L’Asp di Cosenza è pronta a lasciare tutti gli immobili che prende in affitto sul territorio provinciale. Quella dei cosiddetti fitti passivi, d’altra parte, è questione che da tempo occupa le cronache locali. Nella sola Area Cosenza (una delle 5 accorpate dopo lo scioglimento delle vecchie Asl) stando agli ultimi dati disponibili l’Azienda sanitaria ha sborsato un milione e 660mila euro circa ogni anno. Solo tra Cosenza (21 immobili per oltre 820mila euro di spesa), Rende (8 immobili) e Castrolibero (2) nel 2020 si sfiorava il milione e mezzo di euro.
Nella stessa conurbazione, l’Asp dava in affitto tre immobili incassando circa 260mila euro ogni dodici mesi. Le proporzioni tra uscite ed entrate non erano da meno in altre zone. A Rossano-Corigliano le prime ammontavano a circa 635mila euro, a fronte di 30mila euro in ingresso. A Castrovillari i 14mila euro incassati con l’affitto del bar nell’ospedale erano ben poca cosa rispetto ai circa 186.500 che l’Asp di Cosenza sborsa ogni anno per affittare 8 immobili.
L’Asp di Cosenza e i fitti passivi: il dossier di Guccione
Ma il problema dell’Asp con i fitti passivi, già evidente nei numeri, non si ferma qui. Era settembre del 2020 quando l’allora consigliere regionale Carlo Guccione rese pubblici con un dossier i risultati di una sua ispezione all’Ufficio Patrimonio. Nel documento del democrat c’era una formula che ricorreva sempre: «Dai documenti in atti non si rileva alcun dato riguardo ai “contratti di fitto” e, pertanto, nulla emerge circa la data di stipula, la data di scadenza, la clausola del rinnovo e l’adeguamento del canone». Con una piccola aggiunta nel caso si trattasse di terreni e non di fabbricati: «e la loro destinazione urbanistica».
L’ex consigliere e assessore regionale Carlo Guccione, autore del dossier sui fitti passivi
La task force di La Regina
Quella denuncia – Guccione inviò tutto anche alla Corte dei Conti – pare aver smosso le acque, seppur in ritardo. Nella primavera dello scorso anno il neo commissario dell’Asp di Cosenza, Vincenzo La Regina, istituì un gruppo di lavoro. Aveva un unico compito: cercare di sbrogliare la matassa dei fitti passivi con una ricognizione completa e razionalizzare la spesa. Compito non semplice, considerato che – al momento di fare un resoconto dopo otto mesi di attività – la mini task force ha risposto chiedendo rinforzi.
Sicurezza non garantita e carenze strutturali
Seppure in pochi, però, i controllori scelti da La Regina a una conclusione erano già arrivati: gli immobili sono «non utilizzati in maniera efficiente e conveniente sotto il profilo economico». Ma, ancor più grave, presentano «criticità in merito alla sicurezza e alla carenza dei requisiti minimi strutturali». Dulcis in fundo, permangono i problemi «in merito al contenuto dei contratti». Insomma, sono fuori legge, tant’è che tocca «ricondurre i contratti di locazione passiva in linea con la vigente normativa in materia».
Uno stralcio della delibera dell’Asp di Cosenza
La soluzione? Rescinderli tutti. Subito dopo, andare alla ricerca di nuovi spazi, possibilmente di proprietà di altri Enti pubblici per risparmiare. O, in alternativa, sedersi con gli attuali locatori per ridiscutere dell’intera faccenda su basi differenti dal passato. Già, tutti quelli che in questi anni hanno incassato affittando immobili a condizioni misteriose avranno sei mesi di tempo dalla ricezione della comunicazione di recesso già approvata dal fresco erede di La Regina, Antonio Graziano, per convincere l’Asp a non andare via.
Fitti passivi: l’ultimatum dell’Asp di Cosenza
Per riuscire nell’impresa dovranno fornire entro 30 giorni le visure catastali e planimetriche degli immobili attualmente in locazione e una copia del contratto in corso che ne attesti l’avvenuta registrazione. In più, toccherà loro dirsi disponibili a uno sconto sul canone, adeguandolo ai valori medi di mercato ed escludendo la clausola di aggiornamento Istat da contratti che potranno avere una durata massima di sei anni (rinnovabili). Infine, soprattutto, adeguare le strutture alla normativa vigente. Senza impianti a norma, condizioni minime di sicurezza, corrispondenza delle destinazioni d’uso e conformità edilizia-urbanistica, addio al gruzzoletto garantito dall’Asp.
