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  • Umberto De Rose, il volto grigio del potere

    Umberto De Rose, il volto grigio del potere

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    Oggi è difficile dire che fine farà Umberto De Rose, il tipografo passato alla storia per la vicenda del Cinghiale.
    Non ha più giornali da stampare, anche perché l’informazione su carta stampata è morta. Inoltre, gli equilibri di potere del vecchio centrodestra, che ne avevano propiziato l’ascesa, non esistono più.

    Un colore esprime la sua parabola: il grigio. È il colore dei notabili di seconda fila, che fanno carriera a prescindere dalla loro modestia e grazie alle cordate di cui fanno parte.
    Ogni cosa ha un prezzo e De Rose, con le gaffe per conto terzi e le rogne giudiziarie, ha pagato il suo.

    Il tabloid come destino

    «De Rose non è un editore ma stampa il giornale che leggi», recitava un paginone autocelebrativo apparso più volte fino al 2010 su tutti i giornali usciti dalle sue rotative e poi ripetuto da mega manifesti affissi nelle zone principali della regione.
    Umberto De Rose ha stampato praticamente tutti i giornali della Calabria tranne due: La Gazzetta del Sud e Il domani della Calabria. E tutti i giornali stampati da lui avevano una caratteristica: il formato tabloid, che, come sanno gli addetti ai lavori, era il formato tipico dei giornali scandalistici, a partire dal Sun.

    Nel caso di De Rose questo formato era obbligato perché il suo stabilimento di Montalto Uffugo non era attrezzato per produrre il “lenzuolo”, cioè lo standard dei giornali “seri”.
    La famiglia Dodaro si è sottratta al monopolio di De Rose e, dal 2004, ha stampato Il Quotidiano della Calabria (poi del Sud), con mezzi propri. Tutti gli altri, invece, hanno avuto a che fare con lui. E sono falliti tutti, uno dopo l’altro.

    La strage di carta

    Delle due l’una: o Umberto De Rose è cattivo oppure porta sfiga. Probabilmente nessuna delle due: è solo un tipografo che ha continuato a stampare, a caro prezzo, nel momento storico in cui i nuovi media minacciavano l’informazione cartacea, già declinata da un pezzo.
    Fatto sta che tutti i giornali stampati da lui hanno chiuso grazie ai debiti vantati dal tipografo.

    Un’eccezione vistosa al diritto fallimentare, secondo il quale i crediti dei lavoratori dovrebbero precedere quelli dei fornitori. In Calabria non è così: le maestranze dell’editoria periodica, numerose e malpagate, sono venute dopo le esigenze di una stamperia che, secondo i canoni industriali, è un’azienda di medie dimensioni. Ciononostante, De Rose, è diventato prima presidente regionale di Confindustria poi di Fincalabra.

    Umberto De Rose e il Cinghiale

    Umberto De Rose non è stato condannato, ma il suo numero telefonico notturno con Alfredo Citrigno resta un esempio di trash da manuale.
    A partire dal linguaggio colorito, per finire con le argomentazioni, in apparenza minacciose. E poi la perla di comicità involontaria e amara: il nomignolo appiccicato quasi per caso a Tonino Gentile (e per estensione a tutta la famiglia): il Cinghiale.
    In realtà, De Rose usava la metafora del cinghiale («’u cinghiale quann’è feritu mina ad ammazza’»), ogni tre per due.

    Sul punto possiamo essere garantisti, anche più dei magistrati che hanno assolto lo stampatore dall’accusa di violenza privata nei confronti di Citrigno jr, all’epoca editore de L’Ora della Calabria. Le sue metafore, in apparenza sinistre, le sue esortazioni tamarre («L’ha cacciata ’sta cazz’i notizia?») erano un’espressione genuina di antropologia calabrese del potere.
    De Rose, amico della famiglia Citrigno, ma anche dei Gentile, è un uomo a cavallo di più ambienti e mondi. Vive dei loro equilibri e cerca di mantenerli, perché ne teme i contraccolpi.

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    Andrea Gentile, figlio di Tonino e deputato di Forza Italia

    In principio fu la Provincia

    Nel resto d’Italia, la carta stampata perde colpi dall’inizio del millennio, quando l’informazione inizia a spostarsi sulla rete. In Calabria, escono giornali su giornali, che si contendono circa 40mila lettori.
    Ma i giornali significano potere e comunicazione per i notabili. E per De Rose che, stampandoli, mette a disposizione delle piattaforme.
    È il caso della Provincia Cosentina, fondata da Piero Citrigno nel ’99, poi ceduta al costruttore Rolando Manna a inizio millennio, infine collassata nel 2008 tra le mani di una società di giornalisti. Il colpo finale è stato il grosso debito col tipografo.

    Piero Citrigno

    Calabria Ora e figli

    Storia simile per Calabria Ora, fondata sempre da Citrigno assieme all’imprenditore Fausto Aquino. Questo giornale, se possibile ha avuto una storia più travagliata: cinque direttori in otto anni di vita, due cambi di società e una tragedia (il suicidio di Alessandro Bozzo). Infine lo scandalo delle rotative bloccate per non far uscire la “cazz’i notizia”, relativa alla presunta inchiesta su Andrea Gentile, figlio del senatore Tonino.

    Alla fine della giostra, Citrigno è rimasto col cerino in mano: una condanna per bancarotta fraudolenta e una per violenza privata. Alla maggior parte dei giornalisti, rimasti a spasso, sono rimaste le vertenze e le querele. Il motivo della chiusura? Gli 800mila euro di debiti nei confronti di De Rose.

    Morto un giornale se ne stampano altri due

    A questo punto, lo stampatore dovrebbe essere fuori gioco. Invece no: dalle ceneri de L’Ora della Calabria nascono Il Garantista e La Provincia di Cosenza.
    Il primo, fondato da Piero Sansonetti, ex direttore dell’Ora, dura 18 mesi, grazie anche ai contributi statali per l’editoria. Inizialmente non è un tabloid perché è stampato fuori regione da un tipografo meno caro ma più preciso. Poi arriva la crisi e finisce nelle rotative di Umberto De Rose. Il quale mette benzina: circa 300mila euro che servono a pagare la previdenza. Ma si rifà alla grande: ne incassa 500mila, tolti dal finanziamento pubblico. Poi il giornale chiude e ai giornalisti restano solo gli ammortizzatori.

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    Piero Sansonetti

    Peggio ancora per La Provincia di Cosenza, fondata da un gruppo di ex redattori dell’Ora e poi passata di mano in mano e da una redazione all’altra. Fino alla chiusura, in cui hanno avuto un ruolo principale i crediti di De Rose.
    Non finisce qui: nel frattempo (2016) dalle ceneri de Il Garantista nasce Cronache di Calabria, affidato a una vecchia gloria come Paolo Guzzanti. Inutile dire che il destino è il medesimo. I tramiti di queste iniziative sono due pubblicitari, Francesco Armentano e Ivan Greco, già sodali di Citrigno e uomini di fiducia di De Rose. A loro si deve il paradosso curioso per cui, mentre altrove i giornali, anche gloriosi, chiudono i battenti in Calabria le rotative continuano a girare alla grande.

    Umberto De Rose e Fincalabra

    Durante l’era Scopelliti, Umberto De Rose raggiunge il massimo e porta all’incasso l’impegno politico del decennio precedente, nel quale si era candidato a sindaco in quota Forza Italia (quindi Gentile) contro Eva Catizone.
    Con lo scandalo di Calabria Ora (se preferite, Oragate, o Il Cinghiale) arriva la prima gomitata seria all’immagine pubblica del Nostro. In questa vicenda c’è chi, con una certa malignità, fa brutti paragoni in famiglia. Cioè tra Umberto e suo papà Tanino, tra l’altro notabile di prima grandezza della massoneria cosentina, considerato un galantuomo vecchia maniera.
    Ma questi sono dettagli rispetto ad altre faccende, decisamente più serie.

    Una di queste è il processo per le consulenze in Fincalabra. Al riguardo, riemerge il cognome dei Gentile, associato ad Andrea e sua sorella Lory. Per i contratti di collaborazione a favore dei due, De Rose finisce nel mirino della Corte dei Conti e della magistratura penale. Mentre la posizione di Andrea viene stralciata quasi subito, Lo stampatore passa i guai per il contratto di Lory e di altre due persone: il Tribunale di Catanzaro gli infligge un anno e otto mesi nel 2017. La Corte d’Appello azzera la condanna due anni dopo.
    Resta a suo carico la responsabilità contabile per danno erariale, stabilita dalla Corte dei Conti.

    Fine della storia?

    Il grigio è definitivamente stinto nelle carte bollate e nei debiti (altrui). E la parabola di De Rose è in calo. Già, lui non è mai stato un editore. E in compenso non stampa più, perché nessuno legge quasi più i vecchi giornali.
    Tutti gli imperi si logorano e i castelli crollano. Ma quelli di carta lo fanno per primi.

