Tag: cosenza

  • Verdi colline di rifiuti in attesa di bonifica a Scalea

    Verdi colline di rifiuti in attesa di bonifica a Scalea

    Al di là delle polemiche, dei blitz ambientalisti, delle risposte da parte del sindaco, il problema della discarica di Scalea esiste e pesa quanto un macigno. E’ inutile nasconderselo, il sito della discarica a Piano dell’Acqua andava bonificato e da anni.  Invece è rimasto lì come se non esistesse. Il blitz di Carlo Tansi, geologo e presidente di Tesoro Calabria, assieme agli ambientalisti del Tirreno, una settimana fa ha riportato a galla la questione.

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    Il geologo Carlo Tansi, leader del movimento “Tesoro di Calabria”

    La Procura chiude la discarica

    Era il 2013 quando la Procura di Paola chiuse la discarica. Tutti i rifiuti esistenti vennero raggruppati con ruspe e sepolti da tonnellate di terreno costituendo così delle verdi collinette oltre che finire in profonde buche. Cosa c’è in quelle collinette di Scalea forse non lo sapremo mai. Intanto quella discarica non doveva essere costruita in quel luogo al centro di tanti villaggi turistici. Si trova a poche centinaia di metri dall’ospedale, ora sede del Sert e di alcuni uffici dell’Asl e adiacente a diversi terreni ad uso agricolo.

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    La strada che conduce alla discarica ormai chiusa di Scalea

    Lo scempio ambientale a Scalea

    Un sito che sovrasta la cittadina tirrenica e sorvolato ancora oggi da centinaia di gabbiani in cerca di cibo. Dove passano falde acquifere e partivano ruscelli di percolato che raggiungevano le spiagge davanti alla Torre Talao. Uno scempio ambientale sotto tutti i punti vista, non valutato da chi ha dato le concessioni alla fine degli anni 90. Poi, agli inizi degli anni 2000 ecco fioccare le prime denunce da parte degli ambientalisti e le proteste di commercianti e cittadini sfociate in una manifestazione che ha sfilato per le vie di Scalea.

    Nel 2013 la chiusura definitiva, senza che nessuno ne pagasse le conseguenze. Un omicidio ambientale senza colpevoli. Poi ecco l’arrivo da parte della Regione Calabria di un finanziamento per la bonifica di circa 3 milioni di euro. L’attuale sindaco Perrotta dice di volerlo utilizzare al più presto.

    I siti pericolosi e le bonifiche mancate

    Resta aperta in tutto il Tirreno cosentino così come nel resto della regione la questione delle bonifiche mancate. Il piano regionale delle bonifiche risale al 2002 ( ordinanza del commissario n.1771 del 26.02.2002) e come riportato da un successivo piano in Calabria esistono 48 siti che necessitano di una bonifica; 20 ricadono in provincia di Cosenza, 2 ricadono in provincia di Crotone, 5 ricadono in provincia di Catanzaro, 5 ricadono in provincia di Vibo Valentia e 16 ricadono in provincia di Reggio Calabria.

    Ma molti altri siti non ricadono in questo elenco. Nei 409 comuni calabresi vennero censiti 696 siti di discarica potenzialmente contaminati da rifiuti, dei quali 354 attivati con autorizzazione regionale o ai sensi del DPR 915/1982 e i restanti 342 in assenza di autorizzazione. Secondo la classificazione del rischio relativo, i siti potenzialmente contaminati sono stati così suddivisi: 73 siti a rischio marginale, 262 a rischio basso, 261 a rischio medio e 40 ad alto rischio.

    Oltre 5 milioni dal Pnrr per le bonifiche

    Forse per avere un piano completo dei siti contaminati aggiornato e delle bonifiche da fare, (ma chi lo farà se manca la figura dell’assessore all’Ambiente all’interno della giunta regionale?), bisognerà attendere l’arrivo del fondi del Pnrr, fra i quali dovrebbero esserci 5.443.128 euro espressamente per le bonifiche di alcune superfici. Lo chiarisce il deputato calabrese del Movimento 5 Stelle Alessandro Melicchio, che indica anche le aree che saranno interessate dal processo di bonifica.

    «Sono previsti – ha detto – interventi a Celico per l’ex discarica di località Tufiero e a Buonvicino per l’ex discarica di località Fossato, in provincia di Catanzaro a Lamezia Terme in località Scordovillo e nella città metropolitana di Reggio Calabria a Siderno presso la Fiumara Novito». Intanto i cittadini si chiedono quanto tempo si dovrà attendere per le altre bonifiche.

    Terreni e fiumi inquinati

    Altra situazione da monitorare con attenzione è quella del fiume Noce a Tortora inquinato dall’impianto di san Sago. Qui sono stati accertati dai carabinieri importanti sversamenti  di percolato. Ciò nonostante è in corso, da parte dei gestori dell’impianto, presso la Regione Calabria una richiesta per la riapertura dell’impianto.

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    L”ingresso della fabbrica della Marlane

    Un sito altamente inquinato è il fiume Oliva ad Amantea. Qui sono stati sotterrati dagli anni 90 in poi oltre 100 mila metri cubi di rifiuti di ogni tipo. Nessuno dimentica l’oscura vicenda della Motonave Jolly Rosso spiaggiata nei pressi della sua foce nel lontano 1990. Infine restano i terreni della Marlane a Praia a Mare, che rischiano di essere “tombati” se venisse approvato il progetto di una grande struttura alberghiera, con annesso centro commerciale.

    Non mancano testimonianze rispetto a quanto avvenuto nel sito della Marlane. Come quella di Francesco De Palma, poi morto di tumore. La sua posizione, così come quella di altri lavoratori, non è mai stata presa in considerazione nei processi a Paola e a Catanzaro sui 110 operai morti in quella fabbrica. A Paola i 12 imputati vennero tutti assolti. Oggi è in corso un nuovo processo dopo i recenti rilievi su quei terreni.

     

     

     

  • Quer pasticciaccio brutto di via Roma

    Quer pasticciaccio brutto di via Roma

    Comunque vada a finire, dello scontro sulla riapertura di via Roma in Misasi a Cosenza la vera vittima, più che bambini, residenti o commercianti, rischia di essere il senso del ridicolo. Resteranno agli annali i dettagli più coloriti, a partire da quelli – colorati – dei cartelli affissi alle recinzioni del cantiere dai soldatini in trincea per difendersi dal ritorno dalle auto promesso da Franz Caruso già in campagna elettorale. Quei «Sindaco pelato», la versione petalosa (pelatosa?) del più goliardico nomignolo Cap’i lampadina toccato in sorte a un suo recente predecessore in altri tempi, e qualche parolaccia extra – in cui si avverte l’improvvido zampino di qualche meno maturo ma più adulto suggeritore – sarebbero da liquidare con un sorriso.

    Scontri di piazzetta a via Roma

    Certo, i bambini le parolacce è meglio le evitino finché possono. Ma da qui ai comunicati ufficiali di qualche consigliere comunale per censurare l’episodio ce ne corre. Eppure è successo. Così come è successo che il sindaco socialista e di vedute storicamente ampie quanto la sua calvizie abbia chiesto la rimozione del dirigente scolastico Massimo Ciglio, reo di aver profanato il cantiere ancora inattivo per una simbolica difesa della piazzetta della discordia.

    Massimo Ciglio, megafono in mano, all’interno del cantiere

    La piega presa dalla disfida tra il preside barricadero, volto storico della sinistra cosentina, e il primo cittadino ricorda un po’ la Prima repubblica. Solo che i comunisti che mangiavano i bambini ora li vogliono addirittura far correre in libertà indurendone la carne. Mentre i socialisti, gaudenti per antonomasia della gauche italiana di un tempo, oppongono al divertimento il ritorno di un più austero cemento. Grande è la confusione sotto il cielo.

