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  • Duomo di Cosenza: dalla nascita ad oggi in una mostra multimediale

    Duomo di Cosenza: dalla nascita ad oggi in una mostra multimediale

    MMXXII 800 anni di storia e devozione è il nuovo progetto realizzato dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani in occasione degli 800 anni della consacrazione della Cattedrale dell’Assunta. La presentazione del percorso multimediale – che sarà inserito e fruibile all’interno del Museo Multimediale Consentia Itinera di Villa Rendano – si terrà venerdì 27 maggio 2022 alle ore 10:30 presso il duomo di Cosenza alla presenza di monsignor Nolè. Al termine, si proseguirà a Villa Rendano con l’apertura delle sale del museo.

    Il duomo di Cosenza dentro Villa Rendano

    Straordinariamente, per il Museo Consentia Itinera, si prevede una nuova Notte dei Musei al costo simbolico di 1 Euro per vivere la straordinaria emozione della costruzione e delle trasformazioni della nostra Cattedrale di Cosenza. Il museo che ha sede nella celebre dimora del musicista Alfonso Rendano – impegnato nella riscoperta e valorizzazione del centro storico di Cosenza attraverso percorsi immersivi che coniugano ricerche scientifiche e concettuali con il potenziamento del valore sociale e del senso identitario – partecipa con orgoglio alle celebrazioni per gli 800 anni dalla consacrazione della Cattedrale, rafforzando la propria offerta culturale.

    Villa Rendano

    Sette sale sulla storia del Duomo

    La mostra digitale MMXXII 800 anni di storia e devozione è un viaggio immersivo nelle sette sale del museo che racconta la storia pluricentenaria della Cattedrale di Cosenza: si ripercorrono i momenti salienti in cui i fedeli e i religiosi hanno edificato, restaurato e abbellito il cuore pulsante della città; la donazione della Stauroteca da parte di Federico II e un’approfondita analisi e ricostruzione 3D come non si è mai stata vista; le funzioni devozionali e artistiche della Cappella della Madonna del Pilerio con una particolare attenzione all’icona della Madonna restituita alle sue origini duecentesche; i monumenti funebri dedicati a Isabella d’Aragona e ad Enrico II di Hohenstaufen e le tombe dei martiri dei moti del 1843 presenti nella cappella del SS. Sacramento; infine, le trasformazioni della facciata nel corso del XIX e XX secolo.

    Una mostra ma non solo

    La mostra multimediale sarà fruibile in maniera permanente nelle sale del Museo Multimediale Consentia Itinera di Villa Rendano e in alcune parti sarà scaricabile tramite Qr code presente nella Cappella della Madonna del Pilerio e nel Museo Diocesano in prossimità della Stauroteca. Così come gli altri percorsi multimediali, anche questo sulla cattedrale di Cosenza sarà corredato da uno specifico piano educativo comprendente attività rivolte a famiglie, scolaresche, pubblici con esigenze speciali e alla comunità intera.

  • [VIDEO] Cucine da incubo: sfruttati a 20 euro nei ristoranti di Cosenza

    [VIDEO] Cucine da incubo: sfruttati a 20 euro nei ristoranti di Cosenza

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    Sapete perché sulle porte delle cucine dei ristoranti c’è scritto “vietato entrare”? Perché non ne uscireste vivi.
    Dietro quella soglia c’è un mondo capace di evocare spettri da rivoluzione industriale: lavoratori frenetici, impegnati nel muoversi provando ad ostacolarsi il meno possibile; comandi che si sovrappongono con furia quasi ci si trovasse nella fase cruciale di una battaglia, tra nuvole di vapore e fumi; pentole che bollono; mestoli appesi e piatti da riempire; griglie roventi e la fatica di uomini e donne quasi come dentro una trincea.

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    Diritti e profitti nei ristoranti di Cosenza

    Venti euro a turno di lavoro, spesso in nero, con durata dei turni parecchio flessibile. Quando invece c’è un contratto, le tutele si smarriscono dentro prassi consolidate, ben note e tuttavia taciute. Ferie che risultano in busta paga ma non sono godute, inesistenti assenze ingiustificate conteggiate per riequilibrare il divario tra le somme dovute da contratto e quelle realmente pagate, importi relativi a periodi di malattia versati dall’ente di previdenza e incredibilmente trattenuti dal datore di lavoro.

    Escludendo qualche studentessa impegnata nel fare la cameriera per racimolare un po’ di denaro, la maggior parte delle persone che sta dentro questo girone infernale è prevalentemente fragile sul piano culturale, scarsamente scolarizzata. E, dunque, meno consapevole dei propri diritti, poco incline a rivendicarli. Facili prede per quanti volessero massimizzare i loro profitti sulla carne viva dei lavoratori.

    La brandina nel retrobottega

    Angela ha poco più di vent’anni, è minuta e sembra più piccola, ma ha già una bambina e molto bisogno di lavorare. Per questo accetta di buon grado di fare spesso il doppio turno, lavorando mattina e sera in uno dei ristoranti di Cosenza. Purtroppo abita lontano da Cosenza e non potrebbe fare in tempo ad andare a casa e tornare tra la fine di un turno e l’inizio del successivo, quindi ha messo una brandina sul retro del locale. Lì si sdraia per poco meno di un’ora, si leva le scarpe e prova a chiudere gli occhi, mentre i suoi colleghi poco distanti lavorano.

    Ristoranti a Cosenza: l’orata sfuggita dal congelatore

    Una mattina cuochi e lavapiatti entrarono nella cucina di un noto ristorante della città per cominciare la loro giornata di lavoro e trovarono sul pavimento un’orata. La scena dovette sembrare vagamente surreale: un pesce, pure bello grosso, sul pavimento. Era evidentemente caduto la sera prima, mentre qualcuno aveva preso qualcosa dal congelatore. Il pesce era lì da tutta la notte, doveva essere buttato, con sommo disappunto del proprietario del ristorante che aveva tuonato: «Qualcuno questa orata la deve pagare!». E infatti qualcuno la pagò, trovandosi una cospicua trattenuta in busta paga.

    Se le buste paga potessero parlare

    Giovanni non ha molta dimestichezza con le buste paga, lo sguardo va dritto alla somma che sta alla fine della pagina e quello gli basta. Una volta però scorrendo i dettagli scopre che ha fatto quattro giorni di assenza non giustificati dal lavoro. Lui è uno che invece non si assenta mai e trova il coraggio di chiedere spiegazioni al datore di lavoro.

    «Non ti preoccupare – spiega l’imprenditore con voce rassicurante – è solo per una questione di tasse». In realtà anche alcune buste paga di altri colleghi riportano ogni tanto la stessa voce in sottrazione di somme di denaro per assenze mai avvenute e la ragione è legata alla necessità di far avvicinare lo stipendio reale a quello veramente accreditato secondo contratto.

    Restate a casa: cuciniamo noi

    asporto-ristorantiDurante il lockdown molte realtà della ristorazione hanno affrontato la crisi dei locali vuoti ripiegando sull’asporto. Meno clienti, ovviamente, ma era un modo per non fare morire l’impresa. A soffrirne sono stati i lavoratori, che a turno sono stati impiegati nelle cucine, come Fiorella e gli altri che ufficialmente erano in cassa integrazione, ma la trincea di pentole e fornelli non l’hanno mai potuta lasciare. «Eravamo ogni giorno al lavoro, non tutti assieme perché non c’era bisogno di tanta gente contemporaneamente, ma a rotazione. Saremmo dovuti stare a casa, e invece eravamo al lavoro»

    I grandi assenti

    In queste storie ci sono alcuni grandi assenti: i diritti e la loro consapevolezza, l’Ispettorato del lavoro, che magari qualche ispezione potrebbe pure farla, il sindacato. Il protagonista incontrastato è il bisogno che attanaglia un numero sempre maggiore di persone, piegandole a condizioni che facilmente possono essere considerate inaccettabili. Ma anche la retorica di quanti con sufficienza affermano che «la gente non vuole lavorare».

