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  • Ferramonti: se la memoria diventa pop servono libri alla Capogreco

    Ferramonti: se la memoria diventa pop servono libri alla Capogreco

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    Quando si vuol dare un esempio di cultura pop, si fa ricorso alla maglietta con il volto di Che Guevara. Per dire che tutti la indossano, senza sapere niente di preciso sulle vicende del mitico personaggio effigiato. L’industria culturale fagocita ogni evento, pure il più tragico, se lo ritiene funzionale alla sua incessante attività.
    Anche la Shoah non è sfuggita a questo destino, lo dimostrano innumerevoli film, docufilm, libri, spettacoli teatrali e convegni sfornati, in ogni angolo del pianeta, per narrarla a ogni sensibilità, a un pubblico sempre più vasto e vario. Con contorno di libri che analizzano il fenomeno: Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico (Il Nuovo Melangolo 2016). Ci sembra di conoscere meglio eventi così tragici, proprio perché vengono manipolati e commercializzati.

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    Quel che resta del campo di Ferramonti

    Ferramonti e cultura pop

    E in Calabria come va con questo tipo di pop? In Calabria abbiamo Ferramonti.
    Nel 1982 Gaetano Cingari pubblica la Storia della Calabria dall’Unità a oggi (Laterza), che si chiude con una panoramica sugli anni Sessanta e la rivolta di Reggio Calabria del 1970. Scorrendo l’indice dei luoghi citati nel volume, tra Feroleto e Ferruzzano, non c’è Ferramonti.
    Oggi certamente tutti sanno che a Ferramonti, nel comune di Tarsia, in provincia di Cosenza, sorse, tra il 1940 e il 1943, il più grande campo di internamento fascista, costruito in vista della guerra, per rinchiudervi gli ebrei stranieri presenti in Italia.

    Sarebbe più corretto dire che tanti hanno un’idea, magari confusa, dell’esistenza di questo luogo e di quello che è accaduto in Italia, dal 1938 in poi, dopo l’approvazione delle leggi razziali. Confondendo fascismo e nazismo, discriminazione e sterminio, razzismo e antisemitismo. Come avviene quando un fenomeno diventa popolare, pop, come le magliette con la faccia di Che Guevara. Dunque il campo di Ferramonti in questi quarant’anni è entrato a far parte della cultura pop.

    Ferramonti: il caso editoriale di Capogreco

    Ma cerchiamo di andare con ordine: la storia di Ferramonti e dei suoi internati è stata ricostruita, per la prima volta in un saggio organico, da Carlo Spartaco Capogreco: Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista, edito a Firenze, da La Giuntina, nel 1987. La pubblicazione di questo studio segna un punto di svolta. E a questo libro fanno riferimento tutti gli altri venuti dopo, sull’internamento fascista e sul carattere repressivo, autoritario, di questo regime, sugli strumenti che mette in atto per schiacciare ogni opposizione, dal confino ai campi.

    Sono trascorsi trentacinque anni dalla sua pubblicazione, in questo periodo sono accadute molte cose che sono riconducibili al caso editoriale rappresentato da Ferramonti, al dibattito sviluppatosi successivamente. Dopo Ferramonti Capogreco ha pubblicato molti altri contributi, frutto di anni di ricerche, e ha portato avanti delle iniziative che hanno inciso sul dibattito politico e culturale.

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    Carlo Spartaco Capogreco, storico e presidente della Fondazione Ferramonti

    Gli alleati liberano Ferramonti

    Capogreco insiste, in ogni suo intervento, sulla questione che il campo di Ferramonti va inquadrato nell’ambito di un regime, un lungo periodo che va dal 1922 alle date cruciali, fatidiche, del 25 luglio 1943, e poi dell’8 settembre 1943. Il campo di Ferramonti viene liberato dagli Alleati nel settembre 1943, ma verrà utilizzato anche dopo, ad esempio da gruppi di ebrei in attesa di partire per la Palestina, dove sorgerà lo stato d’Israele. A ottobre del 1943 i tedeschi a Roma rastrellano oltre mille ebrei nel ghetto, e conducono operazioni simili nella parte d’Italia che controllano, assieme ai fascisti della Repubblica di Salò, ma intanto Ferramonti e i suoi internati sono al sicuro, nella parte d’Italia occupata dagli Alleati.

    La memoria pop della grande tragedia

    Difficile riassumere questi trentacinque anni: Capogreco ha dato vita, nel 1988, alla Fondazione Ferramonti, che ha svolto un ruolo importante sui temi della memoria, con una serie di convegni e di iniziative di ampio respiro, come il convegno del 24 e 25 aprile 1995, I luoghi della memoria: un contributo essenziale al dibattito pubblico, da allora sempre vivo in Italia, sul modo di intendere la memoria e la salvaguardia dei luoghi legati a questo tema.

    Alcuni di questi campi o edifici utilizzati per l’internamento sono stati riconsiderati, recuperati, salvaguardati. In qualche caso sono diventati oggetto di periodici pellegrinaggi. Una forma nuova di turismo culturale. Il recupero della memoria si attua anche attraverso tali forme di fruizione. Con l’inevitabile considerazione che il turismo di massa dei tempi nostri non è il Grand Tour dei ricchi europei del Settecento e dell’Ottocento. Dunque le comitive in magliette sgargianti e lattine al seguito, in marcia attraverso i campi di internamento trasformati in musei, suscitano a volte dei dubbi sul modo in cui viene intesa e consumata la memoria nella nostra società.

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    Campo di Ferramonti, incontro tra gli internati e il rabbino Riccardo Pacifici

    Una miniera inesauribile di storie 

    La documentazione cartacea, fotografica, memorialistica ed epistolare è imponente, sia quella custodita negli archivi di Stato, sia quella raccolta negli istituti di storia della Resistenza e nelle fondazioni, nei musei della memoria.
    Da ogni parte del mondo, gli internati di Ferramonti hanno inviato o consegnato a Capogreco molte testimonianze e dati relativi al periodo di internamento. Una miniera inesauribile di storie e di piste di ricerca. Un materiale che potrebbe facilitare un recupero memoriale, in Calabria, nei piccoli comuni isolati, ritenuti dal regime fascista terra ideale per confinarvi oppositori e persone da controllare, su cui ci sarebbe tanto da raccontare.

    Ad esempio, Capogreco ha seguito a lungo le tracce di Ernst Bernhard, medico e psichiatra tedesco di fama internazionale, di famiglia ebraica, internato a Ferramonti, rilasciato dal campo per intervento di un influente accademico italiano, suo amico, e inviato per alcuni mesi in “internamento libero” – così lo chiamavano i fantasiosi burocrati del tempo – nel comune di Lago, a 30 chilometri da Cosenza. Unica traccia, una cartolina postale inviata dallo stesso Bernhard, dove si vede la casa che gli era stata assegnata. La casa non c’è più, ma potrebbero emergere altri documenti su questi mesi.

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    Internati a Ferramonti

    Il Giorno della memoria

    Un altro esempio, il giovane studioso di musicologia Raffaele Deluca di recente ha pubblicato un volume dedicato ai musicisti e compositori internati a Ferramonti e negli altri campi fascisti: Tradotti agli estremi confini. Musicisti ebrei internati nell’Italia fascista, Mimesis, 2019. Un lavoro che aiuta a comprendere le infinite possibilità di ricerca offerte da questi archivi.
    Nel frattempo sono accadute tante altre cose, ad esempio la Legge 211 del 20 luglio 2000, istitutiva in Italia del Giorno della Memoria. Dopo venti anni si sta discutendo apertamente e senza remore dei rischi connessi a queste celebrazioni. Potrebbero rivelarsi controproducenti rispetto agli intenti dei promotori della legge. Vedi la questione del pop.

    Ferramonti non era governato da italiani bonari

    Per quanto riguarda Ferramonti e gli altri campi fascisti, si è ingenerata qualche confusione rispetto alla macchina di distruzione allestita dalla Germania nazista. Sono due sistemi diversi, nati per scopi diversi. Almeno fino all’8 settembre 1943 e alla divisione dell’Italia, da una parte l’esercito tedesco, dall’altra gli Alleati.
    Quindi bisogna studiare la storia, prima di avventurarsi a discettare di campi e di antisemitismo. Per non incorrere nella grossolana semplificazione che capita ancora di ascoltare, che vuole presentare Ferramonti come un luogo fuori dal tempo, allestito e governato da italiani bonari, paciosi, contrapposto ad altri luoghi più inquietanti, gestiti da tedeschi cattivi.

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    Prigionieri cinesi nel campo di Ferramonti

    La parziale distruzione del campo per fare spazio all’autostrada

    Parlare di Ferramonti significa ricordare la parziale distruzione di ciò che rimaneva del perimetro del campo. Anche a causa dei lavori di ampliamento dell’autostrada che lo costeggia. Una volta tanto non è una vicenda calabrese; in ogni parte d’Italia molti luoghi di confino e di internamento sono stati cancellati, per l’incuria, per fare spazio a speculazioni edilizie, per semplice indifferenza. Capogreco ne ha raccolto le tracce ne I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, 2004. Un repertorio di luoghi di oppressione e di violenza, le cui vicende sono spesso ignote anche alle persone che vivono accanto a questi siti storici.

    Il prefetto che fa lezioni di storia

    Intanto la cultura pop fiorisce pure da noi, al Sud. Mi sono trovato in uno dei tanti convegni per il Giorno della Memoria, qualche anno fa, dove il prefetto, proprio Sua Eccellenza il Prefetto, come si scriveva una volta, ha dominato la scena. Prima ha scoperto una targa, distribuendo riconoscimenti di Giusto d’Israele a destra e a manca, con buona pace dell’istituzione israeliana a ciò deputata.