Lo storico dell’arte Tomaso Montanari ha tenuto una Lectio magistralis, la sera del 27 maggio, davanti al pubblico riunito sul sagrato della cattedrale di Cosenza per le manifestazioni del Premio Sila 49.
Di solito le conferenze fanno parte di un repertorio del passato: non le si ritiene più uno strumento efficace di comunicazione, specie se ci si prefigge di coinvolgere i non addetti ai lavori, non specialisti ma persone curiose e interessate.
Montanari racconta il Duomo
Montanari ha parlato senza mezzi interattivi a disposizione, perché l’oggetto del suo intervento era dietro le sue spalle: la facciata della cattedrale consacrata 800 anni fa, ricostruita dopo un violento terremoto per l’impegno dell’arcivescovo Luca Campano, discepolo e scrivano di Gioacchino da Fiore.
Ma lo storico dell’arte ha ragionato soprattutto di come le persone comuni percepiscono un luogo come quello in cui si trovava in quel momento.
Tommaso Montanari al Duomo di Cosenza
Una piazza circondata da edifici, coi colori delle pietre che mutano col mutare della luce, e di sera diventano più dolci, ristorano le persone riunite dopo una giornata di lavoro, con l’armonia che trasmettono.
E poi c’è la chiesa, un’altra piazza “coperta”. Le chiese, nella storia italiana ed europea, hanno sempre avuto una funzione sociale: sotto le loro volte si sono riuniti i cittadini per prendere decisioni vitali. E in tempo di guerra hanno dato rifugio a chi temeva le violenze degli invasori.
Le chiese e le città
Le chiese, insiste Montanari, raccontano la storia delle comunità che le hanno volute, finanziate, ricostruite. Inoltre, sono monumenti e custodiscono pregiate opere d’arte. Quindi vanno tutelate da interventi arbitrari, che fino al secolo scorso erano frequenti e a volte nascondevano l’edificio originario.
Come è accaduto anche alla cattedrale di Cosenza, che un secolo fa venne liberata da sovrastrutture di gusto barocco e riportata, per quanto possibile, al suo stile romanico.
Ma se non fosse stato possibile – a volte non si può tornare indietro – non importa. Infatti, ha osservato Montanari, questi segni raccontano la storia di ogni comunità, il mutare dei gusti e il legame profondo con un edificio a cui ogni epoca desidera imprimere il proprio stile. A rischio di danneggiarlo.
Brandi e Levi a Cosenza
Montanari ha documentato il suo discorso con testi di grandi studiosi come Cesare Brandi, di viaggiatori e artisti curiosi come Carlo Levi, e altri. E tra il pubblico sembrava proprio farsi strada quello stato d’animo accennato prima: gustare un luogo bello, assorbirne l’armonia, e mettere da parte per un po’ gli affanni della giornata. A questo servono le belle piazze e i monumenti così numerosi del nostro Paese.
Carlo Levi
Premio Sila: una storia accidentata
Una parte del pubblico aveva seguito anche l’incontro precedente, alle 18,00, a piazza dei Follari, un angolo fascinoso del centro storico, per cui valgono le considerazioni fatte da Montanari sulla cattedrale. A dispetto del degrado percepito da chiunque attraversi le strade dissestate della città vecchia.
Del resto la storia del Premio Sila è accidentata come quella dei monumenti cosentini, abbattuti e riedificati più volte. Il Premio esordì nel 1949, come giustamente ricorda l’intitolazione attuale. Dopo la prima edizione ci volle un decennio per vedere la seconda. E poi altre interruzioni, polemiche, contestazioni, fino agli ultimi anni del secolo scorso.
Un libro dedicato al Premio
Un volume di Tobia Cornacchioli e MariaTolone, Il Premio Sila. Cultura e impegno civile nella storia di un premio letterario meridionale (Pellegrini editore, 1997) ricostruisce le vicende tormentate della manifestazione. Lo fa attraverso una documentazione di prima mano, comprendente i verbali dei lavori e le motivazioni.
Il titolo lega cultura e impegno civile: i buoni libri fanno riflettere, anche quando divertono, richiamano alla realtà che subiamo senza lucidità, perché troppo presi dai nostri problemi personali e limitati.
