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  • Principe contro Principe: una città per due urbanistiche

    Principe contro Principe: una città per due urbanistiche

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    Empio Malara è cittadino onorario di Rende. E questo è l’unico dato certo nella polemica esplosa tra Malara e Sandro Principe, che ha tenuto banco nei media regionali.
    Ma questa stessa polemica impone una riflessione sulla storia recente di Rende, che è essenzialmente una storia urbanistica.
    Malara ha accusato Principe di «velleità strapaesane» e di «ingratitudine» nei confronti di suo padre, il mitico Cecchino.
    Principe ha tenuto botta: coi soliti toni pesanti, ma anche con molti dati alla mano, ha provato a dimostrare che la “sua” Rende è una città diversa da quella pensata da Cecchino e disegnata da Malara.

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    Cecchino Principe in un comizio d’epoca

    L’archistar, dal canto suo, ha cercato di far capire che la “sua” Rende (quindi, anche quella di Cecchino) era migliore di quella realizzata da Sandro.
    Non è il caso di entrare in questioni estetiche, su cui forse neppure gli addetti ai lavori concordano. Resta vero, tuttavia, che la Rende ideata tra i ’60 e i ’70 era decisamente diversa da quella che conosciamo e vediamo oggi.

    Rende e Cosenza: dalla continuità alla rivalità

    La Rende di Cecchino Principe, in effetti, non dava nell’occhio: continuava Cosenza e l’aiutava a smaltire la popolazione in eccesso, accumulata dal dopoguerra fino agli anni ’70.
    Il leader socialista, al riguardo, si era limitato a riprendere la vecchia intuizione urbanistica del ventennio fascista: Cosenza non poteva sviluppare a sud-ovest, per via della sua struttura collinare e quindi l’unico sbocco urbanistico era a nord-est, in direzione della Valle del Crati e della Sibaritide.

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    Rende, Panoramica di via Rossini

    La città verde disegnata da Malara, che si agganciava a Cosenza tramite Roges, era lo sfogo ideale. Certo, qualcosa scappò, visto che il primo disegno urbanistico non comprendeva l’Unical – che negli anni ’60 era nella mente di Dio e neppure – e non ipotizzava la crescita di Quattromiglia, che era solo la sede di una Stazione ferroviaria che continua a non richiamare Rende in alcun modo (infatti, è tuttora la Stazione di Castiglione).
    Rende aveva iniziato il suo sviluppo come città servente e forse non poteva essere altrimenti. Ma la realizzazione dell’Università della Calabria, in origine non prevista da Cecchino né da Malara, cambiò non poco il quadro.

    Il Campus della discordia

    La variante del piano regolatore che includeva il Campus di Arcavacata fu firmata (e quindi progettata o quantomeno approvata) da Malara negli anni ’70.

    Beniamino Andreatta

    L’idea di creare un ateneo all’americana, cioè staccato dal tessuto urbano, aveva un motivo nobile, pensato da Beniamino Andreatta in persona: staccare i laureandi dai contesti socio-familiari per creare una classe dirigente progressista.

    Rende vinse la sfida sia grazie al dinamismo di Cecchino, che elaborò un mega esproprio “lampo”, ma soprattutto grazie alla maggiore disponibilità di territorio, sottopopolato e in larghissima parte agricolo.
    Ottenere il Campus fu il primo passo. Il secondo, davvero decisivo, fu l’inclusione dell’Unical nel Piano regolatore generale. Da quel momento in avanti, Rende iniziò a mordere al collo Cosenza.

    Parlano i numeri

    La classe dirigente cosentina, costituita da professionisti formatisi fuori regione, aveva sottovalutato ciò che accadeva, anche perché il capoluogo era in ascesa demografica.

    La demografia di Cosenza fino al 2011

    Ma, contemporaneamente, cresceva pure Rende, che accoglieva non pochi cosentini “bene”: si pensi solo che alcuni amministratori di Cosenza risiedevano (e risiedono tuttora) oltre il Campagnano.
    L’evoluzione successiva, caratterizzata dalla decrescita di Cosenza e dall’ascesa demografica di Rende, cambiò il quadro della situazione a partire dagli anni ’80.
    Infatti, la città del Campagnano passò dai 13mila e rotti residenti del ’71 ai circa 25mila e rotti nell’81 e agli oltre 30mila del decennio successivo. Cosenza, che aveva superato i 100mila abitanti nell’81, invertì la curva demografica, fino a scendere agli attuali 64mila e rotti abitanti. Questi numeri spiegano le generose colate di cemento al di là del Campagnano.

    La demografia di Rende fino al 2011

     

    Politiche diverse

    È difficile dire se Sandro Principe abbia inaugurato un trend o, più semplicemente, lo abbia interpretato.

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    Sandro Principe

    Detto altrimenti: se abbia deciso di far concorrenza al capoluogo oppure abbia approfittato della crescita spontanea di Rende per ideare una città alternativa.
    Di sicuro, la creazione di via Rossini a partire dalla chiesa di San Carlo Borromeo (che a suo tempo fu contestata da Malara), la struttura di Commenda e la definitiva urbanizzazione di Quattromiglia, agganciata all’Unical a partire dagli anni ’90, sono il prodotto di variazioni, anche particolarmente invasive, del disegno originario.

    Rende e Cosenza: la guerra tra Principe e Mancini

    Quasi ignorata dal vecchio sistema dei partiti, la concorrenza tra Rende e Cosenza esplose feroce negli anni ’90, quando Sandro Principe iniziò il braccio di ferro col vecchio Giacomo Mancini.
    Il volano della crescita di Rende fu l’Unical, che aveva stimolato una forte espansione edilizia nella città perché aveva superato la sua funzione originaria di ateneo per studenti a basso reddito e attirava molti iscritti, per i quali le strutture residenziali “istituzionali” non bastavano più.
    La guerra tra le due città fu condotta senza esclusione di colpi a partire dai servizi (si pensi allo scontro sui bus dell’Amaco, bloccati dai vigili di Rende),

    La situazione attuale

    Il declino di tutta l’area urbana cosentina non ha colpevoli specifici. Lo spopolamento – che tocca anche Rende e a cui corrisponde un calo di iscritti dell’Unical, scesa nel 2021 sotto le 30mila immatricolazioni – è, purtroppo, l’esito di un calo che ha colpito tutto il Mezzogiorno.

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    Panoramica dell’Unical

    Atene piange e Sparta non ride e, nel Cosentino, è difficile dire chi sia Sparta e chi Atene. Ma un dato è certo: l’enorme quantità di appartamenti, invenduti o sfitti, di Rende non giustifica ulteriori incrementi edilizi. E lo stesso discorso vale per il capoluogo. Eppure, in entrambe le città si continua a far colare il cemento e si programmano altre colate, come se non ci fosse un domani.

    Il cemento è per sempre

    Il litigio a mezzo stampa tra Malara e Principe rivela troppi non detti, a cui l’ex sindaco ha alluso pesantemente.
    Il primo riguarda i rapporti tra la famiglia Malara e Rende: si pensi che Andrea Malara, il nipote di Empio, cura tuttora l’illuminazione pubblica di Rende. Questo dato banale non deve meravigliare nessuno, visto che i Malara sono una firma nell’urbanistica.

    Empio Malara

    Il secondo sottinteso riguarda la cementificazione: l’area di viale Principe, secondo il Piano strutturale comunale caldeggiato dall’attuale amministrazione Manna, dovrebbe essere destinato non più solo ai servizi (centri commerciali e rifornitori di carburanti) ma anche all’edilizia residenziale. Cioè altri palazzi, per un totale di mille appartamenti in più.
    Una quantità di vani che non si giustifica neppure con l’incremento demografico, di 1.200 residenti, annunciato con orgoglio dal sindaco alcuni giorni fa, considerata l’enorme quantità di abitazioni vuote, non ancora censita.

    Tra Rende e Cosenza Montalto gode

    Contrapporre la Rende di Malara a quella di Sandro Principe significa contrapporre due epoche diverse.
    Tutto lascia pensare che la rievocazione di un Cecchino “buono” e lungimirante contro un Sandro “cattivo” e “strapaesano” sia l’ennesima tossina di una lotta senza quartiere, che rischia di avvelenarsi ancor di più perché c’è un terzo incluso: la magistratura.
    Forse nell’attuale maggioranza c’è chi spera che l’ex uomo forte di Rende finisca fuori combattimento e, con lui, l’opposizione.

    La demografia di Montalto fino al 2011

    Il problema non è l’urbanistica né la cementificazione. Soprattutto, non sono un problema il “rendecentrismo” o la “cosentineria”: Rende è cresciuta a scapito di Cosenza e ora Montalto cresce a scapito di Rende, come dimostra la curva demografica in costante ascesa. Questo processo ha spostato di molto a nordest l’asse dell’area urbana e tolto più centralità al capoluogo.
    Di fronte a questa evidenza tutte le polemiche sono inutili.

  • Un altro Mondo nuovo non è più possibile: 5 anni senza Lombardi

    Un altro Mondo nuovo non è più possibile: 5 anni senza Lombardi

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    Antonio Lombardi se n’è andato l’11 aprile 2017, pochi mesi prima di compiere ottant’anni. Con lui è venuto meno un pezzo di storia di Cosenza, le inquietudini, l’acume critico, il desiderio di cambiamento di tanti giovani della sua generazione.
    L’avevo conosciuto in una giornata di primavera del 2002 quando mi sono affacciato per la prima volta nel suo negozio di tappezziere, nel centro di Cosenza, in via Trento al numero 59.

    Via Trento è una parallela di corso Mazzini, risale all’impianto urbano di epoca fascista, ospita un negozio di dolciumi caro ai cosentini, Monaco e Scervino. Pochi metri lo separano dalla vetrina della tappezzeria Lombardi.

    Due luoghi agli antipodi, con mio grande dispiacere, dato che visitando l’uno mi sembrava doveroso astenermi dall’altro. Moralismo piccolo borghese, avrebbe detto Lombardi.

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    Antonio Lombardi, il tappezziere agit prop e letterato di Cosenza

    A sessantacinque anni Antonio era ancora un uomo vigoroso, diretto, quasi brusco nei modi. L’avevo cercato incuriosito da un articolo apparso su Teatro Rendano, anno VI (numero 50), marzo 2002, pp. 12-18: Michele Cozza: “Mondo nuovo reprise. Ricostruiamo una vicenda singolare degli anni Sessanta a Cosenza”.