    Poi, davanti a una platea di eleganti signore, come si usa nel Sud, ha preso in mano il microfono e si è lanciato in una lezione di storia (ormai è assodato che chiunque può parlare di Shoah) che ha fatto rizzare i capelli in testa agli storici presenti, esautorati d’autorità, come solo un prefetto sa fare. Poi il prefetto, sazio, ha ceduto il microfono a un giovane sacerdote, che si è lanciato a sua volta in un intervento dai toni transreligiosi, ecumenici, buddistici-panteistici. Solo dopo è stato il turno di un rabbino, scovato sempre dal prefetto. Un autentico rabbino che, a onor del vero, almeno ha fatto un intervento da rabbino. Fine del convegno. Molti complimenti al prefetto da parte delle eleganti signore presenti.

    E Capogreco? Continua a fare ricerca (insegna Storia contemporanea all’Università della Calabria), e a relazionarsi, attraverso i suoi libri, con gli studiosi di ogni parte del mondo, sui temi dell’internamento e della memoria. Cercando di sfuggire agli agguati del pop.

  • Villa Rendano, il dono ai cosentini snobbato dalla città che conta

    Villa Rendano, il dono ai cosentini snobbato dalla città che conta

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    Si fa talora confusione tra due termini, benefattore e mecenate, anche perché entrambi individuano persone con particolare sensibilità e generosità. Comunque, a beneficio dell’identità dell’uno e dell’altro, il benefattore è chi fa o ha fatto del bene agli altri, sia donando disinteressatamente del proprio sia coi risultati dei propri studi e della propria attività. Il mecenate, invece, che era consigliere di Augusto e influente protettore di letterati ed artisti, indica per antonomasia ogni munifico protettore e benefattore di poeti e artisti, oggi diremmo cultura e arte.

    Il mecenate Bilotti

    Ora Cosenza negli anni più recenti – ché, se si ripercorre di molto la storia all’indietro, probabilmente di queste figure meritevoli ne troveremmo altre – ha avuto la fortuna di avere di sicuro un mecenate che di nome fa Bilotti. A lui si deve la concessione in comodato alla città di molte opere di artisti moderni e contemporanei tra i più noti e ammirati.

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    Ettore e Andromaca, una delle statue del Mab su corso Mazzini a Cosenza

    In questo modo – meritorio, anche se trattandosi di comodato gli eredi del mecenate possono in qualsiasi momento decidere di ritirare parte o tutte le opere che rimangono di loro proprietà (ipotesi che noi riteniamo poco probabile ma tuttavia possibile) – è stato possibile far nascere il MAB, Museo all’aperto Bilotti, lungo tutto corso Mazzini, che costituisce l’isola pedonale della città frequentata ogni giorno da migliaia di cittadini e, Covid permettendo, centinaia di turisti.

    Piazze e musei in cambio

    Si potrebbe obiettare che per la moltiplicazione di gazebo e tavolini al servizio di bar e ristoranti, il “percorso museale” è diventato piuttosto una slalom tra clienti seduti per la degustazione di cibo e aperitivi. Ma non si può essere troppo pignoli sapendo che Cosenza su queste attività commerciali ha costruito una “economia di sopravvivenza” non avendo molte alternative se non una dolorosa emigrazione, specie giovanile, di massa.

    Dunque, Bilotti è stato un grande mecenate. E in un empito di entusiasmo comprensibile il Comune per volontà del sindaco Catizone (che di suo ha esagerato facendo furbescamente scouting politico con i nomi più o meno illustri di politici scomparsi, facendo svanire tra l’altro anche il nome di Roma, che, malgrado la cura devastante della Raggi, resta pur tuttavia la capitale d’Italia) ha dedicato al Bilotti la piazza più grande, anche se parzialmente oggi chiusa per fattucci giudiziari, e ad un’altra Bilotti, sua figlia Lisa, uno slargo dello stesso corso Mazzini. Insomma, i sindaci hanno dato ai Bilotti ampi e reiterati riconoscimenti. Nulla da eccepire.

    Il benefattore Giuliani

    Poi lasciamo la categoria dei mecenati e passiamo a quelli che sono a cavallo tra i benefattori e i mecenati.
    E qui ritroviamo Sergio Giuliani che volle costituire una Fondazione intestata ai suoi genitori, alla cui costituzione e poi guida ha contribuito e contribuisce (con fatica per l’età “ingravescente”, Papa Ratzinger dixit) non poco chi scrive .

    Quando Giuliani con il sottoscritto incontrò per rispetto istituzionale il sindaco Occhiuto egli entrò nella veste di “benefattore” ma ne usci in quella di mecenate. Questa mutazione di ruolo e identità bisogna brevemente spiegarla. L’iniziale intenzione di donare risorse economiche al Comune di Cosenza per opere utili ai cittadini ma non coperte da risorse pubbliche sparì rapidamente dal tavolo nel corso del colloquio.

    Villa Rendano e una lunga serie di lettere morte

    Occhiuto correttamente propose di finanziare il completamento del Complesso di Sant’Agostino, restaurato solo a metà per ospitare il bel Museo degli Enotri e dei Brettii. Fu allora firmata la prima di una lunga serie di convenzioni tutte restate lettera morta con le quali si potrebbe riempire un baule. Vi risparmio tutti i successivi passaggi, salvo dire che per la idiozia burocratica del legislatore è più facile rubare alla Pubblica Amministrazione che donare di tasca propria. Forse per questo la prima pratica gode di buona salute.

    Giuliani, promosso sul campo mecenate e preso da quasi infantile entusiasmo (mentre chi scrive pensava agli effetti di difficile soluzione di questa conversione ad U), accettò il suggerimento, per il vero meritorio, di Occhiuto. E con la sua mediazione trasparente Villa Rendano fu acquistata poi restaurata radicalmente in otto mesi. E a luglio 2013 «venne restituita alla città come patrimonio dell’architettura e della cultura e vita civile» di Cosenza.

    Il disinteresse dei poteri

    Chi è interessato a conoscere nei particolari come la città attraverso le sue istituzioni e i suoi soggetti economici, sociali e culturali abbia NON curato, NON sostenuto, NON condiviso anche con un minimo di aiuti economici la Fondazione – che in concreto vuol dire Villa Rendano – potrà soddisfare la sua curiosità nelle prossime settimane .

    Ora non posso abusare dell’ ospitalità de I Calabresi, che per impegno esplicito e condiviso non ha una relazione diretta e condizionante con la Fondazione Giuliani. Anticipo in estrema sintesi che le promesse vuote, gli inganni, l’indifferenza, talora l’arroganza dei cosiddetti stakeholders, cioè i detentori dei Poteri, hanno accompagnato i primi 9 anni di vita di Villa Rendano.

    Villa Rendano: un dono di Serie C?

    Come concludere? Tutti i mecenati e benefattori sono meritevoli di sincera e duratura gratitudine. Ora, per ragioni misteriose, si considera un mecenate, Bilotti, di serie A. Un altro che ha impegnato, cioè donato alla città, fino ad ora quasi 8 milioni lo si relega, invece, in serie C. Una spiegazione ci vorrebbe, no?

    Il conferimento della cittadinanza onoraria a Sergio Giuliani

    Tanto per dare un antipastino, comincio col citare la frase dell’ex sindaco Occhiuto che dice (meglio, scrive) a proposito del sofferto e più volte rinviato conferimento della cittadinanza onoraria (né piazze né cortili) a Giuliani «ricordo la cittadinanza onoraria contro la volontà degli altri componenti della famiglia del compianto Giuliani». Una frase niente affatto sibillina, ma impropria, perché la meschinità di un non citato membro della famiglia non dovrebbe essere ricordata come eroico abbattimento delle barricate sulla via di una dovuta “cittadinanza onoraria”.

    Francesco Pellegrini
    Presidente della Fondazione Attilio e Elena Giuliani

  • Alta velocità e Sa-Rc: Cosenza riparta dal sogno di Mancini

    Alta velocità e Sa-Rc: Cosenza riparta dal sogno di Mancini

    A proposito dell’impegno profuso da Giacomo Mancini per la sua città, vorrei ricordare che se la sede centrale dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria è a Cosenza, e non a Reggio Calabria né a Salerno, lo si deve a lui.
    Col senno di poi, può sembrare scontato aver collocato la sede centrale degli uffici dell’autostrada nel capoluogo geograficamente eccentrico di una delle più estese province meridionali. Eppure nel 1968 scontato non lo era affatto.

    Il sogno di Mancini

    La scelta di Giacomo Mancini di assegnare a Cosenza la sede centrale dell’autostrada aveva un significato che va oltre la tecnica dei trasporti, investe la politica e appartiene alla cultura urbanistica. Giacomo era un convinto anche se “inquieto” meridionalista, la sua scelta mirava alto. Aveva un preciso obiettivo strategico: dare alla Calabria un’amministrazione baricentrica, riconquistare per la sua città il ruolo di capitale non solo della Calabria Citeriore ma di tutta la Regione.

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    Giacomo Mancini negli anni d’oro del Psi

    La sede dell’autostrada era il passo successivo a quello fondamentale del tracciato dell’autostrada passante per Cosenza. Connettere la città con un’autostrada significava proiettarla a diventare il futuro capoluogo della Regione prima della insana disputa tra Catanzaro e Reggio finita, come si sa, con la separazione fisica della Giunta dal Consiglio, a tutto svantaggio dell’efficienza amministrativa.

    L’Alta velocità sul Tirreno

    Se si volesse continuare ad operare per dare a Cosenza un ruolo regionale importante, se si volesse continuare il percorso avviato da Giacomo di potenziare il ruolo urbano di Cosenza bisognerebbe impegnarsi politicamente e culturalmente perché la linea dell’Alta Velocità Salerno–Reggio Calabria passi da Cosenza come previsto sia dalla proposta formulata dal gruppo degli ordinari dei trasporti delle Università della Sicilia e della Calabria e sia dalla linea AV/AC proposta dalle Ferrovie dello Stato nell’aprile del 2021 (Praia-Tarsia-Cosenza-Lamezia-Reggio Calabria).

