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  • BOTTEGHE OSCURE | La Calabria di carta finita in discoteca

    BOTTEGHE OSCURE | La Calabria di carta finita in discoteca

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    La carta si fa con gli alberi, e di alberi in Calabria ce ne sono sempre stati tanti. Ma la produzione della carta direttamente dal legno è storia recente. Nei secoli passati la “bambagina” era fatta soprattutto con gli stracci e dal XV secolo in poi, con l’introduzione della stampa a caratteri mobili, la domanda di tale bene aumentò vertiginosamente soprattutto quando l’abbattimento dei costi di produzione portò a un uso capillare.

    Correva l’anno 1590 quando i veneziani Domenico Contarino e Giacomo Ferro, e il napoletano Marcio Imparato, impiantarono una cartiera nella città di Cosenza. Non sappiamo se l’opificio venne realizzato o meno, ma l’antico documento denota la forte richiesta di carta in riva al Crati. Ciononostante per ben due secoli la Calabria non vide neppure l’ombra di una cartiera. Nel suo Saggio di economia campestre (1770) Domenico Grimaldi scriveva infatti che la regione «n’è totalmente priva, malgrado le acque, che ha in abbondanza, i stracci, e carnaccio che vende al forastiero». Poi, d’improvviso, fra ‘800 e ‘900 qualcosa cambiò.

    A Serra San Bruno producevano 12mila quintali di cellulosa

    A Serra San Bruno, venne impiantata la Fabbrica Italiana di Cellulosa e Carta, un bagliore d’industria nell’entroterra calabro. Nel 1908 spiccavano due industrie dipendenti dalla silvicoltura regionale. Si trattava di quella di Serra San Bruno per la fabbricazione di carta e cellulosa e quella di Dinami per la “distillazione del legname”. Le due realtà impiegavano insieme 155 lavoratori. Quello di Serra San Bruno era uno stabilimento ben attrezzato. Aveva macchine continue, sfibratoi con pressa, autoclavi, tre caldaie a vapore della potenza di 300 cavalli dinamici e cinque motori. Impiegava 68 uomini e 12 donne, che riuscivano a produrre 12mila quintali di cellulosa all’anno e, con lavorazione aggiuntiva, anche «carta da impacco lucida da un lato, ruvida dall’altro».

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    La Fabbrica di Cellulosa a Serra San Bruno

    Costi di trasporto troppo alti

    La materia prima utilizzata era il legno di abete proveniente dai boschi limitrofi della «nobile casa Fabbricotti, di A. Fazzari ed altri» e «ricchi di secolari abeti, che intanto si adoperano per l’industria, sebbene non forniscano il miglior materiale». Il taglio non era indiscriminato. Di anno in anno venivano gli alberi venivano «ricostituiti nell’intento di ridurli in turno trentennale». Nonostante la forte disponibilità di materia prima e i dati lusinghieri per una fabbrica di provincia, lo stabilimento di Serra San Bruno incontrava difficoltà per gli alti costi di trasporto della cellulosa e della carta fino alla marina di Pizzo e alla ferrovia più vicina. Così, come ricostruito da Brunello De Stefano Manno e Stefania Pisani nel volume La Fabbrica di Cellulosa e la Villa Fabbricotti di Serra San Bruno, già negli anni trenta del ‘900 la cartiera risultava abbandonata.

    Carta da imballaggio nel Reggino

    Nel Reggino, già negli ultimissimi anni dell’Ottocento, era attiva una cartiera a Favazzina. Si trattava di un’industria piccola ma operosa, che impiegava l’elettricità nel processo produttivo. Si occupava soprattutto della produzione di carta da imballaggio e che nel 1906 aveva esportato «quintali 1190 di carta da involti». Sempre in provincia di Reggio, nel 1968 era attiva la cartiera di Rosarno che, con quella di Cosenza, produceva «modesti quantitativi di carta-paglia e di cartone pressato, destinati alla confezione di imballaggi per agrumi».

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    Migranti nella cartiera di Rosarno, foto Andrea Scarfò, fonte Wikipedia)

    Gli ormai dismessi capannoni della cartiera di Rosarno, di recente sono assurti agli onori della cronaca per essere stati il rifugio di molti immigrati che svolgevano lavori stagionali nei dintorni. Nel 2009, in seguito ad un rogo scoppiato nei capannoni, alcuni immigrati rimasero feriti e la cartiera venne sgomberata e murata.

    Carta e tipografia lungo il Busento

    Il fattore incentivante l’inizio della moderna industria della carta nel Cosentino fu la presenza di importanti corsi d’acqua, in primis il Busento. Al 1928 risale infatti la richiesta della ditta “Luciano ed Ernesta Ragonesi” per la «concessione di derivare dal fiume Busento in comune di Cosenza» le acque necessarie «per azionare un lanificio ed una cartiera».

    Intestazione cartiera Ragonesi (foto Franco Michele Greco)

    Già nel 1921 è attestata nella cartiera Ragonesi la produzione di carta da imballaggio. La stessa famiglia possedeva pure, sempre sul fiume Busento ma nel comune di Dipignano, un impianto idroelettrico per il quale riceveva delle sovvenzioni. Lanificio e cartiera Ragonesi caratterizzeranno a tal punto la zona di Cardopiano, a monte della Riforma lungo la strada che porta a Carolei. A volte veniva identificata proprio come “contrada Ragonesi”.

    Nel 1912 la proprietà affiancò alla fabbrica anche una piccola stamperia, la “Tipografia Cartiera Ragonesi”, un modo di utilizzo diretto della propria produzione di carta ancora fino agli anni ’20. Un decennio più tardi la gestione della cartiera, ancora nominalmente Ragonesi, passò alla famiglia Bilotti, tanto che negli annuari industriali dell’epoca intorno al 1938 compare la denominazione “Ragonesi Luciano ed Ernesta di V. Bilotti”. Con la nuova gestione la cartiera cosentina crebbe notevolmente e i Bilotti ampliarono il raggio di azione raggiungendo anche gli Stati Uniti.

    Industriali cosentini

    Quando nel mese di giugno del 1950 la Cartiera Bruzia prese il posto dell’ormai dismessa Ragonesi, la città era in piena fase di espansione. Quel tessuto proto-industriale costituitosi a inizio secolo fatto da attività artigianali e piccoli opifici a conduzione familiare era ormai a un bivio: rilancio e modernizzazione oppure dismissione. Fu allora che i fratelli Mario, Vincenzo e Ferdinando Bilotti, industriali cosentini di spessore, decisero di riporre entusiasmi e capitali nella produzione della cellulosa dalla paglia e della carta oleata dalla cellulosa.

    «La cartiera Bilotti – scriveva Concetta Guido nel 2001 su Repubblica è una specie di monumento cittadino. È lì da decenni, appena fuori il centro urbano. La cartiera è uno dei primi insediamenti industriali in un territorio che di ciminiere non ne ha conosciute quasi per niente. Vincenzo Bilotti (proprietario di palazzi a Rende, il comune attaccato a Cosenza nato come città dormitorio, e di ville a Sangineto, il lido dei vip locali) è un uomo che gode di molta stima negli ambienti professionali».

     I sindacati denunciano: lavoratori sfruttati

    La fabbrica portò occupazione e un momentaneo benessere per gli oltre 100 operai impiegati. Inoltre i prodotti della cartiera di via Cardopiano 44 erano inclusi nei cataloghi di produttori e commercianti d’oltreoceano. Com’è ovvio lo sviluppo in senso capitalistico avrebbe cominciato a piagare il territorio. «Già nel 1955 la cartiera, che appestava l’aria con i miasmi dei suoi scarichi acidi versati nel Busento, attirò le denunce da parte dei sindacati, che nel 1957 segnalavano lo sfruttamento dei circa 200 operai, impegnati per 11 ore al giorno con una paga giornaliera di lire 1.100 da parte del proprietario, Mario Bilotti, consigliere comunale Dc» scriveva lo storico Enzo Stancati in Cosenza nei suoi quartieri (Pellegrini, 2007).

    Operaio muore schiacciato

    Tra l’aprile e il maggio del 1963 si consumò la rottura definitiva tra gli operai e la proprietà. Per più di un mese oltre 200 cartai intrecciarono le braccia e invasero le strade del centro cittadino. Chiedevano l’applicazione più giusti salari, la corresponsione degli stipendi arretrati, condizioni di lavoro più dignitose. E protestavano pure per avere una maggiore attenzione sul problema della sicurezza sul lavoro. Poco dopo quella che fu ricordata come “La lotta più lunga degli annali sindacali” (Gazzetta del Sud), beffarda arrivò la tragedia.

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    Gazzetta del Sud, archivio storico, settembre 1964

    Il 25 settembre del 1964 Antonio “Tonino” Garofalo, operaio venticinquenne di Santo Stefano di Rogliano, finiva schiacciato sotto l’ascensore di un compressore: «Il giovane stava pressando della carta, inavvertitamente però anziché azionare il pulsante per la salita dello ascensore del compressore, ha azionato quello per la discesa con la inevitabile conseguenza di restare investito in pieno».

    Le indagini non portano a nulla

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    Il giovane cartaio Tonino Garofalo, vittima del lavoro

    Le indagini della Squadra Mobile per omicidio colposo non portarono a nulla, se non fosse per una forte mobilitazione popolare in occasione dei funerali. In uno scritto A memoria del concittadino… (2014), Pro Loco e Gruppo consiliare “Insieme per Santo Stefano” ricordano che «gli ingranaggi facenti parte del sistema produttivo della Cartiera Bilotti, sopprimono in pochi istanti la vita di quel giovane, da pochi mesi padre di una bambina, consegnando alle vittime cadute sul lavoro uno dei migliori figli della comunità santostefanese che, avendo conosciuto nell’età giovanile il volto e le sofferenze derivanti dal fenomeno dell’emigrazione in Germania, riteneva il lavoro un momento esaltante per la dignità e la libertà individuale».

    Cartai a Montecitorio

    La cartiera Bilotti chiuse i battenti nel 1972 lasciando un centinaio di lavoratori, da mesi in cassa integrazione, senza lavoro. Pochi mesi prima il “caso cartai” venne portato tra gli scanni di Montecitorio dall’ex fascista e deputato missino per la circoscrizione di Catanzaro-Cosenza-Reggio, Antonino Tripodi. Il politico calabrese si rivolse all’allora ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, il socialista Mauro Ferri. Chiedendo al ministro come «intende intervenire con l’urgenza e la perentorietà che il caso richiede per evitare che in provincia di Cosenza continuino a ripetersi recessioni produttivistiche con drammatiche conseguenze sull’occupazione operaia».