    Nella minuscola stanza semibuia e ingombra di materiale, rotoli di carta da parati, corde, soprattutto piena di libri, ritagli di giornali e stampe alle pareti ho avuto subito l’impressione di entrare in un altro mondo, la sensazione che si prova quando ci si inoltra in un edificio antico, oppure incontriamo una persona capace di restituirci un’epoca, un modo di sentire le cose, un approccio alla realtà fatto di nomi, di pensiero, di idee.

    Il Mondo nuovo di Antonio Lombardi

    Mi ha indicato una sedia piuttosto precaria e mi ha squadrato; aveva un piglio quasi da maestro di altri tempi, mentre parlava si accertava che fossi in grado di seguirlo sul racconto che stava articolando, anche per valutare se fosse il caso di sprecare il fiato.

    Ho capito con il tempo che quell’atteggiamento nasceva proprio dalla sua storia personale, dal ruolo e dalla missione che si era assunto, sia personalmente sia come animatore del circolo Mondo nuovo.

    Lui che era un appassionato lettore dei saggi di Lukács amava richiamarne un concetto in particolare. Quello secondo cui un testo saggistico deve risultare comprensibile per un operaio, per una persona dotata di una cultura di base.

    Dopo i fatti di Ungheria

    I testi sacri per Lombardi andavano studiati pagina per pagina, e questo impegno l’aveva attuato negli incontri serali, nel circolo, leggendo insieme agli amici e spiegandosi uno con l’altro innumerevoli libri su ogni genere di argomento. Tra il 1960 e il 1980, insieme a rassegne di cinema, dibattiti, interventi sull’attualità politica e artistica.
    Così ho iniziato ad ascoltarlo e ad addentrarmi nella storia del circolo Mondo nuovo, prendendo in mano libri, volantini, foto e ritagli di giornali, ma soprattutto rivivendo quegli anni grazie al suo vivo racconto. La svolta nella sua vita avviene nel 1956, con i fatti di Ungheria e la decisione di aderire al socialismo libertario; lui e i suoi amici sono studenti all’istituto per geometri, hanno un rapporto privilegiato con il professore di italiano, Umile Peluso, sindaco di Luzzi e senatore del P.C.I.

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    Dagli anni ’60 agli anni ’80 giovani e meno giovani hanno frequentato Antonio Lombardi e il circolo Mondo nuovo a Cosenza

    Diversi dalle solite conventicole culturali

    Non mi era mai capitato, fino a quel momento, di percepire un approccio così diretto, immediato, ai libri e al lavoro culturale. Nella città dell’Accademia cosentina, delle tante conventicole e consorterie, un atteggiamento simile era del tutto inusuale e dirompente, infatti aveva dato vita a un gruppo di giovani, quasi tutti provenienti dalle scuole tecniche, estranei ai riti e alle cerimonie, alle liturgie della politica e della vita culturale di una città di provincia. Dopo quel primo incontro ne sono seguiti molti altri, durante i quali ho avuto in consegna una serie di documenti, un piccolo ma significativo archivio relativo all’attività di Mondo nuovo, che ho inventariato e studiato.

    Consigli di lettura

    Alla fine di ogni visita mi assegnava qualche libro da leggere. Alcuni me li vendeva, dato che era rimasta qualche copia della libreria del circolo, a un prezzo stabilito da lui senza possibilità di trattativa. Altri me li prestava, quando si trattava di copie uniche, come “Il lungo viaggio attraverso il fascismo” di Ruggero Zangrandi. Mi dava i compiti perché, diceva, avevo dei vuoti da colmare sulla storia dei movimenti e del socialismo.
    Così pur essendo all’epoca già un quarantenne con laurea ho accettato, in amicizia e per la forza dei suoi racconti, questo ruolo di discepolo che non è proprio in linea con il mio carattere. Penso che entrambi fossimo consapevoli che la mia estraneità al suo mondo facilitasse molto la comunicazione, non c’erano diffidenze ideologiche tra noi.

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    Anche Giampiero Mughini ha scritto per i Quaderni di cinema (a cura del circolo Mondo nuovo di Cosenza)

    Mondo nuovo e la vecchia Olivetti di Antonio Lombardi

    Non mi proponeva solo letture impegnate. Mi aveva dato da leggere anche i romanzi di Stefano Terra, storie romantiche ambientate tra l’Italia e la penisola balcanica, le Porte di Ferro, Rodi e Atene. Insieme ai libri di Terra mi aveva consegnato un carteggio con amici e conoscenti di questo giornalista torinese, a cui avrebbe voluto dedicare un convegno. Così ho capito come si muoveva quando decideva di approfondire una questione. Non so come riuscisse, dal suo negozio, a rintracciare inviati all’estero, editori francesi, direttori di istituti culturali oltrecortina. Senza internet e con una vecchia Olivetti. Era meticoloso e ostinato, in queste ricerche.

    Il Foglio volante e Umberto Eco

    Abbiamo discusso per ore, con Antonio, della storia del circolo, delle rassegne di cinema, dei dibattiti, dei verbali dattiloscritti delle assemblee dei soci, in cui tutto veniva registrato e messo agli atti. Come è noto alle centinaia di persone che hanno partecipato alla vita del circolo, Mondo nuovo ha costituito un luogo di formazione culturale e politica il cui peso non è stato, ancora, adeguatamente riconosciuto.
    Antonio non era divorato dalla nostalgia, anzi, dopo un lungo silenzio successivo alla chiusura del circolo, nel 1980, aveva ripreso a intervenire a modo suo, nella vita cittadina, con il suo Foglio volante, confezionato artigianalmente, fotocopiato e diffuso come un samizdat clandestino, per vie misteriose che solo lui conosceva. Lo riceveva pure Umberto Eco.

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    Umberto Eco tra i suoi amati libri

    Poeti a Santa Chiara

    Sul Foglio volante riprendeva articoli significativi del dibattito in corso, ma da un certo momento in poi aveva iniziato a pubblicare anche testi suoi, brevi componimenti in versi, in dialetto, i muttetti di Santachiara, perché così aveva deciso di firmarli, dal nome della zona del centro storico, Santa Chiara, a cui si sentiva più legato per storia familiare.
    Spesso incollava sui Fogli le foto delle attrici della sua giovinezza, specie quelle dove le forme dei fianchi e del seno erano più evidenziate. Alle dive più procaci dedicava versi allegri e scurrili, che amava leggere agli amici di passaggio e alle signore, purché fossero anche loro ben dotate, giunoniche. Sulle misure femminili era intransigente come nell’avversione allo stalinismo.

    Oltre i confini cittadini

    Radicato nella sua città, di cui conosceva aneddoti e personaggi, Antonio aveva però sempre guardato oltre i ristretti confini cittadini, dialogando con i protagonisti della cultura italiana e non solo. Scherzava raccontando di come fosse abituato a presentarsi, senza preavviso, a casa di Franco Fortini, per fare lunghe chiacchierate sulle novità in libreria e sulle vicende politiche.
    Molti progetti di Mondo nuovo e Antonio Lombardi sono rimasti incompiuti, e sono testimoniati dalle carte d’archivio, corrispondenze per organizzare pubblicazioni, per sollecitare attenzione verso un autore ingiustamente dimenticato.
    Durante gli anni della nostra frequentazione avevo pubblicato qualche articolo e alcuni documenti inediti del suo archivio, strappandogli qualche bonario e ironico apprezzamento: «Bravo, ti sei impegnato». Aggiungeva poi che, senza rendersene conto, stava scivolando verso posizioni socialdemocratiche, dato che si intratteneva in conversazioni con una persona come me, estranea ai gruppi eternamente litigiosi della sua area politica.

    Il carteggio con Lelio Basso

    L’archivio è parziale, perché alcune parti sono forse andate disperse, o si trovano in mano a persone che non sono riuscito a rintracciare, o che non intendono metterle a disposizione. Materiale vario credo sia ancora nel negozio. Dietro sue indicazioni ho cercato le tracce delle centinaia di lettere scambiate, in venti anni, con registi, pittori, artisti e intellettuali italiani e stranieri. A Mondo nuovo avevano progettato di pubblicarle, per documentare l’attività del circolo. Forse in parte si potrebbero ancora recuperare, tra i fondi documentari privati disponibili negli archivi. Servirebbe un progetto di ricerca.

    Anche nella sua parzialità la documentazione è impressionante rispetto agli striminziti resoconti e annuari di altre associazioni coeve. Di recente, dando seguito a una sua volontà e dopo aver considerato la situazione degli istituti culturali cittadini, ho deciso di consegnare tutte le carte in mio possesso alla Fondazione Basso a Roma, dove già custodivano le lettere scambiate con Lelio Basso, verso cui Lombardi nutriva un affetto filiale.

    Un articolo dedicato a Mondo Nuovo e Antonio Lombardi

    Il dovere di ricordare

    Sapevo e so bene, ora che non c’è più, che ben altro andrebbe ricostruito e portato all’attenzione in un dibattito dominato, come sempre, da logiche di mercato e diviso in riserve indiane, in cui non ci si può azzardare a mettere piede. Antonio Lombardi non si rammaricava dell’isolamento e delle ristrettezze economiche dei suoi ultimi anni. L’aveva messo in conto molti anni fa, quando il suo attivismo e la sua irruenza avevano scavato il vuoto intorno a lui.
    Ora però la sua città e i suoi amici e anche i suoi avversari dovrebbero rendergli omaggio e saldare il debito nei suoi confronti.

  • Mancini, 20 anni dopo: anatomia di un socialista senza eredi

    Mancini, 20 anni dopo: anatomia di un socialista senza eredi

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    Due chilometri di corteo funebre, decorato da mazzi di garofani rigorosamente rossi, e venti anni di nostalgia.
    Il corteo, che si svolse il 12 aprile 2002, lo raccontò Fabrizio Roncone sul Corriere della Sera. La nostalgia, invece, è roba di queste ore e di questi giorni.
    Giacomo Mancini se ne andò l’8 aprile del 2002 a ottantasei anni, cinquantotto dei quali vissuti da protagonista politico di primo piano. E da allora è diventato il mito incapacitante di Cosenza, che usa l’ultimo decennio da sindaco dell’illustre vegliardo come un parametro per valutare i successori.

    Ma anche questi ultimi hanno provato a rivendicare, ciascuno a modo suo, l’eredità mancinana. La rivendicazione fu scontata per Eva Catizone, erede diretta a Palazzo dei Bruzi. Un po’ meno per gli altri.

