrei, pur privati della libertà poterono sfuggire al genocidio. Furono trattati con umanità anche dal personale militare italiano addetto alla sorveglianza del campo.

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    Prigionieri cinesi nel campo di Ferramonti

    Ferramonti, che ricadeva sotto la responsabilità del ministero degli interni fascista, fu sempre diretto da commissari di pubblica sicurezza. Solo la sorveglianza esterna al campo era affidata alle camicie nere della gendarmeria territoriale. I deportati poterono durante gli anni di prigionia, godere anche di una certa libertà di movimenti, e solidarizzarono con le popolazioni locali con le quali praticamente convissero a lungo, dando vita durante gli anni di guerra ad un insolito rapporto di simbiosi civile e umana, improntato alla solidarietà e costellato da frequenti episodi di fraternità umana, tanto più significativi in quanto scaturiti in tempi e circostanze storiche che vedevano consumarsi altrove nel resto dell’Europa i crimini dello sterminio antisemita.

    Ferramonti, il più grande kibbutz prima di Israele

    Condizioni di vita insolite, al punto che lo storico ebreo Jonathan Steinberg ha definito il campo di Ferramonti «il più grande kibbutz sorto sul continente europeo, prima di Israele». Per molti degli internati ebrei, affluiti in Calabria dopo le leggi razziali del 1938 e poi più numerosi nel corso della nuova diaspora durante gli anni del genocidio, l’ultimo dei treni che portava a destino l’«ebreo errante arrivato in catene» fu quello della salvezza.

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    Campo di Ferramonti, incontro tra gli internati e il rabbino Riccardo Pacifici

    Numerosi fra gli ex internati ebrei del campo di Ferramonti di Tarsia hanno conservato un ricordo vivo e intenso di quei viaggi compiuti sui treni a vapore che percorrevano il faticoso tracciato a cremagliera della Paola-Cosenza. Come Luciano Morpurgo, che procedeva sulla tratta per far visita ai parenti internati. «Negli otto giorni» trascorsi dal suo arrivo a Ferramonti, si servì ancora dello stesso treno, portandosi dietro a ogni suo ritorno da Paola un «un carico di buona frutta che mancava ai rinchiusi al campo». Nella cittadina tirrenica, «quando si seppe di me – continua Morpurgo – e della causa che mi aveva portato fin là, fu una gara di gentilezza, di bontà, da parte di quella gentile e buona gente che con le cortesie e le premure voleva compensarmi di tanti dolori e amarezze».

    L’omnibus dei poveri

    Per gli internati di Ferramonti questo piccolo treno divenne così il treno del rifugio e della speranza. Si può dire che solo l’immagine di questo modesto omnibus dei poveri che solcava lento fra sboffi di vapore i recessi boscosi e assolati di questa ignota frontiera calabrese, resta a lottare contro l’immagine terrificante e disumana di quei lunghi treni di morte, neri e sigillati come bare, che ogni giorno nelle albe buie nate sotto i cieli di piombo di Mauthausen, di Dachau, di Treblinka conducevano all’ultimo calvario di atrocità milioni di ebrei.

    «A Paola ci fecero trasbordare su di un altro treno che in mezzo alle rotaie aveva una cremagliera come quella del parco Petrìn di Praga. Salimmo molto in su verso le montagne, attraverso bellissimi castagneti». E così, lontano dagli orrori dell’olocausto, per alcuni anni sui banchi di legno di terza classe dei umili convogli a vapore della Paola-Cosenza, accanto ai contadini di Falconara, ai braccianti poveri di S. Fili e del Vallo, agli studenti di Paola sedettero, sorvegliati e in catene ma per concludere fortunosamente le angosce di quei lunghi viaggi incogniti verso il destino di Ferramonti, ebrei italiani, polacchi, slavi, greci, austriaci, ungheresi e tedeschi, e al familiare dialetto calabrese si mischiarono per un momento le voci e le parole sradicate di quegli idiomi lontani.

