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  • Teatri a Cosenza disabitati: l’arte in cerca di casa

    Teatri a Cosenza disabitati: l’arte in cerca di casa

    Gli spazi culturali e, più in particolare, i teatri pubblici dell’area urbana di Cosenza e provincia sono in massima parte disabitati. Non sono vissuti e utilizzati dagli artisti e operatori culturali del territorio, se non per sporadiche rappresentazioni o periodi molto limitati. Una stranezza che bisognerebbe correggere. Nonostante negli ultimi dieci anni ci siano stati dei tentativi di modificare questa situazione – un esempio è rappresentato dalle residenze teatrali – la gran parte di questi percorsi ha avuto durata breve, perché legati a episodici bandi regionali, agli avvicendamenti di sindaci e amministratori locali, agli umori di dirigenti della cosa pubblica.

    I teatri disabitati di Cosenza

    Come dare un’abitazione agli artisti e gli operatori culturali del territorio nei teatri pubblici disabitati? Come possono questi artisti allestire gli spettacoli? Organizzare e gestire laboratori, corsi di formazione? Organizzare e gestire rassegne e festival? Programmare stagioni? Come entrano nei teatri gli artisti e gli operatori culturali per fare ciò che si solitamente si fa nei teatri? Qualcuno potrebbe rispondere: pagando! Ma chi potrebbe permettersi di sostenere le spese di gestione di un teatro come il Rendano per dar vita ad un organismo di produzione e programmazione?

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    Il teatro Rendano vuoto

    La questione dei “teatri disabitati” che devono essere “abitati” è fondamentale, il ritornello continuo di ogni possibile discorso sui luoghi della cultura, comprendendo ovviamente la musica, la danza e le arti della performance in senso ampio. Per “artisti del teatro” chiaramente ci si riferisce a quanti, professionalmente e con continuità, si occupano di prosa, lirica, musica sinfonica, danza e arti performative.

    La grande crisi

    Ma veniamo agli spazi teatrali pubblici cosentini: l’ultracentenario Rendano, per lungo tempo unico “teatro di tradizione” in Calabria, ha avuto negli ultimi 20 anni una dotazione economica via via sempre più piccola, fino a diventare di fatto inesistente. Nonostante il conclamato stato di crisi delle casse comunali è questa una condizione che la nuova amministrazione dovrebbe affrontare con risolutezza, con un impegno forte. Dove reperire i fondi per il suo corretto funzionamento? Come intercettare i finanziamenti del Ministero della Cultura e della Regione Calabria?*

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    L’ingresso del Cinema-Teatro Tieri è da tempo rifugio per chi non ha un tetto

    Poi c’è il Teatro Italia-Tieri, edificio che nel tempo è stato utilizzato nei modi più disparati. Non c’è mai stato su questo luogo un progetto preciso per l’utilizzo. Da qualche parte ho letto che la passata giunta comunale avrebbe emanato un bando per affidare il Tieri ad una gestione esterna. Non sono a conoscenza dell’eventuale esito di questa iniziativa. Di sicuro c’è che sulle sue scale esterne hanno trovato alloggio due clochards. Almeno è casa per qualcuno.

    Area urbana e spazi culturali

    Il teatro Morelli, già sede del defunto Consorzio Teatrale Calabrese la cui dipartita per fallimento risale ormai a oltre 30 anni fa, giace anch’esso chiuso, tornato di proprietà privata. Ci sono poi altri spazi, ma forse è meglio non allargare troppo il discorso. Giusto come promemoria cito il piccolo teatro all’interno del Cubo Giallo della Città dei Ragazzi, le sale della Casa delle Culture, i BocsArt
    È accettabile questa situazione? Che senso hanno queste porte chiuse? Come restituire questo patrimonio alla vita della comunità?

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    Saracinesche abbassate al Morelli: il Comune ha disdetto il contratto per risparmiare dopo la dichiarazione di dissesto

    Non è più eludibile la progettazione di nuove forme di gestione per i teatri ed eventualmente per gli altri spazi culturali. E girando lo sguardo verso nord ci sarebbe pure da affrontare la condizione nella quale giacciono i due teatri dell’Università della Calabria. Il discorso, però, si farebbe davvero troppo complesso. Eppure sempre di area urbana Cosenza-Rende si parlerebbe.

    Una fondazione per il Rendano

    Ma restando a Cosenza e focalizzando l’attenzione sul meraviglioso Teatro Rendano, cosa si potrebbe fare? Da tempo ormai, varie voci si sono levate parlando dell’opportunità di dar vita ad una fondazione pubblico-privata per la sua gestione. È vero, potrebbe essere opportuna una configurazione giuridica autonoma dal Comune. Intendiamoci: il Rendano deve restare “pubblico”.

    Ma una Fondazione di emanazione comunale adeguatamente sostenuta dalla Regione Calabria e da soggetti privati (con percentuali tutte da studiare), potrebbe essere una strada percorribile per dar vita ad un’ente con un Consiglio d’Amministrazione snello, capace di dotarsi di una direzione artistica che possa operare con il supporto di un adeguato staff organizzativo e gestionale. Un organismo siffatto avrebbe la necessaria autonomia per procedere all’istituzione di una orchestra e/o di una compagnia di prosa stabile.

    Una scatola vuota da rilanciare

    La stabilità teatrale, quando è ben amministrata, è un modo per calcolare i costi di gestione con oculatezza e per garantire la qualità artistica media. È del tutto evidente la necessità di far camminare insieme progettazione culturale, gestione organizzativa e visione artistica. Un teatro altrimenti resta una scatola vuota, più o meno bella e ben tenuta, da aprire saltuariamente per ospitare eventi che il più delle volte non lasciano niente al territorio, episodi effimeri di mero intrattenimento che non incidono sulla trasformazione culturale.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    La creazione di una Fondazione per la gestione e la nascita di un organismo artistico stabile all’interno non deve apparire come un’utopia, ma una concreta possibilità di rilancio, è un’idea di futuro. D’altra parte cos’altro si potrebbe fare? Quali le altre strade percorribili per uscire da questa condizione di eterno stallo?
    Questa sarebbe la vera rivoluzione di cui il teatro calabrese ha bisogno per diventare finalmente adulto, proprio ora, proprio adesso, quando ancora la pandemia non è finita e nel cuore dell’Europa arde una guerra, proprio adesso c’è bisogno di agorà, di centri culturali che abbiano la giusta dimensione per farsi carico della complessità del presente.

    Dai teatri a Cosenza hub creativo

    Bisognerebbe lavorare quindi per la costruzione di un’ente, inizialmente sperimentale, che possa ambire nel giro di qualche anno (3/4?) ad accedere ai finanziamenti ministeriali. Non dico di puntare a far diventare il Rendano un Teatro Nazionale**, perché servirebbero economie da far tremare i polsi, ma con un giusto investimento da parte degli enti territoriali sarebbe plausibile, nel medio periodo, puntare ad ottenere il riconoscimento come TRIC** (Teatro di Rilevante Interesse Culturale).

    L’obiettivo di lungo termine di un organismo istituzionale del genere sarebbe di perseguire un equilibrio tra la valorizzazione delle risorse culturali del luogo (sì, il genius loci è importante!) e il continuo confronto con la produzione artistica nazionale e internazionale. E accanto a questo si dovrebbe delineare un sistema integrato che sia di luoghi, ma soprattutto di progetti socio-culturali innovativi per incidere sullo sviluppo di un’area vasta: la città di Cosenza come naturale baricentro culturale di tutta la provincia. Un “hub creativo” che possa sperimentare in più direzioni nuove modalità produttive, di programmazione, di relazione, di promozione, di formazione del pubblico e degli operatori del settore.

    Istituzioni e operatori allo stesso tavolo

    Come perseguire questo obiettivo? Non ci sono ricette preconfezionate, bisogna essere pieni di dubbi e domande, consapevoli della complessità che un progetto del genere prevede. Ma l’apertura di un tavolo di lavoro, con la partecipazione degli amministratori comunali e degli operatori culturali del territorio, potrebbe essere il viatico per l’inizio di una stagione nuova.

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    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza

    Attraverso un confronto certamente lungo e difficile, si potrebbero individuare i passi da compiere per dotare il nostro territorio di uno strumento che manca da troppo tempo.
    Diversamente ci si limiterà a continuare con la pratica degli eventi saltuari e si andrà avanti vivacchiando, tirando a campare, lasciando i nostri teatri e luoghi culturali pubblici vuoti e disabitati per la maggior parte del tempo.

    Ernesto Orrico


    * La nuova amministrazione ha annunciato, nelle scorse settimane, una collaborazione con il Conservatorio di Cosenza per partecipare ad un bando ministeriale che prevede la costituzione di un’orchestra.

    ** Teatro Nazionale e TRIC sono categorie ministeriali, così come i Centri di Produzione e i Circuiti Teatrali. In Calabria, allo stato attuale, nessun organismo o ente è riconosciuto, attraverso queste categorie, dal Ministero della Cultura.