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    Un manifesto elettorale di Mancini presente anche oggi in un garage del centro storico di Cosenza (foto Camillo Giuliani)

    Tutti i sindaci… manciniani a parole

    «Io mi candido a guidare la città che fu di Mancini», esclamò da un palco nei pressi della Villa Comunale Mario Occhiuto. «Fui presidente del Consiglio comunale quando era sindaco Mancini», gli rispose Salvatore Perugini, sindaco uscente e avversario di Occhiuto su problematica designazione del Pd. E che dire del terzo incomodo, cioè Enzo Paolini, altro presidente del Consiglio di quel decennio, che si portò sul palco Gaetano Mancini, ex senatore socialista e cugino di Giacomo? Anche lui aveva bisogno di un pezzo di mancinismo…

    Era la campagna elettorale del 2011, a cui sarebbe seguita l’esperienza di Occhiuto, che ha trascorso buona parte della sua sindacatura a realizzare o terminare opere progettate dal vecchio Giacomo: il rifacimento di piazza Bilotti e il ponte di Calatrava su tutte. Infine, la metro leggera, finita in nulla dopo una vicenda a dir poco travagliata.
    In compenso, i debiti maturati nel decennio, sono esplosi e il dissesto, di cui si parlava dai primi Duemila, è diventato realtà. L’era Occhiuto, che inaugurava la stagione del centrodestra, doveva essere il superamento del mancinismo, già tentato da Perugini. In realtà ne è stato il remake fatto male.

    Di padre in figlio… in nipote

    Per i malevoli, non pochi anche tra i calabresi, Mancini fu una specie di satrapo. Del «califfo della Calabria Saudita», come lo ha definito di recente (ma in maniera benevola) Filippo Ceccarelli, si ricorda la prepotenza, la personalizzazione del potere, iniziata ben prima di Craxi, e la propensione dinastica.
    Figlio di Pietro, storico leader socialista, Giacomo Mancini fu padre di Pietro, che fu sindaco di Cosenza al crepuscolo della Prima Repubblica, e nonno di Giacomo, che è stato consigliere comunale, deputato e assessore regionale. E continua a rivendicare l’aggettivo jr, appiccicatogli quando il nonno era vivo, con un misto di orgoglio e devozione.
    Ma tant’è: il tradizionalismo, ribadito dal passaggio generazionale dei nomi e del potere, è una curvatura inevitabile della politica del Meridione profondo, anche di quella progressista.

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    Giacomo Mancini, Giulio Andreotti e altri big della politica italiana

    Mancini dinasty

    Ma le tradizioni familiari (e familistiche) di quella generazione erano anche scuole, in cui l’apprendistato poteva essere severo. È ciò che fa la differenza tra un figlio d’arte e un figlio di papà.
    Per il vecchio Giacomo, essere figlio di Pietro ha significato la possibilità di misurarsi coi gigantissimi come Pietro Nenni, di esordire nel movimento clandestino della Roma ancora occupata dai tedeschi e di farsi le ossa nella difficile accademia del riformismo, allora quasi azzerata dalla presenza ingombrante del Pci.
    Ha significato, soprattutto, avere la possibilità di dialogare col potere democristiano per spostare a sinistra l’asse della politica italiana.

    Non si diventa ministri per caso, specialmente non allora. Il vecchio Giacomo approdò ai governi di centrosinistra di Moro e Rumor, in cui fu ministro del Lavori pubblici e della Sanità, dopo un rodaggio di dodici anni come deputato.

    A 20 anni dalla morte sul Web ancora si ironizza sulla SA-RC che Mancini volle far passare da Cosenza (meme A. Muraca)

    Il vaccino contro la polio e l’autostrada Salerno-Reggio

    L’ascesa alla segreteria del Psi fu per lui un coronamento quasi naturale. Se la sua carriera si fosse fermata lì, ai primi anni ’70, Mancini sarebbe passato comunque alla storia come il politico calabrese di maggior successo e potere, con la sola eccezione di Riccardo Misasi (che, tuttavia, fu ministro quasi a vita ma mai segretario).

    L’ambivalenza tra il radicamento nella sua città e la frequentazione romana, fu alla base di una visione politica (oggi merce rara) particolare, per cui il disagio sociale del Sud diventava il simbolo del disagio del Paese, perché i poveri si somigliano tutti, e la questione meridionale era una questione nazionale. Con questa logica, Mancini impose in tutt’Italia la vaccinazione contro la poliomielite. E poi vagheggiò la modernizzazione del Sud, a partire dalla Calabria.
    Con tutti i loro difetti, la Salerno-Reggio e i tanti tentativi di industrializzazione della regione sono frutto di questa visione, secondo cui il lavoro e il benessere erano le basi della democrazia. E le “tute blu” l’antidoto alle coppole.

    Cosenza rinasce grazie a Mancini

    Giacomo Mancini fu sindaco di Cosenza per la prima volta a metà anni ’80. Ma solo nel decennio successivo divenne “il” per davvero.
    Contestato dagli oppositori e dai rivali per i metodi autoritari e per la propensione alla spesa facile, il vecchio Giacomo terminò la carriera politica (e la vita) dando una sonora sveglia alla sua città, fresca reduce da una feroce guerra di mafia.
    In quei nove anni e rotti Cosenza esibì un dinamismo inedito e tentò di imitare le città del Centronord in cui parecchi cosentini “bene” facevano l’università. Vogliamo dire che il Festival delle Invasioni costava un po’ troppo? Diciamolo. Ma aggiungiamo che fu l’unico tentativo di creare, a Sud, un rivale credibile ai Festival che contavano (Umbria Jazz in testa).

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    Giacomo Mancini con Carlo Azeglio Ciampi

    Vogliamo dire che il ricorso massiccio alle cooperative sociali sarebbe diventato un’eredità impossibile da gestire? Certo. Ma all’epoca fu un calmiere sociale che riportò la pace e la sicurezza.
    Vogliamo constatare che il recupero del centro storico alla lunga si rivelò effimero? Senz’altro. Ma il tentativo mantiene un suo innegabile successo: una zona negletta e borderline, fino ad allora sinonimo di povertà estrema, divenne un attrattore.
    Anche il duello con la vicina Rende, sostenuto con fermezza, si sarebbe rivelato perdente sulla lunga distanza. Tuttavia, quello di Mancini resta il tentativo più forte di dare al capoluogo una centralità che non ha più.
    Il limite più vistoso di questo modo di amministrare fu il ricorso quasi esclusivo alle casse pubbliche, che ne uscirono stremate. Certo, Mancini indebitò il Comune quando il “deficit spending” vecchia maniera era ancora praticabile, perché il Trattato di Maastricht, in quel lontano ’93, era appena firmato e i suoi vincoli non mordevano ancora. Ma quel debito non lo colmò nessuno…

    Craxi driver?

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    Giacomo Mancini e Bettino Craxi

    Mancini fu l’ultimo grande politico della Prima Repubblica a gestire potere in Calabria e a Cosenza. Ma fu anche il primo sindaco della Seconda, cioè eletto col voto diretto, che fu la seconda mazzata al sistema dei partiti.
    La prima era stata la preferenza unica, con cui si svolsero le Politiche del ’92 e proprio Mancini, candidato da capolista ne fece le spese: non rientrò in quel Parlamento che frequentava dal ’48.

    Tra la mancata rielezione a l’ascesa a Palazzo dei Bruzi, ci fu la controversa deposizione resa al pool di “Mani Pulite” a carico di Craxi il 18 novembre del ’92. Per i malevoli, quelle dichiarazioni spontanee sarebbero state il ticket pagato da Mancini per avere cittadinanza nella Seconda repubblica. Per altri, ancora più cattivi, il vecchio Leone si sarebbe vendicato del suo ex segretario, che lui stesso aveva aiutato a trionfare al Midas nel ’76. Per altri, invece, Mancini avrebbe detto solo la verità sui finanziamenti illeciti del Psi. Comunque sia, quel «non poteva non sapere» che inchiodava Craxi e sminuiva un po’ le responsabilità del tesoriere Vincenzo Balzamo, confermava il teorema di Tangentopoli

    Stampa e procure

    La micidiale battuta di Cuore, il settimanale satirico de l’Unità, («Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti») potrebbe non riferirsi al solo Craxi.
    Nei primissimi anni ’70 Mancini fu bersaglio di una terrificante campagna stampa condotta dal giornalista di destra Giorgio Pisanò sul Candido, con linguaggio e metodo che anticipavano non poco le celebri inchieste di Mino Pecorelli su Op.
    «Mancini, ladro e cretino», oppure: «Si scrive leader si legge lader». O infine: «Quelli che rubano con la sinistra si chiamano Mancini», erano gli slogan del battagliero settimanale di satira, trasformatosi per circa due anni in una testata d’inchiesta.

    La mitica prima di Cuore con la battuta sull’ora legale (archivio Camillo Giuliani)

    Per quelle espressioni pesanti (che riportiamo per mero dovere di cronaca) e per alcuni errori giornalistici, Pisanò passò i guai e si fece pure un po’ di galera, da cui lo tirò fuori il celebre avvocato Francesco Carnelutti. Mancini, oltre al fango, non ebbe conseguenze. L’unico che ebbe problemi seri fu il produttore cinematografico Dino De Laurentis, finito nel tritacarne di Pisanò assieme al segretario del Psi, che lasciò l’Italia.
    Il secondo round di guai fu l’inchiesta per mafia, intentatagli dalla Procura di Palmi, dalla quale  derivò un processo lungo e pesantissimo. Ne sarebbe comunque uscito assolto, se non fosse morto prima.

     

    L’eresia a Cosenza

    Tutto si può dire di Mancini, tranne che fu un riciclato. Al contrario, divenne sindaco di Cosenza alla guida di una coalizione di liste civiche, in cui gli eretici della destra (Arnaldo Golletti e Benito Adimari) coesistevano coi reduci dei Movimenti (ad esempio, la Lista Ciroma, guidata da Paride Leporace) e i duri e puri del Psi convivevano con le vecchie glorie dell’autonomia (ad esempio, Franco Piperno, che visse la sua seconda giovinezza come assessore del Vecchio Leone).
    Mancini non entrò in alcun partito, ma fece il sindaco a dispetto dei partiti, spesso colonizzati da ex socialisti cresciuti sulle sue gambe (è il caso di Pino Gentile…).
    A prescindere da ogni valutazione, Cosenza fu un laboratorio interessante. Che ebbe un limite: l’incapacità di sopravvivere al suo stregone.