  • Riportiamo il municipio nei centri storici a Cosenza e Rende

    Riportiamo il municipio nei centri storici a Cosenza e Rende

    Sfiorando il tema conservazione/innovazione, ovvero vecchio/nuovo, sottopongo all’attenzione dei lettori e degli amministratori di Cosenza e di Rende due significativi episodi urbani e una proposta per arricchire il dibattito ammesso da Francesco Pellegrini sul quotidiano on line I Calabresi per contribuire alla costruzione dell’auspicata città Cosenza-Rende (asse centrale della metropoli circolare ambita da Massimo Veltri?).

    Da corso Telesio a piazza dei Bruzi

    Il primo episodio urbano riguarda Cosenza, il capoluogo della sua provincia “recondito, raccolto e tranquillo al di là del Busento” quando, nel dopo guerra, seguendo il piano delineato un po’ di anni prima dall’architetto Gualano, si stava separando dalla “nuova” città di valle.
    Attraversando il ponte S.Domenico sul Busento, si raggiungeva, e si raggiunge tutt’ora, il rione del Carmine, dove nel 1950, di fronte al termine della statale 19, ovvero all’inizio di corso Mazzini, si stava realizzando la sede del “nuovo” Municipio di Cosenza.

    La Casa delle Culture, sede storica del municipio di Cosenza prima del trasferimento in piazza dei Bruzi

    Il nuovo Municipio era in posizione di cerniera tra il “vecchio” e il “nuovo” e non ci si preoccupava allora, non si era consapevoli, degli effetti che avrebbe provocato il trasferimento del Municipio dalla città collinare a quella di valle. Sottrarre una funzione urbana così vitale come era allora il Municipio spostandolo dalla Cosenza “vecchia” alla parte “nuova”, significava togliere centralità alla parte “vecchia”, declassarla e destinarla all’abbandono. Oggi lo sappiamo con certezza, il trasferimento dal “vecchio” al “nuovo” è la negazione dell’innovazione nella conservazione.

    Il bis di cinquant’anni dopo

    Il secondo episodio urbano riguarda Rende. All’inizio del secondo millennio, cinquant’anni dopo Cosenza, l’Amministrazione di Rende costruiva in valle, in adiacenza della “nuova” Chiesa, il “nuovo” Municipio della città in posizione centrale rispetto alla “nuova” Rende, rendendo un servizio utile e necessario ai “nuovi” cittadini. Ovviamente il “nuovo” Municipio di Rende ha avuto l’effetto di declassare il “vecchio” borgo dove nel castello aragonese si era innovato, ampliato e conservato nei decenni il Municipio “vecchio”, reso più facilmente accessibile da una scala mobile vanto della stessa Amministrazione.

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    La sede del Comune di Rende

    Sottrarre una funzione urbana ancora vitale dal centro storico di Rende rinunciare alla conservazione/innovazione del Municipio è un comportamento diverso dal precedente. Tuttavia i tempi cambiano e molti rendesi hanno scelto la residenza “nuova”, anziché innovare le residenze “vecchie”. Si sa le scelte dei residenti mutano di continuo e l’attività lavorativa da casa potrebbe favorire il ritorno dei residenti nel “vecchio” borgo.

    Cosenza e Rende tra il vecchio e il nuovo

    Oggi le nuove tecnologie hanno ridotto di molto la forza urbana vitale dei Municipi. In molte città i Municipi si moltiplicano per offrire servizi vicino ai cittadini. Potrebbe essere molto significativo, in entrambi i casi di Cosenza e di Rende, riportare il municipio, o parte di esso, nel “vecchio”, senza rinunciare al “nuovo”.

    Il castello di Rende ospitava il municipio

    Sarebbe un segnale di riscatto per tutti i centri storici della Calabria. Un’azione in contemporanea delle due amministrazioni potrebbe alimentare l’anelito verso la omogenea e unitaria città Cosenza–Rende. Un’esemplare doppia dimostrazione del valore che oggi ha per i centri storici il binomio conservazione/innovazione.

    Empio Malara
    architetto

  • Mancini Stecchino e l’Occhiuto smemorato

    Mancini Stecchino e l’Occhiuto smemorato

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    «Non gli somiglia per niente». Da ieri mattina Cosenza su Facebook sembra il remake di Johnny Stecchino. La statua in onore di Giacomo Mancini ha messo in pausa per qualche ora virologi ed esperti di geopolitica: largo alla critica d’arte. Impietosa, come spesso l’expertise di settore non riesce ad essere.

    «Era più alto», «Ha un’espressione troppo severa», «Dà le spalle al Comune e al centro storico dove abitava»: «Guarda verso Rende»: sono solo alcune delle invettive all’indirizzo del monumento in onore del Vecchio Leone. Che comunque, già beatificato in vita, da ieri si è trasformato in feticcio di culto (laico, ma non troppo) con cosentini in fila per farsi un selfie “insieme” al metallico politico defunto, bello o brutto che sia. L’amore è cieco.

    Il bue e l’asino

    Degna di nota la stoccata dell’ex sindaco Mario Occhiuto al suo successore Franz Caruso. «In epoca contemporanea, tranne che nei regimi, si fa poco uso di busti e statue celebrative», ha malignato l’architetto tra una bordata alla nuova amministrazione e un ricordo – nell’attesa di eventuali sculture postume in suo onore – autocelebrativo.

    Un po’ come vedere Filini contestare un congiuntivo fuori posto al proprio interlocutore: l’aver fatto pagare al Comune, quando a Palazzo dei Bruzi comandava Occhiuto medesimo, decine e decine di migliaia di euro per una statua celebrativa di Alarico – sulla cui figura quegli odiatori degli storici sono concordi: pare proprio aver fatto meno di Mancini per la città – diventa trascurabile dettaglio nel sempre fecondo dibattito politico nostrano.

    Nuove e vecchie colonne

    Le polemiche estetiche sulla statua, però, hanno ceduto presto il passo ad altre questioni. Già stamane il dibattito si è spostato sulla via del socialismo. Che con la politica c’entra poco, trattandosi dei 50 metri di strada riaperta davanti alle scuole “Pizzuti” e “Zumbini” dal sindaco fedele al garofano rosso. Non ci voleva Nostradamus per immaginare che con la riapertura dei due istituti dopo la pausa per la Fiera di San Giuseppe/Francesco sarebbero tornate le auto incolonnate. C’erano anche prima con la piazzetta demolita e prima ancora che quest’ultima venisse realizzata. Ma la rete si è ritrovata invasa da istantanee sul consueto traffico quasi fossimo di fronte a una sorpresa epocale.

    Auto incolonnate alle 8.30 di stamattina nel tratto che ospitava piazza Rodotà prima della riapertura

    Simboli di Cosenza

    Un monumentino, a questo punto, lo meriterebbe forse anche il Genitore Ignoto, il primo ad essersi fermato in barba ai divieti nel rinnovato tratto per far scendere i pargoli evitando loro la fatica di un metro a piedi in più. Un simbolo di Cosenza anche lui, a suo modo. Quasi quanto Mancini e il gusto per la polemica.

  • Il 25 aprile inconsapevole dell’Italia che dimentica (ma festeggia)

    Il 25 aprile inconsapevole dell’Italia che dimentica (ma festeggia)

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    Si potrebbe parafrasare la lapide posta 75 anni prima su un lato dell’ingresso del Teatro Rendano, modificandone i versi di Giovanni Bovio – ispirati alla celebrazione della Breccia di Porta Pia – e rendendoli così: “Questa data politica dice finito il nazifascismo negli ordinamenti civili. Il dì che lo dirà finito moralmente sarà la data umana”. Dico questo dal momento che in questo 25 aprile, dopo quasi 80 anni, sembra ahimè piuttosto evidente che la fine morale non è ancora avvenuta. E non parlo tanto delle recrudescenze, non parlo solo di certe nostalgie estremistiche. Parlo di qualcosa di ben più generale, di altrettanto preoccupante, e soprattutto strisciante: di quella sorta di metastasi culturale che, senza neppure sgomitare tanto, si fa strada per inerzia e con molta comodità. Potrei chiamarla semplicemente ignoranza ma credo sia qualcosa di diverso.

    Il 25 aprile inconsapevole

    Il 25 aprile (giusto, desiderato, ottenuto, sofferto e quindi sacrosanto) è diventato per troppi un espediente per la celebrazione tout court. Vero è che non c’è da stupirsi molto, in un Paese che – se pur formalmente a maggioranza cattolica, e talvolta profondamente osservante – festeggia pure le ricorrenze religiose con ben scarsa consapevolezza di cosa si celi dietro una precisa data. Ma quando si parla di date civili, appunto, il problema potrebbe e dovrebbe irritare di più.
    Era il 2015 quando Ballarò mandava in onda questo servizio, a dir poco mortificante:

    Giovani e meno giovani assolutamente ignari di cosa sia la Liberazione, di quando abbia avuto luogo, e da cosa ci abbia liberato.