E l’impegno civile accomuna i libri e gli autori premiati nell’edizione 2022, di cui si è discusso lo stesso pomeriggio a piazza dei Follari.
Nadeesha Uyangoda e gli altri vincitori del Premio Sila
La ventottenne Nadeesha Uyangoda, autrice di L’unica persona nera nella stanza (edizioni 66thand2nd), è arrivata in Italia da bambina.
Spero che una parte del merito vada anche al sistema scolastico e universitario italiano, se ha saputo accompagnare questa giovane a diventare colta, acuta, brillante e precisa.
Nedeesha Uyangoda durante la premiazione
Lei è una delle vincitrici di questa edizione, assieme a Nicola Lagioia e Luciana Castellina.
Commuove ascoltare una ragazza così: non capita spesso. Nadeesha lo ha spiegato: per quelli come lei, studiare e affermarsi è un modo per ripagare i genitori dei sacrifici affrontati in un Paese straniero. A volte è difficile, ha aggiunto, seguire le proprie inclinazioni creative: si rischia di deludere la famiglia o di insospettire quegli italiani che sembrano apprezzare gli immigrati solo se raccolgono pomodori e pesche sotto il sole.
L’intervento di Montanari davanti al Duomo di Cosenza
Il Premio Sila meritava più pubblico
Insomma, nel 2022 i premi letterari possono ancora rivelarsi interessanti. Dipende da come vengono pensati e gestiti. Certo l’uditorio non era sterminato, forse per il caldo, forse per qualche limite nella comunicazione (personalmente ho notato un unico manifesto sul corso). A volte nella nostra terra si nota un certo vezzo di muoversi separati per gruppi, circoli più o meno esclusivi. Questo modo di fare rischia di tradursi in un ostacolo alla riuscita delle iniziative più meritevoli. Perfino i licei allestiscono in proprio eventi teatrali, a volte di buon livello. Tuttavia, certe fatiche dovrebbero essere maggiormente “socializzate”, per usare un termine del passato. Oppure io sono particolarmente distratto (l’età), come i liceali e universitari cosentini, assidui animatori della movida notturna: giovani brillanti, ma impegnati in altro.
Perché complicarsi la vita? Riformulo: perché considerare che certe scelte significhino necessariamente complicarsela? Ovviamente anche stavolta il riferimento non è ai massimi sistemi ma alle strade. È una questione di forma mentale, quella che induce a recepire pigramente la geografia delle rotte in compartimenti stagni: “i paesi della costa” vs. “i paesi dell’interno”, come se i due gruppi fossero a sé stanti, quasi senza possibili vie di comunicazioni in mezzo, neppure metaforiche.
Allora vediamo che succede se si prova ad andare da Laino Castello fin sulla costa tirrenica senza toccare autostrade e, per quanto possibile, strade statali.
Laino Castello, il paese degli zampognari
Laino Castello – il paese che fu – è ricordato più che altro per essere la patria di quegli zampognari (forse meno noti di quelli abruzzesi) che scendevano a Natale in città e paesi di tutta la provincia. Nel frattempo, recentemente vi è stato un tentativo di farlo diventare una sorta di “albergo diffuso”, sullo stile di Santo Stefano di Sessanio, anche questo in Abruzzo. Coincidenze. La mia visita risale a qualche anno prima, quando il centro storico – abbandonato decenni fa per i motivi più vari, ma ufficialmente per via di un sisma – non lasciava più molto da ammirare, se non una desolazione piuttosto evocativa (e, nella desolazione, vi incrocio – fantasma? – il poeta e amico Dante Maffìa, fuggiasco per un giorno dalla sua amata costa ionica).
Molto di transennato, tutto lasciato all’incuria. Lavori iniziati e lasciati a metà. Erba altissima nei vicoli. La chiesa, integra ma svuotata, faceva ancora una certa impressione (nulla di nuovo, per chi conosce la Chiesa dei Cappuccini, in cima al centro storico di Cosenza, che versa nelle medesime condizioni). E da lì il panorama violento del Viadotto Italia con cui l’autostrada taglia in due il Massiccio del Pollino. Beffarda, poi, colpisce l’occhio una vecchia stella cometa di ferro arrugginito, piazzata in cima all’edificio più in cima del paese fantasma. Chissà da quanti anni sta lì. Dalla Natività alla mortalità.