    Ironie del web: la 106 secondo Mancini (meme di Alessandro Muraca)

    Un gigante senza eredi politici

    Della Mancini dinasty resta pochissimo: il nipote Giacomo, dopo una prima fiammata come deputato della Rosa nel pugno, riuscì a farsi battere da Salvatore Perugini. Poi, dopo il salto nel centrodestra, effettuato fuori tempo massimo, e l’esperienza di assessore per Scopelliti, ha perso consensi elettorali e si limita a sortite in nome della nostalgia.
    Stesso discorso per suo padre Pietro, che esibisce ora simpatie salviniane. Quasi sparita, invece, Giosi, la figlia di Giacomo (che ha tentato solo una candidatura come consigliera nelle ultime Amministrative a Roma). Sparita del tutto Ermanna Carci Greco, la figlia di prime nozze di donna Vittoria, più manciniana, forse, dello stesso Patriarca.

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    Giacomo Mancini, jr e sr

    Eva Catizone, dopo la sindacatura, ha tentato più volte la carta elettorale in ciò che restava del Psi. Poi è passata con Mario Occhiuto. E Cosenza? Langue. Fuori da quel contesto politico, le nuove opere del vecchio Mancini, piazza Bilotti e il Ponte, sembrano fuor d’opera. E molte di quelle vecchie, i ponti sul Crati e il Palasport ad esempio, sono fatiscenti.
    Polvere e rughe: tutto ciò che resta di un’esperienza politica forte, che ha bruciato in dieci anni uomini e risorse per cinquanta. È lo specchio di una città dal declino irrimediabile che si rifugia nella nostalgia: «Le rughe han troppi secoli, oramai, e truccarle non si può più». Cantava Lucio Battisti.
    Oggi, a truccarle, non basterebbero dieci Mancini redivivi.

    L’ultimo, grottesco, capitolo sull’eredità politica di Giacomo Mancini
  • Caro carburante, pure il benzinaio cosentino beffato da Mario Draghi

    Caro carburante, pure il benzinaio cosentino beffato da Mario Draghi

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    In principio fu la pandemia da Covid-19 a sconvolgere la routine dei cittadini. Poi venne l’aumento delle tariffe di gas ed elettricità, adesso l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Con la diretta conseguenza dell’escalation dei prezzi del carburante.

    Tutto questo contribuisce a comporre il quadro di un Paese in affanno, che non riesce a rimettersi in moto e a risalire la china. Un’Italia costretta a fare i conti giornalmente con le stangate sul metano, sulla bolletta elettrica e sul conto al distributore di carburante.
    Dopo tante polemiche e minacce di scioperi e blocchi stradali che avrebbero paralizzato il Paese, il Governo qualcosa ha fatto.

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    Il capo del Governo italiano, Mario Draghi

    Per contrastare il caro carburante l’esecutivo di Draghi ha deciso una sforbiciata con un decreto pubblicato il 22 marzo in Gazzetta Ufficiale. Prevede un taglio di 25 centesimi in meno di accise a cui sommare l’Iva per uno sconto complessivo di 30,5 centesimi al litro. Di certo una buona notizia dopo settimane di rincari stellari. Il carburante era arrivato ben oltre la soglia tabù dei 2€/litro. Adesso si spende in media tra 1,71€ ed 1,80€.

    Il caro carburante colpisce pure il benzinaio

    Ma non è per tutti così e per qualche benzinaio il taglio del Governo ha avuto il sapore amaro della beffa. E’ il caso di Mario che gestisce a Cosenza un punto vendita ghost (solo modalità self service): «Appena qualche giorno prima dell’entrata in vigore del taglio delle accise, avevo acquistato una bella scorta di carburante pagandola al “vecchio” prezzo. Ovviamente non posso permettermi di modificare i costi, ci perderei qualcosa come 5mila euro».

    E nella sua stessa condizione sono moltissimi altri gestori di tutta la rete di distribuzione: dalle grandi compagnie petrolifere alle pompe “no logo”. Ognuno di loro ha reagito come poteva, generando differenze significative anche tra benzinai distanti poche centinaia di metri. Stando alle ultime informazioni, a livello nazionale si starebbe cercando di acquisire i dati delle giacenze di carburante di ogni rivenditore così da offrire a coloro che lo avevano pagato a prezzo pieno una compensazione con un credito di imposta.

    Ma gli stessi benzinai si mostrano scettici sull’efficacia di misure limitate nel tempo. L’incognita principale riguarda la durata, il taglio delle accise per ora vale un mese: «Staremo a vedere come evolverà la situazione del mercato nel prossimo futuro – dice Fabio, gestore di una Q8 tra Cosenza e Rende – poi valuteremo come comportarci giorno per giorno».

    La musica non cambia se si interpellano le associazioni di categoria. Assoutenti si dice preoccupata per le oscillazioni delle quotazioni del petrolio e per le conseguenze che il conflitto ucraino potrebbe avere in termini di aumenti sul prezzo dei carburanti.

    Tiepida sui provvedimenti del Governo per frenare la corsa dei prezzi anche la Fegica (Federazione gestori impianti carburanti e affini): «Non c’è chiarezza – denuncia il segretario generale Alessandro Zavalloni -, ancora non si capisce chi dovrà accollarsi il costo delle quantità di carburanti già immesse al consumo. Di questo passo c’è il rischio concreto che il prezzo del carburante arrivi presto a 3 euro al litro».

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    Dopo il picco dei giorni scorsi, tornano parzialmente a scendere i prezzi del carburante

    L’App per combattere il caro carburante

    In tutto ciò gli utenti finali, gli automobilisti, si stanno rendendo conto dell’impatto che il conflitto ucraino avrà sulle loro tasche e cercano di correre ai ripari come possono: qualcuno si affida agli ultimi ritrovati tecnologici in fatto di applicazioni per cellulare che indicano in tempo reale i distributori più convenienti. Altri, meno smaliziati, aspettano di trovare il prezzo più basso per riempire il serbatoio a tutte le auto della famiglia. Quelli che invece pensavano di averci visto lungo acquistando un auto a metano o modificando il sistema di alimentazione con l’obiettivo di risparmiare qualcosina, sono forse coloro che stanno messi peggio di tutti: un pieno di metano costa il triplo di un mese fa e molti gestori sono stati costretti a chiudere per proteggersi dai rincari fuori controllo.
    Sono le conseguenze della guerra alla pompa di benzina. E pensare che quando il metano ha sfondato il muro dei 3 € ancora Putin non aveva progettato di farsi pagare il gas in rubli…

  • Lega e Calabria: nuove strutture, vecchio colonialismo

    Lega e Calabria: nuove strutture, vecchio colonialismo

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    Prima cresce e fa un pienone. Poi cala. E ora, dopo aver messo mano all’organigramma, tenta la rimonta.
    La Lega punta le fiches calabresi su due tavoli: le imminenti Amministrative, dove mira a recuperare posizioni, soprattutto a danno dei propri alleati, e le Politiche dell’anno prossimo.
    Evidentemente, in Calabria tira ancora la trovata salviniana di aver accantonato il vecchio antimeridionalismo in favore del lepenismo all’italiana, prima, e del nuovo corso “moderato” poi.

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    Leghisti calabresi in azione

    Anche a prescindere dal fatto che a tanta potenza comunicativa non corrisponda, in realtà, troppa sostanza: Salvini sostiene tuttora la proposta delle autonomie differenziate, su cui il suo partito giocò una carta importante poco prima delle Politiche del 2018, con i referendum regionali di Veneto e Lombardia.
    Ancora: lo zoccolo duro della Lega resta nel Nord profondo, dove è tuttora molto forte la classe dirigente bossiana, a partire da Luca Zaia.
    Al contrario, la flessione della Lega da Napoli in giù dovrebbe suggerire che il Sud, per il Carroccio, potrebbe non essere più un buon affare. E allora, come mai tanto interesse?

    Il calo della Lega in numeri

    Per avere una fotografia fedele della situazione, basta comparare i dati del 2020 a quelli delle Regionali di ottobre.
    Il partito di Salvini, in questo caso, è passato da 95mila e rotti voti (12,28%) agli attuali 63mila e cinquecento (8,33%). Peggio che andar di notte al Comune di Cosenza, dove il Carroccio ha perso l’unico consigliere, Vincenzo Granata, che tra l’altro era stato eletto in una lista civica nel 2016, prima dell’ascesa del Capitano.

    Il tonfo, in questo caso, è stato fortissimo: con il 2,81% dei consensi, la lista della Lega non ha preso neppure il quorum.

    A cosa è dovuto il calo? In prima battuta, al disordine interno, provocato da alcuni abbandoni eccellenti: quelli dell’europarlamentare Vincenzo Sofo e del suo braccio destro, Alfredo Iorio, candidatosi a ottobre in Coraggio Italia.

    Vincenzo Sofo

    Un’altra emorragia forte ha colpito la base, che ha perso trecento militanti tra Cosenza e Catanzaro, a partire da Bernardo Spadafora, ex segretario provinciale di Cosenza.
    Il corso moderato di Salvini, a dirla in parole povere, non ha portato benissimo. Non in Calabria, almeno.

    Prove di rimonta

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    La new entry Davide Bruno

    Dopo aver salvato il salvabile, la Lega punta a risalire la china a partire dal radicamento. E il nuovo organigramma, annunciato a fine marzo, mira a rafforzare i legami col territorio.
    Così è a Cosenza, dove un volto noto della destra dura ma pensante, Arnaldo Golletti, gestirà la segreteria provinciale. Golletti è affiancato da un volto giovane dell’area moderata, l’ex assessore cosentino Davide Bruno, che invece gestirà la segreteria cittadina.

    Discorso simile per l’area centrale della regione dove lo stato maggiore del partito si è impegnato in prima persona: è il caso di Crotone, dove il coordinatore regionale Cataldo Calabretta è, al momento, segretario provinciale, e di Catanzaro, dove Giuseppe Macrì è stato confermato nello stesso ruolo.
    Reggio, dove ancora prevale Tilde Minasi, non è ancora pervenuta. Ma questo non è un problema, perché la partita vera si giocherà, in particolare, tra Catanzaro e Cosenza, che replicano nel Carroccio l’atavica rivalità di campanile.