    Il viaggio contrario

    I pochi internati ebrei che per sfortunate circostanze ebbero la ventura fatale di compiere un giorno su quello stesso rassicurante trenino il viaggio contrario che li allontanava dalla Calabria – quelli che tra loro fecero richiesta di trasferimento verso altri campi e quelli destinati dopo un periodo di mite internamento dal campo di Ferramonti ai campi del centro e del nord Italia (Trieste – S. Saba, Fossoli, Urbisaglia e altri), quasi tutti conclusero tragicamente le loro peregrinazioni, incontrando il destino nei carri piombati dei lugubri convogli avviati ai campi di Dachau, Auschwitz e altri luoghi di morte.
    Paradossalmente a Ferramonti le uniche quattro vittime belliche le fece per errore il mitragliamento di un aereo inglese durante un combattimento contro un caccia tedesco che ne sorvolava la superficie nell’agosto del 1943.

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    La scritta “Il lavoro rende liberi” sul cancello di Auschwitz

    Troppo permissivo per i fascisti

    All’interno del campo agli ebrei deportati e agli altri internati fu permesso di organizzarsi e di eleggere propri rappresentanti. I medici ebrei presenti usufruirono di un’infermeria con annessa farmacia, e spesso anche gli abitanti dei dintorni del campo che si rivolgevano loro vi furono curati. Vi fu attiva una scuola, un asilo, una mensa per bambini, una biblioteca, un teatro e luoghi di culto (due sinagoghe, una cappella cattolica e un’altra greco-ortodossa). Non furono rare le unioni e i matrimoni tra gli internati e durante il periodo di detenzione nel campo nacquero 21 bambini.

    Paolo Salvatore, uno dei funzionari di polizia che condussero il campo di internamento, venne sollevato dalla direzione agli inizi del 1943 per un atteggiamento che fu giudicato poco fascista e troppo permissivo nei confronti degli internati, ai quali aveva persino permesso di lavorare fuori dal recinto del campo per integrare le scarse razioni alimentari di guerra. Quando gli inglesi liberarono il campo di Ferramonti nell’estate del 1943, la gran parte degli internati ebrei si erano già dispersi nelle campagne intorno a Tarsia. Molti rifugiati e nascosti nelle case dei contadini calabresi con cui avevano solidarizzato durante il periodo di detenzione.

     

    Gli internati più famosi

    Tra gli internati a Ferramonti trovarono riparo personalità eccezionali. Numerose le figure singolari e i caratteri geniali che ebbero salva la vita entro quel remoto recinto sorto su una sponda malarica del Crati, lontano dagli orrori dell’Olocausto. Quando poterono ritornare al mondo, il segno che parecchi di loro lasciarono nella vita successiva scampata proprio nel periodo trascorso a Ferramonti, non di rado fu memorabile. Traiettorie di rinascita e di affermazione personale che raccontano imprese e fioriture tra le più varie. Come quelle segnate da

    • Ernst Bernhard, medico e psichiatra berlinese, che fu un importante allievo di Carl Gustav Jung a Zurigo, analista di grandi personalità della cultura italiana di cui divenne amico e confidente, come Federico Fellini, Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli e Cristina Campo;
    • Imi Lichtenfeld, ebreo ungherese, poi cittadino israeliano, passato alla storia come esperto di arti marziali e inventore del famoso metodo di combattimento e autodifesa chiamato Krav Maga, praticato oggi dagli agenti del Mossad e dalle truppe scelte israeliane;
    • Moris Ergas, ebreo greco che dopo la liberazione divenne uno dei più importanti produttori cinematografici del cinema italiano degli anni ‘60, legando il suo nome a quello dei capolavori di Rossellini, Pasolini e De Sica;
    • l’internato jugoslavo David Mel, che nel periodo di detenzione a Ferramonti fece il cuoco ma che divenne poi uno scienziato più volte candidato al premio Nobel per la medicina, scopritore del vaccino per la dissenteria;
    • Richard Dattner, un giovane ebreo polacco internato con la famiglia a Ferramonti, e che emigrato negli USA diventò nel dopoguerra uno dei più importanti e famosi architetti americani;
    • Alfred Wiesner, ingegnere jugoslavo che dopo la liberazione fu partigiano e che alla fine della guerra si mise a produrre gelati, iniziando così l’attività che lo portò nel 1953 a fondare il marchio Algida, nato dal suo innovative sistema di produzione industriale dei gelati di cui inventò sia il nome che il logo, oggi conosciuti e affermati in tutto il mondo;
    • Oscar Klein, giovane ebreo austriaco imprigionato con la famiglia a Ferramonti, dove pare imparò i primi rudimenti del jazz, e che divenne poi un famoso compositore ed esecutore di musica swing e dixieland;
    • Menachem Shelah, ebreo dalmata, poi emigrato in Israele dove divenne un importante storico e studioso della Shoa;
    • Evangelos Averoff-Tossizza, internato politico greco, che nel dopoguerra fu un importante uomo politico, ministro e fondatore del Nuovo Partito Democratico ellenico, e che raccontò in un libro pubblicato in Italia da Longanesi nel 1977 la sua storia di internato a Ferramonti;
    • Michel Fingesten, ebreo italo-austriaco che studiò a Vienna insieme all’amico Oskar Kokoschka, divenendo a sua volta uno dei più importanti artisti ed incisori del ‘900, famoso per i suoi ex-libris per le sue opere grafiche esposte nei musei di tutto il mondo – deportato a Ferramonti istituì per i detenuti del campo una scuola d’arte. Fingesten morì purtroppo pochi giorni dopo la liberazione a causa di una infezione contratta in prigionia. È ancora oggi sepolto nel piccolo cimitero di Cerisano, vicino Cosenza.
    • A Cosenza l’eredità culturale dei deportati ebrei di Ferramonti si mantenne viva nella figura di Gustav Brenner, un ebreo austriaco che trasformò la sua detenzione a Ferramonti nella scelta di vita che lo portò a stabilirsi a Cosenza, dove nel dopoguerra fondò una casa editrice di cultura specializzata in opere antiche e rare ripubblicate in edizioni anastatiche, ancora oggi attiva.