    Sostiene infatti il professore Francesco Russo che per avere un’Alta Velocità ragguardevole la linea tirrenica è inadeguata, meglio è ipotizzare una linea «che si sviluppi in prossimità dell’autostrada» come indicato per il tratto Cosenza-Lamezia nei lotti funzionali della proposta linea AV/AC Salerno-Reggio Calabria delle Ferrovie dello Stato per la Calabria.

    Una linea metropolitana

    Dotare la città Cosenza-Rende di una stazione dell’Alta Velocità, anche se in Comune di Montalto Uffugo, per garantire non solo un interscambio prezioso Montalto–Paola ma anche recuperare il raccordo diretto con l’Università, significherebbe trasformare la linea ferroviaria esistente Cosenza Casali-Quattromiglia in una linea metropolitana che dalla futura stazione di Montalto Uffugo-Università della Calabria, raggiunga, con diverse fermate (Quattromiglia, Campagnano, nuova stazione di Cosenza, vecchia stazione di Cosenza) la stazione di Cosenza Casali.

    L’Università della Calabria

    L’Alta velocità meglio dell’autostrada per Cosenza

    Si darebbe così a Cosenza una infrastruttura territoriale e metropolitana più importante dell’autostrada del sole. Sarebbe anche un modo concreto di onorare la memoria di Giacomo Mancini. Sostenere il contributo tecnico dato dalle università di Sicilia e di Calabria al PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), pretendere al più presto la realizzazione della proposta delle Ferrovie dello Stato del 2021 consentirebbe di rivalutare la città di Cosenza-Rende, di connetterla rapidamente con l’aeroporto di Lamezia Terme e con le altre città della Calabria, delle Regioni confinanti con la sua provincia, e con le altre città d’Italia.

    Empio Malara
    Architetto

  • Spinelli e parmigiano nella Paola di San Francesco

    Spinelli e parmigiano nella Paola di San Francesco

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    Un documento notarile estratto dagli archivi mette in luce aspetti particolari della quotidianità della corte baronale che abitava il castello di Paola a fine Cinquecento.
    La città di San Francesco è, all’epoca, un centro portuale molto attivo dell’alto Tirreno cosentino, infeudato sin dal 1496 alla casa Spinelli, tra le più influenti e potenti dinastie del Regno di Napoli.
    La parabola di questo casato iniziò nella prima metà del XVI secolo, col matrimonio tra una Spinelli dei marchesi di Castrovillari, baroni di Fuscaldo e della Civitas Paulae, e il Vicerè spagnolo Pedro de Toledo.

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    Il castello dei baroni Spinelli in una stampa d’epoca

    Il castello degli Spinelli: da forte a dimora deluxe

    Paola, col suo castello e coi suoi 4.000 abitanti (quando Cosenza ne contava 10.000 e Amantea 3.000) divenne la capitale dei numerosi feudi Spinelli in Calabria.
    Nato nel periodo normanno-svevo con funzioni militari e difensive, il castello di Paola si era trasformato in palazzo signorile, che sin dalla seconda metà del XVI sec. «somministra sontuosa dimora» al signore feudale e alla sua corte.

    Un indizio singolare della vita a dir poco dispendiosa dei baroni è fornito anche un secolo dopo dall’importo della spesa per l’allevamento di ben «70 bracchi nella Canatteria» del castello. Il mantenimento della muta di caccia di pregiati bracchi degli Spinelli necessitava nel 1693 una somma che sorpassava i «due mila ducati annui» (un ducato napoletano si stima avesse il potere di acquisto di circa 50 euro attuali).

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    Costosi e pregiati: bracchi da caccia

    Le ricchezze nel castello

    Altri elementi importanti per ricostruire il tenore di vita possono essere acquisiti da un rogito del 1551 (7 agosto) stilato dal notaio Angelo Desiderio di Cosenza.
    Il documento, conservato presso l’Archivio di Stato di Cosenza, è un «Inventario del Castello di Paola e degli arredi in esso contenuti».
    Il castello, come appare dalla descrizione che ne fa il rogito, era composto da più piani abitativi. Il piano nobile era in basso. Nella «sala subtana» e in una «camera grande» erano situati invece gli spazi di rappresentanza, le camere da letto e alcuni «magazzeni».

    Nei magazzini si trovavano stipate, fra le altre «massarizie, quattro pezze di panni nigri di arbascio […] item un materazzo piccolo», e non mancano oggetti alla rinfusa e strumenti disparati della vita quotidiana, come «una pala di ferro […] item una sella foderata di velluto […] item quattro baliggi di cojro, due grandi e due piccole […] item venti candele di cera […] item due redini di cavallo».

    A tavola con gli Spinelli

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    Antica tavola nobiliare

    Il notaio passa alla descrizione di un cospicuo elenco di suppellettili di valore, oggetti di uso comune e utensili, arredi e vestiario, ma anche di molte provviste e alimenti che danno una idea concreta e reale dell’esistenza lussuosa condotta dai signori di Paola nel XVI secolo.
    A partire dal “superfluo” – e soprattutto dall’abbondanza di carni, vino, provviste e alimenti pregiati di cui vivono i pochi facoltosi e i privilegiati della corte feudale – è possibile restituire una immagine realistica di un’esistenza priva di angustie e ben lontana dagli assilli del quotidiano.

    Apprendiamo così che «nelle stanze de supra», si trovano «altri magazzeni» per le derrate e «le cucine», con la «stanza del forno, il cellaro, et la dispensa con vittuvaglie diverse». Fra le vettovaglie e gli alimenti conservati in dispensa, compaiono anche molti alimenti ricchi: «due pezzi di carne salata, item lardo […] item suppréssate […] item una pezza di caso palmeggiano».

    Neve ’e Parma: un formaggio speciale

    La diffusione del «caso palmeggiano» alle latitudini calabresi e la presenza di questo insolito formaggio padano sulle ricche mense degli Spinelli, è una rara eccezione gastronomica che infrange le rigide consuetudini alimentari della Calabria del Cinquecento. La regione, all’epoca, era grande esportatrice di formaggi ovini in tutto il Mediterraneo. E la dieta popolare era poverissima: cacio pecorino è praticamente la fonte esclusiva di proteine e grassi animali a buon mercato per i ceti meno abbienti.

    Tuttavia, va ricordato che nel primo Cinquecento il parmigiano era noto nel Mezzogiorno. A Napoli lo vendevano gli ambulanti, persino nella versione grattugiata. In tal caso, era conosciuto col nomignolo di «Neve ’e Parma» (neve di Parma).
    Evidentemente, l’abitudine partenopea di usare il «caso palmeggiano» sui maccheroni, era diffusa tra i ricchi e quindi condivisa anche sulle mense della corte Spinelli.

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    Il signore della tavola: il parmigiano

    Grattacaso, saponi e altri lussi del castello

    Lo conferma lo stesso inventario del 1551, che ci fa scoprire assieme alla preziosa forma di «caso palmeggiano», anche il corredo di utensili da cucina che ne completava l’uso.
    Infatti, nei magazzini del castello, si trovano «due grattacaso de ferro, una grande et una piccola».

    Seguono altri rari beni di consumo. Tra questi, notevole indizio di abitudini igieniche non comuni per quei tempi, la presenza di una cassa di sapone.
    Non mancano i pezzi pregiati: nelle camere da letto scopriamo uno «sproviero di raso giallo guarnito di velluto carmosino misto a bianco et frangie […] item un altro sproviero di seta bianca con passamano et frangie di seta carmosina e bianca […] item due segge guarnite di velluto verde […] item due altre segge guarnite di velluto verde […] item la lettiga guarnita di raso con dentro due cuscini di velluto carmosino».

    Il guardaroba degli Spinelli

    Il guardaroba personale dei signori era costituito da una profusione di vesti e stoffe di lusso, con applicazioni «di frangie di seta verde e oro […] item velluto carmosino […] item seta bianca con passamano».
    Il civettuolo guardaroba personale della castellana di Paola, oltre alle molte guarnizioni di «veste complete», i capi di velluto, seta e raso, non manca di completarsi anche con «pelli di martore […] item pelli di lontra». Mentre fra gli addobbi molte delle telerie «sono di oro; item due misali grandi, item quattro altri misali».

    La cappella privata degli Spinelli

    Fra le non poche suppellettili in oro nell’elenco si contano ben «undici candelieri piccoli», ma anche un oggetto curioso e decisamente superfluo come un «collare di cane arrecamato di oro matto».
    Fra i preziosi e gli oggetti d’arte in possesso dei signori di Paola nel 1551 si trovano inventariati fra gli altri «un calice d’argento, item una patena d’argento, item un madonna d’argento». L’inventario fra le gioie conta ancora «molti scrigni con oggetti preziosi […] item reliquiari».
    Inoltre paramenti sacri e indumenti ecclesiastici completano un quadro di ricchezza di tutto rispetto, probabilmente senza pari anche fra le residenze di altre potenti case feudali della Calabria dell’epoca, come i Sanseverino, i Carafa o i Ruffo.

    Un ospite speciale: l’abate Pacichelli

    Anche dalla vivace descrizione che fa del castello Spinelli di Paola l’abate romano Giovan Battista Pacichelli, sceso a Paola nel 1693, è possibile ricavare un quadro di riferimento attendibile, seppure limitato al solo campione nobiliare, per certi aspetti della vita materiale.
    Il prelato romano annotando nella sua descrizione gli aspetti funzionali e la fisionomia costruttiva del castello Spinelli, descrive una ricca magione. Esso era «partito di più quarti […] e assai commodo», dotato all’ingresso di «un cavalcatore assai largo» e ben illuminato da diverse «fenestre». L’acqua vi veniva condotta per mezzo di un acquedotto di «acqua perenne».
    Il castello disponeva anche di una affollata scuderia attrezzata per ben «60 cavalli, e più muli».