    Catanzaro scalda i motori

    Il capoluogo regionale sarà decisivo per le Amministrative di giugno.
    Per il dopo Abramo, il Carroccio appoggerà il civico (ed ex Pd) Valerio Donato con due liste, una di partito e l’altra civica, entrambe organizzate dal big Filippo Mancuso. A differenza di Cosenza, dove il fratricidio è quasi la norma, a Catanzaro cane non mangia cane.

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    Domenico Furgiuele e Matteo Salvini

    Infatti, la Lega ha tenuto grazie all’equilibrio tra il moderato Filippo Mancuso e il “duro” Domenico Furgiuele. Difficile pensare a due personalità più diverse: quasi centrista Mancuso, formatosi alla corte di Sergio Abramo, ultradestrorso, invece, il deputato di Lamezia, cresciuto a pane ed Evola.
    Tuttavia, i due non si pestano i piedi. Tanto più che la Lega, con il recente ingresso al Senato del vibonese Fausto De Angelis, si è rafforzata nella fascia centrale della regione. E quindi, riempire una o più caselle a Catanzaro potrebbe puntellare ancor più la posizione di entrambi.

    Cosenza, la Lega punta sulla Sanità

    Più complesso il discorso a Cosenza, dove non sono in vista tornate importantissime. Dei ventiquattro Comuni che vanno al voto, solo tre hanno le dimensioni adatte a ospitare liste di partito: Paola, Acri e Trebisacce, che sommate non superano i 60mila abitanti.
    La partita vera riguarda una sola persona: la capogruppo regionale Simona Loizzo, che vanta un ruolo forte nella Sanità e nella Cosenza che conta (tra le varie, è nipote di Ettore Loizzo, ex big del Goi).

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    Simona Loizzo, la big della Sanità cosentina

    Con i suoi 5.500 e rotti voti, la dentista cosentina si è affermata a sorpresa a ottobre grazie agli ambienti della Sanità, dove ha intaccato il quasi monopolio dei Gentile. E ora forse carezza un altro colpo: la Camera dei deputati, probabilmente in concorrenza con Furgiuele.
    A proposito di Sanità: la Loizzo vanta uno sponsor di eccezione, i fratelli Greco, big delle cliniche private, che aspirano da tempo alla realizzazione del mega ospedale privato. E non è un caso che proprio a Cariati, di cui è sindaca Filomena Greco, sia nato di recente un movimento dedicato alla Loizzo.

    Loizzo, dai Gentile al Capitano

    Il movimento cariatese è il coronamento curioso della carriera di Simona Loizzo, iniziata proprio all’ombra dei fratelli Gentile quando egemonizzavano il Pdl cosentino, di cui fu coordinatrice provinciale. Questo rapporto particolare è proseguito nel 2020, quando, anche a dispetto di una tragedia familiare, la dentista è stata indicata come potenziale sindaco di Cosenza.
    La Sanità, per Simona Loizzo, non è tutte delizie, ma ha non poche croci: tra queste, il turnover minimale concesso alla Calabria, circa lo 0,4%, che impedisce le nuove assunzioni, a dispetto dei concorsi annunciati e banditi per rimpolpare ambulatori e ospedali ridotti allo stremo.

    Benedetta dal Capitano, Simona Loizzo e Salvini

    L’iperattivismo nella Sanità si spiega col fatto che il bacino elettorale della capogruppo è l’Azienda ospedaliera di Cosenza e tutta l’umanità varia, titolata e non, che vi ruota attorno. In particolare, quella che riempie le graduatorie prodotte da vari concorsi, anche recenti, e aspetta di essere assorbita. Anche per questo, la Loizzo fa quasi corpo a sé nella Lega: il suo supporter è stato l’ex presidente facente funzioni Nino Spirlì, che a dirla tutta non va proprio di pelo con gran parte del suo partito.

    Potenzialità di crescita

    Eppure queste rivalità interne potrebbero garantire una certa crescita al Carroccio, proprio perché sono rivalità tra i territori e non nei territori.
    Di questa crescita, annunciata dai vertici con toni entusiastici («triplicheremo le candidature»), il vero beneficiario sarebbe il solo Salvini, che mira a ricavare dal Sud – e quindi dalla Calabria – i consensi elettorali necessari a puntellare la sua leadership nei confronti della vecchia area bossiana, egemone nelle regioni forti del Nord.
    Ma non è detto che l’eventuale crescita della Lega si traduca in un vantaggio per i calabresi.

    Energia e rifiuti, gli interessi di Salvini

    Com’è noto, Matteo Salvini è un azionista di A2A, società bresciana specializzata nella gestione delle acque, nella produzione energetica e nel ciclo dei rifiuti.
    E, al riguardo, non è proprio un caso che l’azienda lumbard abbia annunciato di recente una serie di investimenti importanti proprio in Calabria, dove ha già le mani in pasta in alcuni settori non proprio secondari, come l’idroelettrico in Sila.
    Dove sta la fregatura per i calabresi? Che l’azienda pagherà le imposte e le tasse prevalentemente dove produce il suo reddito e dove ha la sua sede legale principale, cioè in Lombardia. In pratica, una delocalizzazione degli oneri a dispetto del fatto che gli utili siano prodotti in Calabria. Il tutto, con la benedizione dell’amministrazione regionale, di cui il Carroccio è un puntello…

  • Provincia di Cosenza: tra moglie e marito… l’incarico è servito

    Provincia di Cosenza: tra moglie e marito… l’incarico è servito

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    Chi tra i due comandi in casa non è dato sapere, ma nella Provincia di Cosenza sarà Rosaria Succurro a farlo e Marco Ambrogio dovrà rispondere ai suoi ordini. In piazza XV Marzo è in arrivo un nuovo collaboratore per la neo presidente. Dovrà supportarla nella «attuazione delle linee programmatiche di governo». È «una figura professionale esterna di adeguata esperienza e competenza in tale ambito» e lavorerà «a titolo gratuito». Il prescelto? L’avvocato Marco Ambrogio – sempre che accetti – ossia il legittimo consorte della presidente stessa. Un bell’incarico fiduciario alla faccia di chi dice che le mogli non dovrebbero fidarsi dei mariti.

    Dalla rivalità all’amore

    Galeotto fu Mario Occhiuto e chi lo elesse: è stato proprio l’architetto cosentino a fare entrare in politica l’attuale sindaca di San Giovanni in Fiore, chiamandola nella sua Giunta a partire dal 2011. Fino a pochi mesi prima, tra gli assessori dell’amministrazione di centrosinistra sconfitta da Occhiuto alle elezioni, c’era proprio Marco Ambrogio. Che così si ritrovò all’opposizione da capogruppo del Pd, con piglio battagliero. Almeno per i primi tempi. Poi l’amore prevalse sulla politica e Ambrogio sposò in seconde nozze Rosaria Succurro.

    Succurro e Ambrogio: insieme al Comune, insieme alla Provincia

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    L’ingresso del Palazzo della Provincia in piazza XXV Luglio a Cosenza

    Nel successivo mandato di Occhiuto, l’ex giovane rampante dei dem di combattere, pur sedendo sempre all’opposizione, pareva avere meno voglia. Un eventuale assessore con cui litigare, d’altra parte, a quel punto lo aveva in casa. Mise da parte anche le mai sopite velleità da aspirante numero uno di Palazzo dei Bruzi. D’altronde, quando i sangiovannesi avevano eletto la moglie alla guida del Comune anche il marito aveva lasciato le dilette colline donnicesi per seguire come un’ombra l’amata sui monti silani. I due sono inseparabili e ora, con sia Succurro che Ambrogio alla Provincia , a San Giovanni in Fiore qualche detrattore già maligna su chi farà il sindaco nei giorni in cui mancheranno, visti i nuovi impegni cosentini, entrambi gli attuali.

  • Underkitchen, tutto il mondo in un piatto. E a casa tua

    Underkitchen, tutto il mondo in un piatto. E a casa tua

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    Il nuovo concorrente di Glovo e Deliveroo non utilizza i rider, consegna a domicilio piatti internazionali low cost e – soprattutto – parla cosentino. Si chiama Underkitchen ed è una start up tecnologica a valore sociale. Vende on line piatti di cucina globale. Per ora solo in Italia ma, potenzialmente, ai clienti di tutto il mondo. L’idea è di quattro imprenditori che hanno già all’attivo sperimentazioni nel mondo del gusto e che dopo aver analizzato le criticità del mercato hanno messo su un progetto partito il primo marzo.

    Underkitchen non si serve di riders per consegnare le pietanze nelle case

    Leonardo Stancati e Carlo Schiavone, rispettivamente Cto e Ceo della società ed entrambi della città dei Bruzi, hanno voluto subito legare il progetto al territorio calabrese. La sede operativa si trova nel cuore di Cosenza, a due passi da corso Mazzini. È qui il “cervello” del progetto, il terminale degli accessi al sito, degli ordini e delle spedizioni, in costante collegamento con le cucine. Ma c’è di più: presto potrebbero essere i futuri chef cosentini e calabresi a realizzare i piatti.

    L’idea originaria del progetto, infatti, prevedeva il coinvolgimento dell’istituto alberghiero “Mancini” con cui dall’inizio erano state condivise le linee guida. Poi la pandemia ha bruscamente interrotto la collaborazione, ma dirigente e docenti dell’istituto restano interessati a portarla avanti.
    Intanto, a un mese dal suo esordio, Underkitchen ha già raggiunto numeri molto soddisfacenti e, nonostante il respiro internazionale, una grande fetta di utenti è proprio cosentina.

    Underkitchen: il mondo a casa tua

    È un sito, ma anche un’app, che permette di ordinare specialità internazionali preparate dalle mani di cuochi specializzati e le spedisce a casa. In pratica funziona così: scegli un piatto tra quelli proposti – dal guacamole di Cancun al Jerk chicken giamaicano, dalle polpette in salsa teriyaki giapponesi al gulasch ungherese – scorrendo un menu che va da un capo all’altro del mondo, attraverso i piatti più iconici della gastronomia internazionale.

    Ordini, paghi ed entro 24 ore arriverà a casa tua un box termico con tutto il necessario (in confezioni sottovuoto) per mettere in tavola in pochi minuti, scaldandolo nel microonde o in acqua bollente, il piatto fumante. I prezzi sono bassi, dai 16 ai 35 euro per pacchetti da cinque monoporzioni, ma ci sono anche i last minute per ulteriori sconti. Il valore aggiunto lo dà il fatto che le ricette si preparano nelle cucine delle scuole alberghiere italiane.