     

  • Cosenza, Rende, area urbana: basta con la solita farsa!

    Cosenza, Rende, area urbana: basta con la solita farsa!

    C’è una vicenda che riguarda l’effimera idea di città unica (sempre più impropriamente definita “area urbana”) intorno a Cosenza, che ad oggi trova coerenza solo nella realtà che sancisce una lunga teoria di edificazione senza soluzione di continuità lungo tutta la valle del Crati passando da Rende, fin, oltre Montalto. Una vicenda che rischia di assumere i contorni della barzelletta che fa il giro degli amici e ogni volta cambia versione!

    Cosenza, Rende e la presunta area urbana

    Ancora una volta parliamo della cosiddetta, (solo) presunta “area urbana”, tra Cosenza e gli altri centri conurbati, che sta assumendo il carattere solito delle cose meridionali: ciascuno dice la sua, approfittando, in questi mesi, di un effimero, temporaneo ritorno di attenzione per l’elezione del nuovo sindaco di Cosenza. Ma, diciamoci la verità, e senza ascoltare le voci dissonanti della politica locale: in questa vicenda si gioca da sempre all’improvvisazione, su tavoli nei quali non si sono mai visti uno straccio di strategia, in cui non sono mai comparsi nemmeno possibili confronti tra i piani urbanistici di questi diversi centri urbani, piani che non hanno mai dialogato tra loro e che in alcuni comuni sono fermi a 15 anni fa.

    Ospedale e agenda: ognuno per sé

    Non si è mai parlato di scelte localizzative di attrezzature di rango urbano, vedasi, ad esempio, la vicenda dell’Ospedale, una coperta corta che ognuno tira verso di sé. E che nemmeno in questo caso fa venire in mente ai governi locali e regionali che gli ospedali, come accade nei luoghi emancipati ed avanzati, si scelgono secondo una logica di coerenze molto complesse, che richiedono una serie considerevole di verifiche preliminari, piuttosto che – anche in questo caso – generiche rivendicazioni di “opportunità” in questo o quel luogo. Tantomeno si intravede uno straccio di agenda collettiva dei comuni di potenziale interesse alla fusione, con tanto di scadenze e appuntamenti per un possibile percorso comune.

    Fusione a freddo

    Non esiste, a memoria di chi si occupa di tale questione, anche solo una perimetrazione ad opera di uno dei comuni dell’area. Esistono invece seri studi nel Piano Urbanistico Territoriale Regionale, nel Piano Territoriale Provinciale, in alcune ricerche universitarie. Anche se datati, sono strumenti di pianificazione che hanno alle spalle quadri conoscitivi sufficienti anche solo a capire il numero di abitanti, i flussi automobilistici, la dimensione urbanistica-edilizia della “possibile” città della valle del Crati, ovvero una prima carta d’identità necessaria a non partire sempre da zero. Ma mai nessun sindaco, sono certo, si è preso la briga di consultare anche solo uno di questi documenti. Pertanto, la deludente sensazione è che, ammesso si proceda nel tentativo di dialogo, la fusione Cosenza-Rende e dintorni, si profilerebbe come ancora più fredda di quella avvenuta a Corigliano-Rossano.

    Cosenza, Rende e l’area urbana da ri-costruire

    Ciò che stupisce è il fatto che a nessuno dei presunti protagonisti del confronto (si fa per dire!) viene in mente che le città, i centri urbani, e i diversi elementi che le compongono, sono parte di complessi organismi dinamici. Richiedono una intelligente organizzazione di reti, servizi, infrastrutture. Necessitano di una coerenza di sistema. La sfida di una nuova città, seppure frutto di fusioni diverse, come in questo caso, è un progetto per ri-costruire, far meglio funzionare i servizi, i trasporti, gli spazi collettivi, i musei, l’offerta di intrattenimento, del commercio, dell’abitare.
    Insomma, uno sforzo significativo per far vivere meglio i cittadini soprattutto, piuttosto che seguire nella lenta crisi ed emorragia di risorse, persone, economie, sperando, fatalisticamente, che la fusione possa cambiare il trend negativo.

    Il nodo degli uffici

    Qualcuno dei nostri politici locali, per esempio, si è chiesto e ha pensato al fatto che senza decentrare le diverse funzioni degli uffici provinciali e statali (oggi tutti ancora a Cosenza centro), le automobili in entrata, già con un numero preoccupante, potrebbero ulteriormente crescere? O al contrario, a Cosenza sarebbero disposti a perdere questa centralità, forse l’ultimo scampolo di capoluogo che rimane, mentre tutto il resto si è dissolto a favore di altri centri vicini? Penso, per esempio, alla consolidata routine degli impiegati dei vari uffici pubblici cosentini, difficilmente disposti a spostarsi di sede, abituati come sono al binomio sedile auto-poltrona ufficio senza alcuno sforzo, nemmeno in tempi di smart working.

    La città dei 15 minuti

    E per dire quanto, tristemente siamo indietro rispetto al dibattito in Europa e in Italia, questa vicenda della presunta fusione è fuori da quel sano e necessario confronto e dibattito che si è aperto sulle città post-pandemia. Tagliati fuori dal flusso delle migliori, necessarie esperienze urbanistiche che dovranno cambiare, per necessità, le nostre città e i modelli di vita: altrove si parla di ripensare i centri urbani e attuare “la città dei 15 minuti”, qui al massimo si parla di consorziare i rifiuti, e già sarebbe un grande risultato!

    “La città dei 15 minuti”, è un modello, che arriva dall’esperienza di Parigi, un modello di città sostenibile, proposto dall’urbanista franco-colombiano della Sorbona, Carlos Moreno, che prevede di riorganizzare gli spazi urbani in modo che il cittadino possa trovare entro 15 minuti a piedi da casa tutto quello di cui ha bisogno: lavoro (anche in co-working), negozi, strutture sanitarie, scuole, impianti sportivi, spazi culturali, bar e ristoranti, luoghi di aggregazione e via dicendo.

    Il ritardo aumenta

    Un modello assolutamente a portata di mano in questa nostra realtà, che però non è affatto centro di interesse e confronto, laddove le agende urbanistiche comunali sono chiuse, infilate in qualche polveroso cassetto e li restano languendo inutilmente, così che il ritardo, rispetto al resto d’Italia e d’Europa, aumenta a dismisura.

    Non è troppo, dunque, chiedere serietà, maturità, umiltà, alla politica, proporre di affidarsi a chi conosce i problemi e può aiutare a risolverli. Soprattutto in situazioni quali il ripensare totalmente un diverso modello urbano, a misura d’uomo e non di automobile, in cui è in ballo un possibile, diverso futuro. Sarebbe serio smetterla con la propaganda e dire che vorremmo più serietà e credibilità. Perché il futuro dell’area urbana, di Cosenza e Rende, non si può giocare sulla pelle dei cittadini!

  • BOTTEGHE OSCURE| ‘Na tazzulella ‘e Cuse’: i primi caffè di Cosenza

    BOTTEGHE OSCURE| ‘Na tazzulella ‘e Cuse’: i primi caffè di Cosenza

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    Nel 1806 la Calabria Citra era in subbuglio. Tra i dominatori francesi e i rivali borbonici erano botte da orbi e si combatteva villaggio per villaggio. Non era certamente un periodo roseo per progetti e affari, ma non secondo Michel Voizot, misterioso «francese abitante in Cosenza». Insieme al cosentino Bonanno, Voizot costituì una società col proposito d’impiantare un caffè in città. Il luogo prescelto fu una bottega lungo Strada del Ponte, la via che da Piazza Piccola porta al Ponte di San Francesco. Il locale avrebbe servito non soltanto caffè ma anche liquori. A tal proposito Voizot, versò 200 ducati, mentre il cosentino Ignazio Bonanno ne aggiunse altri 100, così da coprire le spese e le riparazioni già fatte nel “cafè”, l’acquisto di oggetti e mobili per arredarlo e le «mercanzie di zuccaro, cafè, ed acquavite».

    Le origini del caffè a Cosenza

    Monsieur Voizot ne rimaneva gelosamente il gestore e si occupava in prima persona dell’acquisto degli oggetti, riservandosi l’80% dei guadagni. A Bonanno rimaneva il 20%, e ciò in considerazione che il francese rimaneva il conduttore dell’esercizio. Il cosentino non poteva minimamente interferire nella gestione e nella realizzazione dei prodotti, sui quali monsieur Voizot pretese espressamente di «conservarsi il segreto». Il locale era ben arredato, dotato di mobili, oggetti in legno, vasi di creta, vetri, stagno e altri oggetti.

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    Una delle vedute di Cosenza pubblicate dall’editore Sonzogno ne “Le cento città d’Italia”. Supplemento mensile illustrato n. 11289 del “Secolo” del 31 maggio 1897 (Collezione Barone)

    Circa un anno dopo la società fu sciolta. Voizot e Bonanno cedettero l’attività a Raffaele Zampelli o Zampella, «napolitano commorante pure in Cosenza», che per 150 ducati acquisì «il detto cafe ammobigliato con tutti li suddetti oggetti». Un altro napoletano, che di cognome faceva pure Zampella, a partire dal 1803 fece la sua fortuna a Cosenza con il Caffè che diventerà prima Gallicchio e poi Renzelli.