    Lo scivolone di Caruso

    Sorgerà il sol dell’avvenire riaprendo quei pochi metri di via Roma o tramonterà? O, ancora, forse le nuvole che lo hanno sempre coperto resteranno i bipartisan genitori fraccomodi che nel trafficatissimo orario di uscita delle scuole si piazzano beati in terza fila pur di evitare quattro passi in più con i diletti pargoli? Giusto nel frattempo lamentarsi dello scivolone di Caruso, come hanno fatto i docenti della scuola solidali col dirigente e molti cittadini che magari lo hanno pure votato perché via Roma la vorrebbero riaperta. O perché erano stufi delle accuse di lesa maestà con cui Palazzo dei Bruzi ha respinto negli scorsi dieci anni ogni critica e si sperava divenissero un ricordo.

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    Il sindaco di Cosenza, Franz Caruso (foto A. Bombini) – I Calabresi

    A gongolare probabilmente è proprio il sindaco uscente Mario Occhiuto, artefice della piazzetta, che, dopo aver incassato nei giorni scorsi l’assoluzione da un corposo danno erariale attribuitogli, ora si starà godendo gli avversari di un tempo che prendono le parti di una sua creatura. E con una passione che negli anni scorsi non si è vista nell’invocare il ripristino dell’agibilità nella palestra della stessa scuola ribelle.

    Con quello forse, non ci sarebbero state le polemiche sulla piazza (o la piazza stessa), quelle sul perché non ne abbiano fatte altrettante davanti alle scuole di quartieri meno nobili, le gonfiatissime rappresentazioni del neonato spazio come un irrinunciabile paradiso pedonale dei piccoli eternamente gremito, il contraltare anacronistico degli adoratori tout court della dea Automobile.

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    Auto incolonnate in prossimità delle scuole su via Misasi

    Le critiche da opposizione e… opposizione

    Gongola pure l’opposizione ufficiale, che finora non aveva brillato per vigore e ha trovato una bella onda da cavalcare con facilità. E dispensa battutine al vetriolo qua e là anche quella dell’ultima ora (?): Bianca Rende, dopo essere stata in maggioranza solo nel relativo gruppo WhatsApp dalle elezioni ad oggi, è ormai ufficialmente in rotta col vincitore del ballottaggio che lei stessa aveva supportato in quella occasione.

    Logica vorrebbe che lo fosse anche con il M5S. Che la voleva sindaca al primo turno, eppure si tiene la sua casella nella giunta Caruso come se l’addio della leader di coalizione non lo riguardasse neanche di striscio. Anche qui c’entra Roma forse, anche se non la via. Ma fa sorridere altrettanto.

  • BOTTEGHE OSCURE | Cosenza da bere: dal Vetere a Bifarelli, i rifugi dei viaggiatori

    BOTTEGHE OSCURE | Cosenza da bere: dal Vetere a Bifarelli, i rifugi dei viaggiatori

    Per i viaggiatori che giungevano a Cosenza in treno via Sibari, l’accoglienza nella città dei bruzi non era delle più rosee. Ragazzacci di strada prendevano d’assalto l’ingresso principale della stazione proponendosi ai forestieri come facchini oppure offrendo accoglienza in alberghi, pensioni, locande e osterie. «È uno sconcio» scriveva nel 1896 un indignato redattore della Cronaca di Calabria dopo aver assistito a quel «pigia-pigia indiavolato ed i poveri viaggiatori spesso sballottati tra la ressa di tanti ragazzacci».

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    La stazione di Cosenza a inizio ‘900

    Tra «mmuttuni» e «male parole» ciascun giovinastro avrebbe “puntato” il proprio forestiero e conducendolo alla carrozzella libera gli avrebbe spillato qualche quattrino che si sarebbe bevuto nel giro di pochi minuti nelle fetide cantine di Santa Lucia. La carrozzella avrebbe cominciato allora la sua lenta ascesa su corso Telesio verso piazza Prefettura, dove sorgeva l’unico albergo della città degno di tale nome.

    Don Ciccio Lupoli, lo chef che sfidò i big

    C’era poco da fare: commercianti, uomini d’affari, artisti e soubrettes avrebbero soggiornato all’Albergo Vetere, a un tiro di schioppo dalla Villa Comunale. Ai primi del ‘900 era gestito da Francesco Lupoli, per tutti “Ciccio”, chef dell’annessa trattoria “Zumpo”. Oltre a preparare un sontuoso capretto al forno, Lupoli era rinomato per la torta di mandorle servita nell’ampio salone che si popolava di professionisti, gente di spettacolo e politici. Lo stesso Lupoli tentò la candidatura “autonoma e di protesta” alle elezioni amministrative del 1895 rispetto ai candidati del Partito socialista ufficiale. Si arrivò a dire che i 47 voti allo chef – “tolti” secondo alcuni ai due “big” Pasquale Rossi e Nicola Serra – furono dovuti alle laute pietanze somministrate e recensite sulla stampa locale.

    L’Albergo Vetere e il teatro Rendano in piazza Prefettura

    Tra i fan più accesi di Lupoli c’erano i redattori della Cronaca di Calabria. Nel 1911 il giornale diretto da Luigi Caputo scrisse che commercianti e professionisti si sentirono di offrire al loro chef «un pranzo per il modo signorile col quale erano trattati: un pranzo a chi aveva il merito di preparare ottimi pranzi». Nonostante la mancanza di un ascensore/montacarichi e di bagno, telefono e riscaldamento nelle camere private, l’albergo ai piedi di colle Vetere con le sue camere «ricche di sole e aria sana» era il meglio che si potesse trovare a Cosenza tra ‘800 e ‘900. Divenne persino un ricovero per famiglie sfollate durante la Seconda guerra mondiale. Fu infine demolito nella seconda metà degli anni ’60 per far posto al nuovo Liceo “Telesio”.

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    Pubblicità dell’Albergo e Ristorante Vetere su un numero della Cronaca di Calabria di fine ‘800

    Brutti, sporchi e cattivi

    «Albergo buono anche se primitivo» scriveva del Vetere la storica dell’arte statunitense Mary Berenson nel suo diario di viaggio In Calabria (1908). Avrebbe dovuto soggiornarvi pure lo scrittore inglese George Gissing che in Sulla riva dello Ionio (1897) lo giudicò «veramente un albergo decente». Tuttavia non trovò posto. La guida Baedecker lo condusse allora all’Albergo Leonetti su Corso Telesio (erroneamente tradotto “I due lionetti”), un vero e proprio dramma per lo scrittore britannico: «Una terribile buca aperta e sporca al di là di qualsiasi cosa io mi sia giammai imbattuto». Il “puzzo” avvertito dall’ospite era forse dovuto alla trattoria gestita da don Ciccio Altalena, specializzata in fritti e arrosti.

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    Cosentini in piazza Piccola, su corso Telesio: poco più giù, l’Albergo Bologna

    Sognò il Vetere anche il giovane aristocratico austriaco Friedrich Werner van Oestéren che giunse a Cosenza una sera di primavera del 1908 intenzionato a riposare, quando gli si fece incontro un cameriere: «Mi accolse con la domanda se fossi io il signore che ha prenotato una stanza». La tentazione del disfatto viandante fu enorme: «Se non fossi stato per principio contrario alle bugie oggi ne avrei detta una e avrei risposto affermativamente. Non appena risposi secondo verità mi mandarono indietro per mancanza di stanze».

    La solita guida spinse l’avventuroso austriaco in una “locanda di terz’ordine”, l’Albergo Falcone (in seguito Albergo Bologna): «Oh Dio Cane! – esclamò il viaggiatore – la camera nella quale mi condussero aveva un aspetto orribile […] pur con un senso di raccapriccio e paura rimasi in quel buco privo d’aria, sporco, maleodorante e con un’illuminazione elettrica ridicola». Nelle prime ore del mattino van Oestéren se ne tornò al Vetere dove nel frattempo si era liberata una camera e «dormii alla grande fino a mezzogiorno».