La Grotta del Romito
Papasidero e la Grotta del Romito
Lasciamo Laino Castello al suo destino, incrociando le dita per lui, e procediamo verso Papasidero. Raggiungiamo, dopo centinaia di curve, la Grotta del Romito: non è solo testimonianza degli insediamenti preistorici in Calabria, quanto pure la dimostrazione della sopravvivenza di piccoli paradisi naturali. Mica scemo, st’Homo Sapiens… Il più solerte guardiano della zona archeologica è un docile cagnolino che scorta attentamente ogni gruppo di visitatori, dal parcheggio alla grotta e viceversa, senza distogliere lo sguardo nemmeno un attimo. Dalla grotta bisogna risalire di quota, un bel po’, per tornare sulla strada principale (principale, si fa per dire) e non invidio quella coppietta di giovanissimi ciclisti nordeuropei, stremati a mezzogiorno da una salita disumana.
Avena, la frazione evacuata (?)
Non lontano dal Romito vale assolutamente la pena (ma quale pena, poi?) allungarsi fino ad Avena, frazione di Papasidero. Non è lontana ma, intendiamoci, mi riferisco sempre a distanze in linea d’aria. Perché visitare Avena? Per fare il paio con Laino Castello: anche Avena è abbandonata, ma in compenso alcuni scorci riescono a ricordare – parola di un affidabilissimo e appassionatissimo gallerista e antiquario bolognese, mica mia – certi quadri di Telemaco Signorini. Un cartello ufficiale all’inizio dell’abitato (o, meglio anche in questo caso, del “disabitato”) parla di zona evacuata ex lege, più o meno nei primi anni Ottanta.
Nelle case sventrate trovi soltanto bottiglie, bottiglie, bottiglie. Televisori di quarant’anni fa, reti da letto e scarpe spaiate. Eppure nel primo edificio all’ingresso dell’agglomerato – poco prima di quella piazzetta che, non so perché, mi fa pensare a Leopardi, al Sabato del villaggio – qualcuno sembra abitare eccome, quantomeno saltuariamente. Con tanto di panni stesi al sole e grasticelle di peperoncino ben curate. E fa bene, chiunque egli sia.
Scorcio della frazione Avena di Papasidero (foto L.I. Fragale)
Abruzzo e Golf
Papasidero decido invece di attraversarla senza sostare. Diretti verso la costa, subito dopo il paese si passa su un ponte dal nome curioso: il Ponte Golf. Proprio così, un vecchio ponticello su una forra, che ben poco può avere a che fare con attività golfistiche: e infatti è stato denominato in questo modo, in maniera ufficiale, soltanto a causa di una modesta deformazione – ipercorrettismo nell’italianizzazione maccheronica – del più antico idronimo Orfo (‘u g’Orf), ovvero il torrente che vi passa sotto.
Mi starò suggestionando ma è la terza volta che mi viene da citare l’Abruzzo: la strada tra Papasidero e Santa Domenica Talao mi ricorda enormemente, a tratti, quella che si inerpica da Anversa degli Abruzzi fino a Scanno, scavata nei costoni del meraviglioso canyon nella Gola del Sagittario. Ma è un miraggio frequente, che meriterebbe un pezzo a parte, “Strade che assomigliano ad altre strade”… e, a pensarci bene, altri tratti di questa via dalle montagne al mare mi ricordano invece alcune specifiche curve nella zona del Cippo Pisacane, a Sanza. Ma lasciamo perdere certe stratificazioni della memoria fotografica…
Restiamo con gli occhi qui: è il luogo ideale per quello che ho sempre ritenuto il più ambiguo, imbarazzante, incoerente dei segnali stradali: Pericolo caduta massi. Ché non si capisce uno cosa dovrebbe fare… rallentare? Peggio, si allunga l’esposizione al pericolo. Accelerare? Meglio di no, vuoi mai che le vibrazioni sveglino il mazzacane che dorme? Fare inversione ad U, se possibile? Ma allora perché non chiudere la circolazione? Il significato di quel segnale è semplicemente: «continuate a vostro rischio e pericolo, noi ce ne laviamo le mani». Ciance bandite, proseguiamo.