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    Antonino Tripodi

    In quei mesi aveva decretato lo stop della produzione e l’inizio della dismissione lo stabilimento tessile di Cetraro che occupava 500 dipendenti. Stessa sorte per le metalmeccaniche Cavalli di Rende, mentre anche la Mancuso e Ferro si avviava alla fine della sua gloriosa esistenza. «Non sembra che le autorità locali stiano seriamente agendo per evitare che i dipendenti della cartiera Bilotti perdano, non solo il posto ma anche il presidio di disoccupazione. Se il governo non interviene la già dissestata economia della provincia di Cosenza riceverà un colpo fatale…», tuonò Tripodi.

    Da cartiera Bilotti a discoteca

    Il ministro Ferri portò alla memoria i due grossi finanziamenti ricevuti dalla cartiera per un totale di poco meno di 200milioni di lire tra il 1969 e il 1970 e la promessa di una proroga a 9 mesi dell’intervento della cassa integrazione. Poi nicchiò: «Alcuni settori produttivi risentono com’è noto, da vari anni, di una recessione […] Tra tali settori è compreso il l’edilizio, il cartario e il tessile, cioè quei settori che riguardano le industrie di Cosenza che recentemente hanno interrotto la loro attività». Continuando: «Ovviamente nelle zone nelle quali il processo di industrializzazione è agli inizi, la chiusura delle industrie viene subito maggiormente avvertita ed il governo tiene in conto tale aspetto, intervenendo con tutti i mezzi di cui dispone».

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    A poca distanza dal fiume Busento, dove sorgeva la cartiera Bilotti e poi la discoteca “Soho”

    Divenuta “Cartiera Busento” dopo un piano di ristrutturazione aziendale, la gloriosa fabbrica chiuse definitivamente nel 1976. Una fine tra clamorose perdite, 35 licenziamenti e conti ballerini. Nei capannoni dell’ex cartiera, adibiti a partire dal dicembre del 1997 a discoteca “Soho Music Hall”, molti di noi brindarono al nuovo anno leggeri, psichedelici e sicuramente immemori.

  • Cosenza, vedi Napoli e poi… risorgi

    Cosenza, vedi Napoli e poi… risorgi

    Reduce da un recente viaggio di lavoro a Napoli, nel muovermi per la città tra le bellissime stazioni della più originale metropolitana d’Europa e alcuni eccezionali Musei, mi torna ogni volta in mente quanto dobbiamo alla cultura napoletana nel nostro territorio, soprattutto a Cosenza e nella sua estesa provincia.

    Tra le cose che ormai da tempo mi colpiscono, la profonda differenza tra lo stato di degrado e illegalità diffusa di Cosenza, con la totale mancanza di rispetto di ogni minima regola civica, dal parcheggio in doppia/tripla fila, fino alla occupazione selvaggia di strade, marciapiedi, spazi pubblici ad opera delle automobili. Mentre scorgo che a Napoli, ancora di più oggi sotto la guida di Gaetano Manfredi, si torna ad osservare una città vivibile e ordinata, in cui i vigili urbani e polizia non sono chiusi negli uffici, ma si muovono in strada per garantire legalità e rispetto delle regole, soprattutto non fanno finta di non vedere la diffusa illegalità, ma la perseguono.

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    La stazione Toledo della metropolitana di Napoli

    Se ce l’ha fatta Napoli, perché non Cosenza?

    Mi chiedo, se ci sono riusciti a Napoli, che pareva luogo indomabile, perché a Cosenza, di gran lunga più piccola e controllabile, tutto questo non è possibile? Di chi le responsabilità? Perché non si agisce in direzione di un ripristino del rispetto minimo delle regole di vita quotidiana che peraltro paralizzano il traffico, non già a causa di qualche strada pedonalizzata, ma proprio per l’intasamento degli assi viari principali e secondari a causa di soste selvagge e illimitate e la enorme quantità di auto circolanti?

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    Cosenza, auto incolonnate in prossimità delle scuole su via Misasi

    Tanta Napoli a Cosenza

    La seconda riflessione, senza dubbio più di visione e prospettiva, mi sovviene per la lunga sequenza di storie, esperienze, collegamenti che la storia ci ha consegnato nel rapporto tra Napoli e Cosenza, a partire dal nostro dialetto e dalle evidenti influenze terminologiche napoletane, fino alla cucina e alle arti minori e maggiori, come i segni evidenti nell’architettura religiosa e civile in cui tracce di modelli e manodopera napoletana sono fin troppo palesi.

    Una collaborazione da ampliare

    Da qui sorge la mia domanda del perché con Napoli, nel recente passato, e da lungo tempo, nessuno mai abbia pensato, soprattutto in ambito pubblico, culturale, museale, economico, di costruire una solida collaborazione, che vada oltre il consolidato canale accademico tra le università, e si prefigga lo scopo di una sinergia di lunga durata, capace di garantire un sostegno a molte attività locali che pagano il prezzo di un isolamento geografico e strategico, anche per la mancanza di centri urbani competitivi in Calabria.

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    L’Università della Calabria

    Napoli è una delle più grandi città calabresi (come Roma del resto), a poche ore di treno, a poche distanze etniche, con una importante dotazione di attività a vario livello, dai centri di ricerca, al commercio, alle fiere ed eventi di richiamo nazionale. Napoli è la cruna dell’ago da cui passa, sta passando, passerà un riscatto del Sud, e senza un legame con questa realtà, locomotiva lenta ma robusta, il rischio, della parte alta del meridione in cui Cosenza ricade, è perdere di vigore e capacità dinamiche.

    Dai musei di Napoli a quelli di Cosenza e Rende

    Per queste, e ancora altre ragioni, penso, ad esempio, alla condivisione di importanti opere d’arte, con strutture museali di Cosenza, Rende, altrove possibile, non solo perché a Napoli i depositi dei musei traboccano di opere che non si possono esporre per carenza di spazio – e in questa direzione va una recente direttiva del Ministero della Cultura, che prevede il prestito a musei di provincia di opere chiuse in depositi – ma anche per stabilire circuiti espositivi e culturali dinamici e attrarre qui, grazie a opere di peso, un certo numero di turisti interessati a percorsi culturali e d’arte.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Penso inoltre alla ridotta estensione e qualità delle nostre stagioni teatrali, e a come si potrebbe collegare a quella di teatri napoletani, anche sperimentali, per avere opportunità di inserirsi in circuiti significativi, e rinnovare un rapporto speciale che ha interessato le due culture, quella napoletana e cosentina, calabrese in generale.

    C’è da preoccuparsi

    Per questo viene in mente che alla costante perdita di attrattività, a favore di altre realtà urbane, Cosenza potrebbe almeno tentare di opporre una robusta collaborazione con realtà che possano, anche solo in parte, sottrarla a questo progressivo impoverimento, tra cui senza dubbio Napoli, per evidenti ragioni storiche e culturali. Al contrario, la deludente sensazione di questa stagione di fallimenti, corroborata, purtroppo dalla quotidianità cosentina, è che in questa città, ora e in precedenza, non sembra emergere una preoccupazione, collettiva, pubblica e privata, nel fare leva sulle significative opportunità latenti e allontanare la realtà sempre più deludente.

    Vedi Napoli e poi risorgi

    Cosenza sembra essere passata da una presunta dimensione nazionale ad una paesana, ovvero dalla ricerca di consenso attraverso un effimero marketing urbano, alla soluzione di problemi spiccioli, ignorando e seguendo nell’abbandono del grande e prezioso centro storico, il quale, nella costruzione di una visione di cosa potrà essere la città di domani, dovrebbe avere un ruolo centrale. Restano solo gli eccessi trionfalistici di faraonici sogni urbanistici che si infrangono con la mancanza assoluta di uno sguardo progettuale concreto, tanto visionario, quanto fattivo.

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    La statua di Alarico ai piedi dei resti dell’Hotel Jolly, che avrebbe dovuto ospitare un museo dedicato al re barbaro (foto Alfonso Bombini)

    Se “vedere Napoli e poi risorgere”, quindi non morire, come recitava la famosa frase, nelle forme più significative auspicabili, potrebbe aiutare Cosenza a rinnovare il suo presente e futuro, i passaggi non sono poi così complessi e impossibili, ma ancora una volta la volontà potrebbe vincere sull’immobilismo e sulla minaccia, incombente, di fallimenti.

  • Piccoli ma non fessi: la città unica oltre Cosenza e Rende

    Piccoli ma non fessi: la città unica oltre Cosenza e Rende

    Un lenzuolo troppo corto per coprire i territori e, soprattutto, chi li abita.
    L’area urbana di Cosenza risulta problematica non solo nella sua versione “minima”, che comprende il capoluogo, Rende e Castrolibero, ma persino in quella maxi che, a seconda delle scelte politiche, dovrebbe estendersi o a nordest, in direzione Sibari, o a sud, verso il Savuto.

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    Franz Caruso, sindaco di Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Si badi bene: non sono scelte neutrali. Mirare a sud significa avvantaggiare Cosenza e i Comuni sulla vecchia via del mare (Dipignano e Carolei) e alle pendici del Monte Cocuzzo (Mendicino e Cerisano). Puntare a nord, invece, vuol dire riproporre la centralità di Rende, che farebbe leva sulla vicina Montalto e ridimensionerebbe non poco il capoluogo.
    Non è un caso che, durante la campagna elettorale di settembre Franz Caruso abbia rilanciato l’idea di “area vasta” o “area urbana allargata”, cioè estesa ai paesi a sudest.

    Ed è certo che anche il recente braccio di ferro sull’ospedale – che i rendesi vogliono nei pressi dell’Unical e i cosentini a Vaglio Lise – sia motivato dalle stesse dinamiche.
    L’area vasta puntellerebbe l’ipotetica “Grande Cosenza” a Sud e le eviterebbe il confronto diretto con Rende, che al momento sarebbe micidiale per la città dei bruzi.
    Una geopolitica su scala provinciale, non meno pericolosa di quella vera, perché chi perdesse la sfida sarebbe condannato allo spopolamento, dovuto all’aumento delle tariffe e al calo dei servizi.
    Ovviamente, i conti si fanno con gli osti, cioè i sindaci di tutti i comuni potenzialmente interessati.