    Nei giorni tra il 25 aprile e il 1° maggio di ogni anno, definibili bassa marea dialettica, il già dilagante analfabetismo funzionale sui social dà un’accelerata alle proprie rotative, in cui troppi ripetono a vanvera le stesse due o tre nozioncine imparate – se va benissimo – su qualche bignamino. Il problema risiede anche – non solo – nel fatto che gli accadimenti vengono spesso raccontati male, forse pure in buona fede, in un guazzabuglio di concetti e in un affastellamento di micro-periodi storici che si susseguono e si accavallano l’uno all’altro in una narrazione approssimativa.

    Le bombe alleate

    Voglio fare un esempio, o più d’uno. E comincerei da questa foto cosentina. È la foto che ormai funge da testimonianza dei tragici bombardamenti che colpirono Cosenza il 12 aprile 1943. Bene: questa fotografia dovrebbe considerarsi un simbolo sì, ma non una testimonianza, in quanto col 12 aprile non ha nulla a che vedere.
    Per fatto personale: questa istantanea fotografa infatti il momento forse più tragico nella storia del mio ramo paterno, ovvero l’istante esatto in cui una bomba colpisce il palazzo di famiglia in cui in tre piani e mezzo vivevano i miei nonni, la mia bisnonna con altri tre figli, altra nuora e un nipotino (fortunatamente tutti già al riparo nella località in cui erano sfollati per precauzione). È la nuvoletta più a sinistra nella foto, a mezza altezza, ad indicare il preciso momento in cui tutto un patrimonio familiare, morale e simbolico, non solo materiale, va letteralmente – è il caso di dirlo – in fumo.

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    Cosenza sotto i bombardamenti di fine estate 1943

    Ma non è il 12 aprile: dalla documentazione relativa ai Danni Bellici, redatta dal Genio Civile e oggi custoditi presso l’Archivio di Stato di Cosenza, il quartiere delle Paparelle – o, meglio, via Alfonso Salfi – risulterebbe essere stato bombardato il 28 agosto. Mia nonna ricordava invece la mattina dello stesso 8 settembre, in extremis, ma l’ultimo bombardamento su Cosenza risale in verità al 7 settembre (per la cronaca, Cosenza è stata bombardata – oltre all’ormai arcinota data del 12 aprile e alle altre due appena dette – anche il 6 e il 31 agosto, nonché il 3 e il 4 settembre).

    Liberata e stuprata

    Ora, facciamo due più due: considerato il tenore delle risposte date dai passanti nel servizio del link qui sopra, quanti saprebbero dire chi ha sganciato quelle bombe? Non molti, temo. A futura memoria è forse bene ricordarlo: i bombardamenti del ’43 su Cosenza (e purtroppo non solo su Cosenza) furono opera degli Alleati angloamericani. E ciò va detto per chiarezza storica, e poi per un altro motivo: per tenere sempre a mente il fatto che nessuna Liberazione è priva di costi, nessuna è candida e senza macchia.

    A pensarci bene, la questione non è poi tanto diversa da analoghe situazioni odierne, in cui alcuni protagonisti vengono stigmatizzati per la loro discutibile “esportazione di democrazia” in Paesi già piagati da questioni tutte loro. Ed è quindi giustissimo, credo, che assieme alla celebrazione si affianchi anche un momento di orgoglio di segno diverso: Italia liberata, sì, ma pure stuprata purché si liberasse.

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    Militari marocchini inquadrati nell’esercito francese, accampati nei pressi di Monte Cassino

    Le marocchinate

    Stuprata, dicevo: giusto per ricordare quanto a troppe donne (e non solo) sia costata la Liberazione per mano di alcuni ‘lealissimi’ alleati (e sempre al netto dei ‘misericordiosi’ bombardamenti tattici), basterebbe pensare al capitolo dolorosissimo, e ancora di dominio meno pubblico di quanto dovrebbe essere, delle marocchinate, ovvero le violenze perpetrate dai goumiers nel Lazio (ma anche in Toscana, Sicilia, e probabilmente anche in altri luoghi in cui si preferì per vergogna insabbiare anche il dolore delle vittime e dei sopravvissuti). Immaginatevelo voi, un esercito di 120.000 uomini – nordafricani in forza all’esercito francese – colpevoli di oltre 7.000 stupri ai danni di donne, bambine, vecchi e vecchie.

    Sono convinto che, se certi eventi storici fossero meglio conosciuti, quantomeno il giudizio di non poche donne sulla Liberazione sarebbe meno entusiasta. Vittorio De Sica nel film La Ciociara ne dipinse il quadro tragico, e ancora di più Curzio Malaparte nello scabroso e magnifico romanzo La Pelle. Sono gli stessi goumiers della pagina in cui trattano con alcune mamme napoletane intorno al prezzo dei bambini offerti sul libero mercato dei vicoli.

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    Manifesto della propaganda bellica contro i bombardamenti delle Nazioni Unite del 1943

    Gramsci, il partigiano postdatato

    Sempre nei giorni della ‘bassa marea’ dei luoghi comuni celebrativi e/o retorici, fa capolino, puntuale, una citazione gramsciana: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano”. Tutto molto bello e condivisibile. Ma questa frase fu scritta dal Gramsci socialista e crociano del 1917 sul giornale La città futura, testata altrettanto socialista, in tutt’altro contesto e riferendosi alla Russia e a ben altro concetto di ‘partigiano’.

    È validissima lo stesso, per carità (e per fortuna) ma, diamine, questa frase fu scritta quando qui non solo non c’era ancora nessuna Resistenza né alcun partigiano. Quando non solo non c’era una dittatura, ma quando non esisteva nemmeno un partito fascista, nemmeno i primi fasci. E quando il giovane Mussolini era ancora direttore del Popolo d’Italia, col sottotitolo Quotidiano socialista. Socialista, appunto, al pari dello stesso Gramsci. Odio gli indifferenti anch’io, dunque. Ma certe volte c’è addirittura molta più indifferenza nella partecipazione acritica, inconsapevole. E un certo antifascismo autoincoronato – dico “un certo” – che pure esiste, mi pare vada in vacanza e ritorni a scadenze precise.

    Fascisti e antifascisti

    Altro esempio: a Bologna, per ricordare la caduta del governo fascista si mettono le corone ai caduti di un movimento nato successivamente e a quelli di un fatto precedente alla nascita del suddetto governo.
    Nel frattempo il piucchefascista Dino Grandi (due volte ministro, ambasciatore a Londra) concluse la sua carriera politica con l’ordine del giorno del 25 luglio 1943 che porta il suo nome, determinando per primo la caduta del regime fascista (e venendo perciò dagli stessi fascisti condannato a morte, pur riuscendo a scamparla). Ripudiato da gran parte della destra in quanto ‘traditore’ del fascismo, dalla sinistra in quanto ex fascista tra i primi e maggiori, il suo funerale passò in sordina e la sua tomba resta oggi pressoché dimenticata, con due fiori appena nel cimitero della stessa Bologna, dove all’ufficio informazioni vi chiedono se fosse un partigiano.

    Bisognerebbe domandarsi – e rispondersi correttamente – quanto merito abbia avuto lui, nella Liberazione dell’Italia dal Fascismo. Ecco, mettiamocelo in testa: senza il fascista Grandi, la Liberazione di due anni dopo ce la sognavamo, con e senza quella Resistenza che – come scrisse l’esule Mario Bergamo (mica uno qualunque) – «non deviò d’un centesimo (…) il corso della guerra. Giovò alla liberazione militare dell’Italia quanto il fuoriuscitismo alla sua liberazione civile».

    La Calabria e l’Italia dopo il 25 aprile

    E da noi, in Calabria? Poco e niente, siamo la Calabria di Michele Bianchi, da una parte, e del martire civile Francesco Misiano, dall’altra. Domandatevi chi meriterebbe d’essere conosciuto più e meglio. La prendo alla larga ma è un discorso molto, molto generale, che ha a che fare anche con i fallimenti dell’epurazione. Per farla molto breve: Churchill aveva ragione da vendere quando notava che l’Italia era passata dall’avere 45 milioni di fascisti ad avere il giorno dopo 45 milioni tra antifascisti e partigiani, pur non avendo mai contato 90 milioni di abitanti.

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    Il calabrese Francesco Misiano, deputato comunista. Malmenato ripetutamente dai fascisti, morto in Russia sotto le purghe staliniane, dimenticato in Italia dai comunisti di Togliatti

    Insomma, teniamocela strettissima, questa Liberazione. Ma teniamoci stretto anche il coraggio di chiederci se sulle sue braci – ché di braci si è comunque trattato, e non soltanto dei sorrisi e degli abbracci del 25 aprile 1945 – si sia riusciti a costruire l’Italia meritata e sperata e non invece qualcosa di maldestro, ancora diviso tra bianchi e neri, buoni e cattivi, e con la solita corsa all’oro di ogni tempo, le solite sperequazioni e gli stessi voltagabbana ai posti più o meno di comando.