    Quando state in un ristorante e lo sguardo vi va verso l’ingresso delle cucine, rivolgetelo subito altrove: “Non aprite quella porta” potrebbe non essere solo il titolo di un vecchio film dell’orrore.

  • Taglia e cuci alla meno peggio: la Sanità malata in salsa bruzia

    Taglia e cuci alla meno peggio: la Sanità malata in salsa bruzia

    Li vedi entrare e uscire dai reparti, stremati da ritmi di lavoro estenuanti. Nell’ospedale dell’Annunziata di Cosenza, medici, infermieri e OSS attraversano silenziosi i corridoi e le stanze che fino a due anni fa pullulavano di gente. Prima della pandemia, più che un ospedale sembrava un fumetto di Jacovitti. Poi le misure anti-Covid hanno fatto sparire lo spumante e i pasticcini al varco di Ostetricia, le parmigiane di melanzane per i degenti a Geriatria, i capannelli intorno alle bottigliette piene di caffè fumante davanti alla sala operatoria. Insieme ai familiari dei pazienti, però, è sparita la maggior parte del personale tagliato dalle politiche di “austerità”.

    L’ingresso dell’ospedale dell’Annunziata a Cosenza

    Sanità a Cosenza, il dottore dov’è?

    Solo a Cosenza nella sanità non si bandiscono da anni concorsi per posti a tempo indeterminato. Ciò rende poco attrattiva la partecipazione di giovani medici e infermieri che trovano fuori regione le risposte che cercano in termini di sbocchi professionali. Il piano aziendale prevede per la Gastroenterologia 11 medici (10 + primario). Nel corso degli anni i medici sono rimasti in 6 (5 + 1) e non c’è stato avvicendamento tra pensionati e nuovi assunti. Questo ha portato a una riduzione delle attività ambulatoriali e a un dimezzamento dei posti letto. Ce n’erano 21, ora sono 11. Ciò comporta un mancato decongestionamento del Pronto Soccorso che non sa dove ricoverare le persone richiedenti cure specialistiche. Vi stazionano per giorni e giorni, con ovvi disservizi. Pochi giorni fa si è verificato che era presente un solo medico per 36 pazienti.

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    I sindaci della provincia durante la protesta velleitaria all’ingresso dell’ospedale di Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Il vero problema, dunque, è la mancanza di personale, aggravato da attrezzature obsolescenti, non sostituite. Alcuni dei medici dell’ospedale dell’Annunziata si sono formati per una metodica denominata ecoendoscopia per la quale l’azienda ha anche investito risorse economiche (stage all’Ismett e al San Raffaele), ma non è mai stato acquistato un ecoendoscopio. Altri reparti, come Medicina Interna, raggiungono risultati encomiabili in termini di prevenzione e diagnosi del tumore alla tiroide o al fegato, ma non potendo coprire un’utenza così vasta, migliaia di pazienti si riversano nelle strutture private. Molti devono recarsi spesso fuori regione o di recente a Reggio Calabria dove hanno investito in attrezzature e personale, realizzando i concorsi a tempo indeterminato.

    Possibile che nella stessa regione ci sia questa difformità? Ai commissari rotanti bisognerebbe chiedere quante sono le unità mediche e infermieristiche aggregate in totale nei vari reparti dell’ospedale di Cosenza, e in ciascuno di essi, dall’insediamento del presidente Occhiuto alla Regione, cioè dall’ottobre 2021 ad oggi. Quanti erano 5 anni fa e quanti sono adesso i medici e gli infermieri? Sono in programma acquisti di nuove strumentazioni per reparti come quello di Medicina Interna? A quanto ammontano le risorse impiegate negli ultimi 5 anni?

    Il vizietto del TSO

    In altri settori, come Psichiatria, si propongono in continuazione TSO e ricoveri ripetuti a brevissima distanza di persone con patologie croniche, che sul territorio non trovano risposte e contesti adeguati. La gestione dei pazienti è spesso completamente a carico delle famiglie, quasi sempre formate da genitori anziani. Ciò fa lievitare i costi e le patologie diventano sistemiche nel contesto familiare. Per quanto riguarda i posti convenzionati nelle cliniche, sono pochissimi. I malati psichiatrici non hanno lo stesso decorso degli anziani nelle RSA. Cinicamente parlando, non muoiono frequentemente, perché non soffrono di patologie organiche. Questo fa sì che i letti convenzionati siano un miraggio per chiunque, perché i posti non si “liberano” mai. Ciò crea una disuguaglianza enorme fra chi può pagare la retta e chi invece rinuncia al ricovero.

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    Vincenzo Carlo La Regina, commissario straordinario dell’Asp di Cosenza

    La rotazione dei commissari, disposta di recente da Occhiuto, ha fatto slittare l’audizione dei vertici di Asp e Ao in commissione regionale Sanità. Ai direttori La Regina e Mastrobuono non è stato quindi possibile chiedere quali siano stati negli ultimi anni gli interventi concreti (per esempio, assunzioni all’interno del Csm) per potenziare i servizi territoriali dedicati alla salute mentale. Quante sono nel territorio della provincia di Cosenza le unità operative nell’assistenza domiciliare e nel supporto alle famiglie dei pazienti psichiatrici? È in programma l’assunzione di nuovo personale?

    “Fascicolo sanitario? E che cos’è?”

    In questo delirio disorganizzativo, è passato inosservato il fascicolo sanitario elettronico. Sebbene sia stato attivato, nei reparti oncologici di ospedali come quello di Cosenza i malati di tumore devono ogni volta raccontare da capo ai medici la propria storia. In Calabria, per questioni di mera sopravvivenza, si ricorre all’autodiagnosi e all’anamnesi autogestita permanente, con immaginabili conseguenze. Sarebbe interessante sapere quali risorse abbiamo impegnato negli ultimi tre anni per formare il personale sanitario in materia di lavoro a rete e gestione della digitalizzazione dei dati.

    È evidente che tra di loro le diverse strutture sanitarie non comunicano. Inoltre numerosi esami diagnostici (per esempio, la calcitonina) sono stati sospesi. Disagi enormi in territori vasti come quello cosentino comporta l’assenza del reparto Senologia. In assenza di interventi istituzionali, la società civile si è dovuta organizzare da sola. Non è casuale che un’associazione come Onco MED, senza scopo di lucro e con obiettivi come la diffusione della cultura della prevenzione oncologica attraverso uno studio medico multidisciplinare gratuito per indigenti, nel 2021 abbia registrato 550 accessi in studio, 10 interventi domiciliari, 500 percorsi di cura e 528 esami diagnostici.

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    Volontari di Oncomed nel centro storico di Cosenza

    Mentre la pandemia si appresta ad andare in vacanza, la sanità pubblica in Calabria – specie a Cosenza – non smette di sanguinare. Dilaniato dal trasferimento di fondi e funzioni ai privati, mutilato da tagli alla spesa, affossato dai ripetuti commissariamenti, il sistema sanitario calabrese attende che diventino atti concreti i roboanti annunci della nuova giunta regionale. Gli ospedali di Trebisacce e Praia non hanno ottenuto riattivazioni di reparti. Dei centri Covid non ne è stato reso attivo neanche uno.

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    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Il presidente della Regione, Roberto Occhiuto, ha detto che ci sarebbero risorse disponibili per coprire 2500 posti, ma le strutture amministrative burocratiche ospedaliere sono adeguate a sviluppare nei tempi dovuti i concorsi e le assunzioni? E la volontà politica c’è? Il commissario La Regina ha eseguito 87 stabilizzazioni. Sono la classica goccia nell’oceano, se pensiamo che nel 2022 nell’Asp di Cosenza sono programmati 300 pensionamenti.