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    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Il ruggito di Orlandino

    Il nodo cruciale dei due modelli di area urbana è Castrolibero, che ha ancora molto da dire, visto che è uno dei territori più ricchi del Sud come reddito pro capite.
    Castrolibero è incuneato tra Cosenza e Rende, con cui confina senza alcun ostacolo fisico: solo la segnaletica chiarisce in quale Comune ci si trova.
    Orlandino Greco – attuale vicesindaco ed ex sindaco di Castrolibero, ex presidente del Consiglio provinciale di Cosenza ed ex Consigliere Regionale – esprime una preoccupazione non proprio trascurabile: la sua cittadina potrebbe essere schiacciata dalle due importanti dirimpettaie. Anche a livello economico: «Rende», spiega Greco, «è in predissesto e Cosenza ha un dissesto importante, difficile da risolvere in breve». Perciò il dubbio è lecito: tutto ciò che si trova attorno rischierebbe di essere risucchiato dai passivi delle due città leader.

    Grande Cosenza? Niente fusioni a freddo

    Per Orlandino è, quindi, inutile ipotizzare «fusioni a freddo, come nei casi di Corigliano-Rossano o dei Casali del Manco, che mi sembrano situazioni fallimentari, visto che parliamo di territori caratterizzati da importanti disparità fiscali e tariffarie interne e tuttora agitati da campanilismi duri a morire».
    Secondo Greco l’area urbana dev’essere disegnata «cerchi concentrici e non, come ipotizzava Sandro Principe, a linea retta». L’ipotesi del vicesindaco è piuttosto chiara: un nucleo basato su Cosenza, Rende e Castrolibero che attrarrebbe tutto ciò che lo circonda in maniera virtuosa.

    L’ex consigliere regionale e leader di Idm, Orlandino Greco

    No al modello Principe

    Già: «Il modello di Principe darebbe una certa baricentricità a Rende, ma trasformerebbe tutto il resto, a partire dal capoluogo, in una periferia». Il modello di Greco, al contrario, «farebbe perno su Cosenza e rispetterebbe tutti».
    In quest’ottica, Castrolibero avrebbe fatto già dei passi importanti per due fattori almeno: il Psc e il sistema dei trasporti pubblici. «Noi abbiamo integrato l’Amaco nel nostro territorio e abbiamo impostato il Piano strutturale comunale in modo da poterci allineare subito a un progetto urbanistico condiviso». Ma questo progetto non può essere sviluppato nel breve periodo: «Occorre partire dalla condivisione dei servizi per dare uguali chance a tutti gli abitanti del territorio, perché non serve a nessuno una città enorme ma piena di periferie poco servite».

    Caracciolo tira a nord

    Montalto Uffugo è stata considerata a lungo un satellite della “Grande Cosenza” per via della sua “eccentricità”: non sfiora neppure il capoluogo, ma è collegata solo a Rende attraverso Settimo.
    Pietro Caracciolo, il sindaco della cittadina che ispirò “I Pagliacci” a Leoncavallo, è consapevole di questa particolarità e, ovviamente, tira a nord. «Ripeto quel che ho già detto per l’Ospedale, che deve sorgere a Rende: nella nostra zona verrà realizzato un secondo svincolo della A3, inoltre sono in fase di realizzazione il ponte che unirà ancor di più le nostre zone industriali e sono in cantiere molte iniziative che faranno di Rende e Montalto le aree più infrastrutturate della provincia».

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    Pietro Caracciolo, sindaco di Montalto Uffugo

    Morale della favola: la “Grande Cosenza” dovrà comunque servire tutto il territorio provinciale, che è uno dei più grandi del Paese «e l’area a nordest è l’unica veramente baricentrica sia verso lo Jonio sia verso il Tirreno». Montalto, in altre parole, è una gemella siamese di Rende, che mira ad approfittare dei vantaggi della città sorella: l’Università innanzitutto, ma anche la zona industriale, prossima alla fusione territoriale con la propria. Il blocco Rende-Montalto darebbe non poco filo da torcere.

    Carolei non vuole essere periferia della Grande Cosenza

    Carolei, all’estremo opposto di Montalto, sconta un grosso fallimento urbanistico e un dissesto recente, subito e tamponato alla meno peggio da Francesco Iannucci, sindaco dal 2017.
    Il fallimento si chiama Vadue, la grande frazione residenziale che ha avvicinato il paese all’ingresso sud di Cosenza, tra piazza Riforma e viale della Repubblica. Negli anni ’80 Vadue era considerata la “zona dei ricchi”, ora è diventata una periferia quasi priva di servizi, in cui solo l’edilizia privata, basata su ville e palazzine, mantiene qualche ricordo del passato glorioso e delle promesse mancate.

    Francesco Iannucci, sindaco di Carolei

    La diffidenza è il minimo. E Iannucci la esprime non troppo tra le righe: «In linea di principio sarei d’accordo», spiega il sindaco. Ma il problema è il “come”. Già: «Cosa guadagnerebbero in concreto gli abitanti di Carolei e dei paesi a Sud dall’area vasta? Se a questo progetto corrispondesse un’idea di sviluppo, si proceda pure, altrimenti non converrebbe a nessuno diventare periferia di un’area che avrebbe il suo centro ad almeno dieci chilometri di distanza». Meglio iniziare da una condivisione dei servizi e poi chi vivrà vedrà.

    La geopolitica di Dipignano

    Una cosa è sicura: Gaetano Sorcale, docente universitario di Relazioni internazionali, si intende di geopolitica e diplomazia. E le applica come può per favorire Dipignano, di cui è sindaco da poco più di un anno.
    Dipignano confina con Cosenza attraverso Laurignano, nel cui territorio ricade una parte di Molino d’Irto, l’antica zona industriale di Cosenza.
    A dirla tutta, Laurignano sembra una frazione del capoluogo, «visto che su 1.800 residenti più di mille sono cosentini».

    Gaetano Sorcale, sindaco di Dipignano e docente universitario

    Secondo il sindaco l’estensione a sud dell’area urbana darebbe grosse possibilità non solo al suo Comune, ma anche alla stessa Cosenza: «Nel nostro territorio potrebbe passare benissimo il secondo svincolo sud della A2, che decongestionerebbe il traffico cittadino, diventato problematico dopo le trasformazioni urbanistiche dell’era Occhiuto». Inoltre, la maggiore disponibilità di territorio di Dipignano «consentirebbe uno sviluppo equilibrato dell’area, che si potrebbe bilanciare a sud».
    Tuttavia, secondo Sorcale, non sarebbe un processo di breve periodo: «Occorre uno sviluppo per fasi: iniziamo a mettere assieme i servizi, a progettare assieme lo sviluppo urbano e la grande città verrà da sé».

    In alternativa c’è Pandosia

    Se la “Grande Cosenza” dovesse risultare problematica, nessuna paura: ci sarebbe sempre Pandosia, il progetto lanciato da Mendicino circa otto anni fa.
    Si tratta di un maxicomune che comprenderebbe nove paesi per un totale di circa 30mila abitanti. Un secondo Casali del Manco, ma più grande che aggancerebbe una buona fetta di Appennino al capoluogo.

    Antonio Palermo, sindaco di Mendicino

    Già, spiega Antonio Palermo, il sindaco di Mendicino: «Il mio territorio non è solo parte dell’area urbana ma è anche un elemento fondamentale delle Serre Cosentine».
    Pertanto «non siamo obbligati a diventare una periferia ma possiamo sempre scegliere se e come diventare “grandi”». Ovvero: se nessuno garantisce lo sviluppo equilibrato della “Grande Cosenza”, possiamo sempre creare una realtà più vasta che ci consentirà economie di scala piuttosto importanti.
    Proprio in quest’ottica deve essere interpretato il sostegno dato da Palermo all’idea di realizzare l’Ospedale a Vaglio Lise: «Se parliamo di grande città, il capoluogo deve essere baricentrico, altrimenti è un nonsenso». Sui tempi e modi di questa realizzazione, Palermo si allinea agli altri sindaci: «Iniziamo con la gestione comune dei servizi e poi si vedrà».

    Lucio Di Gioia, sindaco di Cerisano

    Cerisano ha già l’aria buona

    Il meno interessato sembra essere Lucio Di Gioia, il sindaco di Cerisano, che non ha confini diretti con Cosenza.
    «Il nostro vantaggio è essere un borgo in mezzo alla natura, che consente una buona qualità di vita», spiega il primo cittadino. Quindi «entrare in un’area più vasta può essere utile solo se ne ricavassimo più servizi di migliore qualità». Per il resto, «diventare una periferia non ci serve».

    Quattro case e un forno

    Rende e Cosenza duellano per chi deve essere la prima della classe. Gli altri diffidano. Forse perché, sussurrano i maligni, la fascia tricolore piace a tutti, anche se consente di amministrare a malapena le famose “quattro case e un forno”.
    O forse perché, alla fin fine, i campanili piacciono a tutti. La vera sfida sarà la costruzione dal basso della grande città. E, date le premesse, non sarà un processo breve né facile.

  • Cosenza e Rende: due poli, una città

    Cosenza e Rende: due poli, una città

    L’ipotesi di dare vita a un’altra Cosenza, una Cosenza diversa che comprendesse un’area vasta, una realtà urbana che tenesse in conto realtà urbanistiche contigue non solo da un punto di vista urbanistico-funzionale ma anche culturale e per alcuni versi antropologico oltre che sociologico non è materia originalissima.
    La riprendono su queste colonne nei giorni scorsi e con accenti e contenuti intrecciati fra loro Giacomantonio, Paletta, Spirito e il direttore Pellegrini, prendendo spunto, presumo, da taluni segnali, o forse è il caso di definirli vagiti, che sono trapelati dalle agenzie.

    Cosenza e lo sviluppo verso Rende: ostacoli o interessi da tutelare?

    La contiguità topografica dei territori cis e ultra il Campagnano è evidenza inconfutabile sottolineata da fenomeni di conurbazione moltiplicatisi negli anni che rendono non distinguibili i contorni separati delle due città che si sono sviluppate lungo l’asse sud-nord in sinistra Crati. Un asse che tipizza lo sviluppo longitudinale sacrificando le aree meridionali in virtù di presunte insormontabili osticità di tipo morfologico e ortografico mentre, più in aderenza alla realtà, sarebbe il caso di parlare di rendite fondiarie e grandi proprietà.

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    L’Università della Calabria

    Perché, è da chiedersi, un’ipotesi di area urbana vasta, che mettesse insieme Cosenza, Rende e oltre, non è mai andata al di là di puntuali e singole enunciazioni? È mancata la volontà degli amministratori, l’adesione dei cittadini, l’autorevolezza dei proponenti, sufficiente chiarezza di intenti? È possibile, e il coacervo di tante cause insieme potrebbe dar conto del perché si è fermi al palo, ma parimenti induce a una verifica attenta e aggiornata, oggi, della sua percorribilità oltre che opportunità.