    Guerra e pace

    Due ultime citazioni per concludere: ve lo ricordate quel film di Scola, C’eravamo tanto amati? La frase, in apertura, «finita la guerra, è scoppiato il dopoguerra» è di Suso Cecchi d’Amico (non di Flaiano – che si espresse, poi, in modo analogo – né di Scola, né degli sceneggiatori Age o Scarpelli). Vent’anni prima ne scrisse una simile proprio Mario Bergamo: «Il Fascismo ha perduto la guerra, l’Antifascismo ha perduto la pace». Intelligenti pauca.

    Cosenza, il quartiere delle Paparelle e di Colle Triglio negli anni ‘20/’30 del Novecento (da L.I. Fragale, Microstoria di Calabria Citeriore e di Cosenza, 2016)

     

  • Maneskin contro Putin? L’Italia del Coachella parla calabrese

    Maneskin contro Putin? L’Italia del Coachella parla calabrese

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    L’edizione di quest’anno passerà alla storia per quel «Free Ukraine, fuck Putin!» urlato dai Maneskin sul palco, ma c’è molto altro. Perché il Coachella Valley Music and Arts Festival è il festival musicale più famoso e instagrammato al mondo. Un raduno di musicisti che si avvicendano sui palchi giorno e notte, ma anche di celebrities e influencer che sfilano sui campi dell’Empire Polo Club di Indio, California. La location e l’atmosfera vagamente anni ’70 sono il vero spettacolo, quello che si svolge a favore di telefonini e si riversa sui social.

    https://www.youtube.com/watch?v=hewbCtVY2LU

    Un tocco di Calabria al Coachella

    Dietro il successo di questa edizione c’è anche l’estro di una giovane professionista calabrese che, insieme allo staff dello studio newyorkese con cui collabora, ha progettato un’installazione coloratissima che fa da cornice alle esibizioni sui palchi del festival e, naturalmente, a migliaia di foto postate con l’hashtag #Coachella.

    Una influencer in posa di fronte a Playground, il progetto a cui ha collaborato Anna Laura Pinto

    Lei è Anna Laura Pinto, cosentina, laurea in architettura a Roma e una valigia sempre pronta perché gli Stati Uniti sono ormai la sua seconda casa. Il Playground, questo è il nome dell’installazione che porta anche la sua firma, «è un pezzo di paesaggio urbano vagamente onirico – spiega – nel bel mezzo del deserto: quattro torri colorate che si raccolgono attorno a una piazza pensata come luogo di aggregazione, gioco, relax e che funziona come tale: durante la giornata, in particolare durante le ore più calde, è frequentatissima».

    Una calabrese a New York

    È appena rientrata dalla California, alle prese con i postumi del fuso orario e la valigia ancora da disfare. «Sono rimasta piacevolmente colpita dall’atmosfera che ho trovato – dice – non c’ero mai stata prima d’ora e ne avevo sempre avuto un’immagine diversa, filtrata dalle foto “glitterate” degli influencer. C’è anche quello ovviamente, ma non è la caratteristica predominante: ciò che è straordinario – dice – è lo spirito positivo che anima la collettività del festival, decine di concerti al giorno e migliaia di persone spinte dalla voglia di condividere la propria esperienza con altri. Da un lato le performance dei musicisti, dall’altra quelle degli spettatori. Un’esperienza del genere non può che fare bene allo spirito, direi che ne è valsa la pena».

    Anna Laura Pinto al Coachella Festival

    Quella del Coachella Festival è un’avventura che per Anna Laura è iniziata nel 2019. Si trovava a New York in quanto collaboratrice oltreoceano di Architensions, un prestigioso studio che ha sede nella Grande Mela e a Roma. «Ero venuta in estate a visitare i cantieri di progetti che avevo seguito a distanza. Poco dopo il mio arrivo – racconta – lo studio è stato invitato dalla direzione artistica del Coachella a partecipare a una gara per il progetto di una delle installazioni artistiche per l’edizione 2020, in competizione con altri artisti e designer».

    Un invito raccolto al volo: «In quel periodo vivevo l’ufficio dall’interno e sono stata subito coinvolta fin dalle primissime fasi nella progettazione dell’installazione. Ricordo perfettamente le lunghe discussioni in ufficio con Alessandro, Nick e gli altri membri del gruppo: quando inizi a lavorare ad un progetto e non sai ancora come si concretizzerà, gli scambi di opinioni sono fondamentali per stabilire dei criteri e capire quale sarà la strada che porterà alla definizione dell’oggetto. Il team è una forza».

    L’idea ha preso rapidamente forma: così è nata Playground. «Personalmente ho sempre avuto fiducia nel design di quest’opera – sorride Anna Laura – ho sempre pensato che aveva buone probabilità di essere selezionata. Ho ricevuto la notizia che il nostro progetto era stato scelto dopo il mio rientro in Italia. Fino a febbraio del 2020 pensavo che sarei tornata negli Usa per il Coachella 2020, poi è arrivata la pandemia ed eccoci nel 2022».

    Dall’Italia agli USA

    Anna Laura Pinto ha già all’attivo diversi successi nella sua carriera, il progetto di una casa a cui ha preso parte è stato pubblicato su Domus, la prestigiosa rivista di architettura e design.
    «Mi sono laureata in architettura ormai tredici anni fa a Roma – racconta -, dove ho iniziato la mia gavetta lavorando in diversi studi. Erano i primi anni ‘10 e molti miei coetanei in quegli anni erano già partiti per fare esperienze altrove. In Italia già allora un giovane architetto aveva poche opportunità di crescita professionale. In Cina c’era moltissima richiesta di architetti occidentali, in Europa le mete più gettonate erano Londra e Berlino. Io ero incuriosita dagli Usa, in particolare da New York che è la metropoli per eccellenza: è normale che un architetto ne sia affascinato.

    E così arriva dall’altro capo dell’Atlantico. «Sono partita per la prima volta nell’estate del 2013, un viaggio studio per perfezionare il mio inglese. Al mio ritorno in Italia ho conosciuto Alessandro Orsini, architetto italiano ed ex project designer dello studio Steven Holl che aveva da poco fondato Architensions con Nick Roseboro. Da lì a breve è nato il nostro rapporto di collaborazione. Al tempo l’ufficio era ancora molto giovane, ma mi sono trovata subito in linea con la loro maniera di fare e pensare l’architettura. In poco meno di dieci anni sono cresciuti molto, ed io con loro».

    Di nuovo in Calabria

    Ma nel presente e nel futuro di Anna Laura c’è sempre anche la Calabria. «Dopo aver lavorato ad una serie di progetti negli Stati Uniti, attualmente sono la referente sul versante europeo. Abbiamo da poco ultimato un progetto residenziale a Londra e stiamo studiando un piano per la riqualificazione e lo sviluppo di un paesino proprio qui in Calabria, Architensions è stato ufficialmente invitato dal sindaco. Un’ottima occasione di studio e approfondimento, sono contenta di poter portare avanti questa ricerca in un team internazionale: lo scambio di visioni dovute a esperienze in contesti molto diversi penso possa aggiungere valore al risultato finale».

    Un legame forte quello con la sua terra, in particolare con Cosenza, dove è tornata a vivere dopo il primo periodo negli Stati Uniti. «Ho fatto base qui per tutto questo tempo, trascorrendo lunghi periodi a New York e a Roma, sempre con un occhio verso l’esterno. Però non l’ho mai abbandonata. È un rapporto basato fondamentalmente su un legame d’affetto, ma penso che Cosenza sia una città che ha molto da raccontare, piena di potenzialità inespresse che mi auguro possano essere valorizzate. Ancora è presto per entrare nello specifico – conclude – ma devo dire che alcune collaborazioni sono nate proprio in Calabria, dove ci sono degli ottimi professionisti e dove esiste una vivacità intellettuale e culturale che merita di emergere».

  • La città unica della Valle del Crati oltre i campanilismi di Cosenza e Rende

    La città unica della Valle del Crati oltre i campanilismi di Cosenza e Rende

    Il tentativo di riprendere le fila di un discorso riguardante Cosenza e l’area urbana nel suo complesso, rivitalizzare il tessuto urbano e dare respiro e corpo alle realtà da sempre gravitanti sulla città bruzia, via via reso sempre più complesso ma per ciò stesso più intrigante e bisognoso di interventi strutturali e non effimeri, com’è testimoniato dagli interventi succedutisi su I Calabresi, va sostenuto e alimentato: sta lievitando con profondità di analisi e qualità di proposte.

    È questo il pensiero maturato dopo aver attentamente studiato i testi, fra gli altri, di Scaglione, Pellegrini, Principe, Francini, a valle di miei contributi a più riprese pubblicati.

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    Cosenza vista da Portapiana (foto Alfonso Bombini)

    Il ritorno dell’urbanistica

    Se la parola chiave è ridare fiato all’urbanistica, e perciò alla pianificazione, il corollario immediatamente successivo è area vasta e subito dopo rete della sostenibilità, dei paradigmi della giustizia sociale, delle radici storiche e del patrimonio culturale, come leve da utilizzare e contemporaneamente orizzonti verso cui traguardare.