    Un treno per vivere

    Nel giugno 1944, ormai liberi, erano partiti per il loro ultimo viaggio sul treno a vapore per Paola, proseguendo poi sino a Napoli, dove al porto li aspettava per l’esodo finale una nave diretta in Palestina o negli Stati Uniti, alcune centinaia di ex internati ebrei di Ferramonti. Il 6 settembre 1945, «ultimo giorno di vita del campo di Ferramonti di Tarsia», un ultimo convoglio ferroviario partito dai binari di Mongrassano, via Cosenza-Paola, avrebbe riportato gli ultimi profughi ebrei alla stazione di Paola. E da qui cambiando nuovamente treno, verso il centro di raccolta di S. Maria al Bagno, in Toscana, presso Lucca. Con quell’ultimo viaggio verso la libertà anche «il trenino degli internati» di Ferramonti, poteva dire estinto quel debito fortuito contratto – suo malgrado – con la grande Storia. Regolato il suo conto e restituitosi libero tornava ancora una volta alla sua piccola storia di sempre.

    Quel che resta del campo

    Degli ebrei morti durante il periodo di detenzione nel campo, 16 trovarono sepoltura nel vicino cimitero cattolico di Tarsia (solo 4 sepolture sono tuttora visibili), e 21 nel cimitero di Cosenza, dove è ancora possibile visitare le loro tombe. Del tentativo da parte del Comune di Tarsia di fare dei resti del campo un piccolo museo della memoria, rimane per ora solo una baracca esterna al recinto originario, con dentro poco più di qualche riproduzione fotografica di vecchie immagini di repertorio; niente altro. Del campo, che all’interno del perimetro contava in origine 92 baracche, comprese officine, depositi, laboratori, refettori e cucine, smantellato nel tempo e sopraffatto da abusi e incuria, non restano oggi che sterpaglie e pochi capanni residui, abbandonati e fatiscenti. Uno spazio senza nome tagliato in due da un rettifilo della A2 Salerno – Reggio Calabria. Il traffico scorre immemore e veloce sopra la scarpata dell’autostrada del Mediterraneo. Altre storie asfaltate via.

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  • STRADE PERDUTE| Sangineto, il finto carnevale sui resti dei mammut

    STRADE PERDUTE| Sangineto, il finto carnevale sui resti dei mammut

    […] Successivamente a Sangineto s’è parato davanti il teatro umano più interessante, le due anime principali di quelle invasioni estive: la borghesia professionale cosentina da una parte e un pot-pourri di ceto medio, medio-basso e basso tra il partenopeo e l’avellinese. Nel mezzo, qualche fioritura di ceto medio e piccola borghesia cosentina, pure. A fare da cuscinetto o, appunto, da spettatore divertito. Le due anime di cui sopra, infatti erano a compartimenti del tutto stagni. Se comunicazione c’è stata, fidatevi, era quasi sempre fasulla. Pregiudizi da una parte, pregiudizi dall’altra (e so bene quali gli uni e quali gli altri. Ma anche quali verità).