    Tavernari di Cosenza

    Più che alberghi il Falcone, il De Felice, il Gonzales e il Giglio d’Oro erano locande modeste o malfamate, con pareti nere e umide, odore di muffa, aria malsana, stanze buie e prive di suppellettili. Ce n’erano diverse anche tra piazza S. Giovanni, nei vicoli di piazza San Domenico e in via Sertorio Quattromani, frequentate da lavoratori dalle mani callose e, in generale, gente senza troppe pretese.
    Piccole cantine e osterie popolavano i quartieri popolari della città. Massa, Garruba, Rivocati, Santa Lucia, Spirito Santo, ma anche la parte alta, ne ospitavano diverse. A differenza degli alberghi, visitati da ospiti illustri di passaggio, le cantine e le osterie hanno lasciato traccia soprattutto negli atti dei processi per i reati di cui furono teatro.

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    Cantina Mazzei a Motta di Rovito. Foto dal gruppo Fb “”Calabria di una volta

    Nelle cronache delle rivolte cosentine del 15 marzo 1844, ad esempio, si legge di come alcune taverne funsero da punti di raccolta per i rivoltosi in attesa di entrare all’opera. Nella Taverna di Stocchi, per esempio, posta nel territorio rendese lungo la strada maestra che da Nord portava a Cosenza, si diedero appuntamento i ribelli provenienti dai paesi arbëreshë.
    «Un’ora prima dell’alba bussarono alla taverna vicino Emoli pria del signor Stocchi di Cosenza, ora di Spizzirri di Marano Marchesato e bevvero del vino; indi si avviarono per la volta di Cosenza, e sul ponte d’Emoli spararono dei razzi da fuoco […] e ciò per segnale da darsi a Cosentini» scrive lo studioso Stanislao De Chiara.

    La figura dell’oste, costantemente attorniato da avvinazzati, tipi loschi, prostitute e tagliagole, era guardata con sommo rispetto. Lo spiega con il consueto tono canzonatorio l’apriglianese Domenico Piro, alias Duonnu Pantu, che nei suoi versi dissacranti ebbe a dire che avrebbe preferito fare il macellaio o il taverniere al letterato: «E si campu n’autru annu, e si nun muoru, o chianchieri me fazzu, o tavernaru!».

    Dodici al litro: la cantina ‘i Bifarelli

    Le cantine avevano le caratteristiche più disparate. Negli edifici erano poste in genere al livello della strada, spesso illuminate da poca luce e riscaldate da un camino. Botti, damigiane, tavoli traballanti ai quali ci si sedeva con sedie e sgabelli in attesa di gustare il vino locale nei classici bicchieri in vetro “da 12 al litro”, accompagnato da qualche tarallo e poco altro. Più in là con tempo sarebbe arrivata anche qualche gazzosa, prodotta magari da varie piccole industrie locali, ma questa è un’altra storia.

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    Si beve vino e si gioca a carte in una vecchia cantina di Cosenza (foto Mario Zafferano)

    A Cosenza è diventata proverbiale la cantina ‘i Bifarella (o Bifarelli secondo altri), che dalla vita reale di meno di un secolo fa è assurta alla mitologia cittadina divenendo un luogo tra il reale e il fantastico, posto nel quartiere dei Rivocati, ma anche alla Massa, a Santa Lucia. Insomma, ognuno ricorda che fosse un po’ ovunque. Il vino annacquato e le risse all’ordine del giorno l’hanno fatta diventare l’emblema del luogo caotico e popolare, frequentato da perdigiorno e dispensatori di “vino di cartella”, come soleva chiamarsi il vino adulterato con polveri varie. Magari nella realtà vi si poteva assaggiare del buon vino, chissà. Del resto il vino, comunque fosse, era un prodotto di largo consumo e gli si attribuivano anche virtù benefiche. Per restare nella cultura popolare: «Pìnnuli ‘e cucina e scirùppu de cantìna su la mèglia medicìna».

    Vino e follia nelle cantine di Cosenza

    Abitudinari delle malfamate cantine della Cosenza di fine ‘800 erano “Giacchino” e “Balletta”, due avvinazzati ben noti alle guardie di pubblica sicurezza. In perenne stato di «ubriachezza ripugnante e molesta» a tutte le ore del giorno e della notte i due, tremolanti e seminudi, si esibivano «nelle più loide espressioni, le più schifose invettive, le più triviali espressioni» che i più giovani ascoltavano e commentavano per ore. Nelle cantine di via Fontana Nuova, come quella gestita dall’oste Angelo Reda, nel 1895 si giocava a primiera. Una notte di primavera fecero irruzione le guardie che bloccati i giovani biscazzieri e sequestrate le carte «dichiararono in contraddizione il cantiniere che permetteva quel gioco, proibito dalla legge» si legge sulla Cronaca di Calabria.

    Carabinieri a Cosenza all’inizio del secolo scorso in quella che oggi è piazza dei Bruzi

    A sera i muratori della Massa e gli operai degli opifici di contrada Castagna si abbandonavano in una miriade di luoghi improvvisati di mescite illegali, oppure vere e proprie cantine aperte e poi chiuse nel volgere di pochi giorni per mancanza della relativa licenza. Qui si somministrava vinaccio di terza o quarta scelta, colmo di alcol, tagliato da osti e cantinieri truffaldini e prossimi alla malavita. Oltre al taglio discutibile, la vendita o la mescita a prezzo superiore a quello imposto dal calmiere era il tipo più diffuso di speculazione legata al vino.

    Dal bicchiere alle lame

    Per chi gradiva, di fianco a un bicchiere, non mancavano alici e sarde sotto sale, più raramente uova o frutta secca, chiamate per attagnare il carico della bevuta. Si giocava d’azzardo, si discuteva di donne e armi, e dagli apprezzamenti alle offese e da queste alle lame il passo era breve. Si girava armati di coltello a manico fisso o a molla, da far scattare alla bisogna. L’ubriachezza nelle sue varie forme – continua, manifesta o molesta – era spesso associata come aggravante o al contrario attenuante nei procedimenti penali per rissa, ferimento o mancato omicidio. Le guardie di pubblica sicurezza presidiavano gli avventori delle osterie da lontano, poi seguivano come ombre i giovani avvinazzati già segnalati e pronti a delinquere in una città ebbra di vino e follia.

  • “L’autogestione” dei bimbi: a scuola senza banchi, voti e campanella

    “L’autogestione” dei bimbi: a scuola senza banchi, voti e campanella

    Nina sta saltando con i piedi scalzi nella pozzanghera. Mael guarda sul fondo alla ricerca di pesci e creature misteriose che, talvolta, emergono dal fango. Il fatto che stia per piovere e che oggi ci sia un vento freddissimo non sembra preoccupare né i bambini né gli adulti. Siamo nel mondo delle Terre di Castalia, due curve dopo il vecchio tracciato ferroviario di contrada Santo Stefano a Rende e questo giardino è una scuola.

    La scuola libertaria senza banchi e campanella

    Senza banchi e senza campanelle, perché è una scuola parentale a ispirazione libertaria. Ce ne sono solo tre in Calabria, le altre due si trovano a Catanzaro (Cascina Montessori) e a San Nicola Arcella (Scuola di Pace). Si tratta di una alternativa alla scuola pubblica, una forma di istruzione riconosciuta dal Miur che segue il programma ministeriale, ma si svolge al di fuori delle strutture istituzionali. Gli studenti – guidati dai loro educatori – ogni anno sostengono un esame di idoneità per il passaggio all’anno successivo.