    Più che una fortificazione militare (la piazzaforte era difesa oramai solo da «qualche cannone di ferro», tra cui uno «crepato»), il religioso racconta un lussuoso palazzo signorile con pochi eguali.
    Il visitatore fu condotto «a veder le suppellettili» che impreziosivano il palazzo feudale. Nelle stanze superiori ai trovavano «de tappeti, e de Quadri, scrittori ed altro; una bella tela dipinta da un Forastiero nel volto di un Camerone». La «Cappella nobiliare» esistente all’interno del palazzo era decorata invece con un «Choretto».

    Le meraviglie del castello Spinelli

    Agli occhi del prelato romano, il castello Spinelli sembrava una vera e propria scatola delle meraviglie. Anche la distribuzione e l’organizzazione interna degli ambienti e delle numerose stanze in cui il grande castello si dipanava, assumono una precisa funzione ed un significato ideologico e culturale non trascurabile.
    L’articolata distribuzione degli ambienti e la differenziazione degli spazi abitativi è – come afferma Braudel per la società dell’ancien régime – esclusivo «priviligio dei signori». Un privilegio insostituibile poiché conferma lo status dei potenti, rendendo l’idea e l’immagine della magnificenza e del potere immediatamente percettibili a tutti (molto spazio e molto lusso domestico, molto potere).

    Gli ambienti di servizio del palazzo – «le stanze di sopra» – con le cucine, il «cellaro», i magazzini e le dispense, risultano ben distinti e defilati dagli altri ambienti in basso, al piano nobile, dove invece si svolgeva la vita domestica della piccola corte, che abitava gli ambienti di rappresentanza costituiti dalle numerose stanze «subtane» e si ritrovava nei «due tinelli» comuni situati «nella camera grande». Questi ambienti, riccamente arredati, di solito ospitavano, secondo la descrizione dell’abate Pacichelli, «corte nobile di molti cavalieri, officiali e inferiore servitù».

    L’ufficio del signore

    Fra queste stanze, il potente principe Spinelli aveva un suo spazio privato. Era un luogo ben riposto e discreto, necessario all’esercizio privato del potere del principe: la «stanza detta de Burrello». Il «Burrello», ove il signore di Paola riceve i suoi ospiti, prende le decisioni più riservate e disbriga le pratiche del potere, è appunto una sorta di gabinetto politico.
    L’espressione «de Burrello» che compare nel citato inventario del 1551 allude infatti ad una evidente corruzione della parola francese bureau.

    A pranzo dai gesuiti

    Pacichelli descrive infine in toni entusiastici i cibi e le portate di un banchetto servito in suo onore dai Padri Gesuiti del Collegio di Paola, presso cui fu ospite. In questo frangente, l’abate celebra fra le pietanze il gusto delle «prede di pesce esquisito» che gli furono servite. E ancora riferisce che «nel desinare con le carni più scelte fu copia di fravola, di limoni e di frutti: et alla cena più specie di pesce». Un banchetto raffinato e sontuoso, esaltato dalla «abbondanza de perfettissimi vini e delicatissimi frutti». Come dire il lusso dei ricchi, i privilegi di nobili e clero.

  • Il lungo addio: l’agonia delle ludoteche di quartiere

    Il lungo addio: l’agonia delle ludoteche di quartiere

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    A Serra Spiga, in via Popilia e nel centro storico non si ode più il festoso vociare dei laboratori creativi per bambini. Dopo 25 anni di attività, dal 31 dicembre 2021, sono chiuse le ludoteche. Palazzo dei Bruzi tace. La priorità è rimettere in ordine il traffico sconquassato dal precedente sindaco archistar. I diritti sociali possono attendere. Prosciugate le casse, nel bilancio comunale gli unici soldi che non finiranno mai sono quelli destinati a coprire gli stipendi di consulenti e assessori.

    Le ludoteche e il sogno di Mancini

    C’erano una volta le ludoteche di quartiere. Le aprì il sindaco Giacomo Mancini, quando ancora le amministrazioni comunali offrivano spazi e momenti di gioco, ascolto, doposcuola e vacanza ai figli dei più poveri. C’è stato un tempo in cui Cosenza nei servizi delicati pareva una delle città all’avanguardia nel meridione. Erano ancora servizi gratuiti, il Comune li finanziava e non scaricava sul buon cuore del volontariato le attività che in una società cosiddetta “civile” dovrebbero essere di competenza delle istituzioni.

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    Bimbi delle ludoteche alla Villa Vecchia di Cosenza

    Alla fine degli anni novanta il vecchio sindaco socialista volle pure che la Biblioteca dei ragazzi sorgesse proprio sotto le finestre della sua stanza a Palazzo dei Bruzi. Sapeva che presidiare con la cultura i quartieri popolari è un investimento sociale, un modo per arginare la solitudine infantile che alleva criminalità. Per Mancini quello era il biglietto da visita di Cosenza. Il municipio, così, da burocratico scatolone di cemento diveniva luogo propulsore di cittadinanza.

    E lo chiamano centro “sinistra”

    Poi, negli anni zero, venne la giunta Perugini e la chiuse, la biblioteca. In generale, badò soprattutto a rieducare la popolazione alla fruizione dei servizi a pagamento. Tagliò le residue spese del welfare locale, motivando questa scelta con la più classica delle lamentazioni: «I soldi sono finiti». E immolò tutto sull’altare della privatizzazione, osannando il project financing di cui ancora oggi si fatica a intravedere il costrutto. Dagli stadi di calcio alla sanità, dalle infrastrutture ai servizi, fiumi di denaro pubblico finiscono nelle casse dei privati che fingono di investire risorse e si appropriano di spazi comuni.

    Un altro nevralgico polo aggregativo per minori, la Città dei ragazzi, fu in parte riconvertito. Per assegnarlo, la giunta Pd concepì una gara d’appalto ai livelli del ponte sullo stretto di Messina. I nuovi aspiranti gestori si videro costretti a costituirsi nientemeno che in Associazione Temporanea d’Impresa. Nel decennio successivo, l’amministrazione Occhiuto la riconcesse alle associazioni Teca, Don Bosco e Cooperativa delle donne, costrette spesso a sopperire con fondi propri alle deficienze istituzionali.

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    Cosenza, l’ingresso della Città dei ragazzi (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Due anni fa, gliela riaffidò con inedita solerzia: le associazioni si erano procurate da sole i fondi per mettere in funzione e potenziare la struttura, avendo vinto un bando promosso dalla fondazione Con i bambini per fronteggiare la povertà educativa. Chissà se gli Occhiutos erano già consapevoli che di lì a poco i due terzi dell’area della Città dei ragazzi avrebbero ospitato alcune delle scuole cittadine sballottate dalla pandemia.

    Ludoteche e istituzioni: distrazione o indifferenza?

    E se in questi ultimi venti anni la Città dei ragazzi ha vissuto fasi convulse e discontinuità, negli altri quartieri le ludoteche erano riuscite comunque a sopravvivere, pur tra i tagli dei fondi, le temporanee sospensioni e i sacrifici dei loro operatori. Ma da cinque mesi non esistono più.
    «Ancor prima della scadenza dell’affidamento, lo scorso dicembre, abbiamo scritto al sindaco, tramite pec, per chiedere un incontro sulla questione, ma siamo ancora in attesa di essere convocati. Abbiamo scritto anche alla consigliera che ha la delega sull’educazione, ma anche in questo caso non abbiamo avuto risposta», denuncia Mimma Ciambrone, due lauree, una in Storia ed una in Scienze dell’educazione; operatrice storica e socia della Cooperativa delle donne, lavora nei quartieri dal 1997.

    Attività in una delle ludoteche di quartiere chiude dal 31 dicembre scorso

    «Sospendere i servizi a metà anno scolastico – spiega Ciambrone – rappresenta un danno irreparabile per molti bambini e bambine. Li seguiamo quotidianamente. Nelle ludoteche comunali, oltre i servizi ludici ed educativi, monitoriamo il percorso scolastico dei nostri bambini, sostenendoli con l’attività di doposcuola, in stretta relazione con le scuole di riferimento. Si tratta di colmare gap formativi importanti, cercando anche di sperimentare metodologie di apprendimento innovative ed efficaci al fine di scongiurare il rischio di dispersione scolastica. Ora più che mai, dopo le conseguenze devastanti dell’emergenza sanitaria, sia dal punto di vista della socialità che degli apprendimenti, sarebbe stato importante investire sui servizi che nei territori contrastano la povertà educativa».

    Sensibilità cercasi

    La disattenzione parte da lontano e non è una questione riferibile solo al presente. Negli anni sono stati svuotati i capitoli di bilancio destinati ai servizi educativi tutti, e non solo alle ludoteche.

    «Noi abbiamo la convinzione – prosegue l’operatrice – che una città che non investe sui cittadini più giovani difficilmente possa investire sul presente e sul futuro delle comunità. I bambini e le bambine sono un parametro di riferimento ineludibile per misurare l’efficacia delle politiche educative e sociali. La questione infatti è soprattutto politica. C’è la necessità di sedersi attorno a tavoli in cui si possa discutere in modo autentico delle politiche educative e sociali. Le amministrazioni devono sentirsi in dovere di co-programmare e co-progettare con il terzo settore e con l’intera comunità educante. Solo così possono essere superati gli ostacoli, anche di natura economica, che rischiano di invalidare percorsi virtuosi per la nostra collettività».

    Meron Mulugeta, mamma di bimbi utenti delle ludoteche

    «Diversamente, il tutto rischia di tradursi – continua – in una erogazione sterile e a singhiozzo di servizi che non vengono messi a sistema e che non producono benessere per i territori. A cosa e a chi serve, ad esempio, aprire le ludoteche sei mesi all’anno? I servizi educativi hanno bisogno di continuità. L’interlocuzione con chi governa la città è fondamentale, dobbiamo superare questo anno zero in cui chi governa non ha forse nemmeno piena contezza dell’importanza di alcuni servizi educativi».