    Due poli, una città

    Anni fa, con Empio Malara ci mettemmo a tavolino, guardammo carte, studiammo, scrivemmo articoli, proponemmo di far nascere un’altra Cosenza, un’altra Rende, insieme a Mendicino, Castrolibero… Parallelamente l’Associazione Prima che Tutto Crolli aveva finalizzato la sua copiosa attività nella redazione e pubblicazione di un Libro Bianco, che aveva il suo fuoco, sì, sul Centro Storico cosentino ma ponendolo ed esplicitandolo come polo binario nei confronti di un altro polo, quello di Unical in territorio rendese. C’è un background, voglio dire, di lavoro, elaborazione, anche coinvolgimento che conserva attualità e, meglio ancora, lucida prospezione verso il futuro.

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    Il centro storico di Cosenza

    La storia e il futuro insieme

    È una sfida che occorre rilanciare, una sfida alta, che riprenda concetti basilari quali pianificazione e programmazione, che introduca anche da noi l’idea di città circolare, che metta al centro la cultura della storia, il Centro Storico cosentino, e quella del futuro, l’università.
    Un’attenta lettura del PNNR varato dal governo assegna un ruolo centrale ai sindaci e alle municipalità in generale, vero nodo nevralgico dell’impalcatura chiamata a gestire risorse finanziarie di portata più che considerevole, che richiamano una strutturale riqualificazione, una ridefinizione delle città, specialmente al Sud. Isaia Sales ne ha denunciato debolezze e limiti accresciuti progressivamente.
    A Villa Rendano, anni fa, la Fondazione Giuliani molto si impegnò in tal senso: forse i tempi non erano maturi, è probabile fosse necessario lasciar decantare ancora alcuni processi, oggi val la pena riprovarci.

    Massimo Veltri
    Professore ordinario dell’Università della Calabria ed ex senatore della Repubblica

  • La Marlane e le donne, l’8 marzo delle operaie dimenticate

    La Marlane e le donne, l’8 marzo delle operaie dimenticate

    Le donne della Marlane, l’ex fabbrica dei veleni con sede a Praia a Mare, molto più dei loro colleghi maschi operai, erano quelle che credevano più di tutti alle potenzialità di quello stabilimenti, alla crescita economica ed alla fine della fame che le loro famiglie avevano subìto nel dopoguerra. Molte di loro erano figlie di contadini. Avevano visto con i loro occhi le proprie madri lavorare la terra o ai telai che avevano in casa, senza riuscire a fare quel salto economico che tutti si aspettavano dal quel duro lavoro. All’arrivo del conte Rivetti nella Maratea degli anni ’50, le donne di Maratea erano riconosciute come brave tessitrici e chi voleva fare un buon corredo alle proprie figlie in sposa raggiungeva questa cittadina per rivolgersi a loro.

    Il conte Rivetti arriva nel Sud

    Se Cristo si è fermato a Eboli, Rivetti lo sposta oltre. Fino alla Calabria, in un’area dove si incrociano le tre regioni meridionali più povere d’Italia: la Basilicata, la Campania, la Calabria. L’opera di Rivetti comincia grazie a finanziamenti enormi che il conte riuscì a ottenere dalla Cassa del Mezzogiorno, sembrerebbe anche grazie alla sua amicizia personale con il potente deputato lucano Emilio Colombo. La sua prima cattedrale nel deserto fu il complesso industriale chiamato R1 S.p.A Lanificio di Maratea e nacque nel 1957. Nel 1958-59 Rivetti si sposta in Calabria e qui a Praia a Mare fa nascere la R2.

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    Quel che resta dello stabilimento, visto dall’esterno

    Per queste due strutture, il “benefattore” riceve dallo Stato ben 6 miliardi di vecchie lire. Una cifra per quei tempi astronomica che rientra nella logica di aiuti al Sud. Tra il 1966 e il 1970 il conte Rivetti cede le sue azioni e gli stabilimenti vengono assorbiti prima dall’IMI (Istituto Mobiliare Italiano), poi dalla Lanerossi e infine dall’ENI, che nel frattempo rileva la Lanerossi. Ora nasce la denominazione Marlane S.p.A. Mentre sul conte la stampa del Sud tace, quella dei Nord si scioglie in deliranti e sprezzanti analisi sociologiche antimeridionali al solo fine di mitizzare la figura del pioniere, del nuovo redentore delle zone depresse dei Mezzogiorno.

    Il “pioniere” che piaceva a Montanelli

    Montanelli scrive: «Prima che un industriale del Nord, l’ing. Rivetti, venisse a restituire questi luoghi al loro naturale destino di ottava meraviglia del mondo, gli abitanti di Maratea vivevano come venti secoli fa: di fichi, di pomodori, di carrube, d’uva e di cacio pecorino». Il “pioniere”, ribadisce il giornalista, «cala in una realtà dove solo le donne lavorano, mentre gli uomini giocano a scopone e briscola, aggrumandosi come mosche nei caffè locali, perché schivi, come tutti i meridionali, per un complesso di paure e abitudini casalinghe del sole e della luce».

    Si fanno risaltare le difficoltà e gli ostacoli nei quali ogni giorno si trova questo industriale che anziché portare i capitali all’estero, sente l’impegno morale e nazionale di investirli al Sud affrontando difficoltà burocratiche e tecniche enormi: trovandosi di fronte a gente neghittosa, a pretese salariali senza senso, a persone comunque non disposte ad accettare con disciplina la dura servitù del lavoro moderno.

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    Operai al lavoro nello stabilimento Marlane

    Le donne sono le prime assunte alla Marlane

    Poi la svolta. Il lavoro salariato, la paga a fine mese, i contributi, le ferie, la sicurezza di poter comprare una nuova casa. Le operaie, più degli uomini, pensano al progresso della famiglia, al futuro dei propri figli, al lavoro che un domani avrebbero potuto fare anche i propri figli. Teresa Maimone era una di queste operaie. Arrivava in fabbrica in bicicletta, desiderosa di affermarsi, di andare avanti, di portare il pane alla famiglia. Poi le morti per tumore, una dopo l’altra. Un elenco di donne operaie dimenticato, che nessuno ha intenzione di voler ricordare. A Tortora , esiste una via dedicata a Stefano Rivetti, fondatore della fabbrica, ma non una via dedicata alle donne ed agli uomini della Marlane. Niente esiste neanche a Praia a Mare.

    I veleni nei terreni

    Lì sono rimasti solo le tonnellate di rifiuti, certificati anche dall’ultima perizia depositata nel tribunale di Paola. Una perizia che dovrebbe essere distribuita casa per casa, per far capire i pericoli esistenti in quei terreni, e quelli che i cittadini corrono in quella cittadina. Il Comune di Tortora, quando il sindaco era Lamboglia, fu l’unico comune della costa tirrenica che si costituì parte civile nel processo contro i dirigenti della fabbrica. Gli altri sindaci, compreso quello di Praia a Mare, fecero finta di non sapere niente.

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    Una protesta dei parenti degli ex operai della Marlane morti di tumore

    Ma le morti ed i veleni ci sono. E nessuno oggi ha voglia di ricordarsene. Come nessuno ricorda le donne operaie, in questo 8 marzo:

    • Francesca Bocchino di Maratea è morta nel 1995 all’età di 49 anni per carcinoma al colon;
    • Maria Rodilosso di Aieta è morta nel 1998 all’età di 50 anni per carcinoma mammario;
    • Nelide Scarpino di San Nicola Arcella è morta nel 1999 all’età di 60 anni per tumore allo stomaco;
    • Teresa Maimone di Maratea è morta nel 2000 all’età di 54 anni per tumore all’utero;
    • Pasqualina Licordari, di Gallina è morta nel 2002 all’età di 61 anni per carcinoma del colon;
    • Resina Manzi di Aieta è morta nel 2005 all’età di 62 anni per tumore mammario;
    • Domenica Felice di Tortora è morta nel 2003 all’età di 48 anni per carcinoma midollare della mammella;
    • Maria Iannotti di Trecchina morta nel 1988 all’età di 48 anni per tumore maligno del colon.

    Un ricordo per le donne e gli uomini della Marlane

    Sono solo alcune delle decine di operaie della fabbrica Marlane di Praia a Mare, molte delle quali colpite da tumori maligni riconducibili ai fumi cancerogeni che venivano fuori dalle vasche del reparto tintoria e dalle polveri dell’amianto sparse per il capannone. Lavoravano tutte senza mascherine, né tute di protezione, né guanti. In un unico ambiente, con al centro macchine in cui si impiegavano, all’insaputa di tutti, veleni chimici.

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    Vasche per il trattamento dei tessuti all’interno della Marlane

    Nel 2013, durante il processo Marlane, in primo grado, nel tribunale di Paola l’ironia della sorte volle che un’udienza capitasse proprio un venerdì 8 marzo. Un processo che si chiuse in primo e secondo grado con la completa assoluzione di tutti gli imputati compreso il capo Marzotto. Si attende la fine del secondo processo, ancora impelagato in perizie tecniche , nella speranza che si giunga alla verità. Perché queste donne, così come le centinaia di altri operai, ottengano finalmente giustizia. Ed una piazza che ne perpetui il ricordo.

  • Parenti serpenti, l’eterno scontro tra i cugini di Campagnano

    Parenti serpenti, l’eterno scontro tra i cugini di Campagnano

    «Cosenza, che Michele Bianchi ha voluto bella». Il complimento al quadrumviro (e alla città) proveniva da una fonte insospettabile: Pietro Ingrao, che si era rifugiato in Presila e aveva visitato più volte il capoluogo.
    Ingrao parlava della Cosenza dell’immediato dopoguerra, iniziato in Calabria un po’ prima, con l’arrivo degli Alleati. Cioè parlava di una città di poco più di 40mila abitanti che di lì a poco avrebbe vissuto un boom urbanistico formidabile e una crescita demografica impetuosa.

    Ma nel piano di crescita urbana disegnato da Bianchi covavano già i germi del futuro declino della città: prima di altri il supergerarca aveva intuito che l’unica possibilità di espansione di Cosenza era a nordest, cioè verso Rende, perché a sudovest c’era l’ostacolo insormontabile dei colli e c’era un hinterland accidentato, pieno di campagne urbanizzate male e collegate peggio, da strade che tutt’oggi gridano vendetta.