    Tra i due litiganti

    A un certo punto, non appartenere a nessuno dei due gruppi è stato anche un salvacondotto per barcamenarsi o, più semplicemente, farsi i fattacci propri. Certo è che qualcuno dei secondi cercava di imitare i primi, mentre non ho mai visto il fenomeno contrario. Ma senza dubbio spenderei di nuovo le mie controre dei 12/13 anni come feci allora, con i peggiori scugnizzi che mi insegnavano la combinazione di tasti (e me la ricordo ancora) per scaricare tutti gli spiccioli dai telefoni pubblici, come delle slot-machine a disposizione per innocentissimi gelati o per qualche giro ai videogiochi. O assieme ai quali si improvvisavano rally in fangosissimi campi abbandonati, con Grazielle arrugginite e di fortuna: gradi di libertà.

    E altrettanto senza dubbio mi facevano piuttosto ridere (e oggi, a distanza di tempo, più pena che altro) certe mode cosentinissime: il colletto della polo alzato, la fetta di limone in quella birra lì, e soprattutto quella moda, durata per fortuna poche estati, di scendere dall’auto a piedi scalzi calcando con disinvoltura asfalto rovente e fetente – poca la differenza – davanti alle spoglie della microgattopardesca Villa Giunti, laddove pernottavano (ma ben dopo l’alba) monumentali cubiste dell’Est. Lì dove una volta c’era un ponte in pietra, quasi inspiegabile, che tirava dritto dal fianco delle chiesetta di San Michele fino al casello ferroviario ormai abbandonato.

    Azzilio, Ferrari e Doc Martens

    Ricorderei eccome nomi, volti e anche frasi specifiche. Ma a che pro? Ricordo il figlio del giudice, che non avrebbe mai messo piede in una Fiat (roba per poveracci, diceva). La nipotina di, lasciamo perdere, che quando le rubarono lo Scarabeo nuovo di zecca gliene comprarono immediatamente un altro, se no chi la sentiva… Quello che in spiaggia andava con le Dr. Martens perché così faceva più punk (molto, molto molto prima che diventassero obbligatorie già tra le ragazzine di V elementare), quello che… basta. E chissà quante cose davvero non ricordo. Pettegolezzi di 25 anni fa di cui, per fortuna, non m’importava nulla allora, figuriamoci ora.

    Ricordo articoli dell’epoca su rampolli, protettissimi dall’anonimato, invischiati in brutti giri di prostituzione d’alto bordo; le Ferrari fuori luogo, guidate da 18enni ubriachi o parcheggiate rigorosamente in bella vista (se no perché comprarne una?) nei giardini delle ville con o senza piscina, i rampolli di seconda o terza generazione, inspiegabilmente biondi (o forse molto spiegabilmente); tutti i cognomi e qualche nome (con l’incredibile incidenza di Attilio – pronunciato Azzilio – forse dovuta a endorsement trisavoleschi delle gesta dei fratelli Bandiera, boh, se no non si spiega). Ma non pensiate a coloriture ideologiche. Di ideologie nemmeno una lontana ombra, né da una parte né dall’altra. Superficialità, invece, quanta ne cercavate.

    Il finto carnevale bruziopartenopeo

    Uno squarcio in questa tela periodicamente imbrattata a tinte bruziopartenopee fu, ricordo, nel pieno dell’estate del… ’90?, un funerale tutto sanginetese. Dal primo piano di una casa del Lido, la salma mosse giù per la scala esterna, e portata in processione per il lungomare, con tanto di banda al seguito, come piace a me. E i turisti zitti, finalmente. A cuccia. Davanti a certe faccende è doveroso che riemerga una tacita gerarchia naturale: territoriale, prima ancora che sociale. Ecco perché dico che se volete capire Sangineto dovete andarci quando sveste gli abiti estivi, di quel finto carnevale di eccessi e di divertimenti certamente più sbandierati che reali. Dopo che gli acquazzoni di fine agosto ripuliscono il marcio del turismo e scacciano finalmente i villeggianti in città, a meritati calci nel sedere assieme alle loro chiacchiere da spiaggia, alle loro incoerenze involontariamente militanti e al loro vuoto a perdere.