    Perdere il lavoro, dopo 25 anni di strada

    Nella cooperativa e presso le ludoteche comunali operano 15 educatori. Al momento i contratti sono tutti sospesi. «Questo – conclude Ciambrone – è un fatto gravissimo. Ma non solo dal punto di vista occupazionale. Il problema è anche qui politico. Noi non ci sentiamo solo un posto di lavoro che si perde. Ci sentiamo depositarie di competenze educative precise che intendiamo mettere a disposizione della comunità in cui viviamo. In questi 25 anni siamo entrate, con cura e delicatezza, nella vita di migliaia di famiglie, cercando di lavorare sulle risorse insite nei territori, cercando di fare emergere processi di empowerment indispensabili per maturare cambiamenti reali nei contesti di riferimento. Per questo noi non ci percepiamo come un semplice problema occupazionale. Ci sentiamo soggetti autorevoli per poter dare vita a percorsi virtuosi e non più procrastinabili di co-costruzione di politiche educative efficaci».
    Per lunedì mattina alle 10 è previsto un presidio di protesta ai piedi del municipio per ottenere le risposte non ancora arrivate. Sarà la volta buona?

  • La città dei cani: in Calabria batte un cuore a quattro zampe

    La città dei cani: in Calabria batte un cuore a quattro zampe

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    C’era un akita in in ogni angolo d’Italia una decina di anni fa, dopo l’uscita di Hachiko – Il tuo migliore amico. Il meraviglioso cane giapponese del film con Richard Gere non è propriamente un cane da salotto. È un esemplare da lavoro e da caccia, ha un temperamento particolare. Sa essere docile e mansueto, quando il padrone è bravo a comprenderlo e a gestirlo.

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    Tutti insieme appassionatamente nel Villaggio dei randagi a Caraffa (Cz)

    La razza e i lager

    La moda della razza è un vizio anche calabrese e sono state tante le famiglie che pur temendo i cani, ne hanno accolto uno in casa durante la pandemia. Tra contraddizioni e fenomeni strani, si intravede però un cambiamento, a detta degli esperti.
    Inizia a battere il cuore cinofilo della Calabria. Le associazioni in difesa del randagio non si contano. Da pochi anni opera nella regione Save the Dog, la cui mission è rafforzare l’anagrafe canina e promuovere campagne per la sterilizzazione. I partner locali sono le associazioni Argo e Amici animali Fef di Cosenza.

    La Lega antivivisezione non fa sconti ai canili calabresi: i più affollati d’Italia. Seimila cani, denuncia nel suo ultimo rapporto, sono stipati nel crotonese, le cui strutture superano di parecchio i limiti di capienza. Contro i «canili lager» si batte da sempre Aldina Stinchi, 74 anni.

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    Il Villaggio dei randagi a Caraffa (Cz)

    La città dei cani

    A Caraffa, alle porte di Catanzaro, ha creato vent’anni fa una città del cane. Si chiama il Villaggio dei randagi dell’associazione Bios e si estende su una superficie di tre ettari e mezzo. Cucce e capanne, punti cibo e acqua, alberi, sentieri e niente cemento. «Il nostro è un modello innovativo, i cani vivono in ampi recinti e in gruppi, messi insieme per compatibilità caratteriali e altre caratteristiche che garantiscono la serena convivenza. In questo momento ospitiamo 150 cani. Vivono in semilibertà e soprattutto non sono costretti a stare nelle gabbie, che reputo qualcosa di arcaico e barbaro».

    Ad Aldina venne l’idea del villaggio «dall’osservazione attenta delle leggi sia nazionali sia regionali che, finalmente, impedivano l’uccisione degli animali». Nella dog city di Caraffa si cucinano 45 chili di pasta al giorno e con l’aumento dei prezzi sta diventando sempre più difficile mantenere i ritmi. Non ci sono sovvenzioni istituzionali, ma la solidarietà è tanta, come i volontari.

    Le staffette dell’amore

    E come la tenacia di Aldina che ha dichiarato una «feroce guerra» alle staffette dell’amore, le adozioni dei cani del Sud Italia nelle città del nord. Un fenomeno di grosse proporzioni ma completamente fuori controllo. I social sono invasi da fotografie di animali domestici, da immagini e post che raccontano storie d’amore tra cani e padroni, e sono pieni zeppi di compravendite e appelli per adozioni. La Lav contava 14mila 599 ospiti dei canili sanitari della regione nel 2017. Poi, denuncia nel suo ultimo rapporto, non è stato più possibile avere dati aggiornati.

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    Carmela Di Nardo e Billy the kid (ph Concetta Guido)

    Il boom col lockdown

    Batte il cuore cinofilo calabrese, tra storie tristi e qualche buon segnale. «Credo che in Calabria sia in atto un cambio di mentalità, anche se manca una vera e propria cultura dell’educazione cinofila», dice Carmela Di Nardo, 44 anni, addestratore Enci. «Ritengo che ci siano molte persone competenti. Il numero dei cani adottati è aumentato in maniera considerevole, bisogna dire però che durante il lockdown c’è stata un po’ di leggerezza».

    Carmela dedica tutte le sue giornate ai cani. È educatrice, studiosa di etologia e operatrice zooantropologica. Con il suo compagno e partner di lavoro Luca Indrieri, porta la cultura cinofila nelle scuole e negli asili. Un tipo di attività rara dalle nostre parti, dice, che «fatica ad essere riconosciuta e richiesta». Frequentava l’Orientale di Napoli quando nella sua vita è entrato un labrador. «Lo chiamai Biko, come Steven Biko, pensando alla canzone che Peter Gabriel ha dedicato all’attivista sudafricano». Un colpo di fulmine così intenso da farle decidere di cambiare strada, formarsi in cinofilia ed entrare in un mondo colorato ma faticoso.

    «La nostra associazione, la Yellowjoy, nata nel 2010, si occupa di educazione di base ed avanzata, aiutiamo la relazione tra il padrone e il suo animale, collaboriamo con il veterinario comportamentale, intervenendo su richiesta nel caso di problematiche come può essere l’aggressività o l’iperattività o anche l’avere paura».

    Luca Indrieri, addestratore e compagno di Carmela Di Nardo

    Cani giocattolo

    Perché loro, i cuccioli, non sono giocattoli e neanche un pacchetto da lasciare in un angolo per intere giornate. «Una volta venivano selezionati per carattere e attitudine, cioè per criteri funzionali e non morfologici. Adesso è il contrario – continua Carmela Di Nardo, – si guardano gli aspetti estetici e così può succedere di scegliere un maremmano come cane di famiglia, anche quando si vive in un appartamento di settanta metri quadrati. È chiaro che in questi casi possono subentrare problemi di convivenza».

    In contrada Motta di Castrolibero c’è il campetto di YellowJoy, luogo di addestramento e spazio di socializzazione. Da qui partono escursioni e passeggiate di gruppi di umani e cani in armonia. Qui gli ospiti fanno agility dog e sport condiviso con i padroni. È un giovedì pomeriggio e due levrieri incantano con la loro esile eleganza, un pitbull sta facendo una corsetta a ostacoli e Teseo, un monumentale corso, si prepara all’esposizione internazionale canina di Rende e Vibo Valentia, ripartita dopo un fermo di due edizioni a causa del Covid. Asia e Maia, entrambe simpatiche e argute meticce, Billy the kid e gli altri labrador dell’associazione sfrecciano veloci nell’erba, sembrano impazziti di gioia per poi fermarsi al comando, immobili come statue.

    Addestramento di cani nella Sila Grande

    La Terra promessa

    Carmela, come tanti operatori cinofili, guarda al fenomeno delle staffette con circospezione. Non tutti i cani trasportati a tanti chilometri di distanza dal loro ambiente trovano una sistemazione felice. I canili rifugio esplodono e le staffette che trasportano trovatelli sono ormai quotidiane. Nel 2019 le adozioni, cioè la sistemazione di randagi calabresi, sono state 1492. Quasi totalmente al Nord, sostiene la Lav.

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    Aldina Stinchi

    «Noi ci battiamo in maniera feroce contro questo traffico di animali», dice senza mezzi termini Aldina Stinchi. «Le staffette partono per arrivare a un presunto nord felice che dovrebbe avere la capacità di ospitare migliaia di animali. È qualcosa di indecente e noi non sappiamo che fine facciano tutti i cani. Qualcuno troverà una buona sistemazione, ma gli altri? A volte il cane viene ospitato in una famiglia senza che ne sia stato verificato l’indice di adattabilità. E così viene abbandonato una seconda volta». L’associazione della Stinchi denuncia le collette promosse su Facebook, il business dei canili, che percepiscono soldi pubblici per mantenere i loro ospiti, le condizioni del viaggio verso le terre promesse, «terribili. Per me sono vere e proprie deportazioni».

    Gabbie invisibili

    A Caraffa di Catanzaro si recuperano nel green cani ammalati, abbandonati, buttati davanti al cancello del villaggio. A contrada Motta, nel campo di Yellowjoy, si insegna caparbiamente che il benessere del cane cammina su sei zampe. In qualche agglomerato cittadino spuntano rari cani di quartiere. Ma le gabbie dei randagi sono dure da abbattere. Sono di ferro ma anche invisibili.

  • Unical: sedici prof tra i migliori scienziati del mondo

    Unical: sedici prof tra i migliori scienziati del mondo

    Sono sedici i docenti dell’Università della Calabria inseriti tra i Top scientist da Research.com, una piattaforma accademica che cura ranking dedicati alla ricerca accademica nelle varie discipline, avvalendosi di un ampio database che contiene i profili di 27mila scienziati, i dati di oltre 1.200 conferenze e più di 950 riviste scientifiche.

    Il ranking (cioè il giudizio) è elaborato sulla base dell’h-index, o indice di Hirsch, un indicatore che misura l’impatto scientifico di un autore sulla base del numero di pubblicazioni scientifiche e di citazioni ricevute. Research.com prende in considerazione solo ricercatori con un h-index molto elevato (da 30 a 40, in base all’area disciplinare) e ricava i dati da Microsoft Academics, il più grande database bibliometrico aperto.