    Una rissa per l’Ospedale

    La storia si ripete, ma stavolta in farsa. Riguarda il nuovo Ospedale hub di Cosenza che Marcello Manna, il sindaco di Rende, vorrebbe nel suo territorio.
    E lo vuole così tanto da aver chiesto a Roberto Occhiuto un progetto di fattibilità.
    Manna, nella sua richiesta, ha rilanciato un mantra vecchio di almeno dieci anni: Rende sarebbe preferibile al declinante territorio perché c’è l’Unical, che ha un corso di laurea in Farmacia e uno in Medicina e Tecnologie digitali nuovo di zecca. Inoltre, perché la città del Campagnano ha più territorio disponibile, anche in posizione strategica, a cavallo tra la Statale 107 e lo svincolo Nord della A2.

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    L’Università della Calabria

    Franz Caruso, il sindaco di Cosenza, ha risposto picche e ha rilanciato l’idea, altrettanto di lungo corso, di realizzare l’Ospedale a Vaglio Lise, nei pressi della Stazione ferroviaria. Il presidente del Consiglio comunale bruzio, Giuseppe Mazzuca, a tal proposito ha già annunciato che l’assise si pronuncerà in tal senso da qui a poco
    In questo braccio di ferro, ciò che fa notizia è la pretesa rendese, segno che la città che è stata dei Principe al momento è in vantaggio sulla città che è stata dei Mancini, degli Antoniozzi e dei Misasi.

    Cinquant’anni di braccio di ferro

    Cosenza, al momento, mantiene gli uffici e i servizi pubblici che contano, a partire da Prefettura e Tribunale per finire con l’Ospedale e la sede della Provincia. E, ovviamente, ha l’anagrafe a suo favore che, con circa 67mila e rotti abitanti, la fanno poco più del doppio rispetto alla sua aggressiva dirimpettaia, da cui la dividono un tratto del torrente Campagnano e un segnale sul cavalcavia della Statale 107.

    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Ma il numero degli abitanti è illusorio, perché quei 67mila sono ciò che resta di una città che ha vissuto tempi migliori. E questo resto è destinato a calare, sia per la decrescita demografica sia per la ripresa dell’emigrazione, Al contrario, Rende, coi suoi poco meno di 34mila abitanti, tiene botta e denuncia una flessione minima.
    Come si è arrivati a questo punto? Com’è stato possibile che un paese, sostanzialmente arroccato su una collina e sceso a valle dai primi anni ’70 sia arrivato al punto di dare la polvere all’orgogliosa (e spocchiosa) “Atene delle Calabrie”?

    Un flashback

    Facciamo un passo indietro e torniamo al 1970. Allora Rende aveva incassato un importante risultato: l’Università della Calabria, in quel momento “ospite” a Cosenza, ma la cui sistemazione definitiva era stata concessa a Rende, che l’aveva spuntata su Piano Lago. Fu un colpo da maestro di Cecchino Principe, sindaco dal 1952 e all’epoca deputato di lungo corso e sottosegretario alle Partecipazioni statali. Il notabile socialista fece una serie di espropri “lampo” a costi bassissimi e con un metodo che oggi si definirebbe “clientelare”: indennizzò i proprietari dei terreni di Arcavacata con posti di lavoro nell’Università. Questa mossa, completata col disegno urbanistico affidato al big Empio Malara, cambiò le sorti di Rende e di tutta l’area urbana cosentina.

    Giacomo Mancini
    Giacomo Mancini

    La “grande Cosenza”, ideata da Michele Bianchi iniziava a svilupparsi, ma al contrario: non era Cosenza che si “allargava” verso Rende fino ad inglobarla, ma quest’ultima a estendersi verso il capoluogo. Inoltre, lo sviluppo di Rende ebbe un’altra conseguenza politica di lunga durata: l’irruzione dei Principe sulla scena politica regionale con un ruolo di primo piano e in piena autonomia rispetto alla leadership di Giacomo Mancini.
    Forse meno carismatico rispetto al big cosentino, Cecchino Principe aveva dalla sua una forte empatia coi suoi elettori e un grande senso pratico. L’agronomo di Rende l’aveva fatta sotto il naso al sussiegoso avvocato cosentino, che univa ai galloni dell’antifascismo militante il peso della tradizione familiare.

    La grande Cosenza che fu

    I cosentini minimizzarono: Rende, allora, aveva poco più di 13mila abitanti, una bazzecola. Cosenza, invece, aveva superato da poco i 100mila e si orientava a sudovest, cioè verso la vecchia via del mare, che portava ad Amantea per la vecchia strada borbonica. E aveva una zona industriale di tutto rispetto, tra Molino Irto e Vadue, che faceva perno sulle Cartiere Bilotti e sul Pastificio Lecce.
    Forse per questo non colsero la seconda mossa di Principe, che con un’altra serie di espropri consentì l’arrivo di Legnochimica a Contrada Lecco: era l’atto di nascita della zona industriale di Rende, che oggi è la principale dell’area urbana.
    Ma tant’è: i partiti politici facevano da collante e il vecchio sistema di finanza derivata ridimensionava non poco il peso delle autonomie, perché i quattrini arrivavano in base alla popolazione.

    La gara dei vampiri

    A questo punto si arrivò al paradosso: tutti i municipi dell’hinterland tentarono di agganciarsi al capoluogo per “vampirizzarne” la popolazione. Lo fece Carolei, che inventò Vadue, lo fece Mendicino e lo fece Laurignano. E lo fece Castrolibero con Andreotta.
    Ma chi succhiò più abitanti, fu Rende, semplicemente perché, a differenza dei suoi concorrenti, aveva un piano urbanistico a prova di bomba. E poi perché Cecchino Principe ebbe l’abilità di non farsene accorgere. La “sua” Rende si sviluppò come quartiere della Cosenza bene e benestante. Le cose sarebbero cambiate a partire dagli anni ’90, con l’ascesa di Sandro Principe, che interpretò in maniera particolare il nuovo sistema delle autonomie e pensò Rende come città alternativa e concorrente rispetto al capoluogo. Anche perché, tolto Giacomo Mancini, ormai non aveva quasi rivali.

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    Sandro Principe ha dominato la politica rendese per molti anni

    L’effetto Duracell

    Tangentopoli fu un rullo compressore per Cosenza: azzerati i partiti storici, spento l’astro di Riccardo Misasi, il capoluogo provò a resistere col decennio manciniano, caratterizzato da alcune brillanti intuizioni che si sarebbero rivelate delle cambiali.
    Tutte le misure urbanistiche (il rifacimento di piazza Fera e il ponte di Calatrava) miravano ad arroccare la città a Sud. Al contrario, Sandro Principe potenziò Rende a Nord, con massicci investimenti nella zona di Quattromiglia, che divenne un quartiere modello.
    Era iniziato il braccio di ferro tra una città che perdeva abitanti e un’altra che aveva raddoppiato la popolazione residente. Il volano fu l’Unical, che aveva superato i 35mila iscritti dando il via a un mini boom edilizio.

    Ma l’aspetto politico restava quello più importante: la fine dei partiti aveva provocato l’azzeramento delle vecchie élite cosentine, che riuscirono sì e no a riciclarsi nel nuovo alla meno peggio. A Rende, invece, fu centrale la continuità dei Principe, che consentì una gestione razionale e “dirigista” dello sviluppo urbano ed economico.
    Principe seguiva a Principe. A Cosenza, invece, i Gentile, gli Adamo, i Guccione, gli Incarnato, i Morrone e via discorrendo avevano preso il posto dei Misasi, dei Mancini, dei Perugini, degli Antoniozzi, dei d’Ippolito e via discorrendo. Se non è declino questo…

    E ora?

    Il declino è uguale per tutti ma ad alcuni fa più male. È il caso di Cosenza, che pesa nelle dinamiche regionali solo perché è capoluogo di una delle province più grandi d’Italia. Ma questo peso è illusorio, perché l’ente Provincia, con la fine della Prima repubblica, si era “paesanizzato” non poco: basti pensare che i presidenti provinciali più duraturi, Antonio Acri e Mario Oliverio, sono stati di San Giovanni in Fiore.

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    Mario Oliverio

    Se dalla demografia si passa all’economia, la situazione peggiora. Rende ha il bilancio in crisi, ma evita il dissesto grazie al suo consistente patrimonio immobiliare. Cosenza è andata in default il 2019, dopo aver nascosto per quasi vent’anni un debito imponente, nato in lire e lievitato in euro. Il che significa una cosa: a parità di tasse (al massimo in entrambi i Comuni), Rende riesce a garantire servizi passabili, Cosenza no.

    E la Grande Cosenza, in tutto questo? È solo un richiamo retorico per i cosentini che vivono nel capoluogo e consolano il proprio campanilismo con l’idea della “città policentrica” (un’assurdità urbanistica, perché tutte le città hanno un centro). I cosentini che hanno popolato Rende, al contrario, sono piuttosto tiepidi: a nessuno fa piacere diventare periferia di una città in declino e subirne i contraccolpi finanziari.
    E Telesio? L’Accademia Cosentina? E le memorie risorgimentali? Un’altra volta…

  • STRADE PERDUTE| Cetraro, quel km insostituibile sulla SS 18

    STRADE PERDUTE| Cetraro, quel km insostituibile sulla SS 18

    Certe strade le puoi evitare, altre no. Spesso si fa fatica ad accorgersene, ma esistono tratti di strade insostituibili o quantomeno insostituiti per varie ragioni, innanzitutto per problemi oro – ovvero idro – grafici. Uno di questi lo avete percorso chissà quante volte, senza sapere di questa caratteristica: è un minuto scarso d’auto, un chilometrino e mezzo della SS 18 nel Comune di Cetraro. Non può essere aggirato in nessuno modo, a patto di non voler trasformare 1 minuto in una deviazione di 1 ora e 40’ (provare per credere, interrogate Google Maps). Sto parlando di quel breve tratto tra l’ospedale di Cetraro e “Cavinia”. Anzi, ad essere più precisi, tra il bivio per la contrada Bosco che sale su per le colline – dopo aver lambito l’imponente Casino De Caro con la sua cappelletta – e i tornanti che scendono, appunto, a “Cavinia”.

    Tra Cetraro e Cavinia

    Tutto ciò perché? Perché da una parte c’è la monumentale scogliera dei Rizzi mentre, dall’altra, a dividere a nord il Comune di Cetraro da quello di Bonifati c’è una vallata abbastanza feroce, decisamente invalicabile (il Fosso S. Tommaso), che si insinua con queste fattezze per un bel po’ di chilometri nel mezzo delle montagne, sconfinando nel Comune di Fagnano, nella zona del Lago della Paglia e di quello dei Due Uomini. Quindi, niente da fare: ci si è messa probabilmente anche una storica inespropriabilità dei possedimenti annessi all’antico Casino Falcone (oggi Grand Hotel San Michele), attraverso i quali forse qualche via di comunicazione d’emergenza avrebbe potuto infilarsi. Roba da poco comunque.