    Sanità a Cosenza, il peccato originale di Adamo

    La provincia bruzia, per estensione e abitanti, da sola costituisce più del 40 per cento del territorio regionale. Dal 2007, da quando le aziende sanitarie e ospedaliere furono accorpate e da 11 passarono a 5, è sprofondata in un abisso. Tra gli artefici del provvedimento, Nicola Adamo, all’epoca vicepresidente della giunta regionale. Il provvedimento fu approvato di notte. L’Asp di Cosenza amministra 150 Comuni, quella di Crotone 27.

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    Nicola Adamo è stato anche vicepresidente della Regione Calabria

    La conclusione è che nessun essere umano può essere in grado di governare l’Asp (e la sanità) di Cosenza. Il direttore generale o commissario che dir si voglia ha infatti sotto di sé una pletora di personaggi che non prendono ordini da lui, bensì dai rispettivi protettori politici. L’emergenza quotidiana da gestire ogni giorno propone vertenze, carenza di fondi e visite della Guardia di finanza. C’è poi il problema dei costi. Una siringa non può costare un prezzo diverso in province differenti della regione. Gli ambiti territoriali sono vasti, disegnati male, ingestibili.

    Intanto a Rossano proseguono i lavori per la realizzazione dell’ospedale “della Sibaritide”. Bisognerà capire da dove arriveranno le risorse per attivarlo. I fondi per il cemento sono stati reperiti. Quelli per i medici mancano da anni. I nuovi (molti dei quali, vecchi) commissari nominati per le varie aziende sanitarie e ospedaliere avranno gli strumenti per fornire risposte alle tante domande dei calabresi senza sanità? Oppure continueranno a lasciarsi cullare dall’ignavia? E che fine ha fatto il progetto del nuovo ospedale finanziato da anni?

  • Scalea, la Rimini senza Rimini che campa coi rubli

    Scalea, la Rimini senza Rimini che campa coi rubli

    Nell’estate del nostro scontento – acqua mai mediamente così sporca lungo tutto il Tirreno cosentino già da inizio luglio –, nei giorni del «sembra merda ma non è» dell’assessore Fausto Orsomarso, facciamoci del male e andiamo a Scalea. Ma non per vedere la celeberrima e infatti già celebrata «fioritura algale» (su social e battigie è già più citata del “mare da bere” dell’allora governatore Mario Oliverio, ancora alquanto in voga a dire il vero), bensì a caccia. Sempre di «merda», però per strada.

    La fioritura “munnizzale”

    Qui il mese di agosto è iniziato con lo spauracchio di 250 tonnellate di rifiuti riversate per le strade cittadine. E con la conseguente richiesta del sindaco Giacomo Perrotta, il quale ha rispolverato il sempreverde «invio dell’esercito» per risolvere la situazione.
    Et voilà: è il 30 luglio, un venerdì pre-maxiesodo, e le strade di Scalea sono pulite. L’esercito è già passato di notte e ha spazzato via la fioritura “munnizzale”, evidentemente.

    E dunque per rendere il viaggio meno inutile e deludente torniamo nella località cantata da par suo da Tony Tammaro («Scalea, Scalea / Ma come mi arricrea», rima intergenerazionale, meno di due minuti di video e oltre un milione e 300mila visualizzazioni su YouTube) 35 stagioni dopo il reportage di Michele Serra in Panda per l’Unità.
    La «selva di pubblicità immobiliari» che «quasi fa ombra alla strada» ha lasciato il posto ai cartelloni della grande distribuzione e dei marchi in franchising.

    Se a metà anni Ottanta si doveva pubblicizzare il Villaggio Maradona di Domenico Fama, negli anni della massificazione dei consumi e della democratizzazione del cibo ecco i loghi Conad, MD, EuroSpin, InterSpar. Cartelli e 6×3 che fanno da contraltare alle molte serrande abbassate degli empori vecchia maniera, generi alimentari e negozi-di-tutto dove trovavi dai braccioli agli accendini, al tagliaunghie, ai souvenir con la calamita per il frigorifero con la torre Talao o la vicina isola di Dino.

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    Una gelateria ormai chiusa alle spalle della Torre Talao, simbolo di Scalea
    Accenti toscani, annunci in cirillico

    I tempi di Serra, il cuore del ventennio di cemento ovvero il sacco della costa tirrenica, erano evidentemente quelli dei cartelloni che annunciavano tramite rendering i rassicuranti villaggi che avrebbero di lì a breve sbranato la terra. Il “consumo di suolo” era ancora di là da venire, almeno nei dossier di Legambiente, benché fosse già felicemente al galoppo.

    Oggi dominano le agenzie immobiliari (sul tratto di statale che attraversa Scalea se ne contano 10 in poco più di 50 metri, altre sono nelle strade interne: per numero competono con Cosenza) sparse nel campionario comune a tutte le altre città italiane di finanziarie, agenzie di scommesse e outlet. Un unico panorama cromo-iconografico come quello che per terra vede vicini un gratta e vinci grattato e una bustina di Gaviscon svuotata cui da un anno e mezzo si è aggiunta una mascherina usata.

    Tra accenti toscani (sorpresa!) e annunci in cirillico, curiosiamo tra gruppetti di russ*, ma sono soprattutto donne in questo che sembra un business a trazione matriarcale. Larghe, bionde e mediamente sorridenti stanno sedute davanti alle vetrine, su sedie di plastica o impagliate come da postura classica in modalità vilienza calabra.
    Ci sono le agenzie russe ma anche una Gabetti, espongono foto e info sulle varie metrature. Si va dal monolocale a 200 metri dal mare (19mila euro, ma se ne trovano anche a 13mila) alla tipologia 60 mq a 38mila, c’è un bilocale 30 mq a 15mila euro, praticamente una utilitaria. A Santa Maria del Cedro prezzi ancora più bassi, a Grisolia e Maierà stracciati proprio.

    Insegne ibride Scalearealty.ru e I❤ Russiascalea.ru (РУССКАЯ СКАЛЕЯ) competono con i localissimi Riviera-italiana e Larcoimmobiliare.com. Ma confrontare le homepage è capire esattamente il diverso immaginario di chi conosce questi posti per esserci nato e chi ci arriva con chissà quali aspettative. L’esotismo di un litorale che in foto sembra Miami (siti russi) si scontra con fotogallery tutte piscine e corpi abitativi brutalisti e soprattutto mare ripreso da lontano (nei siti italiani).
    Sottotesto: in caso di mare inquinato o fioritura algale ci sono valide alternative, tranquilli.

    Rimini senza Rimini (però ci sono i lidi)

    Un anziano gira con il Mattino sottobraccio, giusto per ricordarci che Tammaro è ancora attuale. Palme e verde sono curatissimi, i muletti della ditta Ecoross macinano chilometri a caccia di antiestetici e maleodoranti cumuli.
    Via Michele Bianchi (il primo segretario del Partito Nazionale Fascista che vanta un sacrario nella natia Belmonte), porta alla piazza-parcheggio con il monumento ai caduti. A pochi metri ecco la casa (abbandonata) in cui Gregorio Caloprese «insegnò a Pietro Metastasio la filosofia del Cartesio» (dopo due secoli Gaetano ed Alfonso Cupido posero 1920, recita la lapide). Il gazebo della Pro loco propone la sagra del pesce spada, l’eventificio pre-Covid e gli assembramenti alla leggendaria discoteca Acadie sembrano appartenere a un’altra era.

    Settemila abitanti d’inverno e 300mila in estate (annotava Serra, oggi i numeri parlano di 11mila contro oltre 250mila presenze compresi i turisti), senza piano regolatore e uno sviluppo edilizio «selvaggio e abnorme», un «boom canceroso», una «metastasi di cemento» formatasi tra speculazione e abusivismo.
    Oggi, guardando verso monte dalla marina, non si possono non notare alveari in laterizio appoggiati sulla “scalea” che dà il nome al borgo: uno in particolare sembra l’orologio di Dalì, una mega-costruzione spalmata sul declivio quasi fosse liquefatta o in via di scioglimento, come se si volesse renderla meno invasiva per l’occhio.