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    Imparare tutti insieme: dal più piccolo al più grande

    Imparo quando voglio

    Perché “scuola libertaria”? Perché qui sono i bambini e le bambine a scegliere, individualmente e in gruppo, come, quando, che cosa, dove e con chi imparare. In una scuola libertaria i verbi più usati sono: Ti va di farlo? Ti piacerebbe farlo? Non ci sono voti ma solo complimenti e incoraggiamenti.
    Le Terre di Catalisa sono popolate da 21 bambini tra i 3 e i 9 anni che frequentano la scuola dell’infanzia e la primaria, ad occuparsi di loro 8 educatori che preferiscono definirsi “accompagnatori”. Gli obiettivi di apprendimento della scuola libertaria – che si mantiene con i contributi e le donazioni dei genitori attraverso una tariffa mensile definita “sociale” – coincidono con quelli indicati nei programmi ministeriali, ma vengono perseguiti attraverso attività diverse e certamente senza l’urgenza di stabilire tempi e scadenze.

    Educazione libertaria

    Libertà – chiarisce subito Emilio Ruffolo, coordinatore scientifico della scuola – non significa mancanza di regole o di una pianificazione del percorso. «La progettazione educativa è pensata intorno agli interessi dei bambini e nel rispetto di ciò che gli piace fare. In una scuola all’aperto viene stimolata la libera esplorazione e la scoperta, non ci sono attività strutturate e men che meno obbligatorie». Si impara attraverso il gioco e la curiosità, «gli obiettivi si raggiungono incrociando l’interesse e il piacere».
    Terre di Castalia è una piccola comunità in cui le attività, sempre orientate dal curricolo ministeriale, sono co-progettate da un’assemblea quotidiana in cui i bambini sono protagonisti.

    «Non è una scuola dei campioni – sorride Emilio Ruffolo – e non garantiamo neanche che alla fine del percorso i nostri allievi sappiano più degli altri che frequentano le scuole pubbliche. Il nostro impegno è quello di piantare i semi del pluralismo, della democrazia, della libertà di esprimersi e di crescere liberi da ogni stereotipo. Nella nostra scuola, ad esempio, i maschietti si tingono le unghie, se lo desiderano».

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    Attività all’aperto anche in pieno inverno nelle Terre di Castalia

     

    «Vedrai che passerà in fretta»

    «Ho le manine congelate!». Anna ci interrompe e mostra i palmi arrossati. «Questo succede perché hai giocato nell’acqua e oggi fa molto freddo». Emilio non si scompone. «Adesso, se ti va, potresti andare dentro, cambiare i calzini e il pantalone sporchi di fango e stare un po’ al caldo. Vedrai che passerà in fretta». Alle Terre di Castalia il contatto con il fango, la terra, la pioggia è un’esperienza quotidiana. «I bambini così sperimentano con le mani, entrano in contatto con la natura, sviluppano la propria creatività, arricchiscono il proprio sistema immunitario, vivono esperienze indimenticabili» – spiega Ruffolo. Per fortuna ci sono scaffali pieni di vestititi puliti, rigorosamente di seconda mano, a disposizione di tutti.

    L’educazione libertaria promuove le peculiarità di ogni bambino, «piuttosto che costruire un metodo in cui gli viene detto cosa fare, cosa non fare, in che modo e con quanta dedizione apprendere – continua Ruffolo – mettiamo gli scolari nelle condizioni di sperimentare quella libertà, quello spirito critico che poi ci aspettiamo che abbiano alla fine del percorso educativo».

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    Il momento dell’assemblea nelle Terre di Castalia

    Scuola libertaria: i bambini votano 

    È quasi ora della merenda, sul terrazzo arriva una cesta di frutta. Nerone scodinzola alla ricerca di coccole e di qualcuno che gli lanci un bastone per correre a riprenderlo. Intanto, dentro, è tutto pronto per il momento dell’assemblea. Sulla lavagna i punti all’ordine del giorno: si vota ad alzata di mano per l’elezione del bibliotecario, ci sono tre candidati. L’assemblea stabilisce poi chi parteciperà ai laboratori di pittura, teatro, danza e capannismo previsti per la settimana. Infine, il gruppo dei più piccoli porta all’attenzione di tutti una questione da risolvere: i bambini più grandi ultimamente dicono troppe parolacce. L’idea fondante è quella di condividere le regole, il gruppo si fa carico delle esigenze dei singolo, si sostiene vicendevolmente.

    Arrampicarsi sugli alberi e costruire capanne

    «Nella scuola a ispirazione libertaria – prosegue ancora Ruffolo – si pensa al bambino e alla bambina come persone autorevoli, competenti rispetto alla loro vita ed è per questo che si mette ognuno di loro nelle condizioni di esercitare la propria responsabilità sulle questioni che riguardano la quotidianità».
    Nelle stesse ore in cui loro coetanei stanno seduti al banco, gli allievi delle Terre di Castalia si arrampicano su un albero, costruiscono una capanna, ascoltano una storia sdraiati sull’erba. «Costruiamo delle attività finalizzate a ottenere i livelli di apprendimento richiesti dal curricolo – prosegue il referente scientifico della scuola – ma attraverso una pluralità di metodologie, in modo da riuscire ad aderire ai diversi modi di apprendere degli scolari, ai loro stili cognitivi».

    Il sogno di ogni bambino: costruire una capanna sull’albero

    Una scuola che non divide i bambini per età

    Qualche giorno fa i bambini si erano messi in testa di costruire un forno solare, i più grandi hanno illustrato le fasi del progetto ai più piccoli, alla fine hanno festeggiato insieme il risultato del lavoro di squadra.
    «Nel gruppo gli interessi si socializzano» – spiega Luana Florio, coordinatrice educativa delle Terre di Castalia. «Il nostro progetto sceglie di non dividere i bambini per età ma di avere una pluriclasse. La suddivisione per età nelle classi sostiene l’idea che ci sia un’età precisa per determinati apprendimenti. Un’idea superata. La programmazione strutturata – continua – serve più agli insegnanti e alla scuola, non risponde alle domande degli allievi, offre risposte preconfezionate che sono uguali per tutti. La suddivisione per età limita la possibilità che una persona più competente aiuti quella meno competente. Che il grande aiuti il più piccolo in matematica, che il meno competente guardi le persone più grandi di lui e ne sia in qualche modo ispirato».

    È ora di andare. Le nuvole sono scomparse, i bambini sono tutti dentro per il laboratorio di teatro. In giardino, disseminati, i segni di un’altra giornata di giochi e scoperte. Gli stivali di gomma abbandonati vicino alla pozzanghera, i piccoli abiti sporchi di fango stesi ad asciugare. La bandiera che sventola sulla casa costruita sull’albero. Nel silenzio della campagna Nerone, il bidello di questa scuola, scodinzola e mi segue fino al cancello, vuole accertarsi che venga chiuso bene.

  • Città unica, la farsa dei sindaci che non dà voce ai cittadini

    Città unica, la farsa dei sindaci che non dà voce ai cittadini

    La discussione sulla città unica ha assunto negli ultimi tempi toni farseschi, legata a questioni che attengono più alla forma che alla sostanza. Un ragionamento su un’area così detta vasta richiede un approfondimento sulle strategie che si vogliono adottare e sui fini che si vogliono raggiungere. Non stiamo parlando di un mero atto amministrativo. Pertanto, non può essere appannaggio delle decisioni di chi governa demandando la partecipazione al semplice referendum. Le decisioni che comportano sostanziali modificazioni dell’assetto del territorio anche in termini di governance hanno una ricaduta importante sulle popolazioni che vi abitano. E richiedono atti di condivisione e partecipazione concreta attraverso momenti assembleari e pratiche di comunicazione trasparente.

    Studiare cosa comporterebbe la città unica

    In quest’ottica occorre sapere cosa comunicare e cosa far condividere. Perciò occorre una fase di studio e approfondimento di tutte le implicazioni che comporta un atto che, anche se indirettamente, modifica un sistema territoriale.
    Importante intanto è l’approccio ad un tema che rischia di privilegiare l’aspetto strutturale e renderlo prevalente rispetto a quello che definiamo ecosistema. Ricordo che l’alta valle del Crati, in cui ricadono i comuni oggetto dell’eventuale fusione, è un’area che presenta delle complessità per la presenza di un fiume che per sua natura rappresenta un segno caratteristico di un territorio più vasto fino alla foce.