    Così c’è una ricaduta positiva sulla formazione degli studenti, che acquisiscono competenze professionali specifiche da sfruttare nel mondo del lavoro. A portare a termine il progetto pilota sono stati i laboratori di cucina di Multicenter School di Pozzuoli, che è anche tra i soci fondatori.

    Cibo sostenibile e a basso costo

    «Siamo molto contenti perché la risposta è stata molto positiva: in questo primo mese hanno ordinato 3500 piatti», spiega Stancati. «Abbiamo avuto da parte dei nostri clienti un riscontro molto positivo e i numeri premiano la qualità delle preparazioni e della materia prima». Merito anche di una grafica accattivante del sito che riproduce il city board, il tabellone dell’aeroporto che indica tutte le destinazioni: in questo caso sono le città di provenienza delle ricette.

    Polpette in salsa teriyaki

    Il rimando al viaggio è costante. Underkitchen vuole trasmettere insieme al piatto la narrazione dei luoghi attraverso la musica, il cinema, la storia, l’iconografia che li rende riconoscibili e desiderabili. «A premiare è anche una politica di prezzi contenuti, i piatti costano un terzo rispetto ai nostri concorrenti – spiega Stancati – ed arrivano a casa tua, entro 24 ore dall’ordine. Il nostro è un modello di food delivery sostenibile, sociale ed inclusivo, che taglia fuori le multinazionali del settore. Infatti non sfrutta i riders, ma utilizza operatori di logistica internazionale per portare a domicilio prodotti abbattuti freschissimi. E c’è di più: difendiamo la cultura gastronomica mondiale, non alimentiamo la diffusione del cibo spazzatura. Anzi, promuoviamo piatti che rappresentano il patrimonio di un paese e la sua cultura».

    Underkitchen: da Cosenza alle grandi città 

    L’obiettivo adesso è ampliare la rete delle scuole alberghiere, a partire proprio dalla Calabria. Nella sede cosentina arrivano ordinazioni da Milano, Genova, Roma, Bologna, Napoli, Torino. Dopo l’assaggio i consumatori ricevono l’invito a inviare recensioni vocali pubblicate poi sul sito, molto più gradite delle tradizionali foto dei piatti che rischiano di restituirne la bellezza ma non l’emozione.

    Nei laboratori della scuola alberghiera di Pozzuoli gli studenti realizzano i piatti nelle ore di alternanza scuola-lavoro, con la supervisione degli chef esperti di cucina internazionale. «Non forniamo piatti-pronti, che comportano costi di produzione e logistica che finiscono per ricadere in termini di costi sull’utente finale – aggiunge il Cto – ma un prodotto preparato con materie prime di alta qualità e messo sottovuoto (mantiene così intatte le caratteristiche organolettiche e nutrizionali di un prodotto fresco), abbattuto artigianalmente, e consegnato in un packaging rigenerabile in cinque minuti».

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    Il cibo passa dall’abbattitore prima di essere confezionato e spedito

    Presto anche all’estero

    Stancati e Schiavone, insieme ai soci Giorgio Scarselli (titolare dello storico ristorante Il bikini di Vico Equense) e Armando Aruta, adesso puntano all’Europa, ma seguendo una rotta diversa: il progetto Underkitchen porterà la cucina italiana oltralpe, contando sempre sulle professionalità presenti negli istituti alberghieri.
    “Cheap flights, great food” (Voli economici, grande cibo, ndr) è il refrain pubblicitario. E quest’attesa di un nuovo viaggio fa già venire un certo languorino.

  • Cosenza a cinque birilli: bazziche, risse e un campione come Umberto Casaula

    Cosenza a cinque birilli: bazziche, risse e un campione come Umberto Casaula

    Per noi giovani cosentini Umberto Casaula era un mito. Alcune sue partite nei campionati italiani, europei e mondiali rimangono impresse nella storia del biliardo. Nel 1985 diventa campione italiano nella specialità 5 birilli. Ha vinto numerosi tornei e si è battuto con campioni del calibro di Lotti, Ferro, Cifalà, Gomez, Zito, Martinelli, Belluta, Mannone e altri. Memorabile la partita del 1993 quando ad Avellino nella prima prova del mondiale vinse per 4 a 1 il grande Carlo Cifalà. Quando ancora non era entrato nel mondo dei professionisti con gli amici stavamo ore ad ammirarlo e ci colpiva soprattutto la sua umanità, cordialità ed eleganza dei suoi tiri.

    Umberto Casaula sfida e vince Carlo Cifalà nel mondiale del 1993

    Bazzica, italiana e goriziana

    È difficile ricostruire il clima di quegli anni ma quel gioco è rimasto sempre vivo nel mio cuore da spingermi a scrivere ormai vecchio una storia del biliardo pubblicata circa un mese fa dall’editore Rubbettino. Con gli amici il giorno giocavamo a calcio e la sera a bazzica, italiana e goriziana. Quel passatempo fatto di traiettorie, angoli e scontri era stregato, il roteare sul panno verde delle palle che andavano zigzagando tra una sponda e l’altra fino ad abbattere i birilli o finire in buca mi affascinava.

    Tiri eseguiti in posizioni difficili con effetti e complicate geometrie apparivano magie e il «bigliardista» un prestigiatore che non poteva nascondere la propria arte. Erano il braccio e la volontà dello sportivo a stabilire il cammino delle biglie, ma a volte avevo la sensazione che queste, come spinte da una forza nascosta, andavano oltre la volontà di chi le colpiva. Quelle sfere colorate tonde, lisce e pesanti che si urtavano creando un suono inconfondibile sembravano fatate e forze esterne influenzavano il loro apparente viaggiare logico-razionale.

    Biliardo a credito

    Eravamo appassionati del biliardo ma a volte facevamo fatica a raggranellare i soldi sufficienti per pagare il tavolo e il proprietario segnava i debiti su un quaderno nero. Per alcuni il biliardo era una vera malattia, c’era gente che giocava sino a tarda notte e, anche se la saracinesca del locale era abbassata, dentro si gareggiava fino al mattino. Ricordo che a volte arrivavano madri e padri arrabbiati perché i figli avevano marinato la scuola o non volevano che frequentassero la sala da gioco. Anche i miei genitori non erano contenti che andassi nella sala del bigliardo: dicevano che non studiavo e che quel luogo era frequentato da gente poco raccomandabile.

    In effetti ho visto tanti giovani lusingati da gente senza scrupoli di essere forti giocatori, dopo aver vinto qualche partita, finire per essere spennati. Ho assistito anche a violente risse durante sfide di bazzica per presunti imbrogli, sedate grazie all’intervento deciso del proprietario o della polizia. A bazzica si gareggiava con due palle e pallino, ciascun contendente riceveva una carta con un numero segreto la cui somma con i punti fatti con i birilli doveva raggiungere 31 e non oltrepassarla altrimenti «si sballava».

    Soprattutto nelle giornate fredde e di pioggia il biliardo era affollato di gente e i giocatori più bravi erano conosciuti con soprannomi bizzarri o legati alla loro professione. La sala era immersa nel fumo di sigarette, sigari e pipe che formava una nebbia bassa evidenziata dalle lampade che illuminavano i tavoli. Nel grande locale non si poteva parlare ad alta voce e nelle lunghe serate si sentiva solo un leggero brusio, il rumore secco delle biglie e qualche sonora bestemmia.

    Uomini eleganti e stecche intarsiate

    In occasione di incontri tra professionisti del biliardo di altre città e i nostri campioni, con in palio consistenti somme di denaro, c’era grande attesa. Fuoriclasse che conoscevamo di fama arrivavano con le loro custodie di legno da cui estraevano bellissime stecche intarsiate che sembravano fucili di precisione. Con quelle aste in mano sembravano fucilieri: avevano un’arma, erano esperti di balistica, tiravano con decisione e avevano una buona mira. Battendo la palla tenevano ferma la stecca, l’afferravano per bene dalla culatta, la ingessavano alla punta per evitare tiri a vuoto e, inchinandosi, davano un colpo alla biglia realizzando giocate magistrali.

    Prima di giocare stabilivano le regole per le scommesse, indossavano un grembiule per non sporcarsi e provavano con attenzione l’elasticità delle sponde. Durante le partite nella sala c’era un silenzio tombale interrotto solo dal rumore secco delle palle e dalla voce del bigliardiere che scandiva i punti ad alta voce dopo averli segnati nella rastrelliera. Ricordo che guardavamo incantati quegli uomini vestiti elegantemente che, dopo aver accuratamente ingessato la stecca e messo il talco sulle mani riuscivano a fare colpi inimmaginabili. Avevano giochi diversi: c’era chi cercava di fare punti a ogni tiro e chi invece si preoccupava della «rimanenza»; chi tirava d’istinto dopo una veloce occhiata al tavolo e alle palle e chi invece meditava sul tiro spostandosi lentamente da una parte all’altra del tavolo.

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    Umberto Casaula con suo figlio Aldo nella sala di biliardo che porta il suo nome

    I consigli del campione

    Guardandoli duellare mi rendevo conto che il biliardo era anche una prova di nervi. I contendenti cercavano di non esaltare le caratteristiche dell’avversario, lo costringevano a un gioco a lui non gradito, lo mettevano nella condizione di non poter mostrare ciò che sapeva fare, studiavano i modi per innervosirlo ed erano attenti a non perdere la calma nei momenti difficili aspettando il tempo opportuno per contrattaccare. Ricordo che un campione pugliese, venuto a Cosenza per sfidare Casaula, al temine di un vittorioso incontro, si fermò a parlare con noi e ci disse che giocando a biliardo bisognava non sottovalutare o sopravvalutare l’avversario e avere una grande tenacia perché, pur possedendo esperienza, visione di gioco e abilità nei tiri, senza volontà e concentrazione si andava inesorabilmente verso la sconfitta.

    Gli imprevisti sul panno verde

    In effetti accadeva che grandi fuoriclasse perdessero incontri con avversari più deboli a causa dello stato d’animo. Anche il risultato delle sfide tra campioni era imprevedibile: uno poteva perdere tutte le partite di un incontro e nel successivo vincerle. Non c’è sicurezza di vittoria al biliardo, sul tavolo non sempre accade ciò che si vuole, i tiri sono sempre gli stessi ma le biglie prendono direzioni diverse.