     

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    […]Uno in particolare sembra l’orologio di Dalì, una mega-costruzione spalmata sul declivio quasi fosse liquefatta o in via di scioglimento, come se si volesse renderla meno invasiva per l’occhio […]

    Trenta metri quadrati comprati a inizio Ottanta per 15 o 20 milioni di lire (l’inviato riportò la paga quotidiana degli operai edili a nero: 2 o 3mila lire al giorno), ma fognature che scoppiavano perché le varie lottizzazioni avevano fatto confluire i collettori dentro le vecchie tubazioni. E la merda in acqua, appunto (Orsomarso in quel 1985 aveva ancora 14 anni e non si occupava di fioriture algali).
    Sì, nei quattro decenni a seguire non sembra sia cambiato molto.

    «Tortora, Praia a Mare, Scalea, Santa Maria del Cedro, Diamante, Belvedere, Cetraro, giù giù fino ad Amantea: la costiera cosentina è assassinata dal cemento. In buona parte cemento mafioso. (…) I soldi sporchi della camorra napoletana e della ‘ndrangheta calabrese sono scomparsi anche nei milioni di metri cubi costruiti da queste parti. Comodamente riciclati in un mercato edilizio completamente al di fuori del controllo pubblico. Perché la mafia non ammazza soltanto i cristiani: ammazza anche i paesi, la terra, i paesaggi, le tradizioni, la storia, la cultura», scriveva Serra. Che definì Scalea «un villaggio» divenuto «mostro» con «una spiaggia meravigliosa, oggi trasformata in un allucinante carnaio», «una folla riminese ma senza Rimini, senza strutture, senza servizi, senza niente».

    La storia si ripete

    Sdraio e ombrelloni affittati senza licenza, il Comune che chiude tutti e due gli occhi in cambio dei voti, si doleva il cronista. Oggi almeno i lidi, non solo a Scalea, sono una materia normata, mentre sul voto di scambio in Calabria si scrivono ancora ordinanze e articoli di cronaca.
    Nell’estate 2021, la seconda covidica, quella dei vaccini e del Green pass che dovevano rappresentare il lasciapassare alla socialità e al rilancio dell’economia e del turismo, nuove e vecchie emergenze cioè alghe e spazzatura alimentano i discorsi più o meno ironici, più o meno incazzati nei tavolini distanziati dei bar.

    «L’apatia, ecco il grande problema della mia gente. E l’abbandono da parte di tutti». Cosa resta di queste parole di Gennaro Serra, il pittore che segnalò il sacco di Scalea a sovrintendenza e pretura e nel 1975 sentì esplodere una bomba sotto casa? Resta l’apatia, il senso di abbandono forse meno: perché si sa che almeno ci sono un sacco di russi che a Scalea hanno trovato il loro eden.

  • Duello tra boss: morte e sangue alle porte di Cosenza

    Duello tra boss: morte e sangue alle porte di Cosenza

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    Ancora non era mafia e non lo sarebbe diventata per un pezzo. Eppure i malavitosi di Cosenza odoravano già di leggenda. Va da sé, di leggenda nera. I loro nomi riempiono rapporti di Pubblica sicurezza, dominano le cronache (anche a dispetto delle censure del fascismo) e passano di bocca in bocca.
    Parliamo, in questo caso, del mitico Luigi Pennino, detto ’u Penninu, attivo tra il Ventennio e gli anni ’60, e di altri personaggi, come ad esempio Francesco De Marco, detto ’u Baccu e Michele Montera.

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    Piazza Riforma negli anni ’50: quartiere di nascita di Luigi Pennino, capo della malavita cosentina (foto L. Coscarella)

    I tre facevano parte dello stesso gruppo e, in particolare, Baccu e Penninu erano legatissimi. Poi le cose cambiano. Montera si mette in proprio e fa concorrenza a Penninu, che entra ed esce di galera con accuse non leggerissime: lesioni e omicidio.
    Ma anche Baccu si ribella a don Luigi. E la paga cara.

    Una malavita “bastarda”

    Nella prima metà del XX secolo a Cosenza c’è una malavita effervescente, che tuttavia non si può definire mafia. Il motivo è “sociologico”: i traffici della malavita di Cosenza si basano sulla prostituzione. E il lenocinio, secondo gli statuti dell’Onorata Società (il nome che allora la ’ndrangheta dava a sé stessa) è uno di quegli “strani mestieri che impediscono al delinquente di considerarsi uomo d’onore.
    Una condizione che la mala bruzia si sarebbe trascinata fino agli anni ’70, quando la terza generazione di “guagliuni ’i malavita” (titolo dell’omonimo libro di Francesco Carravetta) avrebbe tentato il salto di qualità, in parte riuscendoci, sotto la guida di altri boss come Franco Pino, Antonio Sena, Franchino Perna e Luigi Pranno. Ai tempi di Penninu le cose erano diverse.

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    Una storica immagine del quartiere dei Rivocati

    Luigi Pennino: profilo di un boss

    È doveroso premettere che non c’è alcun atto giudiziario definitivo che inchiodi Luigi Pennino al lenocinio. Inoltre: anche i boss non cosentini stimavano Pennino, che non consideravano un lenone. Tuttavia, ‘u Penninu resta la figura di spicco dell’ambiente cosentino, fatto di papponi, piccoli contrabbandieri ed estorsori. La sua leadership si basa su un misto di fascino personale (lo testimonia il suo successo con le donne), astuzia, coraggio e abilità con le armi.

    Nasce nel ’900 alla Riforma, che allora non è una piazza ma una campagna ai confini della città che dà su altre campagne, che costituiscono un hinterland povero in mano a pochi ricchi.
    Per qualche anno Pennino fa il fotografo ambulante. Ma il suo tenore di vita, testimoniato dall’abbigliamento elegante, è superiore alla sua professione e al suo ceto.
    Come si procuri i soldi per vivere bene – e campare una bella moglie – non è del tutto un mistero per le forze dell’ordine. Già nel ’31 ’u Penninu finisce in galera con l’accusa, confermata in appello, di furto e associazione a delinquere. È solo l’esordio.

    Il duello tra Pennino e Baccu avviene proprio nella discesa del Crocefisso alla Riforma

    Un duello tra ex amici

    Nel ’44 a Cosenza la guerra è finita. Ciò non vuol dire che in città regnino la pace e la sicurezza.
    A differenza dei compari reggini e siciliani, i malavitosi cosentini non ricorrono alla lupara bianca ma si affrontano a viso aperto dove e come capita.
    Così avviene in un tardo pomeriggio della primavera di quel dopoguerra, quando ’u Penninu e ’u Baccu discutono animosamente nella discesa del Crocefisso, che conduce alla Riforma.
    De Marco, sodale di Pennino, è un bestione dalla forza erculea. E tenta di ribellarsi al capo, a dispetto del fatto che quest’ultimo sia stimato e temuto in tutta la città, perché gestisce il suo potere con garbo e con un senso personale di giustizia che lo hanno reso una specie di Robin Hood.
    Come mai Baccu si è ribellato? Sulla rivolta del fedelissimo ci sono due versioni diverse, ma non necessariamente contrastanti.
    La prima: sarebbe stato Michele Montera, altro ex sodale di Pennino, poi diventato capo di un gruppo rivale, a istigare De Marco. La seconda: De Marco, tra le varie, era invidioso del successo con le donne. Non è la prima volta che don Luigi subisce un tentativo di golpe. E non si fa trovare impreparato.