    Pietro Zampella, come evidenziano i documenti storici pubblicati nel volume che racconta la storia del Gran Caffè Renzelli, aveva rilevato «una nuova bottega di Sorbetto, Cafè, Dolci, Rosoli, ed altro» posta nei locali di palazzo Cavalcanti, sulla Giostra Nuova, aperta nel 1802 dal cosentino Francesco Caruso.

    Nobiltà e clero

    A Cosenza e dintorni la moda del caffè cominciò a diffondersi in pianta stabile a partire dalla fine del Settecento. Erano i personaggi più nobili e in vista a ricercare gli oggetti utili a prepararsi un buon caffè o a offrirne una tazza fumante ai propri ospiti. Agli albori del secolo successivo non c’era palazzo che non avesse l’occorrente per preparare caffè o cioccolata in tazza. La pratica era diffusa anche negli ambienti ecclesiastici.

    La chiesa di Sant’Agostino alla Massa nei primi del ‘900

    Nel 1806, ad esempio, nel Convento degli Agostiniani di Cosenza il “Padre maestro” intratteneva i propri ospiti con caffè o cioccolato, tanto che vi erano conservati «due molini di Cafè; una cioccolatiera di landia; due caffettiere rotte; una zuccariera; sei chiccare» oltre che piattini di caffè e «un cocchiarino di argento per uso di cafè».

    Chicchi crudi e cicculatera

    La moda del caffè si diffuse rapidamente tra tutte le classi sociali. La materia prima veniva commercializzata ancora “cruda” e doveva essere tostata, o “abbrustolita” come si diceva correntemente. La procedura avveniva per piccole quantità direttamente in casa, sulla brace o su poco fuoco. Gli strumenti per farlo erano rudimentali, simili a cilindri girabili grazie ad una lunga asta, oppure a padelle chiuse e dotate di un sistema a manovella per girare i chicchi all’interno.

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    Utensili per la preparazione domestica del caffè

    Dopo la tostatura, che richiedeva attenzione e un continuo movimento dei chicchi perché fosse uniforme, il caffè veniva fatto raffreddare e quindi macinato. I macinini a mano li conosciamo tutti, sono ancora oggi diffusi almeno come soprammobili. La fase finale di cottura della bevanda domestica avveniva nella cicculatèra, nome che più in là indicherà nel dialetto anche la macchinetta cosiddetta “napoletana” (che in realtà sarebbe stata inventata però dai francesi a inizi Ottocento, ma tant’è).

    Il boom del caffè a Cosenza

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    Un prezziario storico del caffè Gallicchio

    Il caffè da tostare a casa poteva essere acquistato dalle famiglie anche presso il locale stesso. Il celebre Gallicchio di Cosenza, ad esempio, nel suo listino del 1888 ne vendeva di diverse qualità: Portorico sopraffino, Rio fino verde, mezzo fino, S. Domingo fino e Moka, la maggior parte dei quali veniva importata dall’America del Sud. L’Ottocento vide a Cosenza un proliferare di caffè, grandi e piccoli, alcuni dalla lunga attività altri di breve durata, e così anche l’inizio del Novecento.

    Tra i “caffettieri” di Cosenza figuravano Annibale Biondi, Carmine Cesario, Francesco Ficca, il Caffè di America di G. Funari, G. Nappa, il Caffè Buvette di Angelo Noce, il Gran Caffè di Giuseppe Pranno, il Progresso di Nicola Rajola e il Caffè del Popolo di Domenico Viafora. Alcuni pensarono di mettere il proprio marchio a mo’ di réclame sulla stampa locale, come Francesco Palumbo che su L’Unione del 1919 pubblicizzava la vendita, tra i vari prodotti del suo negozio in piazza Duomo n. 2, di «Caffè Genuino Brasiliano delle migliori qualità».

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    1919, pubblicità di Francesco Palumbo su L’Unione

    Non solo una bevanda

    Caffè non è solo materia prima torrefatta, macinata e poi messa in vendita in grani, polvere oppure somministrata sotto forma di bevanda. Anche nella città dei Bruzi il caffè è, ed è sempre stato, luogo d’incontro, socializzazione, costruzione di un’opinione e creazione di ciò che si definisce sfera pubblica. Ce lo dice ormai da anni il sociologo Massimo Cerulo (Andare per Caffè storici, Il Mulino 2021) che inserisce il Gran Caffè Renzelli (ex Gallicchio) come ottava tappa del suo singolare viaggio in quei locali che hanno almeno un secolo di vita, hanno ospitato al loro interno importanti eventi sociali-politici-culturali della storia d’Italia, mantengono parti degli arredi originali, sono tuttora aperti al pubblico.

     

    Il Gallicchio e i suoi avventori

    I Caffè cosentini erano però anche il teatro di scontri verbali o fisici, che si spingevano sovente fino alle lame. Una domenica di marzo del 1895, sul far della sera, scoppiò un acceso diverbio tra i tavolini del Gallicchio, su corso Telesio. Un gruppo di giovinastri avvinazzati riempì d’insulti alcuni studenti del Regio Liceo intenti a prendere un caffè. Dalle parole ai pugni il passo fu assai breve e a farne le spese furono ovviamente i liceali. Vista la carenza cronica di agenti di pubblica sicurezza la rissa fu sedata dai gestori del locale con l’aiuto di qualche cliente e passante.

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    Il Gran Caffè in piazza Arcivescovado in una foto dei primi del ‘900

    Le adiacenze del Gallicchio diventavano spesso ricettacolo di strilloni, monelli, perdigiorno, ambulanti e mendicanti che «fanno un chiasso del diavolo, bestemmiando, lanciando parole oscene e scurrilità, importunando i clienti, mostrando i propri cenci e la propria ineducazione» denuncia la Cronaca di Calabria nel marzo del 1905. Agli albori del ‘900 i frequentatori del Gallicchio appartenevano varie tipologie.

    I già citati liceali rappresentavano una clientela “mordi e fuggi” e non osavano nemmeno avvicinarsi alle due sale – la rossa e la verde – chiamate così per via dei colori prevalenti in ciascuna e separate dal resto del locale da una balaustra che, come scrive Luigi Rodotà in Visioni e voci della vecchia Cosenza (Pellegrini, 1966) «sembrava un reticolato insormontabile che c’impediva d’entrare liberamente nelle due sale perché frequente da persone più grandi di noi».

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    Il Renzelli su Corso Umberto in una foto di Malito degli anni ’20

    Cesarino ‘o pallista e le fake news

    A tarda sera gli immancabili viveurs d’ancienne régime davano il “cambio” tra i tavolini del bar al fior fiore degli esponenti della vita intellettuale cosentina: pezzi grossi della cultura, della politica, del giornalismo e delle professioni. Erano serviti e riveriti da un tale Cesarino detto “’o pallista”, un cameriere napoletano abbigliato col frac che «correva da un tavolo all’altro recante sul vassoio la fumante tazza di caffè, il gelato o la granita».

    Per soli due soldi di mancia propinava le ultime di cronaca cittadina, clamorose fake news ante litteram che in pochi si prendevano la briga di verificare. Tra questi, probabilmente, il docente e scrittore Nicola Misasi, frequentatore assiduo del Caffè «ascoltava distratto le sue fandonie con quel caratteristico sguardo assorto e pensoso mentre seguiva la spire azzurrognole del suo mezzo toscano».

    Bar d’antan

    Decisamente più “popolare” nei prezzi e nella clientela era il Caffè Raiola, “rifugio” di studenti, viaggiatori ma soprattutto commercianti che addolcivano la propria sosta con caffè, cappuccini, bocconotti, savoiardi o, nel periodo natalizio, con i torroncini alla martiniana. Dalla piccola saletta puntellata da pochi tavoli si udiva l’inconfondibile ohè giuvino’ del famoso banditore Micarano, re di Piazza Piccola, che annunciando l’arrivo del pescato prometteva affari e delizie.

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    Micarano

    Sempre in Piazza Piccola, all’angolo del palazzo Valentini, aprì alla fine del 1908 il Gran Bar. Il locale fu uno dei primi a veder zampillare l’acqua dello Zumpo in una vaschetta incastonata in un elegante bancone sormontato da specchi lucidi, dove vennero serviti i primi espressi fumanti della città. L’ascesa del Gran Bar fu repentina al pari del suo declino. Senza fronzoli né paillettes e sotto un lume praticamente inesistente era il Caffè Luciano, ritrovo degli abitanti del rione Santa Lucia. Qui il caffè si preparava ancora nella classica cuccumella napoletana.