    Interrogarsi sui perché lo strumento della pianificazione sia stato di fatto messo da parte potrebbe di per sé essere argomento di un corposo dibattito: qui è forse il caso di riprenderne uno, fra i più significativi a mio parere. L’aver, cioè, a più riprese esternato che la pianificazione rigida era da superare con visioni più elastiche nonché interconnesse, ma di fatto solo esternato e non praticato, in considerazione anche del fatto che i mutamenti repentini quanto frequenti nei quali siamo immersi hanno vanificato la proiezione temporale quanto funzionale di insediamenti e installazioni.

    L’area urbana della valle del Crati

    Oggi può essere giunto il momento, però, di coniugare le crisi di vario genere che ci assediano con le opportunità a disposizione per andare al di là di una resilienza vissuta spesso come alibi e di un transeunte particulare da superare con traguardi di ampio respiro.
    Un respiro ampio che si propone, appunto, come superamento di una visione intra moenia e rilancia sul versante dell’area urbana che vede la valle del Crati come sede geografica e sociale, storica e sociale, culturale e infrastrutturale, produttiva e moderna di un intervento a largo raggio. Sostenibilità, giustizia sociale, radici storiche, patrimonio culturale si ponevano prima come vertici di un quadrilatero entro il quale ragionare e operare, per superare angustie, provincialismi, sempiterne lotte da campanile, senza cenno alcuno – almeno finora – sugli importanti giacimenti di presenze industriali e gli altrettanto significativi esempi produttivi.

    Contributi diversi per costruire la città unica

    Se il ruolo politico amministrativo è naturalmente da ritenere centrale oltre che decisivo, il compito dei tecnici e di coloro che esercitano un ruolo di cittadinanza attiva propositiva non è da meno. Da questo punto di vista non è da sottacere una serie di posizioni ma anche di elaborazioni avanzate negli ultimi anni, oltre e insieme a quelli citati in premessa. Elaborazioni che facendo tesoro di quanto emerso in sede europea e della discussione maturata in sede antropologico-ingegneristica portano a rivedere per un verso l’angustia della bipolarità in cui si vorrebbe relegare la questione “area urbana”, per altro l’impianto lineare dell’armatura dell’area urbana stessa.

    Sono infatti più di uno i centri che nella valle del Crati, in destra quanto in sinistra, che aspirano e hanno titolo sia a fornire contributi in termini di servizi e funzioni e attività che a richiedere prestazioni proprie di una città metropolitana, moderna, evoluta, sostenibile, giusta: una città polifunzionale, condivisa, prestazionale.

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    Il centro storico di Cosenza

    La nuova città parte dal centro storico

    Rivedere l’impianto lineare secondo il quale l’area cosentina si è sviluppata, per motivi che qui non è il caso riprendere, è una maniera alternativa di affrontare l’argomento: la visione circolare della Grande Cosenza, comunque la si voglia chiamare, è un progetto al quale da anni si è dedicata l’associazione Prima che Tutto Crolli che partendo dallo studio e dall’interesse per il centro storico cosentino ha realizzato in termini subitanei che occuparsi del cuore antico di Cosenza implica ed è propedeutico al lavoro per una nuova città, più grande, più vivibile, più aperta al sociale, più innervata nelle radici.
    Una città circolare in cui il diametro va al di là a sud del Castello, e a nord fin oltre l’Università, a est e a ovest sulle Serre e in Presila: abbiamo pure individuato una dimensione lineare da assegnare alla circonferenza di questa nuova città circolare, con proposte funzionali e insediative coerenti.

    Se la politica, come pure un tempo faceva, volesse aprirsi a un confronto nulla impedirebbe di tentare una via virtuosa fra decisori istituzionali e cittadini responsabili.

    Massimo Veltri
    Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica

  • Dopo Mancini il declino: Cosenza rischia il collasso

    Dopo Mancini il declino: Cosenza rischia il collasso

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    Il dibattito sull’area urbana (e, in prospettiva, sulla città unica) è un braccio di ferro tra gli opposti campanilismi di Cosenza e Rende.
    Le ultime puntate di questa contesa si sono concentrate sui rapporti tra i due territori, ciascuno dei quali ambisce alla centralità, o se si preferisce, supremazia.
    Ma questi rapporti sono l’esito di visioni politiche diverse: più territoriale quella di Rende, più evanescente quella di Cosenza, che sconta ancora il fatto di essere stata la sede del potere calabrese della Prima Repubblica.

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    Cecchino Principe, sindaco di Rende dal 1952 al 1980

    Rende: il paese diventa città

    Il paragone tra Cosenza e Rende è possibile solo a partire dal ’93, quando con l’elezione diretta dei sindaci e la fine della finanza derivata le amministrazioni locali si sganciano dai partiti.
    A rivedere le cose col senno del poi, balza agli occhi un paradosso: la dimensione paesana da cui è partita Rende si è rivelata alla fine un vantaggio, perché ha esemplificato tantissimo le dinamiche politiche.
    Ciò che non è avvenuto nella complicatissima Cosenza.

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    Sandro Principe

    Caos a Cosenza e “ordine” a Rende

    I numeri, come sempre, aiutano a chiarire: dal 1946 al 1993 il capoluogo ha avuto diciassette sindaci e due commissari prefettizi, per una durata media di poco meno di tre anni per primo cittadino.
    Al contrario di Cosenza, Rende ha avuto otto sindaci e nessun commissario.
    La statistica più impressionante riguarda Cecchino Principe, sindaco dal 1952 al 1980. Per restare nei paragoni, si pensi che Cosenza, nello stesso periodo, ha avuto sei sindaci, il più duraturo dei quali è stato Arnaldo Clausi Schettini.
    Con gli occhi di oggi, questa discrepanza sembra disordine (e spesso lo era). In realtà era il normale funzionamento di un’amministrazione comunale col vecchio sistema, in cui il sindaco era nominato dal consiglio comunale.
    Di più: mentre le città con demografia consistente e tradizioni politiche (e di potere), presentavano spettacoli simili a quello di Cosenza, i centri più piccoli, come Rende, appunto, avevano la classica figura del sindaco “a vita”, che riusciva a imporsi grazie alle liste civiche costruite su misura e a eventuali liste di partito più o meno compiacenti.

    Qual è stata, allora, la differenza tra Rende e i tanti paesi della Corona? La leadership di Cecchino Principe fu costruita da due fattori: un ruolo forte in un partito, il Psi, centrale negli equilibri politici del Paese, e un forte consenso sul territorio,
    Lo stesso meccanismo si è ripetuto per Sandro Principe, sindaco dall’80 all’87, che addirittura stravince nell’85 con un consenso bulgaro.
    A differenza di Cosenza, dove i galli nel pollaio erano troppi, a Rende il Psi era egemone e i Principe lo controllavano in maniera ferrea. Questo ha consentito alla dinastia del Campagnano di puntellare senz’altro la propria leadership e il proprio potere, a dispetto della crescita demografica, ma anche di fare gli interessi del proprio territorio, trasformandolo da un paesone di circa 14mila e rotti abitanti in una cittadina che oggi è quasi il triplo.

    La lenta agonia di Cosenza

    Il paragone più serio tra i due sistemi politici si può fare dal ’93 a oggi. E purtroppo bastona Cosenza.
    Al riguardo, emerge un altro paradosso: il capoluogo arretra vistosamente nel momento in cui i sindaci, dotati di poteri maggiori grazie all’elezione diretta, avrebbero potuto invece rilanciare il territorio o, perlomeno, frenarne il declino.
    La storia della Cosenza della Seconda Repubblica è la storia di un’agonia prolungata, interrotta qui e lì da qualche sussulto. Rende ha continuato a capitalizzare il ruolo dell’Unical, soffiata da Cecchino a Piano Lago, e si è puntellata a nordest, in direzione della Valle del Crati e della Sibaritide.
    Il capoluogo, al contrario, ha perso un pezzo dopo l’altro. E, soprattutto, ha perso la cassa.

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    Giacomo Mancini durante la sua sindacatura

    Don Giacomo: dopo di lui il diluvio?

    Il vecchio Giacomo Mancini intuì per primo la fine dei partiti e comprese al volo il nuovo sistema elettorale. Vinse nel’93 e stravinse nel ’97.
    Nei suoi nove anni e rotti di sindacatura (e di vita), Mancini cantierò opere e progetti tali da impegnare la città per i cinquanta anni successivi. Alcune di queste iniziative sono state realizzate quindici anni dopo: è il caso del Ponte di Calatrava e del rifacimento di piazza Bilotti, che allora si chiamava ancora “Fera”.
    Altre, invece, sono finite in nulla, come la metro leggera. Altre ancora hanno avuto uno sviluppo problematico: è il caso di viale Parco.
    Con lui è iniziato anche lo stress delle casse comunali, trasformatosi prima in dissesto più o meno “mascherato” e poi in default.
    I debiti dell’era Mancini non sono solo finanziari: il ricorso alle cooperative “b” ha ingessato la pianta organica del Comune e creato meccanismi elettorali un po’ viziati che pesano tuttora.
    Il rilancio del centro storico, il tentativo di puntellare a sud l’area urbana e il risveglio culturale della città sono gli aspetti più significativi di quell’amministrazione.
    Che ha avuto un solo limite: la presunzione di immortalità del vecchio Giacomo, che ha attivato dinamiche che lui solo sapeva gestire.
    Voto 9. Al netto del campanilismo, 7.