    Il più abile giocatore non ha il totale controllo di ciò che accade sul panno verde; pur conoscendo a memoria ogni colpo c’è qualcosa di imprevedibile che può far mutare la direzione delle palle: la rispondenza delle sponde, la pendenza di una parte del tavolo, lo sporco sulle sfere, pezzetti di gesso sul tappeto e altro. Spesso succede che un tiro è effettuato alla perfezione ma la palla che passa nel castello muove i birilli senza farli cadere o si ferma misteriosamente ai margini della buca.

    La solitudine del giocatore di biliardo

    I professionisti del biliardo non hanno tentennamenti su come eseguire un raddrizzo, un rinterzo, un rinquarto o un cinque sponde perché li hanno memorizzati, ma gli esiti di un tiro non sono mai scontati. Capitano giornate in cui ci si sente invincibili perché la palla centra sempre quello che si vuole, ma in alcune partite tutto va storto e non ci sono compagni da rimproverare o a cui chiedere consigli perché ognuno gareggia da solo. È necessario non lasciarsi andare quando i colpi non riescono nel modo desiderato e l’incontro prende una piega sfavorevole; bisogna dominare le passioni perché un fuoco tempestoso può indurre a scelte azzardate e sconsigliabili.

    Scena finale del film “Il colore dei soldi”, diretto da Martin Scorsese

     

  • La prof ucraina in dad: lezione sotto le bombe agli studenti in Calabria

    La prof ucraina in dad: lezione sotto le bombe agli studenti in Calabria

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    La scuola oltre la guerra, come un esile filo che trattiene il desiderio di una normalità perduta. Da Zaporozhye, città ucraina sulle rive del Dnepr, che per la sua posizione strategica è stata duramente bombardata dalle truppe russe, fino ad un appartamento nel cuore di Cosenza. È in questa sua nuova casa che Klim affronta calcoli matematici che devono sembrargli difficili ma dal cellulare giunge la voce della sua professoressa, rimasta lì dove ancora piovono le bombe. Lei, come un rassicurante appuntamento, si collega in rete e raggiunge i suoi studenti sparsi per l’Europa.

    La resistenza ucraina è fatta anche di questo, di brandelli di normalità, di lezioni tramite la rete, di contatti che non vogliono interrompersi.
    Klim è uno dei tanti studenti ucraini che hanno raggiunto parenti e amici che già da tempo stavano in Italia. La nonna di Klim, per esempio, è una apprezzata allenatrice di tuffi, che ha curato anche la preparazione atletica del campione cosentino Giovanni Tocci. Oggi Klim è iscritto alla terza media della scuola di via Negroni.

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    Klim con i compagni della scuola di via Negroni a Cosenza

    Le scuole si rimboccano le maniche

    «Il ragazzo è giunto alla nostra scuola tramite i genitori di altri studenti», spiega Marina Del Sordo, dirigente dell’istituto comprensivo. Lo hanno iscritto alla seconda media, che corrisponde al settimo anno del sistema scolastico ucraino «e accolto con grande calore dai nuovi compagni». Davanti a questa emergenza le scuole si sono trovate a gestire potenti novità, senza poter far conto su mediatori culturali o sostegni di sorta.

    Solo di recente la Regione Calabria si è accorta di quanto le nostre scuole fossero coinvolte in questo intervento solidale ed ha provveduto ad emanare una circolare in cui si chiede ai dirigenti di vigilare sullo stato vaccinale dei nuovi studenti provenienti dalla zona di guerra e di riempire un modulo per ottenere la presenza di mediatori linguistici. Nel frattempo le scuole avevano fatto da sé, assumendo «decisioni riguardo l’accoglienza dei nuovi studenti che garantissero il loro benessere e una efficace inclusione»

    Gli orfani di Kharkiv

    Chi per adesso il problema della vaccinazione, molto sentito da chi siede a Palazzo Campanella, non se lo pone è la preside dell’istituto comprensivo di Vibo Valentia “Amerigo Vespucci”. «Questi vengono da una guerra, abbiamo altre priorità, come accoglierli nel modo migliore», dice Maria Salvia, con la voce di chi nella trincea della scuola in emergenza ci sta da parecchio. Di bambini ucraini il suo istituto ne ha accolti quaranta, tutti provenienti da un orfanotrofio di Kharkiv, giunti qui accompagnati da un tutore legale e per adesso affidati ad alcune famiglie.

    Su questo aspetto la preside è perentoria: «Non sono adottati, né adottabili, sono ospiti e la loro permanenza presso le famiglie sarà verosimilmente prorogata mese per mese». Il tramite attraverso cui sono giunti in Calabria è il consolato ucraino di Napoli che era in contatto con alcune associazioni accreditate di Vibo. Giunti qui, un operatore turistico di Capo Vaticano ha aperto le porte del suo villaggio ed è partita la gara di solidarietà.

    Palazzi devastati a Kharkiv

    Dal punto di vista scolastico i ragazzi sono stati inseriti nelle classi corrispondenti alla loro età anagrafica, così da trovare coetanei in grado di includerli meglio possibile. «Con i docenti, invece, abbiamo provveduto a ricalibrare il percorso didattico in maniera da trasformare questa situazione difficile in una opportunità anche per gli studenti italiani, che hanno modo di confrontarsi con coetanei che provengono da una esperienza durissima». Un modo per crescere assieme ma senza violare «la loro naturale riservatezza, perché abbiamo compreso che non amano essere al centro dell’attenzione»

    Dal Liceo sportivo al Coreutico

    Quando si scappa dalle bombe, si comincia una vita nuova. Per Alina, che ha lasciato il suo liceo sportivo, ad accoglierla c’era una classe di ballerine, quelle dell’indirizzo coreutico del “Lucrezia Della Valle” di Cosenza. Alina non conosce una parola d’italiano, ma una scuola non si fa spaventare facilmente e mette in campo tutte le risorse che ha. L’asso nella manica del Lucrezia Della Valle si chiama Angela, è ucraina ma vive in Italia da tempo. Angela tiene in ordine le aule e il corridoio del corso dove studia Alina e in un attimo è diventata una mediatrice linguistica e culturale.

    «Questo fenomeno migratorio ha carattere transitorio – spiega la preside Rossana Perri – perché queste persone sentono forte il desiderio di tornare alle loro case», ma intanto occorre provvedere ad una accoglienza che sia autenticamente inclusiva, anche sul piano scolastico, «per questo i docenti di Alina predisporranno un piano educativo personalizzato, per andare incontro alle sue esigenze facendo fronte alle difficoltà». È la scuola che è sempre pronta ad affrontare a mani nude i cambiamenti inattesi, anche se la preside spiega che «dal ministero sarà fatto un censimento per individuare il numero degli studenti ucraini e la loro distribuzione, in maniera da predisporre le risorse necessarie».

    Artem e le sue scarpette nuove

    Valentina Carbone è una maestra della scuola elementare di via Roma che di bambini ucraini ne ha accolti tre fino ad adesso, ma potrebbero aumentare di numero, considerato l’impegno del dirigente Massimo Ciglio sul fronte dell’inclusione.
    Valentina parla di loro come «i suoi bambini», si tratta di scolari dagli otto ai nove anni, inseriti in classi con compagni di uguale età e subito ben accolti. Una classe particolarmente vivace e avvolgente si è presa cura di Artem, per il quale ogni piccolo passo fatto durante le lezioni è una vittoria. Come quando sollecitato dalla maestra Valentina a scrivere tutte le parole italiane che aveva imparato, è stato in grado di riempire quattro fogli.

    «Con lui ho fatto quello che faccio con i bambini della prima classe, sono partita dalle vocali, le consonanti, fino a formare le parole ed è stato subito un successo». Attorno a questi bimbi c’è un universo di accoglienza, fatto di chi nel pomeriggio si prende cura di loro e anche di piccoli regali. Perché domenica si gioca a calcio con i compagni di scuola e Artem, che ha lasciato la propria casa senza portarsi le sue scarpette, avrà quelle nuove.

  • Pagliacci global, un delitto made in Montalto alla conquista degli Stati Uniti

    Pagliacci global, un delitto made in Montalto alla conquista degli Stati Uniti

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    «Benvenuti a Montalto Uffugo, il paese di Ruggiero Leoncavallo». Recitava così un enorme cartellone stradale visibile dal 2002 all’ingresso di quello che ora è lo smantellato e fatiscente ipermercato Emmezeta, appena fuori dallo svincolo Rose-Montalto dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Curioso invito alla sosta tra luoghi-non luoghi collegati alla genesi artistica e alla vicenda di uno dei più famosi e popolari melodrammi del teatro lirico italiano. Eppure il palinsesto originario di Pagliacci riconduce a un territorio estraneo e distante dalla soglia mobile ed effimera di questi santuari provvisori del consumismo planetario. A un mondo “altro”, lontano anni luce dalle finzioni glamour e dalla spettacolarizzazione a cui ci ha abituato oggi la cultura di massa.

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    Montalto Uffugo, il museo dedicato a Leoncavallo

    Il piccolo Leoncavallo e la vera storia di Pagliacci

    Il più famoso melodramma di Leoncavallo (autore peraltro molto prolifico) nasce intorno al 1890. Enfatizza gli echi più tragici e coinvolgenti scaturiti da un episodio registrato dalle cronache e dal folclore locale. L’opera si ispira a un delitto realmente accaduto a Montalto Uffugo, quando il compositore era bambino. In seguito, il padre di Ruggiero Leoncavallo, Vincenzo, un magistrato napoletano destinato a quel mandamento giudiziario, ebbe il compito di istruire il processo che portò alla condanna dei colpevoli.

    Ecco in breve come andarono realmente le cose. Per una carambola del caso il piccolo e irrequieto Ruggiero venne affidato dalla famiglia alla sorveglianza di un domestico, il ventenne Gaetano Scavello. Siamo nel 1865, Leoncavallo (che prendeva lezioni di musica da quando aveva 5 anni) all’epoca dei fatti ne aveva appena 8.

    La cronaca nera stava per entrare nella sua vita turbando anche la pigra tranquillità di Montalto Uffugo. Proprio Scavello, giovane factutum di casa Leoncavallo, si era preso una sbandata per una bella e forse non del tutto “illibata” (ma quella era la morale paesana di quei tempi) ragazza del paese, che risultava comunque promessa al calzolaio Luigi D’Alessandro.