    Al Caffè del Popolo in Piazza san Domenico «l’odore del caffè e dei liquori si confondeva a quello del fumo che saturava le due maleodoranti salette» frequentate da operai e artigiani, soprattutto muratori, che si sfidavano a scopone e a briscola. Ai Rivocati c’era poi il Caffè dei Cacciatori, davvero essenziale, al pari del Caffè della Stazione in via Sertorio Quattromani, un locale definito dalla stampa d’epoca “inquietante”, “tenebroso”, “luogo d’ogni sorta di traffico”, obbligate e rapidissime soste. In piazza Ortale c’era infine il Biondi, un Caffè mattutino frequentato soprattutto da contadini che nelle piovose albe invernali si scaldavano con un caffè corretto all’anice prima di scaricare le bestie ricolme di ortaggi.

    Cosenza e gli altri caffè: Vittoria, Moncafè, Sesso e Cimbalino

    Una svolta interessante, dal punto di vista economico, avviene a metà del Novecento con le prime torrefazioni cosentine. L’Archivio centrale dello Stato, tra i Marchi e brevetti, conserva quello della Torrefazione Vittoria, che nel 1960 aveva come simbolo un volto baffuto coperto da un sombrero e con una tazzina di caffè accostata al viso. La ditta, di Giovanni e Gaspare Aiello, aveva sede in via Panebianco e si occupava di caffè crudo e torrefatto.

    Nel 1961 registrava invece il proprio marchio la torrefazione dell’azienda La Commerciale Cosentina con il suo Moncafè, che aveva come slogan: «Dei caffè più fini la miscela squisita». Il Caffè Sesso, altro storico marchio cosentino, fa risalire la propria attività al 1926, mentre chi scendeva dai paesi delle Serre e arrivava alla Riforma doveva fermarsi per forza di cose al Cimbalino, un bar con torrefazione propria gestito amabilmente dalla famiglia Arnone.

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    Cosenza, Piazza Riforma e il bar Cimbalino negli anni ’50
  • Via Roma, il Tar dà ragione al Comune di Cosenza: niente stop ai cantieri

    Via Roma, il Tar dà ragione al Comune di Cosenza: niente stop ai cantieri

    Scuole di via Roma, il Tar boccia i genitori. La querelle intorno alla demolizione della piazzetta antistante i due istituti, con l’area intitolata a Stefano Rodotà destinata a lasciare spazio al ritorno delle auto, era finita davanti ai giudici amministrativi di Catanzaro. Ad adire le vie legali contro la scelta del Comune di Cosenza era stato un gruppo di genitori degli alunni delle elementari “Lidia Plastina Pizzuti”.

    Per il Tar ai genitori tocca pagare il Comune di Cosenza

    La seconda sezione del TAR, però, ha rigettato il loro ricorso, con una decisione arrivata peraltro a cantiere ormai avviato. Le famiglie degli studenti chiedevano l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, dei provvedimenti con i quali Palazzo dei Bruzi aveva dato il via ai lavori nello spazio pedonale tra la “Plastina Pizzuti” e la “Zumbini”. Il Tar le ha invece condannate a pagare al Comune di Cosenza le spese e le competenze di questa fase del giudizio.

    Via Roma, la soddisfazione di Caruso

    Secondo i giudici, riporta l’Ufficio Stampa del municipio, non ci sarebbero stati profili di palese illogicità e ragionevolezza nei provvedimenti della Giunta. Il sindaco Franz Caruso, nel vedere rigettata l’istanza cautelare, ha espresso soddisfazione e ringraziato l’assessore ai Lavori pubblici, Damiano Covelli, che si occupa della questione via Roma. E sottolineato come il Tar abbia confermato «il rispetto, da parte dell’Amministrazione comunale dei principi della correttezza, della legittimità e della tutela degli interessi della comunità amministrata».

     

  • Antonio Vaglica, 18enne di Mirto Crosia vince Italia’s got talent 12

    Antonio Vaglica, 18enne di Mirto Crosia vince Italia’s got talent 12

    Si chiama Antonio Vaglica, ha 18 anni, è originario di Mirto Crosia – piccolo centro del Cosentino – e grazie alla sua voce è il nuovo vincitore di Italia’s got talent 12. Il giovanissimo calabrese si è imposto ieri sera nell’ultima puntata dello show in onda su Sky, superando altri 11 concorrenti e aggiudicandosi così la finalissima. Antonio Vaglica ha saputo convincere i giudici Federica Pellegrini, Mara Maionchi, Frank Matano e, soprattutto, Elio. È stato proprio il cantante milanese a puntare più di tutti su di lui, consegnandogli il successo in questa dodicesima edizione del programma.

    Antonio Vaglica batte tutti: Italia’s got talent 12 va a lui

    Dopo aver superato le audizioni grazie a una cover di Sos d’un terrien en détresse di Dimash, Antonio Vaglica si è fatto strada di puntata in puntata. E così è arrivato alla finale live dagli studios di Cinecittà World a Roma. All’appuntamento decisivo – che ha visto come ospiti in studio anche Pierfrancesco Favino, Miriam Leone, Valerio Lundini, Edoardo Ferrario e Guido Meda – Antonio Vaglica ha sbaragliato la concorrenza con la sua interpretazione di I Have Nothing di Whitney Houston. È nata una stella?

  • Da Fera a Rodotà, gli sfrattati dalle vie di Cosenza

    Da Fera a Rodotà, gli sfrattati dalle vie di Cosenza

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    Per i cosentini over 40, la stragrande parte della popolazione, le scuole protagoniste della recente polemica su piazza Rodotà, si trovano a via Roma. Di più: sono le scuole “di” via Roma, sebbene dopo la “rivoluzione” urbanistica del decennio scorso, la strada sia dedicata a Riccardo Misasi.
    Un cambio di denominazione al limite dell’accettabile: fuori un pezzo di memoria risorgimentale, dentro un pezzo importante di Prima Repubblica: l’esponente democristiano più importante (e potente) espresso dalla Calabria.

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    Evelina Catizone e Carlo Bilotti

    Per un notabile che entra nello scenario della città, ce n’è un altro costretto a traslocare. E riguarda un altro punto importantissimo dell’immaginario bruzio: piazza Luigi Fera, diventata Carlo Bilotti (col diretto interessato ancora in vita) durante l’amministrazione guidata da Eva Catizone. Per dare comunque un luogo a Fera, si è sacrificato un altro simbolo risorgimental-fascista: corso d’Italia. Un sacrificio necessario, perché uno come Fera non poteva proprio restare senza un posto. Per un doveroso omaggio alla memoria storica, che spesso è la grande assente delle più recenti scelte urbanistico-toponomastiche, non solo cosentine.

    Un museo all’aperto val bene una piazza Bilotti

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    Le prime statue donate da Carlo Bilotti nella loro originaria collocazione su piazza Fera. Oggi sono in via Arabia

    Luigi Fera ebbe, nell’età giolittiana, lo stesso peso che avrebbero avuto dopo i vari Michele Bianchi, Giacomo Mancini e, appunto, Riccardo Misasi.
    Avvocato di grido, professore di filosofia e giornalista, Fera fu sindaco di Cosenza nel 1900 e poi deputato. Già big della massoneria, “esplose” durante la Prima guerra mondiale, quando fu ministro delle Poste (1916-1919) e poi di Grazia e Giustizia (1920-21).
    Tutto questo per dire che il “traslocato” Fera resta un importante contatto tra la piccola storia della nostra scala provinciale e la grande storia del Paese. In altre parole, dovrebbe essere un intoccabile. Infatti, il problema non è lui né Misasi. Ma Carlo Bilotti, l’imprenditore-mecenate che sloggiò Fera per aver donato alla città le opere d’arte che decorano Corso Mazzini. Inutile ritornare sulle polemiche da cui fu investita all’epoca la ex sindaca.

    Vale la pena, però, insistere su un concetto: nessun parroco o vescovo ha dedicato una chiesa a qualcuno sol perché l’ha riempita di panche, mosaici, opere e altri ex voto. Per avere una chiesa a proprio nome occorre essere almeno santi. E per le zone della città? Le deputazioni di Storia Patria non danno regole certissime. Ma un criterio c’è: le strade e le piazze dovrebbero essere dedicate innanzitutto a personalità importanti, locali e non, e ad eventi che hanno segnato l’immaginario collettivo.

    A rischio trasloco come Fera?

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    Bernardino Alimena

    La vera bussola resta la memoria storica. Che a livello locale è poco coltivata. Già: se Fera è stato sloggiato (e la piazza dedicata a Carlo Bilotti, così come uno slargo nel cuore di corso Mazzini a sua figlia Lisa), perché lo stesso destino non potrebbe capitare in prospettiva a Bernardino e Francesco Alimena?