    Di seguito, i docenti presenti nel ranking.

    Biologia e Biochimica. Tra i top scientist sono presenti i docenti Monica Rosa Loizzo e Cesare Indiveri. Le università censite in tutto il mondo sono mille.

    Chimica.  In quest’area si registra l’ingresso, tra i top scientist, del professor Bartolo Gabriele. Anche qui le università presenti nel ranking sono mille.

    Elettronica e ingegneria elettrica. Tra i docenti con l’h-index più alto per l’area – che prende in considerazione 646 università in tutto il mondo – ci sono, per l’Unical, i docenti Giancarlo Fortino e Antonio Iera.

    Genetica e biologia molecolare. Nel ranking dei migliori scienziati per quest’area disciplinare è presente il professor Giuseppe Passarino. In totale gli atenei presenti in classifica, in tutto il mondo, sono 537.

    Informatica. Sono cinque i docenti Unical inseriti tra i top scientist. Nel ranking compaiono i professori Giancarlo Fortino, Nicola Leone, Alfredo Cuzzocrea, Domenico Talia e Antonio Iera. Sono 940 le università prese in considerazione.

    Ingegneria e tecnologiaQui tra i top scientist Unical compaiono i docenti Efrem Curcio, Felice Crupi e Francesca Guerriero. Gli atenei presenti nel ranking per questa categoria sono mille.

    Ingegneria meccanica e aerospaziale. Tra i top scientist Unical sono nel ranking – in cui rientrano 431 atenei di tutto il mondo – i professori Giuseppe Carbone e Domenico Umbrello.

    Matematica. In quest’area l’Unical è presente con il professor Yaroslav Sergeyev. Le università nel ranking sono 616.

    Scienze della Terra. L’Unical è nel ranking con il professor Salvatore Critelli. Le università presenti, in totale, sono 625.

  • Un Messia a Bocchigliero: la setta dei Santi e la “coricata”

    Un Messia a Bocchigliero: la setta dei Santi e la “coricata”

    La storia della Società dei Santi, setta religiosa sviluppatasi a Bocchigliero nella metà dell’Ottocento, è sintomatica della complessità della religiosità popolare. Tutto ha origine con l’apparizione dell’Arcangelo Michele a un paesano che annuncia l’avvento di un nuovo mondo. Molti contadini, suggestionati dalla visione, si organizzano per attendere la venuta del Messia e dichiarano la nascita di una nuova religione in contrasto con quella predicata da preti corrotti e simoniaci.

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    L’iconografia classica di San Michele Arcangelo

    Predicare tutti, predicare ovunque

    In nome delle verità antiche, i Santi si rivolgono al tempo in cui la Chiesa era essenzialmente laica e i predicatori avevano un rapporto diretto con Dio. Matteo Renzo, Gabriele Donnici e la giovane Rachela Berardi sono ispirati direttamente dal Padre Eterno e le loro parole danno speranza, pacificano le anime inquiete e infondono una grande serenità. I Santi professano la predicazione libera di tutti e non ritengono necessario riunirsi nei luoghi consacrati poiché Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo.

    Il profeta Matteo Renzo, come Gioacchino da Fiore, evoca l’andamento delle stagioni, il cielo e il mare, il giorno e la notte. Per simboleggiare la miseria cita l’inverno, periodo in cui gli uomini non lavorano e soffrono il freddo e la fame; per dare l’idea del benessere e della felicità, parla dell’estate, tempo dei raccolti e dei benefici raggi del sole. Come Gioacchino, pensa all’avvento di un nuovo mondo, alla nascita di uomini eletti e alla venuta di un novello Messia che sarebbe nato proprio a Bocchigliero, tra gli adepti della setta.

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    Uno scatto di Franco Pinna presente nel libro di Ernesto De Martino sul rito della “coricata” (1959)

    Il Messia a Bocchigliero

    Il messia dei Santi somiglia a quello che aspettano gli Ebrei, popolo in cui si riconoscono, forse perché analoghe sono le attese per la realizzazione delle promesse di giustizia. E perché, come loro, oppressi e umiliati, cercano di riscattare la propria sottomissione sociale, politica e culturale. È probabile che la loro propensione per il giudaismo sia retaggio della presenza degli Ebrei in quel paese che, secondo Padula, porta un nome di chiara origine semitica. È interessante notare come molti adepti della setta si chiamino Matteo, Mosè, Giuditta, Rachele, Daniele, Giacobbe, Samuele, Giosuè, Ezechiele, Davide, Abramo, Gabriele e Abele.

    Nell’attesa del Messia, i Santi auspicavano la nascita di un movimento religioso nuovo, quello dei Secolari, simile ai Santi Crociferi e alla Milizia dello Spirito Santo, profetizzati secoli prima da San Francesco di Paola. Gli adepti cominciano a vivere una vita da asceti, a mortificare il corpo e a praticare penitenze estenuanti. Si racconta che alcuni, con le braccia legate da funi, in bocca l’assenzio e in capo una corona di spine, si esponessero al freddo e al vento e praticassero rigorosi digiuni.

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    L’altopiano silano (foto di Franco Pinna 1959 tratta dal libro di Ernesto De Martino sulla “coricata”)

    La coricata

    Le penitenze non erano, però, sufficienti per la completa purificazione dei mali che abitavano nell’uomo: ira, ingordigia, avarizia, superbia e, soprattutto, lussuria. Il desiderio di purificare anima e corpo, spinge gli adepti della setta a teorizzare rigide forme di mortificazione carnale, a considerare il sesso come degradante e la verginità come fonte di santità. Essi iniziano a praticare il rito della coricata: per una intera notte uomini e donne nudi uniscono gli ombelichi – accucchiamu villicu e villico – e tentano di non eccitarsi per sconfiggere il diavolo – ppè scattare lu malu nimicu.

    L’idea che ispira questo tipo di prova è semplice: il corpo dell’uomo è per natura corruttibile in quanto opera e proprietà di Satana, mentre l’anima è puro spirito incorruttibile perché opera e proprietà di Dio. Dio ha creato lo spirito e Satana la materia per imprigionarlo. I Santi credono, dunque, che per raggiungere la più completa purificazione bisogna liberarsi da ogni soggezione dalla materia; ottenendo la purezza e superando le differenze irriducibili come maschio e femmina, sarebbero diventati santi e ricongiungendosi a Dio avrebbero conquistato la vita eterna. Il nocciolo del loro impianto religioso è di natura gnostica: il corpo inteso come prigione dell’anima. Solo attraverso il distacco dai piaceri materiali e la mortificazione del corpo si giunge alla conoscenza e alla perfezione.

    Asceti a Bocchigliero

    È difficile stabilire come e quando il rito della coricata sia maturato nella setta. Può darsi che tale ritualità si sviluppò da aneddoti raccontati dai preti sulla vita di asceti, per esempio quello ricorrente della tentazione del demonio che si presenta sotto forma di avvenente fanciulla: San Francesco d’Assisi, per spegnere gli ardori sessuali, si rotolò nudo nella neve, San Francesco di Paola si immerse nelle freddissime acque del torrente Isca.

    La ritualità della coricata è una radicalizzazione di metodi già sperimentati dai cristiani per resistere alla tentazione della carne. Secoli addietro alcuni fedeli si erano allontanati dalla comunità per vivere nel deserto o nei conventi, dove la battaglia contro fame e sete sarebbe stata molto più dura di quella contro il sesso. Per i Santi di Bocchigliero un rigido regime di vita o la solitudine estrema non sono sufficienti a frenare la passione carnale. Così, come gli Encratiti, praticano l’astinenza collettiva, in modo che l’individuo, sentendosi parte del gruppo, sia spinto ed aiutato ad osservare la castità.

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    Campanacci: le foto di Franco Pinna accompagnano il testo dell’antropologo Ernesto De Martino “La Sila, Roma, Lea 1959. Il rito della coricata”.

    Il figlio di San Giuseppe

    I Santi furono accusati di vivere nel peccato poiché, con la scusa di sottoporsi a prove erotiche per raggiungere la purezza, praticavano il libero amore e la promiscuità sessuale. Fra le donne che rimasero incinte c’era la più stimata della setta, Maria Giuseppa Berardi e il padre del bambino era Matteo Renzo, detto san Giuseppe, colui che prima di ogni altro era riuscito ad ottenere il distacco dello spirito dal corpo. La giovane chiese all’amante di riparare l’onore perduto e di riconoscere il figlio, ma egli acconsentì solo dopo le minacce dei parenti di lei.

    Le vergini di Bocchigliero

    Non possiamo escludere che il rito della coricata o la convinzione che il messia dovesse nascere da una donna della setta fossero delle trovate per avere rapporti liberi. Tra la popolazione di Bocchigliero era diffusa la credenza che con la pietra agave, o pumiciosa, fosse possibile restituire la verginità alle donne e che consumare il matrimonio prima di sposarsi non fosse peccato perché il diavolo possedeva tutte le vergini in procinto di prendere marito.

    Si trattava di stratagemmi per aggirare codici morali che impedivano i rapporti prematrimoniali o frutto di superstizioni radicate nella mentalità collettiva? Non abbiamo motivo di dubitare che la gente credesse sinceramente che il demonio deflorasse le fanciulle: in paese non c’era abitazione senza un’immagine apotropaica utile a scacciare gli spiriti maligni. Preti e laici accusavano i Santi di imprigionare il Diavolo che si trasformava in un gatto nero o in una bella donna, ma diversi religiosi erano specializzati nell’esorcizzarlo.