    Inoltre siamo in presenza di una popolazione notevole con una rete complessa di relazioni che trovano poi il loro fulcro nella città. Ciò richiede una certa attenzione proprio per il miglioramento di tali relazioni in presenza anche di dinamiche centripete che causano lo spopolamento delle aree marginali e dei borghi con l’aggressione delle aree periurbane. Inoltre, non dobbiamo scordarci che siamo in una fase di ristrutturazione di alcuni servizi essenziali quali i presidi sanitari, la gestione dei rifiuti, oltre al contrasto al dissesto idrogeologico.

    Il nome? L’ultimo dei problemi

    Sono questi i temi che bisogna affrontare con serietà in un’ottica di integrazione nel rispetto del patrimonio territoriale coinvolto e non ridursi a promuovere forme di dialogo tra gli amministratori o preoccuparsi di quale nome dare alla futura città. Su quest’ultimo problema speriamo che prevalga il buon senso e che si attinga ai processi storici sedimentati e non si lasci spazio a fantasie e sigle che hanno il solo scopo di non scontentare nessuno. Rimane il fatto che il nome sarà solo la bandiera da piantare su una costruzione che dovrà essere solida e reggere nel tempo.

    Una città vive di tempi storici e non della caducità di una esperienza amministrativa. Voglio ricordare che il sindaco non è chiamato a caso “primo cittadino”, ma bisogna finirla con il continuare a porre l’enfasi sul termine “primo” mentre rimane a casa il “cittadino”. Noi intendiamo questo ruolo come primus inter pares. E, in quanto tale, ogni sua decisione che coinvolge la vita della cittadinanza deve essere da questa condivisa.

    Pietro Tarasi
    Presidente Coordinamento “Progetto Meridiano”

  • San Giuseppe&Co: Cosenza e la sua fiera a (cacio) cavallo dei secoli

    San Giuseppe&Co: Cosenza e la sua fiera a (cacio) cavallo dei secoli

    La Fiera di San Giuseppe è un appuntamento storico per Cosenza e non solo. E, dopo la pausa imposta dalla pandemia, rispunta la possibilità di rivederla in città, seppure a fine aprile. In passato i paesi della Calabria non erano autosufficienti: non consumavano tutto ciò che producevano e non producevano tutto quello che consumavano. A parte quei fortunati che possedevano un pezzo di terra, la maggior parte degli abitanti comprava nei mercati e nelle botteghe legumi, frutta e verdura oltre che olio, pasta, farina, baccalà, stoccafisso, sarde salate, formaggi e salumi.

    In ogni centro vi erano negozi, forni, trappeti, botteghe e rivendite nei quali acquistare derrate alimentari. Nella Calabria Citeriore del 1826 vi erano 52 acquavitaj, 48 arancisti, 3 biscottieri, 25 caffettierj e sorbettieri, 65 venditori di foglia, 159 fornai, 38 fruttajuoli, 47 venditori di generi al minuto, 45 liquoristi, 75 maccaronaj, 203 macellaj, 386 molinaj, 391 negozianti, 168 panettieri, 541 pescatori e pescivendoli, 324 pizzicagnoli, 164 speziali, 180 tavernarj, 185 veditori privilegiati e 29 verdumaj.

    La fiera? Un privilegio

    Le fiere costituivano un importante momento di scambio dei prodotti ma le autorità rilasciavano la «concessione sovrana» con «prudente moderazione». Le comunità che avevano avuto tale privilegio non volevano che se ne celebrassero altre nei paesi vicini e ciò suscitava malcontenti, proteste e divisioni.

    Nel 1836, il sindaco di San Lorenzo Bellizzi scriveva sulla necessità di liberalizzare le fiere: «Se è vero che ogni terra non produce ogni cosa, e che ogni terra è abbondante di qualche cosa, il commercio è il mezzo efficace a mettere l’equilibrio fra il soverchio e il necessario». E un suo collega qualche anno dopo aggiungeva: «L’esperienza ha dimostrato che le fiere producono degli evidenti vantaggi al commercio, una delle principali risorse della ricchezza dei popoli, mentre donano il mezzo a realizzare ed estrarre i generi indigeni».

    Abuso di potere

    In occasione delle fiere, che duravano in genere due giorni, le Università facevano costruire baracche per esporre le merci e, per garantire l’ordine pubblico, nominavano dei “mastrogiurati” i quali erano spesso contestati dai rivenditori.

    Nel 1476, i mercanti cosentini, ad esempio, protestarono vivacemente contro il mastrogiurato perché durante la fiera della Maddalena commetteva ogni sorta di sopruso: «Considerato lo Mastrogiurato de dicta Città have plenaria iurisdictione in lo tempo e la fiera che si dice Madalena, de cognoscere contra de qualsivoglia persona, de qualsivoglia causa et allo presente se alcune persone che, intra et fora delo Reame haveno ottenuti privilegij de vostra Maiesta, che siano exempli dela iurisdictione de dicto Mastrojurato per la qualcosa commectono multi delitti et insulti, et passano senza punizione, de che soleno evenire multi scandali in preiuditio dela dicta iurisdictione et dele persone offese, et per questo se degni vostra Majesta che dicto Mastrojurato possa gaudere sua iurisdictione secondo è solito et consueto, non obstante ditti privilegij de dicta exemptione concessi».

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    Federico II di Svevia istituì l’antica Fiera della Maddalena a Cosenza che poi divenne Fiera di San Giuseppe

    Squadra antitruffa

    I gendarmi dovevano controllare soprattutto che durante le fiere non si verificassero frodi ai danni dei consumatori. Gli intendenti sollecitavano i controllori a punire senza indugio chi vendeva cibi immaturi, grani infraciditi, pani manipolati con sostanze nocive, pesci freschi e salati putrefatti, carni di animali estinti per malattie e oli e vini adulterati. Alcuni macellai, vendevano carne di animali morti naturalmente che, secondo i sanitari, provocavano gravi malattie fra cui antraci, bubboni e «cocci maligni»; avidi fornai facevano pane con farine scadenti o marce e utilizzavano ogni cosa per accelerarne la fermentazione, renderlo più poroso, soffice e durevole, farlo diventare più bianco e pesante; tavernieri senza scrupoli per aumentare la quantità del vino aggiungevano acqua e per mutare il colore, migliorare il sapore, favorire la conservazione e occultare i difetti introducevano nelle botti «droghe malefiche».

    Botte da orbi

    Oltre che impedire frodi e furti le guardie dovevano prevenire o sedare le frequenti risse quasi sempre dovute all’eccessivo consumo di alcol. Nella fiera di Castrovillari, ad esempio, la tranquillità della fiera era interrotta «dall’unione di persone di molte comuni e di provincie diverse che per le contrarie abitudini o per stravizzi, causati dall’opportunità della fiera spesso apportano disordini e non pochi reati vi consumano». Le fiere erano luogo privilegiato per borseggiatori, mendicanti e ciarlatani come tarantolati e ceravulari che cercavano di raggranellare lecitamente o illecitamente qualche soldo.

    Vagabondi e tarantolati

    Nel 1664, in un trattato sui vagabondi, Frianoro scriveva che gli attarantati fingevano di essere impazziti in seguito al morso del falangio e, per attirare l’attenzione dei presenti, facevano cose bizzarre mentre i compagni chiedevano l’elemosina. Per rendere più veritiera la loro follia sbattevano la testa, tremavano sulle ginocchia, stridevano i denti, facevano gesti insensati, lanciavano grida strazianti, ballavano disordinatamente e si mettevano in bocca un pezzo di sapone vomitando una gran quantità di schiuma come i cani arrabbiati. Erano dei mendicanti, fanatici e «santicchioni» che ostentavano estasi, catalessi, isterie e varie forme di corea per farsi credere ispirati dal fuoco, eccitare la compassione pubblica e ricevere offerte.