    In pochi sanno (ed è grave, per una città zeppa di avvocati) che Bernardino Alimena, oltre che sindaco e deputato fu un giurista di prima grandezza: fu il capofila della cosiddetta “terza scuola” del Diritto penale, che mirava a superare Lombroso e ad ammodernare i vecchi principi liberali. Suo padre Francesco, protagonista di primo piano del Risorgimento e della cultura liberale non fu da meno. Ma a ricordarli c’è solo la toponomastica. E con questi chiari di luna…

    Allarmi furon fascisti

    La scure dell’antifascismo ha colpito a metà, perché le strade cittadine recano ancora un bel po’ di richiami al Ventennio. Certo, non c’è più il rione Michele Bianchi, che comprendeva una bella fetta di territorio urbano, da Piazza Cappello a salire, fin sopra l’acquedotto.
    Al potente ex ministro dei Lavori pubblici e quadrumviro della Marcia su Roma resta la piazzetta dell’acquedotto, a cui si accede attraverso via Tommaso Arnoni, il podestà che gestì l’urbanizzazione e le opere pubbliche della Cosenza fascista.

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    Michele Bianchi, segretario del Partito nazionale fascista e ministro

    In compenso, sono spariti i riferimenti diretti all’era mussoliniana: gli Alimena hanno preso il posto di Benito Mussolini, e Guglielmo Tocci, avvocato e politico di origine arbrëshe, di Rosa Maltoni, la mamma del duce. Mentre l’antifascistissimo Ambrogio Arabia, avvocato e già sindaco, ha spodestato Arnaldo Mussolini, noto come il fratello minore del duce, un po’ meno per essere il fondatore dell’Ordine dei giornalisti e del mensile La storia illustrata. Ma tant’è: quando cadono le dittature lo sfogo iconoclasta è il minimo e ci sta sostituire i fascisti con gli antifascisti o con i liberali.

    Fuori dall’ultima infornata

    Ci sta un po’ meno la violazione della memoria, compiuta nel 2011, allo scadere dell’amministrazione guidata da Salvatore Perugini. In quell’occasione ci fu una pioggia di intestazioni a personalità minori, mentre restano tuttora prive di luoghi personalità di prima grandezza.

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    Un ritratto del cardinale Fabrizio RUffo

    Nessuno vuole inseguire le paturnie neoborboniche, ci mancherebbe. Ma una via l’avrebbe meritata senz’altro il cardinale Fabrizio Ruffo. E non perché coi suoi sanfedisti restituì Napoli ai Borbone. Ma perché fu un esponente di primo piano dell’assolutismo “illuminato”. In pratica, un riformista. Ora, se questa cosa la capiscono a Belmonte Calabro, dove al “Cardinale Rosso” è dedicato il sottopasso ferroviario, perché a Cosenza, dove tutti, anche quelli di destra, si definiscono riformisti, non gli si dedica almeno una piazzetta o un vicoletto?

    Ma le lacune, come si legge nel piccolo classico Le vie di Cosenza (Periferia, Cosenza 2012), possono essere peggiori. Mentre l’operaio di turno, altrimenti anonimo, ha ottenuto una strada nelle zone di recente urbanizzazione (quelle, per capirci, che prima erano denominate con le lettere dell’alfabeto), mancano alla conta l’abate Antonio Jerocades, illuminista avant la lettre e precursore della massoneria, e Donnu Pantu, la risposta calabrese a Pietro l’Aretino e virtuoso della pornografia in vernacolo.

    Gli smemorati di oggi

    Ma le tirate d’orecchi vanno anche ai vivi. Ad esempio, ai massoni: per carità, c’è una via Abate Salfi. Ma perché non proporne una a Ernesto d’Ippolito? Altra tirata d’orecchi ai socialisti, che forse non si sono resi conto che viale Mancini sta sparendo, inghiottito da un parco dedicato alla compianta Jole Santelli. Anzi, più che sparito, il viale non ha mai attecchito, visto che i cosentini continuano a chiamare “viale Parco” quel che ne resta

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    Un’altra pernacchia dev’essere rivolta ai “destri”: si capisce benissimo il sospiro di sollievo perché nessuno ha rimosso Michele Bianchi e Tommaso Arnoni. Tuttavia, proporre una piazza a Giorgio Almirante (che ebbe l’indubbio merito di battere per presenze ai comizi persino Berlinguer a piazza Fera) è un po’ troppo. Infatti, Cosenza annovera vari neofascisti illustri, che avrebbero la precedenza sul leader missino: dicono qualcosa Luigi Filosa, Orlando Mazzotta, Ugo Verrina?

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    Enrico Berlinguer in una gremitissima piazza (ancora) Fera

    L’esterofilia

    Peggio ancora con l’esterofilia. Tolta l’intoccabilissima piazza Kennedy (a proposito: a quando la restituzione delle “aquile”?), il resto può davvero essere un optional. Ad esempio, piazza Andy Warhol, quando il celebre musicista (e innovatore del pianoforte) Alfonso Rendano aspetta ancora un posto. D’altra parte ci fu anche chi, alla morte di Steve Jobs, propose (invano) di intitolargli la strada che ospita l’Apple Store locale. Aveva creato lui la compagnia e Cosenza ha da qualche anno una “via Paul Harris, fondatore del Rotary” in pieno centro. Con un grembiule in più forse l’inventore dei Mac l’avrebbe spuntata.
    Tuttavia, se proprio si volesse cedere all’esterofilia, perché non dedicare almeno un vicolo ad Albert Broccoli, il produttore cinematografico che lanciò James Bond? Qualcuno lo sa che la sua famiglia era originaria del Cosentino?

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    Le colombe di Cesare Baccelli, storico simbolo di piazza Kennedy, trasferite da Mario Occhiuto su viale Mancini/Parco

    Altre viuzze…

    A Cosenza ci si riempie la bocca di tre cose: cultura, antifascismo e il campo di concentramento di Ferramonti. Peccato solo che a nessuno sia ancora venuto in mente di dedicare un vico a Gustav Brenner, illustre internato di Ferramonti (perché ebreo) e fondatore dell’omonima casa editrice…
    Un last minute, invece, riguarda Francesco Principe, che ha sostituito le memorie coloniali di via Asmara.  Evidentemente, i cosentini non hanno voluto lasciare tutti i diritti d’autore a Rende, nella corsa per la grande città metropolitana.

    In fondo alla via

    Andremo sempre a “via Roma” e ci incontreremo comunque a piazza Kennedy, con l’idea di fare una puntatina a “piazza Fera” (e non Bilotti). In tutto questo, è doveroso chiedersi che fine farà il povero Stefano Rodotà, ora che la sua piazza è praticamente scomparsa, felicemente reinghiottita dal traffico automobilistico. Possibile che non ci sia un angolo di via degli Stadi da dedicargli?

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    I lavori per riaprire la neonata piazza Rodotà al traffico
  • Cosenza colta e accogliente? Non per i viaggiatori

    Cosenza colta e accogliente? Non per i viaggiatori

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    Secondo alcuni studiosi un comune sentire ha sempre legato i cosentini differenziandoli dagli abitanti delle altre città meridionali. Differenza enfatizzata da alcune peculiarità come lo spirito indipendente, l’amore per la cultura e l’apertura nei confronti dello straniero. Piovene affermava che erano uomini «d’ingegno esatto», «rifuggivano dalle iperboli» e avevano spiccata attitudine alla filosofia: se Napoli vinceva in scintillio dialettico, Cosenza aveva un vigore speculativo essenziale.

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    La Biblioteca civica in piazza XV marzo, sede della prestigiosa Accademia cosentina

    Cosenza serva dei potenti

    Nell’Ottocento, Arnoni definiva i suoi concittadini ombrosi nelle traversie della vita e «immaginosi» nei fausti avvenimenti, lietissimi nelle private e pubbliche gioie e cupi e permalosi nelle grandi sventure. Ricordava con dispiacere, inoltre, che pur avendo forti sentimenti religiosi, bestemmiavano frequentemente con «occhi di fuoco» il «Santudiavulu» e la «Madonna». Concludeva affermando che avevano una doppia natura e che bello e brutto, civile e selvaggio, tragico e grottesco, odio e amore, riso e pianto, fedeltà e tradimento, bacio sincero e assassinio a sangue freddo, si avvicendavano in loro senza posa.

    Padula, di Acri, irrideva i Cosentini per la loro piaggeria verso i potenti e li rimproverava di non avere alcun senso del bene pubblico. In città vivevano buoni padri di famiglia, ma non cittadini. Nessuno trascurava la pulizia della propria casa, ma non ci si preoccupava di quella delle strade e tale grettezza era propria sia di chi aveva il cappello a cono che quello a cilindro. Egli catalogava i galantuomini della città in «curiosi», «vanitosi» e «importanti».

    Faccendieri che ostentano amicizie importanti

    Tutti, indistintamente, si ingegnavano per guadagnare l’amicizia, la confidenza e la protezione degli uomini di governo. I «curiosi», invece di apprendere le scienze, erano interessati alle notizie che arrivavano da Napoli e andavano a raccontarle agli amici per il piacere di sorprenderli. I «vanitosi» amavano far visita alle autorità, passeggiare con loro lungo il corso e andarci a teatro: il loro unico scopo era quello di ostentare l’amicizia col giudice, il generale e l’intendente. Gli «importanti» erano individui che frequentavano gli uomini potenti in modo da ottenere protezione e favori, faccendieri che a loro volta risolvevano problemi di ogni tipo in cambio di denaro.