    Pennino contro Palermo: la malavita di Cosenza

    Torniamo indietro di quasi dieci anni, per la precisione al 2 aprile 1935. Pennino convoca i suoi per una partita a bocce.
    Chi perde, dovrà pagare il vino per un altro gioco: Patrune e sutta.
    Col boss ci sono Albino e Michele Montera, Giovanni Del Buono, Francesco Parise e tale Luigi Palermo, detto ’u Calavisi (che, stando alle carte, sarebbe solo omonimo del boss storico, detto ’u Zorru, che prenderà il posto di Palermo).

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    Luigi Pennino, storico capo della malavita di Cosenza

    La partita a bocce va benissimo. Decisamente meno quella a Patrune e sutta: Pennino si arrabbia coi suoi e li convoca fuori per chiarire. Prende sottobraccio Albino Montera e si dirige verso il gasometro.

    Alle sue spalle c’è Palermo, che estrae un coltello e lo colpisce di striscio al collo e poi al petto. Il secondo colpo non va a bersaglio come si deve e il coltello buca solo la giacca del boss. Quest’ultimo reagisce e colpisce ’u Calavisi al fegato con una coltellata ben piazzata.
    Palermo muore quattro giorni dopo e Pennino è condannato a quattro anni di carcere, perché la Corte d’Assise di Cosenza gli riconosce le attenuanti sull’imputazione di omicidio colposo.

    La fine di Baccu

    Lo stesso copione si ripete, più o meno, dieci anni dopo alla Riforma. Abituato a guardarsi le spalle, don Luigi si presenta armato come si deve.
    Ha una Smith & Wesson a tamburo, con cui ha barattato la sua vecchia Beretta. De Marco spara per primo e colpisce Pennino alle gambe.
    Il boss è più preciso e deciso, oltre che fortunato: mira al petto e spara tre volte. E tutt’e tre centra il bersaglio.
    Stavolta la legittima difesa c’è tutta. Baccu termina la carriera e la vita. Penninu morirà trent’anni dopo e il suo feretro riceverà onorificenze degne di un leader.
    Poi inizierà l’era di Luigi Palermo, ’u Zorru. Ma questa è davvero un’altra storia.

  • Daspo di 5 anni al tifoso del Vicenza per le frasi razziste rivolte contro i cosentini

    Daspo di 5 anni al tifoso del Vicenza per le frasi razziste rivolte contro i cosentini

    Daspo di 5 anni per il tifoso del Vicenza che ha pronunciato frasi razziste contro i supporter del Cosenza calcio.  È stato individuato dalla Digos di Vicenza e dalla Polizia Postale l’autore delle video registrato allo stadio Menti con gli insulti rivolti ai calabresi durante tra la formazione veneta e i Lupi. Si tratta di un 22enne vicentino senza precedenti penali. Non potrà avvicinarsi allo stadio Menti nel raggio di 500 metri. Sul fronte penale invece la Procura avvierà un indagine per il tenore delle espressioni pronunciate nel video poi rimosso dai social. Il giornale I Calabresi – attraverso il direttore Francesco Pellegrini –  ha già presentato stamane una formale denuncia contro il tifoso del Vicenza protagonista del video diventato virale.

  • Tifoso razzista del Vicenza: ultrà del Cosenza sono «scimmie calabresi»

    Tifoso razzista del Vicenza: ultrà del Cosenza sono «scimmie calabresi»

    «Scimmie, scimmie calabresi, lavatevi che puzzate di ‘nduja». Sono frasi inqualificabili pronunciate da un tifoso del Vicenza – durante lo spareggio con il Cosenza di giovedì scorso – in un video caricato su You Tube e pubblicato sul canale L’Ultrà dei poveri. Salvo poi scomparire sotto la dicitura: video non disponibile. Ma I Calabresi ne ha conservato la versione integrale. Una parte di questa ha deciso di mostrarla.

    Sul campo la compagine veneta si è imposta per 1-0.  L’ultrà del Vicenza si cimenta poi con l’immancabile «terroni di merda».  Non mancano i consueti stereotipi: «Cosa è la Calabria? ‘Nduja e mafia?». Continua la sua performance razzista gridando: «Ributtateli in Africa». Venerdì prossimo il ritorno dello spareggio-  per restare in serie B-  in uno stadio San Vito Marulla che si preannuncia infuocato.

  • Conti in rosso e luci ovunque: il primo grande crack di Cosenza

    Conti in rosso e luci ovunque: il primo grande crack di Cosenza

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    Chi non gli vuol bene (o è deluso) rimprovera due cose all’ex sindaco Mario Occhiuto: essersi concentrato sul voluttuario e il dissesto del Comune di Cosenza.
    Quest’ultimo non è colpa sua. O, almeno, non lo è del tutto. Gli si può rimproverare di non aver tenuto i conti sotto il livello di guardia, tanto più che lo Stato aveva iniziato a sforbiciare le sue rimesse dal 2011.
    Gli emblemi del voluttuario by Occhiuto restano le luminarie con cui ha tentato di abbellire, non sempre riuscendoci, varie zone della città.

    Parliamo dei famosi “cerchi” e dei santini di un improbabile Re Alarico che hanno troneggiato per anni, a costi non proprio leggerissimi.
    «Archite’ ricogliati ssì circhi», rappavano alcuni anni fa Zabatta e Solfamì, i re mascherati dell’hip pop satirico cosentino.
    Ora che i circhi non ci sono più (anche se Franz Caruso li ha rimessi in giro), è doverosa una riflessione: il dissesto di Cosenza non è colpa delle luci. Ma a Cosenza c’è stato un sindaco che ha messo il Comune in crisi per altre luci: Francesco Martire.

    Cosenza verso il dissesto: il primo grande debito

    Francesco Martire non era un archistar ma aveva lo stesso il pallino delle opere pubbliche.
    Esponente della sinistra storica, già deputato per tre legislature a partire dal 1865, aveva promosso la realizzazione della ferrovia Sibari-Sila.
    Nel 1876 Martire diventa sindaco di Cosenza, dove fa ricostruire il ponte Alarico e, appunto, realizza l’illuminazione a gas.

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    Il vecchio ponte Alarico (1883) in ferro, sostituito dall’attuale dopo la Seconda Guerra mondiale

    Per una città come Cosenza, il gasometro è la classica manna. Ma anche uno sproposito: costa un milione di lire dell’epoca, oltre venti milioni di euro attuali.
    Infatti, la Cosenza dell’ultimo quarto del XIX secolo conta circa ventimila abitanti e il suo bilancio è al massimo di duecentomila lire. Quindi s’impone il mutuo. Martire lo contrae a nome del municipio col banchiere napoletano Gaetano Anaclerio.

    Il contratto è un capestro: per garantirlo, il Comune emette 3.036 obbligazioni da cinquecento lire l’una, da rimborsarsi entro cinquant’anni. Più gli interessi ed eventuali penali. C’è chi mugugna. Ma tant’è: nella Cosenza di allora, chi non è d’accordo salta, più che in quella di oggi.
    È il caso di Antonio Coiz, il preside del Telesio, trasferito in Puglia qualche mese prima del prestito. Martire è intoccabilissimo, perché protetto da tutti. Dalla sua sinistra e dagli avversari.

    Inciucio d’epoca tra destra e sinistra

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    Luigi Miceli

    Alle spalle di Martire c’è Luigi Miceli, esponente della sinistra radicale, che fa la guerra al destrorso Francesco Muzzillo.

    Muzzillo sulle prime la spunta: la sua lista vince le elezioni del 1876. Ma Miceli, parlamentare di lungo corso ed esponente della Cosenza che conta, preme per lo sconfitto. All’epoca i pastrocchi non sono un problema, visto che il sindaco è nominato dal re su proposta del Consiglio comunale.
    Quindi Martire diventa sindaco. Ma, per tenersi la poltrona, ricorre a un espediente oggi molto in uso nei paesi dell’Europa orientale: riempie la giunta di avversari.