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    Cavinia vista dall’alto

    Ho messo Cavinia tra virgolette perché Cavinia non esiste. È nome di fantasia dovuto al fatto che il complesso residenziale piazzato nel mezzo di quella caletta fu costruito dall’architetto Cava. Piccola digressione storica: Cavinia non è altro che “l’infame renajo di Santa Maria l’Ascosa” (Leopoldo Pagano, Natura, economia, storia in Calabria: studi sulla Calabria, 1892), “ov’era una chiesetta greca, ed ove è ora un fiumicello, ch’è principio del Cedrarese”. Esatto: ancora oggi, l’infame renaio di Cavinia è diviso esso stesso in due, la metà settentrionale, con il lido, a Bonifati e quella meridionale – un concentrato di palazzine da villeggiatura, ficcate in mezzo a due binari, sotto a un viadotto e di fianco al riverbero bollente della scogliera – a Cetraro. In mezzo al confine, 2022, un ponticello malsicuro, alla faccia dell’ingegneria idraulica ‘i nuàutri.

    Le torri sulla scogliera

    Sopra la scogliera, deturpata dall’ascensore per il mare, la Torre di Rienzo, infine la foce del torrente Triolo, “luogo anche infame per assassini” – scriveva sempre Leopoldo Pagano – e l’antichissimo Casino Del Trono (un nobile Giovanni Del Trono viveva a Cetraro già nel 1323), oggi soffocato dall’Ospedale. Diciamone anche un’altra: la romanticheggiante Torre di Rienzo non è altro che la vecchia Torre dell’Acqua Perropata o Derupata (com’è registrata nell’elenco di Acton), dal nome della piccola cascata a mare posta lungo lo strapiombo della ‘Ncramata.

    Rienzo, o Renzo, proviene probabilmente da quel tale Lorenzo Daniele che ne fu torriere tra il 1668 e il 1669. Della sua stalla annessa, anch’essa seicentesca, non resta che qualche traccia. La torre, invece, fu rimessa in sesto nel 1761 da tre mastri architetti di stanza a Cetraro (un cetrarese e due fratelli originari di Rogliano, vedi ASCS, Atti notarili, Notaio Giacomo Lattaro di Cetraro, atto del 15 marzo 1761, f. 33v).

    Cetraro e i suoi toponimi

    Anche Cetraro, insomma, parla del passato se la si ascolta sulle strade secondarie, con i suoi toponimi e idronimi che tradiscono origini abbastanza chiare e mescolate: il fiume Aron (da cui appunto Citra-Aron, che nulla ha che vedere con i cedri), il ponte Caprovini, le contrade Arvàra, Caparrùa (caput ad ruam), Dattilo, Sopralirto, Acquicella, Aramaticòie, poi divenuta Rammaticò, San Milanone. Discorso diverso va fatto per la lontana contrada Sant’Angelo, una sorta di zona franca perduta in mezzo alle colline, a 9 km dal centro storico: un piccolo paradiso semiabbandonato, gli abitanti recidivi vi costruiscono ancora palazzine per rimanervi.

    Spicca una casa che doveva essere la più importante della contrada, un centinaio d’anni fa, baciata dal sole di sud-ovest anche in pieno inverno, poi la gloriosa scuola elementare “Torino”, chiaramente in disuso, esempio raro di volontariato belle époque (oggi da queste parti è più in voga tramandare una ferocissima morra), una lapide all’educatore Arcangelo Verta, la fredda chiesetta di San Michele Arcangelo, qualche albero di arance, zucche magrissime vicino al cimitero: chiedo a un contadino come mai siano così avvizzite e mi fa «non ha piovuto, povere bestie». Zoomorfia allo stato embrionale, anzi, brado. Forse in onore del leggendario montone che venne risucchiato dalla locale grotta-inghiottitoio dell’Avìsu (l’Abisso, e non ÀvisLavis come troppo spesso viene travisato) e poi ritrovato a mare qualche giorno dopo. Quann’allampa aru Citraru, vat’ammuccia aru pagliaru, ok, ma facendo attenzione a non cadere in buche insondabili.

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    Ruderi a contrada Sant’Angelo (foto L.I. Fragale, 15-8-2011)

    Verso il centro storico

    Da Sant’Angelo si potrebbe tornare direttamente sulla Statale senza passare dal centro storico. Ma occorrerebbe un 4×4 di quelli buoni, piccoli e agili, perché il primo pezzo è sterratissimo, anzi pietroso, e fortemente in pendenza. Ma vale la pena. Vale la pena raggiungere, in fondo al Vallone di Lappe, i meravigliosi ruderi del mulino sul torrente. E, a metà strada, passare per l’abitato (si fa per dire) di contrada Difesa e per quella magnifica masseria abbandonata con cappella annessa, un paio di tornanti più giù, sotto la rupe rossiccia.

    Nel centro storico è tutto categoricamente diverso: Cetraro ha un’impronta aristocratica e non la nasconde. Il corso principale assomiglia a qualche scorcio di Napoli, con le volumetrie imponenti dei suoi palazzi nobiliari: i De Caro, i due Del Trono, e ancora i Militerni, Giordanelli, Ranieri; la piazza affacciata sul mare sfoggia un discutibile Nettuno. A me pare più un efebo: barbuto sì ma con cosce e seni da ragazzetta. La cappelletta della Madonna del Pettoruto, paleo-franchising dell’omonimo santuario di San Sosti, riporta una lapide di cui il prelato estensore mi deliziò, anni fa, con la roboante recitazione di un Salve Regina riveduto di proprio pugno, fiero dell’assolutissimo ablativo di un “probante populo” fuori tempo massimo. Microcosmi e diversità, minuscoli habitat.

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    Ruderi del mulino del Vallone di Lappe (foto L.I. Fragale, 30-12-2021)

    1749, fuga da Cetraro

    Torno con la mente all’infame renaio di “Cavinia” e ricordo un atto d’archivio che incrociai anni fa: nel novembre del 1749 le autorità locali e centrali del Regno dovettero cercare di dirimere una questione resa spinosa dalla loro stessa burocrazia. Proprio a “Cavinia” si arenò infatti un’imbarcazione di marinai liparoti, di quelle che arrivavano in Calabria per venire a caricare uva passa, fichi secchi, vino e formaggi anche specialmente nei pressi di Capo Bonifati. L’equipaggio sbarcò per scampare i pericoli di un mare poco promettente. Ma le forze dell’ordine cetraresi lo ricacciarono in acqua, a seguito di un’ordinanza che vietava proprio ai liparoti di approdare nel territorio di Cetraro, in quanto usi al contrabbando e al furto.

    Il giorno seguente, l’imbarcazione naufragò e i marinai raggiunsero fortunosamente la riva. Lo zelante luogotenente pose in fermo i naufraghi evitando – a fini sanitari – il contatto di questi tanto con la gente del luogo quanto tra loro stessi. Nel frattempo chiese lumi al Governo centrale. Dopo ben nove giorni, da Napoli si dissero assai poco soddisfatti del resoconto ricevuto. Chiesero perciò che venissero fornite informazioni più dettagliate, con buona pace dei disgraziati che già da due settimane si trovavano confinati sulla spiaggia.

     

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    Contrada Acquicella di Cetraro, edilizia rurale (foto L.I. Fragale, 16-8-2007)

    La corrispondenza continuò così, con cavillose questione di lana caprina tra le due amministrazioni. Tanto che, nel frattempo, dopo circa 15 giorni trascorsi all’addiaccio, i naufraghi comprensibilmente esausti approfittarono delle condizioni metereologiche favorevoli e si rimisero in mare senza vela e a forza di soli remi (ASCS, Regia Udienza Provinciale, busta 28, fasc. 255). Lavoratori del mare e figli del mare, sulle sue acque si sarebbero nuovamente diretti per ritrovare, con un po’ di fortuna e molta fatica, le proprie dimore, con buona pace della burocrazia borbonica e pure del tirrenico santo calabrese, protettore di pescatori, sì, ma anche di marinai. Ancora una volta: benvenuti in Calabria?

     

  • Asp di Cosenza, risparmio vietato: lo scandalo mense prosegue ancora

    Asp di Cosenza, risparmio vietato: lo scandalo mense prosegue ancora

    Il buco milionario nelle casse dell’Asp di Cosenza non è nemmeno quantificabile. L’ultimo bilancio approvato, sotto inchiesta della Procura che ipotizza numerosi falsi nella stesura del documento contabile, risale ormai a cinque anni (e otto commissari) fa. Una certezza però c’è: anche quest’anno si sborserà molto più di quanto accade nel resto della Calabria per i pasti dei degenti. La conferma arriva dall’albo pretorio dell’Azienda sanitaria provinciale, con due determine (la 140 e la 143) pubblicate nei giorni scorsi. Che confermano come la necessaria guerra agli sprechi per risanare i conti sia ben lontana dall’essere vinta. O, forse, combattuta.

    Due gare vecchie di quindici e più anni

    I due atti in questione riguardano, infatti, quella che, più che una gara, sembra una “maratona d’appalto” dal traguardo lontanissimo. Per comprendere meglio, però, bisogna fare un passo indietro e tornare al biennio 2006-2007. In Calabria la sanità territoriale è ancora materia per le Asl, destinate di lì a poco all’inglobamento nelle attuali macro aziende provinciali. In quegli anni si concludono due gare per la fornitura dei pasti ai degenti. La prima (2006) riguarda l’ospedale di Acri e se l’aggiudica la Orma, la durata del servizio prevista dal bando è di 36 mesi più altri 24 eventuali. Di mesi da allora ad oggi ne sono passati quasi 200, ma Orma – o, meglio, Eurorist, che ne ha rilevato il ramo d’azienda interessato – è ancora lì, proroga dopo proroga, in attesa di una nuova procedura d’appalto.

    L’ospedale di Acri

    Da Rossano a tutta la provincia

    La seconda, seppur successiva, ha implicazioni ancora maggiori sulle disastrate finanze dell’Asp. Stavolta siamo nell’ex Asl di Rossano, l’anno è il 2007. Ad aggiudicarsi la gara è una big del settore, la Siarc dell’ex presidente del Catanzaro Pino Albano. Anche qui la durata prevista da principio nel contratto è al massimo di cinque anni e, come nel caso precedente, il rapporto è ancora in essere dieci anni dopo la sua scadenza naturale. Con una differenza però: grazie a quell’aggiudicazione relativa alla sola area jonica, la Siarc si è vista assegnare anno dopo anno – senza, dunque, ulteriori procedure concorrenziali ad evidenza pubblica – i pasti per tutti gli altri ospedali (tranne Acri) di competenza dell’Asp di Cosenza.