    Eva Catizone, quando era sindaco di Cosenza

    Eva, l’erede senza qualità

    Erede o fantasma? Eva Catizone è diventata sindaca a trentotto anni in qualità di erede del vecchio Giacomo.
    Ha stravinto anche lei, sulla scia dei consensi (anche emotivi) maturati nel decennio d’oro.
    La sua sindacatura, durata poco meno di quattro anni, è stata la prosecuzione dell’era Mancini. Ma è stata una prosecuzione scialba, perché i partiti, nel frattempo, avevano ripreso il loro ruolo e perché le vicende private si sono incrociate con i doveri pubblici.
    È quasi superfluo ricordare la turbolenta relazione con Nicola Adamo, all’epoca leader dei Ds. Lo facciamo solo perché quella vicenda rimbalzò agli onori delle cronache nazionali.
    Tutto lascia pensare che Eva, troppo giovane e fino a quel momento blindatissima, sia stata sopraffatta da una situazione e da un ruolo più grandi (e gravi) di lei. Infatti, è finita defenestrata da un golpe di palazzo da Prima Repubblica, tra l’altro accompagnato da una tragedia.
    Ci si riferisce alla morte di Antonino Catera, il giornalista che seguì quell’ultimo Consiglio, di cui non riuscì a scrivere perché stroncato da un infarto. Di lei si ricordano il Museo all’aperto, i cordoli a corso d’Italia (oggi Fera) e il cambio di denominazione di piazza Fera in Bilotti. Troppo poco.
    Voto 4.

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    Salvatore Perugini diventò sindaco di Cosenza nel 2006

    Salvatore, il galantuomo immobile

    Non basta essere galantuomini, né basta lo spessore politico. Amministrare può essere davvero un inferno.
    La sindacatura di Salvatore Perugini resta una parentesi di Prima Repubblica nella storia recente di Cosenza. Vecchie liturgie, vecchi equilibri e vecchi ricatti.
    Eppure, la rottura con gli ambienti socialisti che rivendicavano l’eredità di Mancini poteva essere l’occasione buona per fare i conti col vecchio Leone. Soprattutto, per archiviare nostalgia e retorica, che già allora si facevano sentire.
    I retroscena dell’epoca raccontano di un Perugini che ha rifiutato l’ipotesi del dissesto, per cui già allora (2006) ci sarebbero stati gli estremi. E che ha amministrato cercando di sforbiciare le spese e di nascondere la polvere sotto i tappeti.
    Ostaggio di una maggioranza rissosa, in cui covavano gli oppositori più feroci (e sleali), Perugini ha navigato a vista, tra un rimpasto e l’altro e rincorrendo i consiglieri per non andar sotto.
    Nel frattempo, il centro storico è regredito, le opere pubbliche si sono bloccate e la demografia ha accelerato la discesa. Di più: viale Parco, fiore all’occhiello dell’urbanistica secondo Mancini, si crepa e finisce al centro di un’inchiesta giudiziaria.
    Arte della sopravvivenza e immobilismo più il mancato coraggio del parricidio.
    Voto: 5.

    Occhiuto 1: Cosenza tenta la rimonta

    Al collasso di Perugini è seguito il crollo del centrosinistra, dovuto soprattutto alla litigiosità interna.
    Mario Occhiuto batte Paolini al ballottaggio nel 2011 e diventa il primo sindaco di centrodestra. Sebbene alle sue spalle ci fossero, così sussurrano i maligni, alcuni notabili del Pd, in particolare Nicola Adamo.
    L’archistar, fratello maggiore dell’attuale presidente della Regione, cerca di darsi da fare per rilanciare la città. Abbellisce dove e come può, cerca di incentivare il terziario e di opporsi alle presunte “prepotenze” rendesi.
    A un certo punto, si oppone anche alla metro di superficie, finanziata poco prima della sua sindacatura. Apre cantieri e continua la pedonalizzazione del centro città.
    I risultati sono più formali che altro, ma riesce comunque a far vedere qualcosa. Ad esempio, l’avvio del cantiere di piazza Bilotti. Lo ferma un golpe di palazzo sei mesi prima della scadenza del suo mandato.
    Nel frattempo, è sopravvissuto alla rottura coi Gentile e alla crisi regionale del centrodestra.
    Voto: 6 meno.

    Occhiuto
    Mario Occhiuto è stato per due volte sindaco di Cosenza

    Occhiuto 2: la rivalsa mancata

    Nel 2016 Mario Occhiuto stravince in scioltezza contro un fronte avverso diviso e indeciso. Polverizza Paolini e Guccione e si insedia alla guida di una maggioranza più forte.
    Porta a termine piazza Bilotti e realizza il ponte di Calatrava. Ma sono i suoi unici successi seri. Nel frattempo, il bilancio collassa, e alcune opere mostrano le proprie inadeguatezze: è il caso del parcheggio di piazza Bilotti.
    Anche il maggior dialogo con Rende, propiziato da Marcello Manna, non dà i suoi frutti. Ma tant’è: Occhiuto termina il suo mandato tra chiacchiere e polemiche. La sua eredità, affidata a Francesco Caruso, non è accettata dai cosentini.
    Voto 5 meno.

    E Rende resiste

    Cosenza, in tutti questi anni, perde circa 20mila abitanti. Rende, invece, continua a tener botta. Meno convegni, meno lustrini, più opere: è il caso di viale Principe, realizzata durante l’era di Umberto Bernaudo. Oppure di via Rossini, completata nello stesso periodo dal nuovo municipio, che scende a valle l’amministrazione e puntella la città a nordest.
    Soprattutto, non c’è il collasso demografico del capoluogo, perché i residenti oscillano tra i 33mila e i 35mila. L’edilizia si ferma e alcune opere mostrano la corda. Ma l’assetto urbano regge e l’economia tiene. Tant’è che Marcello Manna, che pure aveva battuto lo schieramento principiano, parla con rispetto della tradizione riformista cittadina. Lo ha fatto anche di recente, cercando di arruolare la figura di Cecchino Principe per colpire Sandro.

    Miseria e nobiltà

    La nobile è decaduta e l’ancella le ha fatto le scarpe. Da centro, Cosenza è diventata periferia. Resta una città invecchiata e in spopolamento, incapace di tutelare anche le sue memorie perché nel frattempo l’anagrafe ha cancellato i grandi notabili che le tutelavano.
    Il declino è uguale per tutti, ma su alcuni grava di più. Inutile dare altre pagelle, perché scopriremmo che anche i sindaci di Rende non sono il massimo.
    Ma una cosa è non capitalizzare appieno le potenzialità acquisite negli anni, un’altra è disperdere un patrimonio, arte su cui la classe dirigente cosentina si è dimostrata imbattibile.

  • Malara parla ma non conosce il Psc di Rende

    Malara parla ma non conosce il Psc di Rende

    La rigenerazione urbana degli anni ’90, con Mancini sindaco a Cosenza, attraverso il metodo storico, riproponeva itinerari identitari di storia e cultura, arte e cultura, natura e cultura e l’incomparabilità del percorso di Cosenza consisteva proprio nella valorizzazione dei suoi itinerari identitari.

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    Giacomo Mancini durante la sua sindacatura

    Mancini, il viale omonimo e il centro storico

    Con Mancini sindaco a Cosenza era nata infatti l’idea di un progetto di storia e cultura come sistema dell’area urbana che aveva come obiettivo una riqualificazione non solo fisica ma anche funzionale più idonea alla identità territoriale del centro storico: un progetto culturale ampio che si intrecciava nella città vecchia con un progetto di storia e cultura lungo l’itinerario identitario, che si identificava con il corso Telesio in continuità con il viale Mancini dove venivano collocate le più importanti scuole cittadine; nella città moderna il progetto culturale s’intrecciava col progetto di arte e cultura lungo il corso cittadino e nel territorio col progetto di natura e cultura dei parchi.