    La morte del factotum di casa

    Un giorno di marzo il giovane Scavello vide entrare furtivamente la ragazza in una casa colonica. Era insieme al garzone della famiglia D’Alessandro, tale Pasquale Esposito. Pretendendo maggiori spiegazioni, Scavello fermò Esposito, ma il suo rifiuto di rivelare il motivo dell’incontro con la ragazza lo fece infuriare al punto di ferire l’avversario alle gambe con un bastone. La ragione dello scontro venne subito riferita allo stesso Luigi D’Alessandro e al fratello di questi, Giovanni.

    La sera successiva i due feriti nell’onore minacciarono più volte Scavello. E al culmine di un alterco, approfittando della confusione e del parapiglia promiscuo che si era creato all’uscita di uno spettacolo di varietà messo in scena da una compagnia di sciantose e guitti ambulanti che visitava il paese, accoltellarono il giovane a morte tendendogli un agguato in un sopportico. L’istruttoria e il successivo processo per l’omicidio dello Scavello, celebrati da Vincenzo Leoncavallo, si conclusero con la condanna a venti anni di reclusione per Luigi D’Alessandro e ai lavori forzati a vita per suo fratello Giovanni.

    Troppo verista per Ricordi

    Difficile che il piccolo Leoncavallo possa aver assistito direttamente al fatto di sangue, mentre è certo il legame di familiarità stabilito all’epoca dei fatti con la vittima. La traduzione dei fatti originari è quindi piuttosto diversa da quella che segnerà poi lo sviluppo successivo della scrittura dell’opera lirica. Anche la trama e la scrittura del libretto per Leoncavallo non furono cosa semplice e non mancarono scoraggianti contrarietà e rifiuti. Il compositore sottopose il lavoro all’editore Ricordi, che rimase turbato dalla modernità del libretto e dal prologo eccessivamente verista in cui Leoncavallo, tramutando quella tragedia paesana di sangue e di coltello consumata dal vero, aveva tratto ispirazione e materia creando un ardito cortocircuito tra scena comica e vicenda tragica.

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    Ruggiero Leoncavallo

    Leoncavallo provò infine con Sonzogno, che imponendo qualche revisione, gli consentì di portare finalmente a teatro il lavoro che aveva così a lungo e accanitamente immaginato, scritto e musicato. Il suo lavoro mette per la prima volta a contatto figure e costrutti della tradizione e della culturale locale calabrese con i linguaggi della modernità.
    L’opera lirica fu perciò ambientata dal compositore napoletano proprio nella «sua» Montalto Uffugo, il piccolo paese della provincia di Cosenza dove si consumò l’episodio di cronaca che lo condusse a scrivere a 35 anni Pagliacci.

    Toscanini e il primo clamoroso successo

    L’opera ha nell’aria Vesti la giubba e nella definizione del Prologo, espressione di teatro nel teatro che già anticipa la drammaturgia novecentesca, i suoi passaggi librettistici e musicali più conosciuti. Leoncavallo non fu infatti solo musicista ma anche un buon letterato, fu allievo di Carducci a Bologna, visse e lavorò a Parigi – dove conobbe Zola e Hugo – viaggiò dall’Egitto agli USA, in Francia, in Svizzera e in Sudamerica.

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    Arturo Toscanini

    Partita in sordina, considerata opera di un autore minore, con un libretto di argomento rozzo e «barbaramente verista», aggravato dalla remota ambientazione locale e per giunta rurale, sin dalla prima recita messa in scena il 21 maggio 1892 al teatro Dal Verme di Milano, direttore un giovane Toscanini, Pagliacci si rivelò invece inaspettatamente un clamoroso successo, proseguito e riaffermato poi nei teatri lirici di tutto il mondo.

    Anche meglio di Verdi

    Con Pagliacci Leoncavallo e il suo editore Sonzogno, non molto tempo dopo, riusciranno a superare persino gli incassi delle opere di Verdi. A distanza di un secolo Pagliacci resta nei fatti un unicum. Un esempio di sintesi culturale tra i più autentici e riusciti in mezzo ai capolavori del verismo musicale italiano. Sulla scena è protagonista un povero guitto deriso e fatto becco da una Circe da fiera di paese che sceglie il suo ultimo amante tra uno dei ganzi che le ronzano intorno nella confusione della folla eccitata e stordita di un afoso paesino in cui si celebra tra libagioni omeriche e danze contadine la festa di mezza estate.

    La commedia degli attori girovaghi si tiene sotto un tendone lacero e improvvisato. Ma l’attrazione sta nei carrozzoni colorati da cui occhieggiano zingare compiacenti e sciantose imbellettate, il cui fascino profano gareggia con le immagini pie delle madonne barcollanti portate in processione nella controra. Siamo nella Calabria del 1870, ma due elementi danno una credibilità e uno spessore antropologico universale (e beninteso, teatrale) al melodramma: il paesaggio e l’ambiente sociale, emblema di tutti i Sud che si affacciano per le ultime recite sul bordo del vecchio mondo contadino che già declina verso il Novecento, con l’incipiente mondo contemporaneo che vedrà la globalizzazione dei costumi. C’è poi il dramma «classico» e luttuoso che grava sulla figura tragica di Canio.

    Il melodramma più rappresentato in giro per il mondo

    Il verismo di Pagliacci non è solo rappresentato nei costumi, nelle invocazioni gergali, nell’ampio coinvolgimento scenografico di figure popolari –tratte come le scene dal vero della prima rappresentazione teatrale, dai dipinti del pittore calabrese Rocco Ferrari –, ma anche soprattutto nel dramma dell’onore, nelle figure di Canio e Nedda, nell’apoteosi brutale del duplice omicidio finale.

    Ed è forse per questo che l’opera di Leoncavallo, scritta pensando alla Calabria e al suo mondo segregato e distante, ritrova ancora oggi i contrasti tragici della sua radice più classica e insuperata nella congiuntura culturale, che nonostante il secolo trascorso ne mantiene intatto il successo anche in ambito contemporaneo. Pagliacci è infatti ancora oggi il melodramma italiano più frequentemente portato in scena e cantato, persino più volte delle opere di Verdi e Puccini. Ogni anno in giro per il mondo, nei teatri di tutti i continenti, si contano più di 400 rappresentazioni dell’opera.

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    Pagliacci alla Scala di Milano

    Leoncavallo, Pagliacci e l’industria culturale

    Anche l’industria culturale e il cinema ne hanno attinto a piene mani. Le note delle arie più famose di Pagliacci risuonano ne la trilogia de Il padrino di Coppola e una delle scene clou de Gli intoccabili di De Palma, sino alle più recenti versioni melò dell’opera di Leoncavallo firmate in Italia da Zeffirelli (1983), Liliana Cavani (1998) e Marco Bellocchio (2016). Uno dei marchi delle global company più conosciute nel mondo, la Coca Cola, già più qualche anno fa aveva pensato bene di utilizzare per la pubblicità della sua così poco mediterranea bevanda, proprio la traccia musicale di una delle arie più sentimentali e patetiche che danno lustro universale alla vicenda di questo melodramma.

    Leoncavallo fu in grado di operare così una “traduzione” culturale di realtà marginali nelle forme e nei linguaggi più moderni e comunicativi disponibili all’arte popolare di quel periodo: il melodramma verista, e poi la musica popolare delle arie e delle romanze stampate e diffuse ovunque per la prima volta su disco, e particolarmente diffuse grazie questo primo veicolo tra le comunità di emigrati italiani all’estero e soprattutto nelle due Americhe.

    Un tesoro per gli americani

    Ne è prova il National Recording Registry, un museo di files sonori creato dalla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. In questo archivio multimediale è stata immortalata la storia culturale degli USA. Vi hanno trovato consacrazione le voci ruvide e stentoree di presidenti e generali, le icone sonore di Martin Luther King che pronuncia il suo celebre «I have a dream», la voce da crooner di Frank Sinatra e quella libertaria di un giovane Bob Dylan che canta Blowin’ in the wind.

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    La biblioteca del Congresso a Washington

    In mezzo a questo campionario di voci memorabili è possibile ascoltare i maestri del jazz e della musica classica, i poeti e gli artisti del rock, pezzi di storia popolare come la prima trasmissione radiofonica americana, il primo disco di jazz, il primo album in stereo e altro ancora. In tutto le registrazioni da consegnare ai posteri per ora sono solo cinquanta, selezionate da un gruppo di esperti guidati da James H. Billington, responsabile della Libreria del Congresso, che le ha giudicate «culturalmente, storicamente o esteticamente rilevanti per importanza» per la ricostruzione della storia culturale degli USA.

    Enrico Caruso e una registrazione da record

    Al n. 7 del repertorio, c’è per ora l’unico brano in italiano: un’aria d’opera che divenne subito famosa e amata, e non solo tra gli immigrati italiani, «Vesti la giubba from Pagliacci of Ruggiero Leoncavallo. By Enrico Caruso. (1907)». Il celebre brano è preceduto da questa motivazione: «Tenor Enrico Caruso was probably the most popular recording artist of his time. His recording of this signature aria by Leoncavallo was a best-selling recording». (Il tenore Enrico Caruso fu probabilmente l’artista più popolare del suo tempo a incidere. La sua registrazione dell’aria simbolo di Leoncavallo fu tra quelle più vendute, ndr).

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    Enrico Caruso in abiti di scena

    Si trattava dunque già allora di un successo ultrapopolare del belcanto; Leoncavallo dimostrando grande fiuto per lo showbiz fu tra i primi compositori a registrare le sue musiche su disco. Successo che dura ancora oggi intatto. Merito di Caruso, merito di Leoncavallo e soprattutto di una storia di paese che raccontava al nuovo mondo l’anima degli italiani del Sud.

    Leoncavallo e i Pagliacci globalizzati

    Con Pagliacci Leoncavallo riformulava il melodramma classico, ibridando il belcanto con i temi e gli ambienti sociali emersi dal basso. Del resto lo stesso Leoncavallo, per guadagnarsi da vivere aveva suonato nei bistrot e nei caffè-concerto malfamati di Parigi.

    Ed è forse per questo che all’epoca autore e opera (nonostante il grande successo popolare) furono ambedue così apertamente osteggiati dalla critica musicale purista e dalle posizioni più ufficiali e conservatrici dell’intellettualità nazionale. Piaceva molto invece agli emigranti italiani, e agli americani, quella musica «tumultuosa e vistosa». Era esagerata, ibrida e sporca, come come il jazz, come un musical, come un’opera rock. Pagliacci, globalizzati.