    La vecchia natura di Sangineto

    È allora che riemerge lentamente la vecchia natura del posto, anche dell’unica contrada che il Comune ha sul mare: quella Contrada Le Crete dove alla fine dell’Ottocento furono addirittura scoperti resti di mammut (e chi volete che lo sappia?). Qui, da metà settembre, nell’unico bar che resta aperto anche fuori stagione riaffiorano i volti locali, gli uomini che tornano ai tavoli che occupavano – direi di diritto – negli altri dieci mesi, con le loro birre e i loro mazzi di carte. E, nel periodo consentito, si può vedere uscire in barca don Pietro con le frasche per preparare i cannizzi per le lampughe.

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    Sangineto Lido, prima metà del ‘900

    Il bar, dicevo: niente pubblicità, per carità, tanto uno ce n’è. Quel bar che è praticamente un faro, unica lucina accesa sul lungomare d’inverno. Una sicurezza, un’istituzione. Da Patrimonio Unesco: lo troverete aperto fino a mezz’ora prima di cena, il 31 dicembre. E di nuovo aperto il 1° gennaio, con tanto di alberello di Natale sul marciapiede, provare per credere. Molto più di un bar: una garanzia, quasi un servizio sociale, un approdo per naufraghi (in senso molto lato), con la signora dall’occhio vigile che ha visto crescere generazioni di bambini e bambine, poi adolescenti, risate e pianti.

    La festa è finita

    Poi a un certo punto (ora non ricordo bene l’anno ma fu una cosa nettissima, da un’estate all’altra) i riflettori si spensero in modo drastico. Dove ad agosto faticavi letteralmente per fare due passi nella folla, ora a mezzanotte contavi le persone sulle dita delle mani. Ricordo che si erano spostati tutti a Diamante, mi pare. Sarò maligno io, ma mi pare che la festa finì – così come finì per il tentativo di rinascita di Cosenza vecchia – quando morì Mancini. E in fondo tutto tornerebbe. Nascita, apogeo e morte di un fenomeno sociale. E nonostante l’ex voto dell’intitolazione a Mancini di un bel pezzo di strada sanginetese, vi fu sì una ripresa, lenta, difficile, ma mai in grado di eguagliare i numeri di prima. Soltanto mera emulazione dell’emulazione dell’emulazione: i ventenni di oggi, per il poco che veda, sono enormemente diversi dai ventenni di vent’anni fa. Come lo eravamo noi rispetto a paninari, yuppie rampanti & coevi, come lo erano questi dai pionieri fortunati di quindici anni addietro.

    I disonori della cronaca

    Più di recente, Sangineto cadde pure temporaneamente nei disonori della cronaca: Angelo era un cane e fu ucciso a sassate da un gruppetto di giovani sciaguratelli del paese. Non so come sia finita la storia, mi auguro abbiano dovuto prestare servizio gratuito (e controllato) in qualche canile, come minimo. O costruire con le proprie mani un monumento al malcapitato. Ma ovviamente da questa faccenda sortì tutta una stupida stigmatizzazione generica: indirizzata ai paesani tutti, prima, poi ai calabresi tutti, poi ai meridionali, poi agli italiani, a seconda della voce narrante. Solita sindrome del giudizio facile.

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    La statua di Angelo nel rione Monteverde a Roma, vittima della stupidità umana come il cane a cui è dedicata

    Sangineto plurale

    È come se ci fossero due Sangineto: non il paese e la marina, no. Ma da una parte quella di luglio e agosto, e dall’altra quella degli altri dieci mesi. Nella prima non metto piede da una decina d’anni. Nella seconda torno appena posso. Perciò, sia chiaro, non c’è assolutamente nostalgia in ciò che leggete, anzi. Semmai un’autoaccusa, in un certo senso, sia della mia passata natura – seppur scettica – di villeggiante, sia del mio attuale (ab)uso di dimestichezza da finto residente.

    Torno nei momenti più impensabili, a perlustrare per controllare che sia ancora intatto l’abbandono totale di certi minuscoli paradisi rurali scampati alla cementificazione a suon di smottamenti e disoccupazione. Di frane ed emigrazione. E di una spolverata di colpevole ignoranza. Toponimi che non dicono più niente nemmeno ai figli di chi è rimasto. Nemmeno a chi è rimasto, a rimbambirsi per decenni davanti alla tv. Relitti di un equilibrio perduto, magari non magnifico ma funzionante.