    Donne eleganti e uomini ardenti

    Le impressioni sui cosentini degli stranieri che nel Settecento e nell’Ottocento giunsero in città sono spesso negative. È inutile precisare che molti di loro avevano uno sguardo etnocentrico, ma non dobbiamo pensare che il loro unico scopo era quello di manifestare disprezzo verso gente ritenuta inferiore e che tutto ciò che annotavano nei loro diari fosse frutto di malafede o fantasia usata a sostegno della loro cultura.
    Bartels scriveva che, sia per le caratteristiche fisiche che per quelle morali, gli abitanti potevano considerarsi i diretti discendenti dei Bruzi.

    Le donne, nonostante il colorito spento provocato dalla malaria, avevano eleganza nel portamento. Gli uomini erano forti, alti, robusti, con i capelli spessi e neri e uno sguardo ardente. Secondo la Lowe i cosentini erano molto avvenenti, gli uomini più belli che avesse mai visto e, probabilmente, era il freddo degli inverni a conferire loro quella freschezza quasi inglese. Anche Gissing, nel suo breve soggiorno in città, aveva notato fisionomie gradevoli e uomini pieni di carattere, doti che avrebbero potuto essere quelle dei Bruzi, loro fieri antenati. Egli notava, inoltre, che a differenza dei napoletani non amavano il chiasso, parlavano con lentezza e non molestavano gli stranieri.

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    Emily Lowe, scrittrice e viaggiatrice britannica

    I cosentini non erano colti e aperti

    L’immagine dei cosentini aperti, colti e moderni non trova riscontro nei racconti dei viaggiatori. Bartels dipingeva una città in cui le donne erano totalmente sottomess. Non prendevano mai parte alle allegre tavolate e il loro compito era solo quello di cucinare e servire a tavola. Per Vom Rath i mariti erano molto gelosi, le occasioni di incontro tra uomini e donne erano rare, le danze quasi sconosciute e il «ballo tondo», in cui il cavaliere stringeva col braccio la dama, era oggetto della massima esecrazione. Didier raccontava che, nella famiglia cosentina presso cui era alloggiato, si rispettavano le antiche tradizioni patriarcali: a donne e bambini era vietato sedersi a tavola e così lui pranzava col capo famiglia e il figlio maggiore. Gissing confermava che a Cosenza, tranne le donne povere, era impossibile vederne per strada, poiché vigeva «un sistema orientale di reclusione».

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    Il taccuino dei viaggiatori

    I viaggiatori mettevano anche in discussione l’amore dei cosentini per l’indipendenza e la libertà della patria. Per De Custine erano tutt’altro che fieri: avevano il terrore dell’autorità e, dal mulattiere al barone, si adeguavano sempre ai nuovi padroni. Discendenti dei Bruzi, secondo de Rivarol, erano disposti a tutto pur di trarre un guadagno, non avevano un senso della lealtà e della morale, erano crudeli e insolenti con le vittime e vili e imploranti con i vincitori.

    I cosentini erano spesso descritti come particolarmente furbi, capaci di grandi doti attoriali che sfruttavano a loro favore. De Custine li dipingeva come istrionici, «crispini» e «scapini» appena scesi dal palcoscenico e usciti dal teatro per continuare i loro lazzi in strada. Avevano la figura, il costume e lo spirito dei personaggi della commedia e lui si divertiva a spiarne le svagate furberie. Al momento di saldare il conto, l’oste di Strutt si distese su un letto dibattendosi e giurando che non poteva accettare un solo tornese in meno. L’inglese, dal canto suo, assicurava di non potergli dare un solo tornese in più e l’uomo con smorfie, strette di spalle e occhi semichiusi, continuò a tendere sconsolatamente la mano.

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    Il viaggiatore francese Astolphe De Coustine

    Amanti del teatro e dei vestiti alla moda

    Questa abilità dei cittadini nel recitare, spiegava il loro amore verso il teatro, unico luogo di intrattenimento serale. La Lowe rimase colpita dal fatto che il pubblico conoscesse le arie a memoria: tutti canticchiavano come se volessero unirsi al coro. Anche Didier ebbe modo di notare che i cosentini amavano molto gli spettacoli e, andando a teatro, gli sembrò di essere tornato in Europa, siccome da quando era in Calabria si sentiva in Africa!
    Gli stranieri notavano meravigliati l’attenzione che gli abitanti di Cosenza prestavano alla cura del proprio aspetto e del proprio abbigliamento. Didier rimase colpito nel vedere in un negozio i modelli del Journal des Modes di Parigi che stridevano nel contesto delle aspre montagne calabresi.

    A differenza di altri luoghi le donne non si coprivano la testa col velo nero come monache e gli uomini non portavano il cappello a cono ornato di nastri. Anche Emily Lowe notava che i cosentini ci tenevano molto ad apparire eleganti. Gli uomini indossavano un cappello particolare e pochi si contentavano di averne meno di due, uno vecchio e uno nuovo, da usare a seconda del tempo e delle circostanze: a un rovescio d’acqua compariva il vecchio, col cielo azzurro o davanti a una ragazza carina, spuntava quello nuovo. Maurel scriveva che le donne, anche quelle dei ceti popolari, erano sempre ben vestite e si rammaricava di non averle potuto fotografare con la sua Kodak, sebbene la pellicola non sarebbe stata capace di rendere il vivo colore dei vestiti e i movimenti aggraziati del loro incedere.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Cosenza città sporca

    I viaggiatori sottolineavano, tuttavia, che all’estrema cura della persona non corrispondeva quella per il decoro della città, descritta come particolarmente sporca e in abbandono. La struttura urbana appariva assai modesta, fatta da viuzze strette e ripide, alcune delle quali s’insinuavano al di sotto dei palazzi in portici tortuosi e bui. Questa trama edilizia monotona e povera era rotta, di tanto in tanto, da palazzi nobiliari di sobrie linee architettoniche, con ampi portoni e cortili.

    Cosenza era talmente sudicia da «fare pietà». Per Maurel la città poteva essere meravigliosa solo se la si visitava senza fermarsi: nonostante un viaggiatore del ventesimo secolo fosse disposto a sacrificare alcuni comfort per soddisfare la sua sete di conoscenza, a tutto c’era un limite! Se si voleva sapere cos’era la sporcizia, bisognava visitare Cosenza. Egli era rimasto talmente sconvolto dal lerciume che lo circondava, da decidere di concludere la giornata in montagna, tra capre che gli sembravano profumate!

    Parlavano troppo 

    Altro aspetto che rimarcavano i viaggiatori sui cosentini era la loro eccessiva loquacità. Alcuni stranieri erano infastiditi di dover sopportare le chiacchere delle persone presso cui erano ospiti e dichiaravano apertamente che avrebbero fatto volentieri a meno di ascoltarle. De Tavel ricordava che i cittadini usavano tutta la loro astuzia se volevano persuadere qualcuno: le loro maniere diventavano striscianti e insinuanti e, se non si conosceva la perfidia di cui erano capaci, si rimaneva puntualmente beffati; dotati di grande talento nel giudicare il carattere delle persone, estremamente furbi e adulatori, non risparmiavano alcun mezzo per raggiungere i propri fini.

    La doppiezza degli abitanti di Cosenza

    De Custine stentava a comprendere l’atteggiamento dei suoi ospiti: erano allo stesso tempo gli uomini più falsi e più sinceri che avesse mai visto. Mentivano quando l’interesse lo esigeva e lo facevano con tanta sottigliezza e abilità che le loro falsità sembravano verità. Mostravano un’ingenuità disarmante che incuteva paura nel momento in cui si scopriva quanto fosse falsa e lontana dall’innocenza. Ogni volta che conversava con loro rimaneva confuso, non riuscendo ad afferrare cosa pensassero veramente; erano capaci di accusare un uomo e subito dopo di giustificarlo, di criticarne le azioni, aggiungendo che in fondo il suo scopo era lodevole. In altre parole, dopo aver dimostrato la meschinità di un uomo, ne diventavano gli avvocati difensori. Era praticamente impossibile per uno straniero riconoscere la sincerità in contraddizioni così artificiosamente combinate.

     

  • Dodici anni con una Seicento per casa: Francesca, signora dei gatti

    Dodici anni con una Seicento per casa: Francesca, signora dei gatti

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    Ha vissuto dodici anni in una Seicento nel centro della città. Oggi Francesca, la homeless di via Macallè, ha una stanza con i riscaldamenti e un bel panorama dalla finestra, il suo letto e un bagno personale. Ha anche nuovi amici nella struttura residenziale che l’ha accolta dopo tante peripezie.
    Francesca ha 65 anni, capelli brizzolati lunghi e curati, dizione perfetta, lessico ricco, ama il cinema e le mostre. Tanti fatti da raccontare di inverni freddi, acqua gelida, stenti, angherie da parte di delinquenti e disperati.
    La sua Seicento colore blu Capri è parcheggiata nel centro di Cosenza, a pochi passi dal museo all’aperto e dal passeggio del sabato sera, sempre più sobrio tra una pandemia e una guerra.