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    Strade e volti in Sila alla fine degli anni ’50: foto di Franco Pinna

    La Madonna carcerata

    Le magie, le credenze, il delirio, l’autoesaltazione e la bizzarria dei Santi, denunciate come tali dai loro nemici, erano il risultato di una cultura religiosa antichissima, sopravvissuta nella comunità di Bocchigliero con la complicità della stessa Chiesa. In occasione della festa in onore della Madonna de Jesu, che si svolgeva due volte all’anno, la chiesetta della Riforma era affollata di gente che con devozione portava «mai», accendeva candele e lampade ad olio, cantava e salmodiava rosari, strisciava in ginocchio fino all’altare.

    In occasione di tormente di neve, alluvioni o siccità, la stessa Madonna veniva, però, immediatamente trasferita dal suo altare e «carcerata» nella chiesa madre affinché allontanasse i pericoli dalla comunità. Il termine carcerare sta ad indicare proprio l’intenzione degli abitanti: la Vergine era prigioniera e restava lontana dalla sua chiesa sino a quando non avesse esaudito ciò che il popolo pretendeva. Grandi feste e grande devozione per la Madonna, dunque, ma anche disappunto e vendetta nel caso che non si comportasse adeguatamente!

  • MAPPE| Massoni e comunisti, cibo e atelier: le mille vite dei Rivocati

    MAPPE| Massoni e comunisti, cibo e atelier: le mille vite dei Rivocati

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    Alle sei del pomeriggio una quindicina di ventenni, in cerchio, discute animatamente in un magazzino di via Rivocati. Non parlano dell’ultimo trend di TikTok né della mise di Damiano dei Maneskin e nemmeno di chi vincerà lo scudetto, ma molto probabilmente della crisi russo-ucraina. È la federazione dei giovani comunisti: il che sarebbe già una notizia se non fosse che tutto ciò accade in uno dei quartieri più marginali eppure – o forse, proprio per questo – affascinanti della città.

    Era il cuore della “Cosenza città di provincia”, ma con cinque cinema, raccontata da Stefano Rodotà, che proprio in questo quartiere, nel palazzone nobiliare di via Sertorio Quattromani, crebbe e maturò prima del grande salto a Roma.

    I ragazzi della Federazione dei giovani comunisti animano il dibattito pubblico del quartiere (foto Alfonso Bombini 2022)

    Prologo. Tre fiere: il commercio nel dna del quartiere

    “Fino a tutto il 1300 e il primo quarto del 1400 Cosenza non superò le sponde dei due fiumi tranne che con il borgo dei Rivocati al di là del Busento, a nord, nella zona pianeggiante occidentale”, scriveva Enzo Stancati nel primo dei quattro volumi di Cosenza nei suoi quartieri (Luigi Pellegrini editore, 2007): nel Duecento, dal 21 settembre al 9 ottobre vi si teneva la fiera annuale dei santi Matteo e DionigiFederico II elesse nel 1234 Cosenza una delle sette sedi delle esposizioni generali del regno con Sulmona, Lucera, Capua, Bari, Taranto e Reggio – con lana e oreficeria tra i prodotti in vendita e soprattutto seta (qui “si stabiliva il prezzo del prodotto che poi veniva accettato dalle altre fiere”).

    Già nel 1416 era il luogo della fiera della Maddalena (iniziava il 22 luglio e durava 15 giorni), poco dopo il convento dei Domenicani – dove transiterà Tommaso Campanella – contribuirà a farne abitato popolare in espansione, tra commercianti e artigiani, ortolani e fornaciai “insediati a debita distanza dai cittadini più abbienti, accanto all’acqua del fiume necessaria al loro lavoro”.
    Una terza fiera stagionale (Annunziata, dal toponimo della piana oggi ereditato dall’ospedale) “accordata da Filippo II con un privilegio del 4 agosto 1555 (…) in base a un documento del 1839 (…) si svolgeva in un solo giorno, il 25 marzo, in piazza San Domenico”.

    Perché Rivocati?

    Il compianto storico di Lago racconta anche che questo “quartiere suburbano” era “collegato al nucleo urbano dal ponte – poi appunto detto “delli Rivocati” – che immetteva direttamente in città mediante l’antica via consolare (oggi corso Mazzini, ovvero isola pedonale, ndr). Nella zona (…) si rinvennero nel 1840 i resti di un pilone di ponte romano, forse un secondo ponte sul Busento, che aggirava l’abitato e, circuendo il Pancrazio, conduceva forse a Portapiana”.

    Le tracce romane si ritroverebbero anche nella conformazione ortogonale delle strade, con via Rivocati asse principale e viale dei Platani e Viaròcciolo – oggi rispettivamente corso Umberto I e via Piave – assi paralleli procedendo verso nord.
    E l’etimologia dei “Rivucati”? Vexata quaestio: dialettizzazione di “ad rivum casae” (umili casupole a ridosso del fiume) o toponimo riferibile alla “revoca” della decisione di un feudatario limitrofo, tra XII e XIII secolo, di negare la concessione abitativa ai cosentini in questo lembo demaniale e non infeudato?

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    La statua dedicata a Lucio Battisti (foto Alfonso Bombini 2022)

    1. Dal puttan-tour ai servizi segreti

    Corsi e ricorsi: Stancati cita cronache del 1891 che riportano “reclami per la nettezza urbana trascurata” mentre “nel 1893 si lamentavano schiamazzi notturni e indecenza igienica”.
    Quegli stessi “Rivucati”, un secolo fa zona di cantine e accoltellamenti ma anche bagni nel Busento non ancora irreggimentato, oggi cercano una nuova identità: una spinta arriva dalla recente intitolazione a Battisti dei “giardini di Lucio”, con tanto di accenti sbagliati nei titoli riportati sulla scultura bifronte inaugurata da Mogol, ma un primo segnale di agognata renaissance – l’ennesima, dopo i bombardamenti e il degrado sempre dietro l’angolo, letteralmente – si era avuto già con l’inaugurazione in pompa magna del “distretto di cybersecurity” nella vecchia e sontuosa sede delle Poste, alla presenza dell’allora premier Matteo Renzi (era il 2015).

    Una raccolta di foto e stampe tratte dal gruppo Fb “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza.”

     

    Fu allora che arriat’ii poste virò da toponimo di pecorecce iniziazioni sessuali perlopiù verbali a polo di alta tecnologia con una spruzzata di servizi segreti. Un mood da spy story reso ancora più attuale, qualche giorno fa, dall’ufficializzazione della destinazione d’uso del palazzotto liberty di via Trento restaurato alla grande nell’ultimo anno e sul cui ingresso – incastonato tra due alti cipressi appena posti – troneggia finalmente, dopo iniziali chiacchiericci e segreti di Pulcinella finali, la scritta Grande Oriente d’Italia. Il mega-tempio massonico a un paio di metri dal palazzo comunale. Giusto per titillare le battutine dei detrattori del neo-sindaco Franz Caruso esponente di spicco proprio del Goi — dìciche.

     

    2. Il vecchio che resiste al brutto modernista

    Il tappeto multicolor di piazza Riforma che in pieno stile-Penelope dell’evo occhiutiano (scascia e conza, scascia e conza…) se ne sta già venendo via, è il segno dei tempi: ricorda la pavimentazione stradale attorno a piazza Bilotti, che si sfonda in virtù di implacabili leggi di obsolescenza simili a quelle che regolano la durata dei frigoriferi: con la differenza che quei blocchi di pietra si sfondano e vanno cambiati ogni 2, 3 mesi mentre l’elettrodomestico almeno a dieci anni ci arriva.

    Ai Rivocati, al contrario, alcuni manufatti resistono agli anni, alle intemperie e al cemento che avanza sbranando le antiche vestigia: da decenni abbevera i viandanti, per esempio, la fontanella resa iconica da uno scatto in b/n del compianto Fabio Aroni, zampillo che in un angolo della fu via Montello (oggi Davide Andreotti, storico) con via Pasubio serviva gli espositori del fu mercatino ortofrutticolo oggi rimpiazzato da uffici di nuovissima costruzione dell’Azienda ospedaliera e altro.
    È invece sparita da un paio d’anni la targa Cristiani Banane – altrettanto iconica – che svettava qualche metro più avanti. Era il quartiere dei commerci, qualcuno dei quali è oggi rimasto, come vedremo. Palazzoni moderni sono entrati a gamba tesa, con esiti alterni, tra i vecchi palazzi sventrati dalle bombe del 1943.

    3. Cultura, in attesa del pubblico il privato si organizza

    Il cine-teatro Italia Tieri, una delle strutture cittadine in cerca di identità, è il fulcro di una zona che galleggia tra innovazione e abbandono: proprio davanti all’ex Gil, edificio figlio del Ventennio, ecco il Centro di Salute mentale: non proprio l’Eden per chi ha bisogno di cure.
    Attorno, accanto ad altri poli istituzionali come la Casa della Musica collegata al conservatorio Giacomantonio, non mancano le nuove iniziative private: sta per partire l’Atelier AC (iniziali di Adele Ceraudo, artista cosentina celebrata anche oltre i confini calabresi) su corso Umberto; alle spalle, sullo stesso isolato, c’è quello di un’altra artista: Luigia Granata (via Davide Andreotti 23).

    Il cine-teatro Tieri diventato rifugio per i senzatetto

    Sul lato opposto della strada, in pochi metri sullo stesso marciapiede troverete le officine visuali “Ovo” di Andrea Gallo e la sede della Fgci e, a breve, la nuova sede della casa editrice Coessenza, già galleria d’arte Vertigo dove una ventina di anni fa trovarono nuova collocazione e linfa gli esponenti del “Laboratorio delle due anime” raccontato da Concetta Guido nell’omonimo libro edito da Le Nuvole (2001).

    La targa che ricorda lo scrittore Nicola Misasi

    Un passaggio poco prima della casa in cui visse Nicola Misasi “illustre scrittore calabrese” (1850-1923) conduce nella sede di Tecne, lo studio musicale di Costantino Rizzuti, cerebrale sperimentatore di suoni.
    Sono tutti soggetti che operano con dedizione e nel silenzio ma meriterebbero qualche attenzione.