    Vecchia raffigurazione di un “sanpaolaro”

    San Giuseppe e sanpaolari

    I sanpaolari o ceravulari avevano cassette di legno dentro cui mettevano vipere, scorpioni e tarantole e, per destare meraviglia tra gli spettatori, appendevano al collo serpenti e si facevano mordere. Alberti scriveva che trattavano le vipere come fossero uccelletti domestici e, per meglio colorire le proprie bugie, affermavano di essere immuni dal veleno perché appartenevano alla «casa di san Paolo» o «per invocationi di diavoli». Dioscoride sosteneva che i «sanpaolari» fossero degli ingannatori perché prendevano le aspidi con le mani dopo averle fatto addentare pezzi di carne. Vendevano unguenti simili alla teriaca dei medici, facendo credere alla gente ignorante che, spargendoli sul corpo, avrebbero allontanato qualsiasi malore e bestia velenosa.

    Mercuri li accusava di essere vagabondi, ubriaconi e puttanieri che rifilavano al volgo farmaci giurando sulla loro efficacia: ciarlatani, buffoni e istrioni raccontavano di avere avuto le ricette segrete dal re di Danimarca e dal principe di Transilvania e il popolo credulone sperperava il denaro acquistando polveri, radici, olii, unguenti, pomate, liquori e sciroppi. Frianoro li catalogava nella categoria dei vagabondi e dei ciurmatori: dicevano di discendere da San Paolo nonostante l’apostolo non avesse mai avuto figli e maneggiavano le vipere a cui era stato tolto il veleno tra lo stupore della plebe ignorante; vendendo pietre miracolose, lamine di metallo, pozioni magiche e cantilene per incantare le serpi raccoglievano danaro senza sottoporsi a nessuna fatica.

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    Antica stampa in cui è raffigurata la Fiera di San Giuseppe

    La Fiera di San Giuseppe e le altre

    Le fiere cosentine più importanti erano quella di San Giuseppe che si teneva il 19 marzo in piazza san Gaetano, quella dell’Annunciata il 25 marzo nel largo San Domenico e quella di San Francesco nei primi due giorni di aprile presso il piano davanti la chiesa. Nella fiera di San Giuseppe si vendevano piante e alberi da frutto, attrezzi agricoli, pentole di rame, vasellame, cordami, cuoio, sapone, lino, lana grezza, biancheria e altri generi. Tra i banchi dei mercanti che provenivano da terre lontane era possibile acquistare anche caffè, the, cioccolata, zucchero, spezie, torroni, confetti, biscotti, liquori, sale, riso e pasta («canaroncini», vermicelli, «maccarroncini», «maccaroni» e «tegliatelle»). Si smerciavano anche ottimi salumi e latticini. Particolarmente diffuse erano le scamozze o scamorze, dalla voce spagnola escamochos, rimasugli di formaggio destinato a fare le pezze grosse di caciocavallo.

    Caciocavalli protagonisti delle fiere calabresi

    I casecavalli

    I casecavalli figuravano tra gli alimenti più richiesti e i mercanti delle varie regioni per venderli dovevano pagare una tassa. I caciocavalli freschi erano squisiti ma quasi tutti si stagionavano e, duri e asciutti, avevano un sapore piccante come il pecorino.
    Kashkaval, kashkavat o qasqawal, caci di latte bovino a pasta filata erano prodotti in numerosi centri della provincia e, nel XIV secolo, tra i formaggi preferiti dagli Ebrei della città. Versato in una tinozza di legno, il latte tiepido di vacca si quagliava con presame di capretto affumicato messo in un pezzo di tela e si sbatteva fortemente con una spatola di legno in modo da separare il cacio dal siero. Il formaggio che iniziava a galleggiare si metteva in una tinozza, si versava acqua bollente e si manipolava a lungo con le mani sino a dare la forma di una pera o di un globo con la testa.

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    Le tradizionali forme di caciocavallo della Fiera di San Giuseppe a Cosenza

    Il balocco dei bambini di Cosenza

    I casecavalli, appesi alle travi con una cordicella, erano soprannominati i “caci degli impiccati” ma, secondo l’opinione diffusa, prendevano tale nome perché, stagionavano a coppie appesi “a cavallo” di un bastone.
    Ogni produttore dava al caciocavallo forme diverse e il generale francese Griois, in Calabria durante l’occupazione napoleonica, descriveva un formaggio allungato chiamato per la forma «cazzo di cavallo». Con la pasta dei caciocavalli si realizzavano i casocavallucci, opere artistiche destinate al «balocco dei bambini», acquistati soprattutto dalle famiglie agiate: da qui il detto metterse ‘ncasocavallucce, cioè avanzare nella condizione sociale; per il popolino casocavalluccio significava anche capitombolo, poiché i latticini a forma di cavallo mal si reggevano in piedi.

    La Fiera di San Giuseppe nel 2010, un videoreportage di Gianfranco Donadio
  • CoRe de ‘sta città unica: tutte le strade non portano a Cosenza-Rende

    CoRe de ‘sta città unica: tutte le strade non portano a Cosenza-Rende

    Chi ricorda quella vignetta di Altan che parlando della rivoluzione diceva: «Tutti la vogliono, ma nessuno la fa»? Ecco, la città unica Cosenza – Rende – Castrolibero è come la rivoluzione, una cosa di cui tutti parlano, ma nessuno realizza. Anzi, di più: è una creatura mitologica che ogni tanto viene evocata come una promessa, oppure una minaccia. L’ultima, in ordine di tempo, ad invocarla è stata la consigliera leghista Simona Loizzo, che ha annunciato una proposta di legge per favorire l’unione tra Cosenza a Rende.

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    Sandro Principe, storico sindaco di Rende ed ex sottosegretario al Lavoro

    In realtà la Regione Calabria una legge di questa natura ce l’avrebbe già, «solo che non l’ha mai applicata», spiega Walter Nocito, docente di Diritto pubblico all’Unical.
    Quella legge per la verità è piuttosto vecchia. Risale al 2006, assai prima della Delrio e dei provvedimenti finanziari del 2014 che su base nazionale favorivano con incentivi l’unione dei comuni. Quindi, a ben guardare, forse è meglio lasciarla nella polvere dove è rimasta tutto questo tempo.

    Manna: il cosentino che tifa Rende

    A restare moderna è invece l’idea di unificare Cosenza, Rende e Castrolibero, di cui si parla sin da quando Mancini e Sandro Principe ragionavano sull’unire le due realtà urbane, che peraltro non conoscono discontinuità urbanistica.
    Ad impedire reali passaggi di unificazione furono i tempi non maturi, ma pure un marcato campanilismo che separava le due comunità. E se qualcuno immagina che quell’antica diffidenza sia stemperata si sbaglia alla grande. Il sindaco di Rende, Marcello Manna, ci tiene a precisare che «sul cammino ci sono delle difficoltà».

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    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    «Cosenza nel processo di fusione non può pesare come capoluogo, ma deve rispettare le altre identità», spiega con fermezza Manna. Già in un recente passato, davanti alla delibera della giunta guidata da Mario Occhiuto che affermava che la nuova realtà urbana si sarebbe chiamata Cosenza, aveva annunciato barricate. Ci sarebbe da ragionare sul possibile strazio psicologico di chi come Manna è cosentino doc ma anche sindaco della città vicina e che in virtù di questo suo ruolo innalza lo stendardo del campanilismo con lo stesso vigore che fu del rendesissimo Sandro Principe, quando dovendo immaginare un nome per la nuova città, partorì l’acronimo CoRe, dalle iniziali di Cosenza e Rende, dimenticando Castrolibero. O, forse, considerando che CoReCa sarebbe stato un po’ comico e vagamente balneare.