    Dissesto: la massoneria scende in campo a Cosenza

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    Pietro De Roberto

    Passano gli anni e le cose cambiano. Cambia anche il debito, che triplica per colpa delle clausole firmate da Martire e, va da sé, dell’insolvenza del Comune.
    Cambia anche la posizione di Miceli, bollito da anni di potere e insidiato dalla massoneria.
    Miceli, nel 1888, è ministro dei Lavori pubblici nel governo di Francesco Crispi. A Cosenza le logge “Bruzia”, guidata dal patriota Pietro De Roberto, e “Telesio” gli fanno la guerra.
    Allo scopo, i grembiulini preparano un trappolone: un incontro pubblico presso il teatro Garibaldi, promosso dal settimanale La lotta. Lo scopo del meeting è apparentemente innocuo: la richiesta di un reggimento del Regio esercito in città. Ma il dibattito diventa una requisitoria contro Miceli, che, nonostante il suo consistentissimo seguito politico, subisce una bella botta.

    A.A.A. sindaco cercasi

    Cosenza, che non ha un sindaco da tre anni ed è amministrata dal facente funzioni Giuseppe Compagna, va alle elezioni nel novembre 1888. Con una novità: il re non nomina più i sindaci, che sono eletti direttamente dai Consigli.
    Le elezioni sono tipicamente cosentine: venti liste per un totale di settantuno candidati. Con gli occhi di oggi, non sembrano grandi numeri. Ma per una città di poco più di ventimila abitanti in cui ha diritto al voto il quindici per cento circa dei residenti è tantissimo.

    Vince la lista sponsorizzata dalla loggia “Bruzia”, che si aggiudica sedici consiglieri su trenta. Ma è una vittoria parziale, perché arriva la parte più difficile: fare il sindaco.
    Le finanze di Cosenza sono vergognose: tre milioni di debito, saldato in minima parte (il Comune ha rimborsato solo duecentoventi obbligazioni). Più che un sindaco, in questa situazione, occorre un eroe.
    Infatti, il finanziere Angelo Quintieri, aristocratico e ricco possidente di Carolei, rifiuta la poltrona offertagli dalla “Bruzia”.

    Alimena sindaco

    Al suo posto accetta Bernardino Alimena, figlio del patriota Francesco e professore universitario a Napoli.
    Alimena sembra l’uomo giusto al posto giusto: giurista di prima grandezza (tra le varie, è l’avversario più accreditato del criminologo Cesare Lombroso) ha il prestigio necessario per dare lustro alla città e ottenere credito politico a Roma.

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    Bernardino Alimena

    Il  prof si dà subito da fare: denuncia il debito alla cittadinanza, inizia a tagliare i conti e, soprattutto, dà la caccia agli evasori, che anche allora non sono pochi.
    Come sempre, il rigore comporta l’impopolarità: gli elettori si ribellano e la giunta, piena di massoni, perde pezzi. E perde pezzi anche la loggia “De Roberto”: piuttosto che vedersela con gli elettori arrabbiati, i grembiulini si mettono in sonno.
    A fianco di Alimena resta il solo De Roberto, che muore nel 1890. Per il professore la situazione diventa critica: rimpasta due volte la giunta pur di restare in sella, ma niente da fare. È costretto a dimettersi appena sei mesi dopo la nomina.

    Dissesto, luminarie e lampioni

    In tutto questo, resta una domanda: come presero i cosentini di allora l’innovazione del gasometro? Secondo le cronache dell’epoca, malissimo: i rapporti di polizia giudiziaria riferiscono di lampioni presi a sassate in alcune zone. In particolare, nel rione Sant’Agostino, zona storica delle “lucciole”, e nel quartiere Santa Lucia, dove le professioniste dell’amore avevano iniziato a trasferirsi. Segno che, per certe attività, il buio fosse più gradito.

    Il debito, invece, è estinto nel 1924. Ma più per merito dello Stato, che ha nazionalizzato il sistema bancario, che del Comune.
    Nessuno, invece, ha danneggiato le luminarie di Occhiuto, che in compenso non hanno provocato il dissesto di Cosenza pur offrendo il loro modesto contributo alla causa.
    Ma questa storia ha un’unica morale, che vale oggi come a fine Ottocento: per chiarire i conti pubblici, non c’è luce che basti.

  • Terme Luigiane, finora solo annunci. Continua il dramma dei lavoratori

    Terme Luigiane, finora solo annunci. Continua il dramma dei lavoratori

    L’incubo lavorativo, che per i 250 dipendenti delle Terme Luigiane dura ormai da 6 anni, continua. Si sono avvicendati ben 4 presidenti di Regione e sono stati sottoscritti accordi alla Cittadella e in Prefettura. Ma gli stabilimenti si ritrovano ancora una volta chiusi. Eppure la stagione, «se solo si volesse, potrebbe ripartire domani mattina». Il “Comitato dei Lavoratori Terme Luigiane” ne è convinto ma è costretto a osservare come «centinaia di interrogazioni, denunce e istanze promosse da lavoratori, cittadini e da ogni parte politica» non abbiano risolto concretamente un problema «che sta diventando lo specchio di una Calabria che non funziona e che costringe i padri di famiglia, con immensa rassegnazione, a fare le valigie pensando a quanto il buon Dio abbia dato a questa terra e a come noi Calabresi siamo incapaci di mettere a frutto tali doni».

    Acque (e dignità) in mare

    Questo è esattamente ciò che sta accadendo alle Terme Luigiane: «Una realtà perfettamente funzionante da una parte e, dall’altra, qualcuno dotato delle giuste coperture, che ha scelto in maniera arbitraria di distruggere tutto nel tentativo di portare a compimento disegni a noi ignoti, sversando nel mare le preziose acque termali e la nostra dignità di lavoratori». Alla Sateca, «che ha da sempre gestito le Terme Luigiane, garantendoci – proseguono i lavoratori – occupazione stabile e correttamente remunerata, è stata tolta l’acqua termale contro ogni legge e contro ogni sentenza giudiziaria, preferendo il nulla a un qualcosa che funzionava e che ha dato la possibilità ad intere famiglie per intere generazioni di mantenere un livello di vita più che dignitoso e soddisfacente».

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    Una pozza d’acqua sulfurea nei pressi delle Terme Luigiane

    Terme Luigiane, l’aiuto di sindacato e chiesa

    Oggi i lavoratori si ritrovano «costretti a spezzare i sogni» dei loro figli e «nella condizione di non sapere cosa portare in tavola». Tra le istituzioni «che ci sono state sempre vicine (di fatto le uniche)», i dipendenti della struttura annoverano «la Cisl con Gerardo Calabria, che ha dall’inizio combattuto con noi questa battaglia e, nelle persone di Monsignor Leonardo Bonanno e di don Massimo Aloia, la Chiesa che ha provveduto a pagarci le bollette, a farci la spesa alimentare e, soprattutto, a manifestarci costantemente vicinanza e condivisione quotidiana delle nostre angosce».

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    Don Massimo Aloia, parrocco delle Terme Luigiane

    Finora solo buone intenzioni

    Il presidente della Regione Roberto Occhiuto il 15 dicembre 2021 ha ricevuto il sindacato Cisl e una delegazione di lavoratori «garantendo discontinuità con la precedente linea politica e assicurando che entro la fine dell’anno avrebbe risolto la situazione affinché si potesse iniziare a programmare la prossima stagione termale». Il 26 marzo 2022 lo stesso Occhiuto in un video messaggio ha comunicato l’intenzione della Regione di acquisire tramite Fincalabra le Terme Luigiane al fine di superare lo stallo e consentire la ripartenza dell’attività. «Cosa sia successo nel frattempo – afferma il Comitato – noi lavoratori non lo sappiamo e, tutto sommato, ci interessa poco. Quello che rileviamo con sconforto è che alla data di oggi nulla di fatto è cambiato e le prospettive di ripartire per la prossima stagione sono ormai estremamente ridotte».

    le Terme Luigiane e le riunioni che non risolvono

    Da quello che la Cisl comunica ai lavoratori e dalle informazioni che loro stessi riescono ad avere pare che continuino le interlocuzioni e le riunioni tecniche. Ma le soluzioni sembrano ancora lontane. «Ciò di cui né noi 250 lavoratori, né i 22.000 curandi, né le migliaia di assidui frequentatori delle Terme Luigiane riescono a capacitarsi – fanno notare ancora i dipendenti – è il motivo per cui le Terme Luigiane siano chiuse. Secondo la sentenza del Tar dell’8 novembre 2021, l’attività della Sateca sarebbe dovuta continuare senza soluzione di continuità e questo è stato impedito con la forza da parte delle due amministrazioni comunali di Guardia Piemontese e di Acquappesa e con la complicità della Regione Calabria che, in quanto proprietaria delle acque, avrebbe avuto l’obbligo, sia morale che istituzionale, di impedire un simile scempio e di assicurare il diritto a tutti i cittadini di curarsi».