    Un cortile come soggiorno e cucina

    Ha una ferita sulla pancia, a ricordarle l’operazione per occlusione intestinale che le ha salvato la vita. Doveva diventare un medico e si è ritrovata a vivere in strada con i suoi gatti che conosceva uno per uno, che accudiva ogni giorno elemosinando cibo per sfamarli e coinvolgendo veterinari di buon cuore. Perché è difficile rispondere con un no al suo garbo e al suo sorriso.
    Una vita durissima, con coltelli piantati in gola in piena notte, vandali, ladruncoli che le hanno portato via finanche la carta d’identità.

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    Il cortile di Francesca (foto Benedetta Caira) – I Calabresi

    Ha abitato estate e inverno in un minuscolo cortile, che è stato il suo soggiorno e la sua cucina. Chi passa può vedere le piantine che curava, le stoviglie, le sedie e un tavolino sgangherato. È dallo scorso dicembre che la gattara non c’è più. C’è un silenzio irreale tra i suoi cartoni, le sue coperte, i ricordi di oltre un decennio. Il malore di dicembre ha cambiato tutto. Adesso ha anche un amministratore di sostegno. Il tribunale di Cosenza l’ha affidata all’avvocato Giacomo Ammerata. Sarà il professionista a decidere per lei da ora in poi. Un’assistente sociale ha fatto richiesta urgente alla sezione Giudice tutelare e in tre giorni ha avuto la risposta.

    Un’assistente sociale per tre ospedali

    Manuela Bartucci è l’unica assistente sociale dei tre ospedali dell’Azienda sanitaria cosentina. È una che le storie maledette non le scansa, ma le abbraccia strette fino a quando non trova una soluzione. Dal pronto soccorso ai reparti è un inferno dei viventi. Miseria, drammi familiari, destini bui. Nel momento in cui il dottore Pietro Aiello, responsabile di medicina d’urgenza, le ha affidato Francesca, ha iniziato a bussare a tante porte, prima per assicurarle un soggiorno di riabilitazione, poi per non farla più tornare in macchina.

    «Se non avesse avuto una ferita importante – dice Manuela, – e un percorso terapeutico da affrontare per altre patologie, probabilmente l’avrei lasciata alla sua libertà. In questo momento si trova in una struttura residenziale e assistenziale e i suoi gatti sono stati adottati da un veterinario. Io non l’ho mai abbandonata. Proprio oggi la medicina di base ha rilasciato il suo codice esenzione per le spese sanitarie e nel frattempo mi sto dando da fare per farle ottenere la pensione d’invalidità».

    Francesca, la Seicento e i gatti

    Per la signora clochard si è messa in moto una rete solidale, ma non tutto è filato liscio. Farle avere un letto nella casa d’assistenza non è stato semplice. Senza documenti e senza il suo consenso. Perché Francesca voleva tornare nella Seicento, prendersi ancora cura dei suoi gatti, continuare a vivere in strada. E a quel punto Manuela Bartucci ha pensato di farle avere un tutore per superare l’ostacolo.

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    Uno dei gatti di Francesca

    «Francesca è una cara persona. Si è abituata a vivere così con il passare del tempo. Studiava medicina a Roma – racconta Antonia De Rose, un’amica del quartiere. – Si è ritirata dalla facoltà della Sapienza e ha vissuto con la madre in una casa nei pressi di via Macallè. Alla morte della madre, proprio dopo il funerale, mi ha raccontato, non è riuscita più ad entrare in casa per via di contrasti familiari con altri parenti. La sera stessa ha dormito in macchina. La Seicento è da sempre parcheggiata nello stesso angolo di strada, le ruote si sono sciolte sull’asfalto».

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    Manuela Bartucci, assistente sociale in ospedale a Cosenza

    Adottata dal quartiere

    Ciò che è incredibile, dicono nel quartiere, che pur vivendo da barbona è sempre riuscita a conservare la sua signorilità.
    «L’aspetto bello della storia di Francesca – racconta ancora Manuela Bartucci, – è che il quartiere l’ha adottata. Sono stati gli abitanti e i commercianti a comprare il corredo per il ricovero, dai pigiami alle vestaglie ai saponi. Hanno rispettato la sua scelta e le hanno sempre dato una mano. Anche le forze dell’ordine hanno cercato di proteggerla e di aiutarla. Nel vicinato c’era chi le offriva il proprio magazzino e una fontana da usare, chi la lavatrice per il bucato e qualcuno ogni tanto le dava un po’ di soldi per garantirle qualche giorno di sopravvivenza».

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    Francesca sorridente nella struttura che la ospita in questo momento

    Manuela Bartucci incontra tante storie disperate ogni giorno, non ha colleghi con cui dividere il lavoro. Gli altri assistenti sociali sono sparsi sul territorio. Sicuramente non in via Macallè.
    Nei pensieri di Manuela in queste ore c’è Blessing, una giovane nigeriana richiedente asilo e senza fissa dimora. È stata dimessa da poco dal reparto covid e ha avuto tanti ricoveri, in diverse città, per problemi psichiatrici. «Un’altra storia che mi è rimasta nel cuore è quella di Roberto, un ragazzo disabile accompagnato in pronto soccorso, per una febbre alta, da sua madre Maria, diabetica e cardiopatica. Dopo aver affidato suo figlio ai sanitari, si è sentita male ed è morta. Roberto adesso vive all’estero con i suoi fratelli».

    The lady in the Seicento

    Nella residenza assistenziale Francesca sta bene, è serena ma ogni tanto le viene la nostalgia. «Voglio tornare a “casa”, a sistemare le mie cose», dice a medici e infermieri. «Vorremmo accontentarla, ma per il rischio covid non possiamo prendere iniziative e inoltre la paziente dovrà presto affrontare una terapia salva vita». Una battaglia dura e lei ne è consapevole.
    Chiacchiera e stupisce tutti per i termini medici appropriati che usa. Racconta di aver fatto l’infermiera e di aver studiato alla Sapienza. Dell’ateneo romano la colpì l’omicidio della studentessa Marta Russo. Episodio che non ha mai dimenticato, che l’ha misteriosamente tormentata per anni.

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    Una scena di The lady in the van

    «Anche oggi l’ho sentita per telefono – continua la sua amica Antonia, – pensa ai suoi gatti e mi ha detto che vuole recuperare una valigia con le sue cose. Vorrebbe riavere alcune fotografie scattate durante un viaggio in Sicilia». Uno dei tanti della sua vita vissuta in una macchina ma come in un romanzo. Francesca come Miss Mary Shepherd di The lady in the van, personaggio ispirato a una tosta signora inglese che ha vissuto in un furgone tra il ’74 e l’‘89 nel vialetto di casa di Alan Bennett, lo sceneggiatore che su questa storia vera poi ha scritto il film.
    La lady in the Seicento di via Macallè ha avuto una città che l’ha protetta. «Se fosse stata Roma o un altro luogo – conclude Antonia, – la vita di Francesca sarebbe stata più difficile e probabilmente più breve».

  • Cosenza di culto, la cattedrale ritrovata anche grazie all’Unità d’Italia

    Cosenza di culto, la cattedrale ritrovata anche grazie all’Unità d’Italia

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    Il Duomo di Santa Maria Assunta ha da poco compiuto ottocento anni. Da otto secoli tra i “pileri” delle sue navate batte il cuore di Cosenza.
    Sostando sulla piazza digradante lungo corso Telesio per ammirare l’imponente facciata di pietra rosa di Mendicino, entrando nell’ampia aula dove i fedeli si raccolgono in preghiera, ci sembra che il Duomo sia lì da tempo immemore. Uguale a se stesso, incrollabile, saldo come roccia. Eppure, così non è. Nel corso dei secoli numerosi terremoti hanno colpito la Cattedrale danneggiandola talvolta in modo grave.

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    Celebrazioni in onore della Madonna del Pilerio, patrona della città, all’interno della Cattedrale (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Un immaginario da cartolina

    Nel Settecento un intervento barocco ha radicalmente trasfigurato la sua natura duecentesca. Infine, nell’ultimo scorcio dell’Ottocento è cominciato un paziente lavoro di restauro. È durato oltre cinquant’anni e ci ha restituito le linee architettoniche di una spiritualità priva di orpelli e colma di devozione. Così oggi, ci sembra che la facciata sia sempre stata lì, in attesa dell’ennesima istantanea del buon ricordo.
    Siamo talmente assuefatti al gesto automatico di immortalare in una foto ricordo le bellezze d’Italia – le piazze, le cattedrali, i palazzi e i castelli – che non ci chiediamo quasi mai: «Chi ha costruito, conservato e valorizzato l’immagine monumentale del nostro patrimonio artistico e morale?».