    Non ci sono più addetti interni per le mense di Castrovillari e Lungro? Si allarga il contratto alla Siarc. Il problema si ripropone a Paola e Cetraro? Riecco la Siarc, e pazienza se i pasti vengono preparati a Castrolibero, cittadina confinante con Cosenza e a decine di km di distanza dai due ospedali. All’elenco si aggiungono progressivamente la Casa albergo di Oriolo, l’Hospice di Cassano allo Jonio, il Centro Dialisi di Cosenza e il Centro Salute mentale di Montalto Uffugo, i presidi ospedalieri di San Giovanni in Fiore, Trebisacce e Praia a Mare. Tutto senza mai una gara e a prezzi che nulla hanno di concorrenziale, anzi.

    Reggio e Catanzaro risparmiano, l’Asp di Cosenza no

    Mentre via Alimena va avanti a colpi di proroga, infatti, la Regione prova a mettere a bando la fornitura dei pasti per tutti gli ospedali calabresi. Siamo già nel 2015 quando arrivano le prime aggiudicazioni: al Pugliese-Ciaccio di Catanzaro il cibo per ciascun paziente costerà da quel momento 10,99 euro netti, al Bianco-Morelli di Reggio si scende fino a 9,22. Siarc, che si era aggiudicata la vecchia gara del 2006 con un’offerta da 11,80 euro (Iva esclusa) a degente, nel frattempo è arrivata a chiederne 13,397 oltre Iva a Paola e Cetraro. Dove doveva restare per soli sei mesi del 2015 e dove è ancora oggi a tariffe immutate. Quei pochi euro di differenza, moltiplicati per i 365 giorni di ogni anno extra trascorso e tutti i pazienti transitati dalle strutture sanitarie del Cosentino, diventano milioni di euro che si potevano risparmiare.

    Poco importa che, anche di recente, la Corte dei Conti abbia bacchettato via Alimena spiegando che la proroga è «un istituto di carattere eccezionale e ad utilizzo estremamente circoscritto, non potendo rappresentare il rimedio ordinario per sopperire a ritardi e disfunzioni organizzative». O che abusarne si traduca, sempre secondo i magistrati, in potenziali «illegittimità» o, peggio, un «danno erariale».

    Il pasticcio del bando

    In realtà la vecchia gara della Regione, tra i vari lotti, prevedeva anche le forniture per Cosenza. Solo che quella parte del bando si è conclusa con un annullamento in autotutela da parte della Cittadella. Il Consiglio di Stato, infatti, aveva stangato la procedura valutandola «se non contraddittoria, quanto meno ambigua ed equivoca e, di conseguenza, tale da indurre in errore il concorrente nella formulazione dell’offerta». «Il bando – precisavano i giudici – non fa alcun cenno alla possibilità di proroga, il disciplinare la prevede in via eventuale e la fissa in un anno, il capitolato speciale la prevede come mera facoltà per la stazione appaltante per un periodo non tassativamente determinato, che può arrivare fino ad un anno». Insomma, un pastrocchio, curiosamente relativo al solo lotto cosentino, da risolvere con una nuova gara e un bando scritto a modo.

    L’Asp di Cosenza e i commissari in fuga

    Prima che si capisca chi, tra la Regione e l’Asp di Cosenza, debba organizzare il nuovo tentativo però passano, complici alcune modifiche normative a livello statale, altri cinque anni. Anni in cui a Cosenza si spendono circa 4 milioni di euro ogni dodici mesi per sfamare i pazienti. La nuova gara parte finalmente il 5 maggio 2020, la base d’asta soggetta a ribasso è di 2,7 milioni. C’è tempo fino al 30 ottobre per presentare le offerte, lo fanno in sei. Poi, il 22 dicembre dello stesso anno, l’Asp nomina la commissione giudicatrice. Tutto sembra andare finalmente per il meglio, ma dura meno di una settimana.

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    La sede dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza

    Tre giorni prima di Capodanno, sei dopo la nomina, arrivano le dimissioni del presidente della commissione, Guglielmo Cordasco, «per impedimenti personali». A breve distanza lo segue la componente Maria Marano «per impedimenti oggettivi». Così, a inizio marzo 2021, arrivano a sostituirli rispettivamente Antonio Figlino e Rosa Greco. Figlino, però, resiste poco più del suo predecessore e dà l’addio il 14 aprile, sempre «per impedimenti personali». Al suo posto arriverà, il 12 maggio, Maria Teresa Pagliuso. Nel frattempo l’Asp chiude il 2021 sborsando per i pasti tre milioni di euro, 300mila in più di quelli che pagherebbe all’eventuale aggiudicataria se anche questa incredibilmente non offrisse un centesimo in meno della base d’asta.

    Nuovi addii e proroghe

    E così si arriva alle delibere 140 e 143 dei giorni scorsi. Con la prima si riconferma uno stanziamento di tre milioni di euro per i pasti dei degenti anche per il 2022 nelle more della conclusione della gara in corso. Soldi che si divideranno le solite Siarc ed Eurorist, «cui si aggiungono per le dialisi del CAPT di San Marco Argentano e il Poliambulatorio di Amantea procedure negoziate con ditte a livello locale».

    La 143, invece, registra l’ennesimo addio alla commissione giudicatrice. Stavolta, sempre per «impedimenti personali», a lasciare la terna è la presidente Pagliuso. Dopo aver resistito 10 mesi in sella, cede il suo posto a Eugenio D’Amico. Tocca ricominciare, la strada verso l’aggiudicazione (e il risparmio) torna ad allungarsi, il buco nelle casse dell’Asp di Cosenza ad allargarsi. Coi soldi risparmiabili magari si potrebbero offrire più servizi ai cittadini. Ma poco importa, tanto paga Pantalone.

  • Tirreno cosentino, fiumi di denaro e un mare di opere incompiute

    Tirreno cosentino, fiumi di denaro e un mare di opere incompiute

    Da quando – dagli anni ’80 in poi – il Tirreno cosentino è diventato meta turistica con leggi ad hoc per la costruzione di alberghi e villaggi, magari abusivi e usati come lavanderia dalle cosche locali, anche le opere pubbliche hanno accompagnato questa crescita disordinata e devastante.

    Molto denaro per nulla

    Una pioggia di denaro si è riversata su tutti i paesi costieri, per la gioia di politicanti di centro, destra e sinistra che così hanno accresciuto il proprio peso politico ed elettorale. Sono gli anni in cui i big si chiamano Misasi, Pirillo, Gentile, Adamo, Covello, Antoniozzi. Anni in cui si dissemina la costa di marciapiedi e si rifanno centri storici con marmi di Trani e pietre di porfido del Trentino. Sorgono mattatoi, centri sportivi, porti turistici, strade di penetrazione finite nel nulla. Opere quasi tutte abbandonate o inutilizzate.

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    Massi per arginare le mareggiate a Belvedere

    Come può un masso arginare il mare?

    La follia degli anni ’80 inizia con i massi a difesa della ferrovia. Una serie di pietre provenienti da cave, gestite spesso dalle potentissime cosche del Tirreno, gettate alla rinfusa a protezione della linea ferroviaria colpita da forti mareggiate. A trasportare i massi una serie di ditte, a studiare il fenomeno tecnici di dubbia esperienza che hanno costruito quell’inutile barriera di massi favorendo indirettamente o direttamente l’erosione verso il paese vicino. Così i massi a Belvedere hanno rovinato le spiagge di Sangineto e, via verso sud, fino al disastro di San Lucido.

    Fronte del porto

    Dopo i massi, ecco i finanziamenti sulle condotte sottomarine legate alla depurazione. Miliardi di vecchie lire hanno fatto sì che ogni depuratore avesse la sua condotta che sarebbe dovuta arrivare a trenta metri di profondità. Diverse però, finiti i finanziamenti, si sono fermate a poche decine di metri dalla riva espandendo liquami secondo le correnti.

    Poi l’esplosione della portualità negli anni ’90. Ogni paese voleva un porto, ogni paese presentò progetti in massima parte finanziati dalla Regione o dal Comune. Anche stavolta a regnare sembra essere l’improvvisazione. Progetti fantasiosi e soprattutto miliardari, che vanno dal Porto canale mobile e retraibile di Tortora alla foce del fiume Noce a quello attorno alla Torre Talao a Scalea. C’è poi quello nel fiume Corvino a Diamante con annesso lago, e poi ecco quello di Belvedere fra i massi della ferrovia, quello di Fuscaldo, di Paola, di Cittadella, di Campora San Giovanni.

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    Diamante vuole un porto turistico

    Al momento, passata la buriana dei fallimenti finanziari, sono operativi solo quelli di Cetraro e Campora san Giovanni. Ma entrambi convivono annualmente con l’insabbiamento degli ingressi e i relativi esborsi di centinaia di migliaia di euro per liberarli e permettere così alle imbarcazioni di entrare ed uscire.

    Il porto di Damante è emblematico del disastro compiuto da quattro sindaci, iniziato nel 1990 con il sindaco De Luna, e proseguito con Caselli, Magorno, Sollazzo, e tre governatori (Oliviero, Santelli, Spirlì) che non sono riusciti a gestire cospicui finanziamenti finiti in mano di un concessionario, riducendo solo la scogliera ad un ammasso di cemento.

    Aviosuperficie e ospedale: Scalea abbandonata

    La madre di tutte le opere pubbliche abbandonate è probabilmente  l’aviosuperficie di Scalea. Circa 23 miliardi di vecchie lire sperperate lungo il fiume Lao in un corridoio verde, un’area Sic e un’area demaniale. Per costruirlo sono state estirpate ben 2.000 piante di cedro che decine di contadini coltivavano da decenni. Un disastro passato inosservato e che ha fatto posto ad una lingua di bitume lunga circa 2.000 metri e larga 30 e ritornato alla luce grazie all’inchiesta “Lande desolate” nella quale venne coinvolto anche il governatore Oliverio, poi assolto.

    Sempre a Scalea un’altra delle opere pubbliche abbandonate e solo in parte restituita alla collettività negli anni recenti, è l’ospedale. Una struttura imponente di tre piani che troneggia su una collina costata alla collettività ben 10 miliardi di vecchie lire. Non è mai entrato in funzione come ospedale né lo diventerà dopo la chiusura di altri 19 presìdi in tutta la regione. Rimasto senza alcun controllo dopo essere stato attrezzato, per anni è stato vandalizzato, fino a farne sparire le cucine e tutti gli arredi delle stanze.