    La politica «cieca» e il bene comune

    I dipendenti della struttura ribadiscono dunque come non sia accettabile «che in una terra assetata di lavoro come la nostra ci troviamo ancora una volta davanti a chi il lavoro potrebbe garantircelo immediatamente e questo viene impedito da una politica cieca ed egoista, incurante del bene comune e, soprattutto, indifferente a quanto sancito dalla magistratura».

    L’ennesimo appello a Occhiuto per riaprire le Terme Luigiane

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Il Comitato lancia dunque un ennesimo appello a Occhiuto: «Ripristini immediatamente una situazione di legalità, nella quale si dia immediata esecuzione alla sentenza del Tar, nella quale chi ha distrutto le Terme Luigiane venga punito e chi ci ha garantito da sempre giusti diritti abbia la possibilità di continuare a farlo. Presidente, faccia riaprire l’acqua, come è giusto che sia, e ci ridia la dignità e il futuro che meritiamo. La Sua sensibilità, la Sua cultura e formazione politica e il Suo ruolo Le consentono di trovare una “soluzione ponte” immediata che dia finalmente respiro a noi lavoratori e alle migliaia di curandi che aspettano con ansia una data di riapertura».

  • Pisanò: il fascista che impallinò Mancini

    Pisanò: il fascista che impallinò Mancini

    Una campagna stampa virulenta. Ma anche un classico del giornalismo d’inchiesta contemporaneo, con tutti i pregi e i difetti del caso.
    La lunga requisitoria condotta da Il Candido, la più famosa testata d’inchiesta e di satira di destra nella Prima Repubblica, contro Giacomo Mancini vanta almeno un primato: è il primo dossier completo nei confronti di un leader politico di prima grandezza. Soprattutto, è la prima inchiesta andata a segno.

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    Giacomo Mancini in una foto d’epoca

    Mancini lascia la segreteria del Psi

    Iniziato il 26 novembre del 1970, il battage dura circa due anni. Al termine dei quali, il quadro politico italiano, di cui Mancini era una delle figure più importanti, cambia radicalmente.
    Il leone socialista, malridotto dall’inchiesta, lascia la segreteria del Psi. Giorgio Pisanò, diventato nel frattempo bersaglio anche di attentati mai chiariti (gli incendi alla sede milanese de Il Candido del ’72), approda in Senato col Msi.

    Il centrosinistra, infine, entra nella sua prima grande crisi, perché l’affermazione della Destra nazionale di Almirante, spinge la Dc su posizioni conservatrici.
    Il calo di Mancini, infine, cambia anche gli equilibri interni del Psi, che sprofonda nell’immobilismo della segreteria di Francesco De Martino.
    Tutto questo riguarda la grande politica nazionale. E la Calabria? È l’epicentro di questa vicenda che ancor oggi fa discutere.

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    Una delle prime pagine del Candido che attaccano frontalmente Mancini

    Il Candido: storia di un giornale “contro”

    Fondato da Giovannino Guareschi nel ’45, Il Candido nasce come foglio di satira rivolto al mondo cattolico, all’opinione conservatrice e, va da sé, al mondo neofascista. Il settimanale di Guareschi è un po’ l’alter ego settentrionale de l’Uomo Qualunque del commediografo napoletano Massimo Giannini, che pescava nello stesso bacino. I piatti forti della testata non sono solo i lazzi e le vignette (indimenticabili quelle sui comunisti “trinariciuti”), ma anche le inchieste. Una di queste, dedicata ad Alcide De Gasperi, finisce malissimo.

    Il papà di don Camillo aveva sostenuto, sulla base di documenti non attendibili, che De Gasperi, durante la guerra, aveva segnalato agli americani alcuni bersagli sensibili da bombardare. Querelato per diffamazione, Guareschi finisce in galera nella primavera del ’54 e vi resta un mese. Condannato a un anno di carcere, lo scrittore schiva la pena per amnistia. Un destino simile toccherà, circa vent’anni dopo, a Giorgio e Paolo Pisanò. Ma andiamo con ordine.

    Giacomo Mancini: il superministro calabrese

    Nel 1970 Giacomo Mancini è il politico calabrese più influente e potente di tutti i tempi. Già ministro della Sanità e dei Lavori pubblici nei governi di centrosinistra guidati da Moro, Mancini diventa segretario del Psi al posto di Francesco De Martino, di cui era stato il vice col quale aveva condotto la campagna elettorale del ’68, assieme al Psdi.
    I risultati, com’è noto, non furono lusinghieri. In compenso, le polemiche furono virulente. Resta memorabile quella condotta da Aldo De Jaco su L’Unità, che conia per l’occasione il primo – e più famoso – nomignolo su Mancini: il Califfo.

    Meridionalista fino al midollo, Mancini non si staccò mai dalla Calabria e dalla sua Cosenza, che cercò di privilegiare in tutti i modi. Tuttavia, la calabresità si rivelò un tallone d’Achille. Perché la Calabria, a inizio ’70, entrava di prepotenza nelle cronache nazionali. E non solo per gli ambiziosi progetti di sviluppo, promossi dallo stesso Mancini.

    Giorgio Pisanò: fascista, spia, contrabbandiere, giornalista

    Come ha ricordato in tutte le sue autobiografie, Giorgio Pisanò era uno di quelli che non ha mai potuto smettere di essere fascista.
    Già ufficiale delle Brigate nere della Rsi, Pisanò svolse missioni spericolate per conto di Salò durante la guerra civile. In particolare, si occupava di spionaggio e di sabotaggi. Per svolgere questi compiti, varcava più volte i confini militari tra la Repubblica di Mussolini e il Regno del Sud, allora sotto amministrazione angloamericana.
    Cosa curiosa, ne uscì sempre illeso. Al punto da ammettere, nel suo La generazione che non si è arresa, che i Servizi alleati sapessero tutto di lui ma non gli facessero nulla.

    Perché? La risposta oggi è persino banale: gli americani avevano deciso di salvare il salvabile del fascismo per impiegarlo in chiave anticomunista. Insomma, nasceva la Stay Behind italiana.
    Finita la detenzione a San Vittore e nel campo di concentramento di Terni, Pisanò si arrangia come può per sbarcare il lunario. Inizia come contrabbandiere al confine svizzero e poi si dà al giornalismo, dove si fa notare subito per le ricostruzioni sugli eccessi dei partigiani.

    Il fascista e i servizi segreti

    Difficile dare un giudizio assoluto su queste prime inchieste di Pisanò, dietro le quali non è difficile leggere le imbeccate e le veline dei Servizi segreti militari.
    Tuttavia, il loro valore storiografico è notevole, visto che vi si sono “abbeverati” tanti storici, accademici e non, a partire da Renzo De Felice per finire a Giampaolo Pansa.