    Malara e Vittorini: le periferie al centro delle città

    Ritornando indietro di ancora venti anni nella storia urbanistica locale, la cittadinanza onoraria a Rende data recentemente all’architetto Empio Malara dall’amministrazione è un giusto riconoscimento per avere svolto insieme a Marcello Vittorini certamente un ruolo determinante contribuendo a scrivere un capitolo importante della storia delle due città, Cosenza e Rende, con una pianificazione omogenea e una visione di insieme.
    In quell’epoca, eravamo agli inizi degli anni 70, si sognavano territori più giusti e con gli assi attrezzati si immaginava di portare sviluppo nei territori emarginati dalla povertà e dal disagio sociale e se Vittorini a Cosenza con l’asse attrezzato immaginava di superare il degrado economico e sociale unendo i due quartieri emarginati di via Popilia e del centro storico, a Rende l’architetto Empio Malara, con sindaco Francesco Principe, progettava il quartiere Europa che oggi è una piacevole centralità urbana innovativa di edilizia economica e popolare con elevate qualità ambientali. Avevano l’obiettivo comune di portare al centro le periferie e lo facevano con ricette diverse per la costruzione di un mondo migliore nei differenti periodi storici quando hanno governato.

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    L’architetto Empio Malara

    La cultura scomparsa dalla pianificazione delle città

    Ogni città ha una storia unica e irripetibile e questo vale anche per Cosenza e Rende e l’esperienza diretta ci insegna la molteplicità delle storie, l’incomparabilità dei percorsi ma è a partire dalle diversità che si possono cogliere similitudini e magari comprendere meglio i territori futuri.
    Oggi per avere città più giuste e felici avvertiamo la necessità che occorrerebbe con urgenza adottare una metodologia complessa che deve indagare gli insediamenti esistenti e riconoscere le possibilità di sviluppo dei territori con uno sguardo retrospettivo che ci aiuti a riconoscere i territori per progettare il futuro affinché la cultura torni ad essere antidoto alla crisi, cibo per la mente e non solo e la conoscenza volano di risorse economiche e di integrazione.
    Purtroppo è avvenuto che la cultura non è più antidoto alla crisi, le città si sono impoverite, i giovani soffrono la mancanza di lavoro e aumenta il disagio sociale e la città moderna si è allontanata dalla natura e dalla storia.

    La storia dell’urbanistica contemporanea forse ci dice che è scomparsa la cultura della pianificazione intesa come quel complesso di conoscenze, competenze credenze proprie di una classe o di una categoria sociale di un ambiente legato al bene comune di un territorio anche perché purtroppo la storia dell’urbanistica locale è stata la non pianificazione: si è progettato per singoli interventi senza nessuna visione d’insieme nella quale la nuova opera andava a collocarsi. Oggi occorre ricucire l’area urbana ricominciando dall’identità storica di Cosenza e Rende, ritrovando l’armonia che i territori avevano con la natura e la storia.

    Il centro storico di Cosenza

    Malara non conosce il Psc di Rende

    Empio Malara dice: «Sarebbe fantastico avere l’Università in continuità diretta con la città e la parte storica facilmente accessibile». Ed esprime alcune idee visionarie per migliorare l’accessibilità soffermandosi sulla via degli Orefici, l’attuale corso Telesio. L’architetto Empio Malara non conosce i contenuti del Psc di Rende ma abbiamo ascoltato con attenzione i suoi suggerimenti che accettiamo volentieri in quanto in linea con gli indirizzi dell’amministrazione.

    Infatti nel Psc che stiamo proponendo a Rende innanzi tutto il viale Francesco e Carolina Principe non si ferma a piazza Rossini come previsto nella variante generale al Prg di Gianfranco Malara e Federico Parise ma arriva all’Unical ricucendo l’area urbana e unendo il centro storico di Cosenza con l’Unical completando così l’itinerario di cultura e storia della prima rigenerazione di Giacomo Mancini a Cosenza.

    Con il sistema delle infrastrutture abbiamo previsto il collegamento dei luoghi centrali dei quartieri identitari di Roges, Commenda, Quattromiglia sulla base di percorsi privi di incompatibili interferenze determinate dal traffico veicolare privato; la pedonalizzazione e la riqualificazione funzionale faranno incontrare la gente e l’attività di relazione e di incontro prenderà il sopravvento su ogni altra come avviene a Cosenza nel corso principale; dai luoghi centrali dei quartieri di Rende la mobilità pubblica si ricollega al viale Giacomo Macini: si ricuce così il tracciato della continuità storica identitaria del legame tra storia e cultura dell’ Unical e del centro storico di Cosenza.

    Non solo parchi fluviali

    Con il sistema dei parchi fluviali e dei cinque parchi naturali previsti, con il sistema della tutela ambientale e la riduzione del rischio idrogeologico, con il consumo di suolo 0, il Psc ripristina il reticolo idrografico nella sua interezza nel rispetto dei vincoli tutori e inibitori e del Piano generale rischio alluvioni, sottrae all’utilizzazione edilizia, rispetto alle previsioni della variante gnerale al Prg, aree con estensione complessiva di circa 295 ettari (2.959.143 mq) e rispettivi volumi perché aree classificate nella classe 4 di fattibilità di massimo rischio, prevede cinque parchi naturali e infine ma non in ordine di importanza prevede la rigenerazione e la bonifica dei siti degradati.

    Rende è senza dubbio, insieme a Cosenza, la città che può indirizzare il processo di creazione di un sistema policentrico in grado di definire un sistema di attrezzature e servizi di supporto all’ampio bacino provinciale, adeguato alla presenza importante del più avanzato centro di ricerca e studi dell’Università della Calabria.

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    L’Università della Calabria

    Norme e standard

    Il sistema dei servizi, delle infrastrutture, degli impianti e del verde viene suddiviso nel Psc in servizi e attrezzature pubbliche di livello generale e locale in conformità al D.M. 2 aprile 1968 n.1444 distinti dalle aree per attrezzature pubbliche o private di uso pubblico. In conformità all’art. 20 della Lur, nel Psc viene assicurata la rigorosa applicazione del Dm 02/04/1968 n. 1444 con la previsione degli standard da rispettare inderogabilmente e senza alcuna possibilità di modifica. Sono individuati gli Ambiti territoriali unitari che costituiscono le stanze urbane della città di Rende e in ognuna viene garantita la dotazione minima di servizi e attrezzature pubbliche in conformità al D.M. 02/04/1968 n. 1444.

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    L’architetto Daniela Francini

    In ogni ambito è garantita una dotazione di standard superiore di molto rispetto ai precedenti piani. La dotazione di aree per standard urbanistici del Psc raggiunge i 58,00 mq/ab più del doppio dei minimi fissati dal QTRP e supera di molto i minimi fissati dalle norme nazionali; a questi vanno aggiunte le aree destinate a servizi di livello territoriale che comprendono la vasta area del campus Unical e le aree da rigenerare a parchi naturali e/o oasi urbane e cinque nuovi parchi naturali. Pertanto la dotazione di standard urbanistici previsti risulta di gran lunga superiore alla dotazione minima richiesta per legge e confermano il ruolo di Rende città parco centro culturale dell’area urbana.

    Fare fronte alla sfida della competizione globale salvaguardando equilibri e risorse locali, valutando compatibilità e effetti di interdipendenza tra progetti di infrastrutture, sistemi insediativi, patrimonio paesistico, corridoi ambientali, assetti sociali e occupazionali per lo sviluppo storico di un gruppo sociale suppone un processo storico all’interno di un contesto culturale e ben venga il protagonismo degli attori sociali locali a partire dalla loro propria cultura.

    Daniela Francini

    Architetto

  • La danza di Scanderbeg

    La danza di Scanderbeg

    Qualcuno si spinge fino al Ponte del diavolo. A piedi i più temerari, in sella a vecchi fuoristrada Iveco i meno abituati alle insidie della salita. Sono le prime ore del pomeriggio di un martedì che a Civita e nelle altre comunità dell’Arbëria  ha un significato particolare per le Vallje. Come ogni anno, dopo la Pasquetta, queste antichissime danze segnano il calendario dei paesi albanofoni. Senza la minima tentazione di chiamarli borghi.

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    Vallje a Civita, nel cuore del Pollino (foto Alfonso Bombini 2022)

     

    L’origine delle Vallje non si perde nella notte dei tempi. Nascono per rinsaldare quel legame profondo tra l’Arbëria, la sua storia, la madrepatria. E rievocano un episodio particolare con la forza di diventare un mito fondativo: la vittoria del condottiero Giorgio Castriota Scanderbeg sui turchi nella città di Kruja. Era il 24 aprile 1467. Anche allora era il primo martedì dopo Pasqua.

    Scanderbeg è l’icona più forte in possesso degli albanesi d’Occidente. Al pari della bandiera rossa con l’aquila nera. Immancabile anche ieri a Civita (Çifti). Al lato del palco, forse 3×6, ha accolto il Presidente della Repubblica d’Albania, Ilir Meta.

    Vallje a Civita: da tradizione d’Arbëria a festival del folklore

    C’è qualcosa di immutabile e al contempo rivoluzionario nella cultura di questo popolo, come ricorda lo scrittore Carmine Abate da Carfizzi. Due anni di fermo non hanno fiaccato la voglia di riportare in vita tradizioni così radicate. La pandemia si è fatta sentire e continua a rosicchiare tempo e destini. Ieri il ritorno della sfera pubblica. In una piazza militarizzata con transenne ovunque.