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    CoRe, il cocktail di città in programma già ai tempi del POR 2000-2006

    La città unica di Caruso con Presila e Savuto

    Franz Caruso da parte sua, oltre a rivendicare una parte importante di questo progetto nella campagna elettorale che lo ha portato a diventare sindaco, intende difendere con forza il ruolo e l’importanza di Cosenza come capoluogo e come realtà regionale. «Nessuna volontà egemonica – assicura il sindaco di Cosenza – ma semplicemente il riconoscimento di una storia e di un peso. La nuova città non potrebbe mai chiamarsi Cosenza–Rende, come è avvenuto per Corigliano-Rossano».

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    Il sindaco di Cosenza. Franz Caruso

    A dividere i due sindaci è pure un aspetto strategico: dove far nascere il nuovo ospedale, che Manna vorrebbe vicino all’Università, idea cui Caruso è contrario. Entrambi invece convergono sull’idea di procedere per piccoli passi. Caruso guarda ad una associazione tra comuni. Pensa a un’area piuttosto vasta, in grado di coinvolgere le Serre cosentine, Mendicino, la Presila, fino addirittura a Rogliano, con i cui sindaci sta già svolgendo incontri. «Il compito che Cosenza deve svolgere in questo processo – spiega Caruso – è quello di motore di sviluppo di un’area vasta oltre la semplice area urbana, un ruolo dominante, come è fisiologico che sia e il nome di tale associazione potrebbe essere Città Bruzia».

    Tutti vogliono la città unica senza i debiti degli altri

    Parole che forse non piaceranno a Manna, che però condivide l’idea dell’associazione tra comuni come sorta di prova generale prima di un’unificazione formale. Senza dimenticare, però, le differenti condizioni di bilancio, perché «dobbiamo capire come si grava con i propri debiti sulla nuova realtà urbana».

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    Il sindaco di Castrolibero, Giovanni Greco

    Il riferimento è al catastrofico dissesto ereditato da Caruso, ma non si deve sottacere che le finanze di Rende appaiono pure esse non solidissime. Sul piano finanziario meglio di tutti sta Castrolibero, il cui sindaco Giovanni Greco appoggia l’idea di una associazione tra comuni, spiegando che la conurbazione è già nei fatti. «Era il 2016 quando il nostro comune dichiarò di essere pronto ad avviare quanto necessario per realizzare la città unica», spiega il sindaco. Aggiunge, però, che esistono dei passaggi propedeutici per favorire il processo ed evitare gli errori emersi dall’unificazione tra Rossano e Corigliano, «che hanno ancora due piani regolatori e due sistemi di tributi».

    L’esempio non proprio virtuoso di Corigliano-Rossano

    Si potrebbe pensare che le condizioni delle casse comunali e quindi dei tributi pagati dai cittadini potrebbero essere un problema. Invece no, almeno nell’immediato. Come spiega Maria Nardo, docente Unical di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche, «i comuni che si fondono possono, per la durata di cinque anni, mantenere gli stessi tributi precedenti alla fusione». Dunque all’inizio non cambierebbe nulla per i cittadini, immaginando che cinque anni siano sufficienti per riparare i danni di bilancio portati in dote nello sposalizio.

    Tuttavia è chiaro che, come avviene nelle aziende, gli attivi e passivi una volta uniti finiscono per spalmarsi su tutta la comunità. I vantaggi però sono notevoli, visto che «i trasferimenti aumentano di oltre il 60%».  La professoressa Nardo tuttavia avvisa che non è un cammino agevole. Per questo «è necessario realizzare un accurato piano di fattibilità che proietti avanti nel tempo le conseguenze di una eventuale unificazione», cosa che per esempio, non risulta che sia stata fatta per Corigliano–Rossano.

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    Il sindaco di Corigliano-Rossano, Flavio Stasi

    Sulla stessa linea torna Walter Nocito, che ricorda come «oltre al piano di fattibilità serve uno Statuto provvisorio che preceda il referendum cui saranno chiamati i cittadini». E questo è l’ultimo vero ostacolo, visto che è la Giunta regionale a decidere quale sia la maggioranza di cui tenere conto, cioè la somma totale dei cittadini chiamati al voto o le singole realtà comunali consultate. Che vuol dire decidere se ci si unisce o no.

  • «No agli abusi», la protesta del liceo di Castrolibero si prende Cosenza

    «No agli abusi», la protesta del liceo di Castrolibero si prende Cosenza

    Dalla scuola occupata al corteo per le strade di Cosenza. Gridando «no agli abusi» ma pure «no alla scuola dei padroni». Sono i due motivi che hanno animato la manifestazione di stamane nella città dei bruzi. Da piazza Loreto fino al provveditorato agli studi. Fumogeni e bandiere del Che hanno accompagnato la protesta. Un grande classico che resiste pure nell’epoca di Tik Tok.

    Le presunte molestie e la scuola occupata

    Il Me too calabrese ha la voce degli studenti dell’istituto d’istruzione superiore Valentini-MaJorana di Castrolibero, in provincia di Cosenza. I ragazzi hanno occupato la scuola dal 3 febbraio scorso, ma da lunedì torneranno in classe. Protestano contro la mancata presa di posizione della dirigente scolastica, Iolanda Maletta, nei confronti di un professore di matematica e fisica che – sostengono i liceali – si sarebbe reso responsabile di presunte molestie sessuali. Sul punto ha aperto un’inchiesta la Procura della Repubblica di Cosenza. Il docente risulterebbe iscritto nel registro degli indagati.

    Le chat e le e-mail 

    Il caso è rimbalzato sui media nazionali, occupando una spazio importante nei programmi in prima serata. E proprio Le Iene, popolarissima trasmissione di Mediaset, ha mostrato in un servizio alcuni messaggi segnatamente ambigui («ciao polpettina») del professore e il testo della mail inviata dai genitori degli alunni alla dirigente scolastica.

    I prof che solidarizzano con la protesta

    Sei professori dell’istituto di istruzione superiore Valentini-Majorana di Castrolibero hanno manifestato vicinanza e sostegno alla protesta degli studenti. Scrivendo una lettera, dove si legge: «Ciò che è successo ci ha posto di fronte ad una dura realtà e siete stati voi a sbattercela in faccia». Tra i banchi della scuola di Castrolibero sono arrivati giorni fa anche gli ispettori inviati dal Ministero dell’Istruzione dopo l’esplosione del caso di presunte molestie denunciato dai ragazzi.

    La politica sollecita l’intervento del ministro Bianchi

    Le deputate del Partito democratico hanno inviato un’interpellanza al ministro Patrizio Bianchi affinché si faccia subito chiarezza su quanto accaduto. Il presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, ha incontrato personalmente a Castrolibero i ragazzi impegnati nell’occupazione. Mentre il deputato di Alternativa ed ex grillino, Francesco Sapia, ha presentato un’interrogazione parlamentare in cui si chiede l’immediato trasferimento della dirigente scolastica, Iolanda Maletta. Un provvedimento chiesto anche dagli studenti che hanno occupato il liceo Valentini-Majorana e da molti fra i loro genitori. Per ora la dirigente scolastica è in malattia.

  • Devetia e Cosenza: Offerti 12 milioni?  Forse li ha chiesti Guarascio, ora si riparte da zero

    Devetia e Cosenza: Offerti 12 milioni? Forse li ha chiesti Guarascio, ora si riparte da zero

    «La proposta è seria, il gruppo solido e presente nel mondo del calcio da anni, dove opera come fondo d’investimento. Le polemiche? Ne so poco, certo quando ho accettato il mandato della Devetia Limited ho chiarito le cose: se volete che sia io a gestire questa vicenda, devo gestirla a modo mio». Torna sotto i riflettori della cronaca l’interessamento di Oleg Patakarcishvili e del suo gruppo ucraino per le sorti del Cosenza.