    Del rapporto tra i Servizi e Pisanò resta una traccia in una velenosissima intervista rilasciata da Giacomo Mancini a Paolo Guzzanti e apparsa su Repubblica del 12 ottobre 1980: «Adesso nessuno apre gli occhi sul fatto che Pisanò, uno dei giornalisti amici del generale Aloia e dell’ex capo del Sid Henke stia pubblicando una impressionante documentazione».

    Il riferimento va all’inchiesta postuma di Pisanò su Aldo Moro. Ma questa è un’altra storia. Per quel che ci riguarda, è importante notare che nel ’68 Pisanò, che comunque si è fatto un “nome”, rileva il Candido dagli eredi di Guareschi. La partenza è in sordina: per attendere il botto ci vorranno due anni.

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    Giorgio Pisanò è stato anche direttore del giornale Il Candido

    La campagna stampa di Pisanò contro Mancini

    L’inchiesta di Pisanò su Mancini fu il classico fulmine. Non proprio a ciel sereno, perché nella Calabria dei primi ’70 prendeva forma un curioso (e inquietante) laboratorio politico: la rivolta “nera” di Reggio, guidata dal sindacalista Cisnal Ciccio Franco e sposata dal Msi di Almirante, che mirava a spostare a destra tutti gli equilibri e (squilibri) politici possibili.
    L’esordio è dirompente: Biografia di un ladro, recita lo strillo di copertina del Candido. E non è da meno il paginone centrale che reca lo stesso titolo e contiene la prima di circa trentasei puntate.

    Grazie a un’indiscutibile abilità editoriale, Pisanò cerca un target facile. E lo trova in Calabria (come più o meno ha fatto di recente Giletti). Abbraccia la rivolta di Reggio e picchia in testa ai leader calabresi. In particolare, il segretario del Psi.
    La campagna stampa è un crescendo di virulenza, ma anche di documentazione. E più crescono i documenti, più il linguaggio si appesantisce.

    Tra inchiesta e sfregio: la requisitoria del fascista

    Lo testimonia una striscia curiosa che, a partire dal ’71 diventa l’occhiello degli articoli: Mancini è un ladro. Oppure: Mancini sei un ladro. Il tutto ripetuto come un mantra.
    Pisanò non risparmia niente. Ad esempio, lo stile di vita dell’ex ministro: «Compagno socialista che tiri la cinghia-Consolati: il ladro Mancini se la gode anche per te».
    Oppure i finanziamenti per la sua campagna elettorale: «1968: ha speso un miliardo per farsi eleggere».

    Da manuale dello sfregio anche i titoloni delle copertine, rigorosamente bicromatiche: «Mancini, un uomo tutto d’un puzzo”. E ancora: «Il ladro Mancini non ci ha denunciati».
    Restano agli annali due battutacce che forse sono ancora il sogno dei titolisti più spregiudicati: «Si scrive leader si legge lader» e «Quelli che rubano con la sinistra sono Mancini».

    I contenuti sono roventi: si va dagli appalti dell’Anas ai legami con Cinecittà. Pisanò racconta un intreccio fitto di tangenti, fondi stornati e favoritismi spregiudicati. L’inchiesta non si ferma solo al segretario, ma coinvolge i suoi affetti, a partire dalla moglie donna Vittoria, e i suoi amici, ad esempio il produttore cinematografico Dino De Laurentis. Proprio il caso De Laurentis diventa la buccia di banana per Pisanò.

    In galera

    Mancini sommerge Il Candido di querele e qualcuna va a bersaglio. Ma è poca cosa. Invece si rivela più efficace la denuncia di De Laurentis, per un presunto reato decisamente più pesante della diffamazione: l’estorsione.
    Giorgio Pisanò e suo fratello Paolo finiscono in carcere a febbraio ’71 e vi restano per due mesi. Durante i quali tentano di esibire delle prove a loro discolpa (alcune bobine contenenti le registrazioni di colloqui tra Pisanò e De Laurentis).

    Ma, soprattutto, capitalizzano al massimo l’incidente con un diario dal carcere che appare a puntate.
    La tensione arriva al massimo e l’inchiesta deraglia: esce dai recinti del giornalismo e sfocia nello scontro personale.
    Alla fine della giostra, i Pisanò vengono assolti, De Laurentis si trasferisce negli Usa e Mancini si dimette. La segreteria del Psi torna dov’era prima. Cioè nelle mani di De Martino.

    Pisanò anticipa Tangentopoli

    Quest’inchiesta, tutta da rievocare e approfondire, ha un limite: Pisanò attribuisce al solo Mancini un meccanismo di finanziamento, essenzialmente illecito, che riguardava tutto il suo partito.
    Detto altrimenti, il giornalista milanese non si era “accorto” di aver anticipato Tangentopoli. Ma tant’è: allora era più facile colpire le persone che i partiti in blocco.
    L’inchiesta tutt’oggi resta divisiva: c’è chi osanna Pisanò e chi, al contrario, lo considera un prezzolato che mescolava verità e bugie per conto terzi.
    Chi potrebbero essere questi ultimi? La lista non è proprio corta.

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    Eugenio Cefis

    Gli utilizzatori

    In cima potrebbe esserci Eugenio Cefis, ex partigiano e potentissimo patron dell’Eni, che di sicuro odiava, cordialmente ricambiato, Giacomo Mancini.
    Attenzione: Pisanò, come riporta correttamente Paolo Morando nel suo Cefis. Una storia italiana (Laterza 2011) non aveva risparmiato strali a Cefis. E di questi strali c’è traccia anche nel dossier del Candido dedicato ad alcune vicende oscure del passato partigiano del presidente dell’Eni. Ma mentre gli attacchi a Cefis calano quelli a Mancini aumentano.

    Certo, non c’è prova che Cefis abbia finanziato Pisanò. Tuttavia, molti attacchi del Candido sembrano fatti apposta per compiacere Cefis. Il quale, c’è da dire, era abituato a rapporti particolari coi giornalisti, anche quelli più insospettabili. Ad esempio Mauro De Mauro, il leggendario cronista de L’Ora di Palermo che, secondo i giornalisti Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco, era finito a libro paga dell’Eni. Di sicuro, Cefis voleva far fuori l’ex ministro e l’inchiesta di Pisanò lo ha aiutato tanto.

    Compagni coltelli

    Secondo un’opinione diffusa, un utilizzatore dell’inchiesta del Candido sarebbe stato il socialdemocratico Luigi Preti. Saragattiano convinto e più volte ministro di settori delicati (le Finanze), Preti era un altro che non amava Mancini.
    Al punto di farlo intercettare, come sostenne l’ex segretario del Psi in un’intervista a L’Espresso. Preti, tra l’altro vicino ai demartiniani, imputava il calo elettorale delle due sigle socialiste proprio alla politica di Mancini.

    Inutile dire che la convergenza d’interessi con l’inchiesta di Pisanò c’era. E non solo perché il giornalista era originario di Ferrara, proprio come Preti. Ma soprattutto perché il Candido andò fortissimo anche in Emilia Romagna… quando si dice il caso.
    Altro dettaglio non irrilevante, sono le numerose lettere di plauso inviate dai cosentini a Pisanò. Tutti fascisti? Proprio no: il Candido, a Cosenza, lo si leggeva di nascosto ma tantissimo. E lo leggevano tanto anche i socialisti. Senz’altro i demartiniani. Ma non è un caso che, proprio allora, un demartiniano rampante si staccò da Mancini e ne divenne concorrente: era Cecchino Principe.

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    Cecchino Principe in un comizio d’epoca

    Fine della storia

    L’inchiesta terminò con un pari: Pisanò uscì dai processi ed entrò in Parlamento, Mancini iniziò la parabola discendente. Il suo ultimo ruolo di rilievo nazionale fu quello di “Craxi driver”, cioè di accompagnatore di Craxi alla segreteria.
    L’asse del centrosinistra, col declino di Mancini, si era spostato a Nord e puntava su Milano. Ma anche questa è un’altra storia…