    Affascinati da un immaginario da cartolina pensiamo che le facciate del Duomo di Milano; di Santa Maria del Fiore e Santa Croce a Firenze; del Duomo di Amalfi; del Fondaco dei Turchi e della Ca’ d’Oro a Venezia; il campanile di San Marco; i Castelli della Val d’Aosta; Palazzo Madama a Torino; il Castello Sforzesco a Milano; Porta Soprana a Genova; nonché moltissime altre meraviglie d’Italia siano un lascito arrivato fino a noi nelle forme in cui le opere furono concepite e realizzate dagli antichi maestri delle pietre. La storia è ben altra.

    I meriti dell’Unità d’Italia

    Se non ci fosse stato, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e dall’Unità d’Italia, uno straordinario sforzo di costruzione e conservazione dell’immagine architettonica del Bel Paese, gran parte del nostro patrimonio identitario avrebbe oggi un aspetto molto diverso: incompiuto, quando non sfigurato o cadente.

    Dobbiamo alla lungimiranza del Ministero della Pubblica Istruzione – istituito con l’Unità e ai coevi Uffici Regionali per la Conservazione dei Monumenti – il privilegio di poter ammirare, con il naso all’insù, i monumenti di cui le città d’Italia vanno fiere. Grazie all’opera e al pensiero di uomini come Camillo Boito e Luca Beltrami a Milano, Alfredo De Andrade in Piemonte e Valle d’Aosta, Giuseppe Partini a Siena, Enrico Alvino a Napoli – per citarne solo alcuni – l’Italia può andar fiera della sua “grande bellezza”.

    Splendore che si mette in mostra in un’infinità di situazioni ideali per le fotografie che hanno i loro antenati nei cliché in bianco e nero delle vecchie e care caroline turistiche. Dobbiamo ad artisti che si sono formati nelle Accademie di Belle Arti (quando ancora le Facoltà di Architettura non esistevano) se l’Italia si è costruita un’immagine monumentale solida come il marmo e non solo di facciata. Un sodalizio fra il sacro e il profano in cui la cattedrale e il palazzo comunale sono quasi sempre gli interpreti di una narrazione civile e religiosa che sfida i secoli parlando di cultura, di storia e di ingegno.

    Le radici nella Storia

    Quegli artisti-architetti, prima ancora di dividersi e scontrarsi sotto le insegne accademiche del restauro filologico da una parte o della ricostruzione in stile dall’altra, erano accomunati da un profondo senso della storia. Le loro scelte estetiche scaturivano sempre da modi personali di interpretare il passato. Fermo restando che il progresso, per loro, era indissolubilmente legato al richiamo della storia patria.
    L’Italia cercava le proprie radici nella storia e i monumenti disegnavano l’albero genealogico della sua cultura. Il dibattito fu molto acceso. I concorsi per la ricostruzione della facciata di Santa Maria del Fiore o del Duomo di Milano, nella seconda metà dell’Ottocento, ne sono una vivace testimonianza.

    Unità d’Italia, un progetto (anche) culturale

    La modernità era interpretata studiando e ispirandosi a un passato ricco di significati non solo estetici, ma anche etici e politici. Un passato iniziato ben prima che l’Italia, negli anni della Riforma e della Controriforma, venisse contesa e spartita fra le corone di mezza Europa. Il Medioevo e il Rinascimento, in epoca risorgimentale, erano i simboli illustri di una italianità autentica, e come tali, alimento inesauribile dell’immaginario degli architetti. Per molti di loro l’Unità era innanzitutto un progetto culturale e politico che si richiamava alle sorgenti dello stile romanico e del gotico. L’uso politico dell’architettura fu dunque uno dei cavalli di battaglia nella costruzione dell’identità nazionale. La conservazione del patrimonio monumentale uno dei temi di costante negoziazione fra lo Stato e la Chiesa.

    Monsignor Sorgente e la raccolta fondi per il restauro

    Cosenza non fu estranea a tale dibattito. L’arcivescovo del tempo, monsignor Camillo Sorgente, insediatosi a Cosenza nel 1874, nel tentativo di contrastare il cosiddetto “patriottismo di pietra” che cercava di escludere le gerarchie ecclesiastiche da ogni decisione operativa, rivendicò il ruolo della chiesa e lanciò una campagna di sottoscrizione per ricostruire la Cattedrale gravemente danneggiata dal terremoto del 1870. Egli si proponeva di ricondurre la sua Chiesa alla spiritualità dello stile di transizione fra il romanico e il gotico voluto dal fondatore Luca Campano, monaco benedettino e scrivano di Gioachino da Fiore; a quella essenzialità delle linee cistercensi che l’enfasi barocca di metà ‘700 aveva trasfigurato nel conformismo stucchevole degli ori e delle volute.

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    Disegno pubblicato in Bollettino del Collegio degli Architetti e Ingegneri in Napoli, febbraio 1887

    Il progetto di ricostruzione fu affidato a Giuseppe Pisanti, allievo di Enrico Alvino, a quel tempo già impegnato con successo nel progetto di restauro della facciata del Duomo di Napoli. Constatate le condizioni di gravissimo degrado delle strutture – la cupola era crollata, le murature in parte lesionate e le volte delle cappelle pericolanti – e confidando nella veridicità di una lapide dove si leggeva che «il Cardinale Maria Capece Galeota a fundmentis restituit la Basilica», Pisanti elaborò un progetto di ricostruzione che la critica del tempo giudicò con grande favore.
    Così il 14 giugno 1886 Monsignor Sorgente circondato dal collegio episcopale e dal capitolo, alla presenza del prefetto e del popolo festante, pose la prima pietra dei lavori di restauro.

    Duomo di Cosenza, si torna al passato

    Quando iniziarono le demolizioni però, Pisanti scoprì che nella parte absidale, sotto gli stucchi e i pesanti intonaci, le strutture duecentesche erano pressoché intatte. L’arco trionfale, l’abside e gli imponenti pilastri avevano resistito alla violenza dei terremoti e allo zelo dei pomposi abbellimenti settecenteschi.
    Alla morte di Pisanti i lavori proseguirono sotto la supervisione del suo allievo Silvio Castrucci. Poi, dopo la pausa forzata della Grande Guerra, i lavori, fra non poche polemiche, furono affidati a Tullio Passarelli, un ingegnere romano che completò il restauro delle navate e della facciata nelle forme che ancora oggi possiamo ammirare, in particolar modo quando i raggi del sole animano i riflessi rosati della pietra di Mendicino.

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    Monsignor Aniello Calcara

    La data “1944”, scolpita sotto il rosone centrale, indica l’anno di fine lavori e, a ricordare la terza e ultima consacrazione celebrata il 20 maggio 1950 dall’arcivescovo e letterato Aniello Calcara, sta invece la lapide posta sulla parete di controfacciata.
    L’austero aspetto abbaziale che ben si armonizza nel contesto di piazza Duomo è dunque il risultato di un’opera di restauro e di integrazione le cui motivazioni estetiche affondano in una cultura della tutela del patrimonio intesa come salvaguardia del genius loci.

    Giuliano Corti

  • Cosenza, a luglio la prima unione civile della storia cittadina

    Cosenza, a luglio la prima unione civile della storia cittadina

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    Tra poco meno di quattro mesi Cosenza celebrerà la prima unione civile in municipio della sua storia. Soltanto cinque anni fa il Comune negava il patrocinio al primo Gay Pride regionale a fare tappa nel capoluogo. Circostanza, quest’ultima, apparsa ai più inspiegabile, considerato che in un’edizione precedente della parata – sarà perché in casa d’altri, a Tropea – la stessa amministrazione aveva concesso il suo simbolico supporto. «Il nostro Gay Pride ricorre 365 giorni l’anno», commentò l’allora sindaco Mario Occhiuto. In quel 2017 sembrò che i giorni fossero 364. Tutti meno il coloratissimo 1 luglio.

    La prima unione civile in Comune a Cosenza

    Un lustro dopo, sempre ai primi di luglio, arriverà un’altra data da ricordare per il riconoscimento dei diritti della comunità LBGTQI+ in città e contro le discriminazioni di genere. Ma ben più lieta stavolta. L’Ufficio Stampa del municipio, infatti, ha diramato una nota in cui annuncia, appunto, che il 7 di quel mese il sindaco Franz Caruso celebrerà la prima unione civile nel municipio di Cosenza. La cerimonia suggellerà l’amore lungo 12 anni tra «Eugenia e Raffaella», ha spiegato Caruso. La scelta è arrivata perché entrambe «hanno deciso di celebrare la loro unione a Cosenza, non solo perché Raffaella è di origine cosentina, quanto perché la nostra città le ha accolte a braccia aperte e con favore. Cosenza festeggerà con orgoglio l’unione civile di Eugenia e Raffaella, brindando insieme a loro ai valori del rispetto reciproco, dell’uguaglianza e della tolleranza».