    Usmanov scompare, resta Patakarcishvili

    Leopoldo Marchese, l’avvocato che ha inoltrato alla società di Guarascio una formale richiesta di trattativa d’acquisto, è il professionista a cui è stato commissionato l’incarico di portare avanti la trattativa. Una trattativa che, dal mese di dicembre, si rincorre tra voci impazzite, smentite sdegnate e video dal sapore demenziale. E mentre la giostra riparte – con la squadra impantanata nei bassifondi della classifica e pronta ad un nuovo ribaltone in panchina dopo l’esonero di Occhiuzzi – un po’ di quella nebbia che aveva sepolto l’intera vicenda comincia a diradarsi.

    Alisher Usmanov insieme a Vladimir Putin
    Alisher Usmanov insieme a Vladimir Putin. Il magnate uzbeko ha smentito ogni coinvolgimento nella trattativa per il Cosenza

    «Non so niente di Usmanov. Io ho accettato il mandato a trattare dal gruppo del signor Patakarcishvili che da quanto so non ha nulla a che fare con l’oligarca». Dal canto suo, il magnate uzbeko, raggiunto dalle voci che da mesi lo accostano alla società rossoblu, ha smentito ieri ogni interessamento «al club specificato o altro club in Italia», ridimensionando lo strano risiko di interessi internazionali che aveva circondato il primo tempo di questo strano film.

    Dodici milioni: offerti o richiesti?

    In campo ora, resta ufficialmente solo la Devetia, con la sua storia di acquisizioni societarie eccellenti e cessioni altrettanto rumorose. «È troppo presto per parlare di cifre – dice ancora l’avvocato Marchese – prima di tutto bisogna vedere le carte del club. Serve una due diligence prima di qualsiasi altra cosa: le persone che rappresento devono capire la situazione finanziaria reale della società, poi potremo sederci e parlare di cifre. Da quanto è a mia conoscenza, le voci riguardo ai 12 milioni circolate nei mesi scorsi, dovrebbero riferirsi a quanto richiesto dal Cosenza. Ma io non mi occupavo ancora della trattativa, ripartiamo da zero».

    Il circo

    La partenza di questa seconda fase della trattativa per l’acquisizione del Cosenza Calcio, sembra quindi avere rinunciato alle stranezze che ne hanno caratterizzato gli albori. Scomparsi i link “manomessi” che parlavano di improbabili processi in Ucraina a carico del presidente Guarascio e quelli dei precedenti rapporti economici tra lo stesso “re dei rifiuti” e la Devetia ai tempi dell’investimento sulla squadra brasiliana del Corinthians.

    Fernando Martinez Vela
    Fernando Martinez Vela, protagonisti di alcuni video in cui si millanta fin dal titolo la presenza di Alisher Usmanov nella trattativa per l’acquisto del Cosenza, gestita ora dall’avvocato Leopoldo marchese

    Tornato ai suoi incarichi sportivi nel gruppo Devetia, anche il “beckettiano” Fernando Vela, autore di una serie di compulsivi video su Youtube dove si districava tra surreali tutorial sul mondo del calcio e degli investimenti e non richiesti “consigli” (de)piliferi ai giornalisti. «Pensiamo a quelli come periodi bui – dice ancora l’avvocato – e poi lo sappiamo come sono fatti questi russi. Sono impulsivi, si accendono subito. Ora però sono io a gestire le cose e non ci saranno altri video né altre dichiarazioni azzardate».

    Cosenza, la palla passa da Devetia a Guarascio

    Compiuto quindi il primo passo ufficiale con l’invio della mail certificata con la dichiarazione d’interesse, la palla ora passa alla dirigenza rossoblu, chiamata a rispondere alle sollecitazioni arrivate dal fondo d’investimento ucraino. «Questo è un gruppo serio, con grosse disponibilità finanziarie. Hanno interessi in Calabria e hanno veramente intenzione di rilevare il Cosenza. Ma prima bisogna vedere le carte. Aspettiamo una risposta dalla dirigenza che ancora non è arrivata, anche se bisogna dire che è passato ancora pochissimo tempo. Poi cominceremo a guardarci attorno».

    Tifosi del Coseeza al San Vito-Marulla
    Tifosi del Cosenza al San Vito-Marulla prima che gli spalti si svuotassero

    Il Piano B

    La prima scelta resta quindi il Cosenza, ma non è l’unica: se Guarascio dovesse rispondere picche infatti, gli interessi del gruppo potrebbero indirizzarsi dal Cosenza verso un’altra realtà calcistica calabrese. La Vibonese sembra purtroppo destinata a tornare tra i semi-pro della Lega D. Quindi la rosa si restringerebbe alle altre “tre sorelle” del mondo della pedata regionale. «Il costo più alto? – chiosa Marchese – non sarebbe un ostacolo, il gruppo non ha problemi di denaro».

  • Cosenza Calcio, gli ex sovietici ci riprovano con Guarascio

    Cosenza Calcio, gli ex sovietici ci riprovano con Guarascio

    C’era qualcosa di poco chiaro in quella trattativa condotta su Youtube che avrebbe dovuto portare al passaggio del Cosenza Calcio dalle mani di Eugenio Guarascio a quelle del magnate Alisher Usmanov e di Oleg Patakarcishvili, rappresentante legale della Devetia Investiment Fund Limited. I Calabresi era stato il primo giornale a scrivere delle tante bizzarrie intorno alla questione, analizzando le numerose incongruenze di una storia che aveva assunto i contorni di un intrigo internazionale con un tocco grottesco. Può davvero uno degli uomini più ricchi del pianeta gestire un affare da milioni di euro con video da tiktoker? A confermare che ci fosse qualcosa di bizzarro – tra minacce più o meno velate e pagine web taroccate – è l’avvocato Leopoldo Marchese in un’intervista a Alessia Principe per Cosenza Channel.

    «Certi video caricati su Youtube sono la pagina scura di questa vicenda», racconta alla collega il legale calabrese che cercherà di condurre in porto la trattativa tra gli ex sovietici ed Eugenio Guarascio. Già, perché Patakarcishvili – dichiara ufficialmente l’avvocato Marchese – il Cosenza lo vuole per davvero e ora la prossima mossa tocca proprio a Guarascio.

    Usmanov e Guarascio

    Il presidente rossoblù, che aveva bollato il precedente tentativo d’acquisto come una vera e propria boutade, è sempre più nell’occhio del ciclone. Esonerato Roberto Occhiuzzi dopo l’infelice ritorno in panchina, Guarascio deve fare i conti con una piazza con la quale i rapporti sono ormai ai minimi storici. La concretezza dell’interesse degli investitori venuti dall’Est, in questo caso, appare ai tifosi come la possibilità di invertire un destino che pare segnato.

    Usmanov aveva quattrini a sufficienza per comprare l’intera serie B, non solo il Cosenza. Devetia invece? E se, come sostiene, non le mancano, bisognerà capire se voglia (e gli sarà data la possibilità di) spenderli proprio in riva al Crati. Marchese sul punto è stato piuttosto chiaro: Devetia vuole una squadra in Calabria e se Guarascio non vuol vendere è pronto a cambiare obiettivo senza troppi problemi.

    Quanto vale il Cosenza Calcio e il ruolo di Caruso

    Ai potenziali acquirenti non sarebbe andato giù il modo con cui Guarascio aveva liquidato le puntate precedenti di quella che aveva tutti i contorni di una telenovela: «A dispetto di quanto da Lei affermato nelle varie interviste rilasciate, il mio cliente tiene a precisare che l’interesse ad iniziare a portare a termine la trattativa di acquisizione è sempre stata seria, concreta e reale. Ovviamente, l’eventuale accordo dovrà passare attraverso una accurata valutazione economica della società», scrive Marchese a Guarascio. A mediare tra le parti potrebbe essere il neo sindaco Franz Caruso, raggiunto dal legale che rappresenta la cordata straniera.