    Misure di sicurezza per garantire protezione a Ilir Meta. Un paradosso difficile da non notare: danze circolari hanno da sempre avvolto autoctoni e forestieri, adesso sono diventate uno spettacolo da festival del folklore. Con un copione imposto. Va bene lo stesso. Ma gli occhi di chi ne ha viste tante tradiscono il disappunto per un rito ormai confinato a beneficio di smartphone e fotografi veri o improvvisati con gli immancabili teleobiettivi parabellum. Quasi a volere entrare dentro il corpo di una comunità. Che invece si lascia attraversare allargando lo sguardo.

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    Il presidente della Repubblica albanese, Iril Meta, in visita a Civita (foto Alfonso Bombini 2022)

    Da San Marzano a Civita

    Ci si ritrova un po’ tutti in piazza, calabresi e non. Persino “Katundi Joni”, gruppo proveniente da San Marzano di San Giuseppe, in provincia di Taranto. Una città meridiana più vicina del capoluogo Catanzaro al piccolo centro del Pollino. Più vicina non solo su Google maps.
    Ne fa parte la signora Carmela. Per la prima volta partecipa alle Vallje. Ma in qualche modo ha un profilo levantino come le stesse Calabrie di quassù. Canta a squarciagola e balla insieme ai suoi compaesani. In Puglia organizza rappresentazioni teatrali rigorosamente in lingua arbëreshë.

    Mancano fiumi di anice

    Pochi metri più dietro qualcuno chiama: «Professo’!». Si gira un signore anziano in camicia bianca e cravatta rossa. Uno dei pochi a sfidare una primavera mascherata da quasi inverno. Inizia a intonare canti, accompagnato da un organetto e un tamburo. Lo suona un tipo coi baffi che sembra un gitano dei film di Emir Kusturica. Vengono da Cerzeto e poco dopo li raggiunge pure il sindaco Rizzo. Nemmeno lui vuole perdersi rito e presidente Meta. Manca l’anice che invece nella vallja “eretica” e carnevalesca di Cervicati scorre a fiumi.

     

    Civita, per le Vallje ecco gli stranieri in Arbëria

    Gli occhi di giovani e meno giovani si posano su un cappello rosso che fa pendant col rossetto. Armata di ballerine ai piedi, sorride e gira video con il cellulare. Quel che resta delle intenzioni cariche di testosterone vittorioso sul colesterolo postpasquale si riversa su di lei. È inglese.

    Non mancano olandesi con figli piccoli, francesi e tedeschi a loro agio in t-shirt. Senza il bisogno di abbigliamento tecnico comprato nella non lontanissima Decathlon di Corigliano-Rossano. La tragedia del Raganello è alle spalle, non il ricordo delle vittime. Qui si viene volentieri. Case Kodra e buon cibo. Gente ospitale.

    Per fortuna la fisiologica passerella della politica non ha ammorbato troppo il pomeriggio di Civita. Tutti hanno già dato al mattino. Tributando saluti a effendi Iril Meta. Adesso il sole taglia queste montagne alle spalle. Il mare si concede ancora alla vista. L’organetto accompagna per l’ultima volta le Vallje di Çifti.

     

  • Rende: Malara, Manna e l’isola che non c’è

    Rende: Malara, Manna e l’isola che non c’è

    Egregio Direttore, mi riferisco a vari articoli apparsi sul suo giornale che hanno avuto ad oggetto l’urbanistica della città di Rende e, in particolare, ad un suo editoriale, dove Lei riconosce che Sandro Principe, unitamente ai suoi collaboratori, a partire dal 1980, ha «cambiato il gioco» nel governo del territorio. Pur evitando di giudicare se il nuovo gioco fosse «giusto o sbagliato», riconosce però che esso è risultato «redditizio per Rende».

    Un gioco redditizio

    Mi soffermo sul termine «redditizio», perché esso va ben oltre l’allocuzione «nell’interesse», che già mi avrebbe molto gratificato, poiché se un sindaco riesce a fare cose redditizie per la comunità che rappresenta vuol dire che ha fatto ampiamente il suo dovere. Dispiace constatare che l’architetto Empio Malara non riesca a farsi una ragione che l’attuale assetto urbano di Rende è tutt’altra cosa rispetto a quello disegnato con il suo piano regolatore redatto circa sessant’anni fa.

    Il Malara milanese aveva concepito una periferia, un dormitorio di lusso, un “non luogo”, senza punti di riferimento. Noi, come Lei acutamente ha osservato, abbiamo cambiato il gioco e abbiamo disegnato e costruito una città ricca di infrastrutture civili, sociali, religiose, scolastiche, culturali, commerciali, economiche e del tempo libero, centinaia di opere non previste dal Piano di Empio Malara. Mentre Malara si dedicava all’esercizio della sua professione a Milano, noi osservavamo e studiavamo la realtà ed i tempi che cambiavano. Ed abbiamo così realizzato una città di sosta, costitutiva dell’area urbana, che senza la “nostra” Rende” non esisterebbe.

    Malara su Rende? Un conservatore

    Malara cerca di nascondere dietro la grande figura di Cecchino Principe il suo conservatorismo, che lo ha reso incapace di comprendere che non si erano verificati i presupposti (l’industrializzazione a nord e l’esercizio del ruolo guida della città di Cosenza) su cui si basava la programmazione degli anni ’60 del ventesimo secolo. Si aggiungano, inoltre, gli effetti sul territorio della imprevista (dal Malara) presenza dell’Unical, che incominciarono a farsi sentire nei primi anni Ottanta. Mio padre, che era una persona intelligente ed un riformista, non si impiccò sul vecchio schema e seguì con interesse e soddisfazione il nostro lavoro. Mai ha pronunciato una parola di dissenso, ma sempre giudizi ricchi di apprezzamento.

    Il Malara, forse su suggerimento di qualche ex politico di passaggio, oppure perché ormai estraneo al nostro territorio cosentino che non vive da decenni, afferma con leggerezza che Sandro Principe ha fatto di Rende «un’isola di 35.000 studenti e 35.000 abitanti». Intanto, si osserva che il Malara ci fa, senza rendersene conto, un complimento, perché non è certamente poca cosa amministrare una città con 70.000 utenti da servire con i trasferimenti governativi rapportati a 35.000 abitanti.

    Il territorio circostante

    Inoltre, con il suo dire evidenza di vivere in un’altra epoca, giacché dimostra di ignorare tutte le grandi infrastrutture che integrano Rende con il territorio circostante, dal ponte De Luca, che unisce Roges a via Cosmai, dallo svincolo dell’Unical che la collega alla SS 107, dal viale Francesco e Carolina Principe alla 19 ter, con i ponti sull’ Emoli e sul Surdo, che delimitano la camera urbana, dalla strada Santa Chiara-Settimo, che ha permesso di unire le zone industriali di Rende e Montalto, al prossimo svincolo di Settimo dell’autostrada del Mediterraneo, tutte opere non previste dall’architetto meneghino; a voler tacere della metro CS/UNICAL fatta fallire dal duo Occhiuto-Manna.

    Rende, Malara e l’isola che non c’è

    Altro che «isola»! Abbiamo costruito un pezzo di città degna di questo nome al centro dell’area urbana di Cosenza, collegandola con il contesto territoriale, ponendo così le basi per la città unica Cosenza-Rende, di cui diffusamente parleremo in un prossimo scritto.
    L’Empio oggi si sofferma sulla città unica basata sulle eccellenze rappresentate dal centro storico di Cosenza e dall’Unical, copiando il piano di sviluppo del PIT n. 8 “Serre Cosentine”, titolato “CORE”, elaborato durante la presidenza di Sandro Principe, con il sostegno di Giacomo Mancini e, successivamente, di Eva Catizone.

    E, a scanso di equivoci, è utile ricordare che l’immenso patrimonio di verde di cui gode Rende, città parco, è stato impiantato quasi per intero dal Comune a partire dagli anni ‘80, quando il Malara si era allontanato dalla nostra città, avendo egli privilegiato il giardinetto di condominio, peraltro ostativo delle attività commerciali, con le recinzioni nemiche della socialità.

    Cosenza e il ruolo di Manna

    Debbo per ultimo, stigmatizzare i curiosi consigli dati dal Malara al sindaco di Rende. Passi per il suggerimento di spostare nel centro storico di Cosenza pezzi di Unical, operazione non fattibile funzionalmente e statutariamente, perché un Ateneo residenziale con organizzazione dipartimentale non è smontabile per far piacere ad interessate visioni; ma arrivare a suggerire all’avvocato Manna cosa egli dovrebbe fare per recuperare Cosenza storica mi sembra istituzionalmente irrispettoso per gli attuali reggitori del Comune di Cosenza.

    Non una parola di critica, invece, al piano Manna-Francini, che se approvato ed attuato sconvolgerà l’assetto urbano della nostra città; anzi, durante la discussione in consiglio comunale per il conferimento al Malara della cittadinanza onoraria, abbiamo ascoltato, con grande meraviglia, parole di incoraggiamento.

    Sandro Principe