    Varese, Venezia, Courmayeur

    I sanginetesi emigrati, che tornano per l’estate (se va bene), hanno accento di Varese, perché dagli anni ’60 in poi se ne sono andati lì a frotte. Ogni paese, al Sud, ha la sua testa di ponte al Nord. Per Sangineto è Varese. Per Belvedere fu Courmayeur (ebbene sì: fatevi un giro nelle campagne di Belvedere, contate quante vecchie auto vedete targate AO e non sorprendetevi. Le belle baite alpine e gli chalet in legno della Val d’Aosta sono opera dei boscaioli arrivati dai monti di Belvedere. Anche qui: farsene una ragione. Come gli ontani usati per le fondazioni di Venezia erano – anche – quelli di Buonvicino, sopra Diamante, ottimamente refrattari a infracidirsi).

    Il sentiero dei ricordi

    Ma torniamo a noi… Il signor Pasquale, per esempio, è emigrato a 15 anni. Ogni tanto torna giù. A marzo del 2020 c’è rimasto bloccato per la pandemia. Non sapendo cosa fare s’è messo a ripulire un sentiero che da bambino percorreva per andare alla cascata dentro la grotta, in mezzo al bosco, a due passi dal paese (la cascata del Vuglio delle Forge, ed ecco ancora i toponimi a indicare le attività artigiane di un tempo, come Le Crete, qualora non bastassero – sparsi per le campagne sanginetesi – sopravvivenze di qualche carcara o di carbonaie): il sentiero l’ha trovato abbandonato, infestato dai rovi.

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    La cascata del Vuglio delle Forge

    Oggi, falce in mano, alla cascata ci accompagna gli escursionisti (sii come il Signor Pasquale, verrebbe da dire). Mi racconta che tutto quel sentiero e quelle fattorie abbandonate erano, fino a 60 anni fa, un pullulare di famiglie, bambini, lavandaie al lavoro giù al torrente, contadini inerpicati su per i pendii. «La vedi quella casa lì?» – mi fa, indicandomi una meravigliosa masseria a mezza costa, che oggi mi pare un rudere raggiungibile solo da qualche capra acrobatica – «lì ci vivevano tre famiglie». Non di quattro componenti ciascuna, immagino. Ma di quelle otto/dieci unità dove per sfamarsi dovettero inventarsi pietanze come la “cieca”, d’una povertà agghiacciante: acqua calda e farina rappresa; o la ricotta fatta con latte tagliato col latticello dei fichi.

    Sangineto, terra di nessuno

    Sangineto fuori stagione ha l’aria di un set cinematografico abbandonato, terra di nessuno pur sapendo che di qualcuno è. Ridiventa simile a tanti certi posti magnificamente desolati che ho visto in Croazia come alle Canarie (con le dovute differenze, ovvio). O come Tristan da Cunha, dove non andrò mai: l’isola più isolata al mondo, ormai famosa proprio per questo. Si trova in mezzo al nulla, nell’Atlantico (non nel Pacifico, come si potrebbe pensare: lì ce ne sono troppe perché ognuna sia sufficientemente distante dall’altra).

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    Tristan da Cunha, indicazioni per raggiungere il resto del mondo dall’isola più sperduta del pianeta

    È un’isola fredda, non una di quelle isole tropicali da pubblicità. È un’isola ostile, con poche risorse e ben poco da fare. Un bar e, fino a poco tempo fa, un solo computer connesso a internet. La posta arriva poche volte all’anno e la città più vicina, Città del Capo, sta a tre giorni e tre notti di peschereccio, se non ricordo male. Vi abitano poche centinaia di persone, tutte discendenti di naufraghi. Anche di naufraghi italiani. Nei periodi storici in cui gli uomini da matrimonio scarseggiavano, le donne invocavano qualche nuovo naufragio. Ma quando arriva qualche mero curioso allora si barricano tutti dentro casa per paura delle malattie (hanno difese immunitarie debolissime).

    Silenzio

    Ecco, io preferisco interpretare Sangineto come una personale Tristan da Cunha, senza bisogno di dover viaggiare tanto. Atlantide, in un certo senso, esiste. Ed è in tutti i luoghi che dimentichiamo, o che non abbiamo mai neppure considerato. Magari dietro casa, quelli rimasti nel silenzio. Il silenzio, appunto. Una volta la signora del bar mi chiese «ma cos’è che ti piace tanto, di qua?”. «Il silenzio», risposi. E lei: «certe volte questo silenzio è così forte che non ti abitui mai». Muto, anch’io.