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    Doveva essere l’ospedale di Scalea, ma è solo abbandonato e vandalizzato

    Tre viadotti e due gallerie

    Poi ci sono le strade di penetrazione dal Tirreno verso l’autostrada, quelle che avrebbero dovuto favorire il turismo. La strada di collegamento di Lagonegro è obsoleta e se ne cerca un’altra. La prima negli anni ’90 fu il congiungimento di Guardia Piemontese attraverso San Marco. Una variante che era partita bene ma che si è fermata a metà con una sola bretella ben fatta: riporta, però, alla vecchia strada provinciale senza raggiungere l’autostrada a pochissimi km.

    Ed ecco in alternativa un’altra grande pensata, una nuova strada che da Scalea possa raggiungere Mormanno. I soldi pubblici ci sono, ben 100 milioni di euro. Si parte alla grande dal fiume Lao, ma, completata una bellissima rotonda, la strada si ferma ad un piccolo ponte della ferrovia. Soldi impegnati, dieci milioni di euro. Contro l’opera interviene anche il Parco del Pollino che non dà nessuna autorizzazione.  La strada per raggiungere Mormanno dovrebbe attraversare il territorio di Papasidero con tre viadotti e due gallerie. Uno sfondamento e una cementificazione selvaggia nel pieno del parco.

    La protesta dei lavoratori Sateca all’interno delle terme di Guardia Piemontese

    Non solo opere pubbliche: il disastro delle Terme

    Storia a sé fanno le Terme Luigiane e il contenzioso fra i due comuni che la dovrebbero gestire (Guardia Piemontese e Acquappesa) e la società che la aveva in concessione. Struttura chiusa, dipendenti in cassa integrazione, indotto volatilizzato, pazienti privati del servizio: a perdere è stato come sempre il territorio, ennesima conferma della disastrosa gestione delle cose pubbliche nell’alto Tirreno cosentino.

    Sempre a Guardia Piemontese, vicino alle terme è stata costruita una grossa struttura. È il Centro Congressi, costato centinaia di milioni in vecchie lire, abbandonato per decenni. Ripreso e ristrutturato recentemente, per poi essere destinato ad altro. Anche stavolta un’opera pubblica costretta a lungo a fare i conti con degrado e abbandono, quale sarà la prossima?

    Il centro congressi di Guardia Piemontese

     

  • Rap, break dance e street art: come la Calabria scoprì la poesia della strada

    Rap, break dance e street art: come la Calabria scoprì la poesia della strada

    Un tappetino disteso sull’asfalto, il radiolone con le casse sparate “a palla”. Quattro ragazzi si contorcono a turno. E il marciapiede sembra prendere vita nei loro corpi modellati in pose impossibili, al ritmo di una voce che perentoria declama versi su basi ripetute. È il rap, la poesia della strada. Mai vista prima una scena simile in Calabria e regioni confinanti. I cosentini si fermano, osservano incuriositi. È il 1984 quando in città compaiono per la prima volta i B-boy, la break dance, l’hip hop e la street art. I muri spogli di edifici periferici e centrali ospitano vistosi graffiti colorati che appaiono all’alba, suscitando l’interesse dei passanti e il furore di qualche capo-condomino.

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    La street art è arrivata in Calabria

    I pionieri di rap e hip hop

    «Si usciva con radio in spalla a ballare in strada nonostante la pioggia e il freddo. Qualcuno la chiamava ciutìa – racconta Carmelo Gervasi, uno dei pionieri calabresi di questa cultura – ma per noi era magia. Il nostro immaginario era ispirato a film come Flashdance, Electrik boogaloo, Wild style, Breakin’ e Beat street. Avevamo letto il libro Spraycan Art. Ascoltavamo dischi dei Melle Mel, Run Dmc, Whoudini. Per noi l’hip hop significava poter danzare sulle sonorità fuori dai canoni. Lo sport che praticavamo era scovare qualcun altro che avesse le stesso nostro sentimento. C’erano Ramon con la sua fibbia personalizzata e Lugi col capello afro, mezzo popiliano e mezzo etiope. Loro hanno fatto da catalizzatori. Ramon ha aperto la strada a tutti i graffitari, Lugi è da sempre un modello per i rapper nostrani. Se oggi si parla di street dance, graffiti o rap in Calabria si deve solo a loro».

    Le prime crew che fecero scuola

    Mentre gli altri interpreti locali delle sottoculture giovanili apparivano a volte statuari, bloccati nelle pose museali della piazza Kennedy degli anni Ottanta, i giovanissimi B-boy erano dinamici, creativi, carichi di significati inediti per le latitudini meridiane. «La prima crew fu la Southern Style, composta da Ramon, Rak e Dedo. Poi – spiega Amaele Serino – venimmo noi, prima Mexicani e poi Jolly artist crew composta da Tiskio, Simo e J.D. Tutto ruotava nei quartieri di via Panebianco, Bosco de Nicola e l’ultimo lotto di via Popilia. I nostri luoghi di riproduzione sociale erano piazza Kennedy, il C.S.A. Gramna e il garage di Simo. All’epoca ci sembrava strano fare rap in lingua italiana; ascoltavamo Public Enemy, Beastie boys, N.W.A, Run DMC».

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    Writers nel quartiere Bosco De Nicola

    «Le prime controversie – continua Amaele – nacquero tra noi Mexicani e i Portoricani di Commenda e alcuni nostri graffiti furono sfregiati. Oggi è tutto diverso. Il writing e il bombing hanno lasciato il posto alla street art, a un nuovo modo di lanciare messaggi, anche se noi lo abbiamo sempre fatto, la tag c’era, ma non aveva più il significato dell’esserci come individuo, originario del Bronx». Tra i breaker più qualificati spiccava Giannone che nel mondo ultrà assumerà un insolito nome di battaglia: Tonno Nostromo.

    Dai murales cancellati a Banksy e Jorit

    All’inizio, quando questa forma di arte apparve sui muri della città, ci fu pure chi si affrettò a cancellare i murales, addirittura considerandoli atti di vandalismo. E in alcuni casi i rapper cosentini furono costretti ad arrivare allo scontro fisico con altre “bande”. Oggi i graffiti riscuotono rispetto e ammirazione. Artisti come Banksy sono celebrati in tutto il mondo. C’è pure qualche amministrazione comunale che destina spazi alla street art e ne finanzia la realizzazione. Rende ha accolto un’opera del grande Jorit. Ma, all’opposto, il perbenismo strisciante e la mania del decoro urbano perseguitano i writer, cancellando i loro lavori e multandoli.

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    Il murales commissionato a Jorit dal Comune di Rende durante la fase di realizzazione

    Ramon ricostruisce le difficoltà dei primi anni: «Io ricordo due momenti fondamentali della nostra storia: anzitutto gli inseguimenti tra noi graffitari e gli agenti di polizia. E parlo di inseguimenti veri e propri, con alcuni di noi catturati e portati in centrale e qualche poliziotto che cadeva e si infortunava nella foga dell’inseguimento, e il mitico concerto al Gramna in cui suonarono i membri della posse di Bologna, i Sangue Misto, tra cui Neffa e Gruff. Quella volta noi facemmo una figura ottima».

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    Cosenza, il concerto del 1992 al Gramna

    Ampollino rap: la Woodstock di Calabria

    Negli anni Novanta il movimento si allargò. Coinvolse ragazzi geniali come il compianto Dj Marcio. Nacque la South Posse. Il festival Ampollino Rap fu la Woodstock di Calabria. Una sera salì sul palco Frankie hi-nrg mc. Su base sincopata declamò i versi della sua Fight da faida: «Cosenza Potenza carne morta in partenza consacrata alla violenza senza opporre resistenza». Il testo non piacque per nulla al numeroso pubblico che si sentì offeso. Fischi, insulti, qualcuno minacciò di salire sul palco per tirare giù con la forza il rapper torinese.

    Sangue Misto (e chillum) all’Ampollino Rap del 1994

    Balzò su Dj Lugi, chiese rispetto per Frankie e lo ottenne dai tantissimi ragazzi provenienti dalle terre più remote della regione. Poi, improvvisando, ingaggiò con lui una sfida a colpi di rime. Lo convinse che i suoi versi raccontavano il sud in modo superficiale, aderente al mainstream, distante dalla realtà. Potenza del Rap: la serata finì in un abbraccio collettivo e sincere strette di mano. Della capacità dell’hip hop di penetrare le coscienze si è accorto di recente pure qualche insegnante nelle scuole. Ci sono professori che lo adoperano come strumento didattico.

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    La South Posse

    Doctor M, un primario graffitaro

    A Cosenza i rapper storici, attivi all’interno del collettivo Brò Crew 360, sono protagonisti di attività istruttive imperniate sull’uso dello spray. Nei workshop tematici realizzati nella Città dei Ragazzi, docente d’eccezione è stato anche Mario Verta. Nell’arte di strada si chiama Doctor M e di giorno fa un delicato lavoro: primario del reparto Gastroenterologia nell’ospedale dell’Annunziata. «Mario è molto bravo nel catturare l’interesse dei ragazzi. Un giorno – prevede Amaele – l’hip hop diventerà materia di studio nelle scuole. Oggi più di prima ha una connotazione socio educativa. E dopo 50 anni possiede ancora, nella sua essenza, la potenza comunicativa del riscatto sociale».

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    La Brò Crew 360

    Animali di strada

    In questi giorni la Brò Crew 360 espone nella Galleria Arte Indipendente Autogestita su corso Telesio una mostra dal titolo ANIMALI, visitabile fino al prossimo 24 aprile. I temi sono quelli di sempre: nessuna discriminazione, lotta contro le ingiustizie, educazione del dissenso, salvaguardia dell’ambiente e delle altre specie viventi. La spray art riproduce su pannelli lo sguardo e il punto di vista che queste creature hanno maturato su di noi, cioè sulla specie cosiddetta sapiens.

    «La mostra – spiega la crew – dà voce agli animali che ci accompagnano lungo la nostra esistenza, non soltanto come compagni, ma come esseri viventi capaci di aprirci gli occhi e il cuore. Il nostro egoismo e il nostro specismo non ci autorizzano a dominare la natura e il mondo in maniera assoluta; anche noi siamo esseri viventi destinati a morire. Il bisogno di comunicare sarà sempre una priorità per il genere umano. Più crescerà il disagio, maggiore diverrà questo bisogno. Nella G.A.I.A. si espongono gli animali. Per loro non c’è giusto o sbagliato. Forse è ciò che cerchiamo anche noi».