    4. Negozi: chi ha chiuso e chi resiste reinventandosi

    Se il mitologico Cimbalino, cantato anche da Totonno Chiappetta, ha chiuso poco prima del traguardo delle 70 candeline (le avrebbe spente l’anno prossimo), come pure il salone del barbiere presente poco distante dal 1955, altre insegne storiche come Montalto sport (dal 1937) si sono reinventate adeguandosi, in questo caso, al mercato delle bici elettriche.

    Poco lontano, il negozio di cordami Mazzuca – tempio degli imbottigliatori e dei preparatori di conserve – ha ceduto il posto a un ristorante (CalaBry, via Sertorio Quatromani / piazza Tommaso Campanella) mentre si sente anche la mancanza della bancarella-cappelleria all’innesto nord del ponte Mario Martire.
    Fratelli Bruni (via Trento 7) è un’insegna che in questo 2022 festeggia i 130 anni. Un altro Bruni (corso Umberto, di fronte al Gran Caffè Renzelli) si vanta ancora oggi di essere l’unico concessionario di Borsalino. Insegna vintage che fa il paio con il lezioso lettering della cartoleria Morano, un civico prima.

    Caso a parte Scarpelli, che dal 1946 a oggi si è trasformata da bottega di quartiere – carattere che ancora conserva per la clientela autoctona – a tappa gourmand, tra cantina sconfinata e prodotti localissimi o internazionali di fascia altissima. Nell’arco di tre quarti di secolo ha annesso locali su locali creando infine un isolato interamente dedicato al gusto. Degno dirimpettaio il rivenditore di sale Borrelli, che non rinnega il piccolo spaccio accanto alla presenza nella grande distribuzione. Ma qui siamo già entrati di diritto in zona cibo.

    5. I Rivocati a tavola (da 10 euro in su)

    Nel quartiere bifronte potrete concedervi una tappa cosentinissima dal crapàro (trattoria Miseria e Nobiltà, largo dei Visigoti / Lungobusento Tripoli) e da Grandinetti (via Sertorio Quattromani 32, dove la leggenda vuole che il conto sia sempre di 10 euro) oppure una serata super-chic nel neonato Fellini (via Trento 15), dove se siete fortunati trovate anche la musica dal vivo.
    Negli anni novanta la rosticceria Reda, a gestione familiare, sfornava – si fa per dire: era tutto frittissimo – panzerotti a ciclo continuo: adesso i locali sono tra i tanti della zona in affitto.

    È però questa tutta una zona a tale vocazione gastronomica che potrete trovare ristoranti anche in due civici attigui (è il caso de Il paesello e A gulìa, su via Rivocati 95 e 91) oppure uno di fronte all’altro (Tina Pica e Osteria gemelli Tucci al 104 e 102).
    Da segnalare infine due presenze, una storica e una recentissima: EnoBruzia, l’apprezzato spaccio di vini di Lattarico per tutti gusti e le tasche, e il panificio l’Aurora, punto vendita dell’azienda Carelli che evidentemente ha intuito la vocazione di un quartiere vecchio 800 anni eppure dinamico come pochi altri. Il quartiere dei fornai e delle fiere.

    Silverio Tucci, chef dell’omonima osteria nel quartiere Rivocati

    COSA VEDERE

    Il giardino della Banca d’Italia (corso Umberto) curato nei minimi dettagli davanti a un edificio maestoso ma vuoto è uno dei simboli della città sospesa tra inespresse potenzialità e triste realtà.

    DOVE COMPRARE

    Siamo nel quadrilatero compreso tra il Renzelli a due passi dal municipio (assolutamente da provare la varchiglia) e la bottega delle meraviglie di Scarpelli: bisogna solo scegliere.

    DOVE MANGIARE

    Anche in questo caso tocca solo scegliere: consigliamo un tuffo nella cosentinità del crapàro o di Grandinetti, ma anche il pesce dell’osteria dei gemelli Tucci.

    (1. continua)

  • Palamara, de Magistris, Morra: il trio anti massomafia ne ha per tutti

    Palamara, de Magistris, Morra: il trio anti massomafia ne ha per tutti

    «Chi doveva guardarmi le spalle mi ha accoltellato», dice un Luigi de Magistris particolarmente carico.
    «Già, perché il sistema, come ho detto più volte e infine scritto nel mio libro, ha avuto i suoi anticorpi», gli fa eco Luca Palamara.
    Un incontro tra ex: colleghi e nemici, in entrambi i casi come magistrati. Anche a Cosenza, la sera del 27 aprile, si ripete il copione già visto più volte in tv, quando Lobby & Logge, l’ultimo libro scritto da Palamara assieme ad Alessandro Sallusti, teneva banco nel dibattito pubblico.

    C’eravamo tanto odiati

    Già: c’è voluta la brutta guerra tra Russia e Ucraina per frenare l’impatto mediatico di Lobby & Logge. Ma ciò non toglie che i miasmi del pentolone scoperchiato dall’ex capo dell’Anm continuino ad attirare attenzione.
    Calati nel contesto calabrese, poi, sollevano polemiche e stimolano riflessioni sul filo del non detto.
    «Mi fa piacere che oggi Palamara riconosca la gravità di ciò che mi è accaduto», incalza de Magistris, che ha partecipato al dibattito più come ex sostituto procuratore di Catanzaro che come ex sindaco di Napoli ed ex candidato a governatore della Calabria.
    «Io cerco di raccontare con onestà quel che ho visto e ho vissuto». Ribadisce Palamara. E prosegue: «All’epoca di Why Not trovai eccessivo il decreto di perquisizione di Gigi, che sembrava fatto apposta per essere pubblicato sui giornali». È l’onore delle armi, che tra l’altro Palamara ha reso in più occasioni al suo interlocutore.

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    Luigi De Magistris a Cosenza durante la campagna elettorale per le Regionali 2021 (foto Alfonso Bombini)

    Morra, il terzo incomodo

    Nel dibattito di Cosenza, moderato dal giornalista e scrittore Arcangelo Badolati, c’è un terzo incomodo: l’ex grillino Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia.
    Morra calabresizza ancora di più, se possibile, l’argomento e lancia alcune bordate. Innanzitutto, a proposito delle toghe nostrane borderline: «Si parlava di quindici magistrati di Catanzaro nell’occhio del ciclone. Ora, tranne Marco Petrini, tutti gli altri mi pare siano al loro posto». L’affaire Petrini diventa la scusa per un altro affondo: «Ricordo a me stesso che Marcello Manna è stato interdetto, per questa vicenda, dall’esercizio dell’avvocatura per un anno. E trovo gravissimo che i sindaci calabresi abbiano eletto Manna, nonostante questa situazione, presidente dell’Anci regionale».

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    Il giudice Marco Petrini

    Guai ’i nott e altre storiacce

    Qualche buontempone ha napoletanizzato Why not, l’ex inchiesta monstre di de Magistris, in Guai ’i nott, guai di notte. E i guai erano belli grossi. A Palamara, che ha argomentato sul lobbismo in magistratura, l’ex sindaco di Napoli ha raccontato una storia concreta. La sua.
    «Mastella, il ministro della Giustizia, mi fece trasferire perché indagavo il suo presidente del Consiglio. Ma neppure nell’Italia fascista, una storia così». Il sottinteso dell’ex pm è chiaro: conflitto d’interesse.
    E ancora: «Finché indagavo solo personaggi vicino al centrodestra, ricevevo qualche applauso dall’altra parte. Poi, quando ho ampliato le inchieste, le cose sono cambiate».
    Una conferma in più a quanto sostenuto da Palamara, che in varie occasioni ha graticolato l’ex presidente Napolitano, accusato di essere il protettore delle trame delle lobbies in toga.

    A proposito di logge

    A ciascuno la sua loggia, rigorosamente deviata. Per Palamara è la famigerata loggia Ungheria, per de Magistris fu la loggia di San Marino, che emerse sulla stampa quando Why not era nel vivo.
    Le espressioni “massoneria deviata” e “massomafia” riecheggiano nella sala a più riprese, più attraverso de Magistris e Morra che tramite Palamara, che in maniera più pragmatica parla di lobbismo. In realtà, forse, si dovrebbe parlare di cricche o di grumi di potere. Ma, a proposito di grembiuli, emerge un nome: Giancarlo Pittelli, ex big di Forza Italia, che fu l’inizio della fine di Gigi magistrato.
    «Il mio procuratore capo mi tolse l’inchiesta quando arrivai a Pittelli, che era vicinissimo a lui e a sua moglie». Insomma, la complessità calabrese fa passare in secondo piano i racconti da brivido di Palamara.

    L’affaire Gratteri

    Le domande su Nicola Gratteri, l’idolo dell’anti ’ndrangheta, di solito sono scontate. Quella rivolta da Badolati a Palamara lo è di meno: «Secondo lei Nicola Gratteri riuscirà a diventare capo della Direzione nazionale antimafia?». La risposta è in tema col dibattito: «La vedo davvero difficile, perché Gratteri è fuori dalle correnti».

    Palamara, Morra, Badolati e de Magistris durante la presentazione del libro

    Palamara, de Magistris, Morra e i fantasmi eccellenti

    «Quando si muore, in Italia si diventa eroi», dice con amara retorica de Magistris.
    «Se avessi fatto le tue inchieste nel ’92, l’esito sarebbe stato diverso, forse peggiore», commenta sinistro Palamara.
    Morra aggiunge il ricordo di Falcone e Borsellino, diventati eroi solo dopo gli “attentatuni”. Prima, invece, erano nel mirino di tanti, a partire dai loro colleghi: «Le loro carriere e inchieste furono ostacolate proprio dal Csm», chiosa il presidente della Commissione antimafia.
    Il riferimento, scontatissimo, va al trentennale imminente delle stragi del ’92 in cui morirono i protagonisti del maxiprocesso.
    Una volta le toghe dovevano essere rosse. Oggi non basta più: devono essere rosso sangue.

    Il pubblico cosentino presente all’incontro