Il fiume Lao (fonte web)
Rafting e il brutto che avanza
Sulla destra, scendendo verso la costa, mi incuriosisce quella lunghissima, vistosissima tubatura che scende orrenda, a precipizio, dritta dalla cima di un monte giù lungo i dirupi del Ciminnito, costeggiando ciò che resta dell’antica Torre dello Scirro. Non è altro che la condotta che mette in collegamento la poco poetica “Camera Valvola” dell’Enel, sul monte Rininella (in agro di Orsomarso), con la centrale idroelettrica giù sulla riva del fiume Lao (e sì, siamo nella Riserva Statale del Lao, delizia per chi fa rafting, e non solo per loro). Ma la centrale e la tubatura annessa preannunciano il brutto che si fa vivo, inevitabilmente, quando ci si avvicina agli insediamenti più intensivi.
E pensare che dietro quel monte, proprio a un passo e mezzo dalla “Camera Valvola”, cade a pezzi l’antico convento di Santa Maria di Scòrpano, avvolto da erbe infestanti e rovi. Si è deformato, col tempo, finanche il toponimo (ora Scorpari). E anche lassù, ve ne parlerò, mi pare di stare in Abruzzo, ad esempio sui pianori di Campo Imperatore o sulla strada per Roccamorice. E siamo a quattro ricorrenze aprutine.
Papasidero
Da qui al mare, sotto un tramonto settembrino, è una bella discesa dolce, lunga e panoramica: ritrovo i due ciclisti che all’ora di pranzo erano boccheggianti sulla salita della Grotta del Romito. Adesso posso invidiarli.
Ancora più giù, a luccicare sono le foglie di vere e proprie piantagioni di giovani eucalipti che preannunciano la calura della costa. Li avevo presi per piccoli pioppi, per via di questo luccichio alternato e invece no, qui nemmeno il populus tremula, sebbene – che confusione! – la frazioncina appena superata sia, proprio come un piccolo pueblo, Tremoli. Perché semplificarsi la vita?
Francesco è detenuto nel carcere di Cosenza. Il suo fine pena è fissato per ottobre 2022. Ma il dolore che filtra dalle sue lettere è evidentemente molto più grande del debito che sta per finire di scontare con la giustizia. Dice di non avere nessuno al mondo, a parte la madre. Che però è morta lo scorso 8 maggio senza che lui potesse dirle addio. Ha potuto darle un ultimo saluto, sì, ma solo in videochiamata. E solo quando lei era già morta, in una bara, attraverso lo schermo di uno smartphone.
Una storia ordinaria sofferenza
La sua storia, assicura Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha, è «molto più frequente di quanto si possa immaginare». Le due lettere che Francesco le ha scritto dal carcere di Cosenza sono datate 22 aprile e 11 maggio. Ma sono arrivate alla onlus intorno al 20 maggio, per cui «non è stato possibile intervenire in nessuna maniera».
Il carcere di Cosenza
La malattia
Nella prima Francesco manifesta «un disperato bisogno di aiuto». È recluso nel reparto alta sicurezza, benché sia stato condannato per «un reato comune» e gli restino meno di 6 mesi da scontare. Dice di beneficiare di permessi premio da due anni perché la madre è malata: tumore maligno al fegato, le hanno sospeso pure la chemioterapia. A Pasqua il primo no alla richiesta di permesso. «Il magistrato, assieme agli educatori ed alla direttrice, hanno stabilito che i permessi, anche quelli Covid, li danno ogni 45 giorni».
Un focolaio nel carcere
In effetti in quel reparto, nel momento in cui scrive (22 aprile), sarebbero «quasi tutti contagiati», lui compreso. «Mentalmente sono distrutto: mancano gli educatori – scrive Francesco – e mi dicono che non posso richiedere altri permessi. In questa situazione non so più dove sbattere la testa. Necessito disperatamente di un aiuto; non auguro a nessuno di avere la madre morente e trovarsi chiuso dietro 4 mura dove ti vengono negati i tuoi diritti».
Nessuna risposta
Quando scrive la seconda lettera la madre è già morta. Glielo ha comunicato un ispettore di sorveglianza e, il giorno dopo, gli hanno concesso la videochiamata. «Malgrado avessi mandato la richiesta per un permesso premio per starle vicino nell’ultimo periodo della sua vita, mi è stato rigettato». Poi, allegando il certificato di morte, ha presentato la richiesta di permesso di necessità per poter andare al funerale. Non gli è stato concesso dal magistrato di sorveglianza, «che non si è degnato nemmeno di rispondere».
«È tortura»
Lui la chiama tortura. Anzi, dice che «non esiste tortura peggiore». Ora vuole solo che la sua storia sia raccontata fuori dalle mura in cui è recluso perché questo non accada più a nessuno. «Io avevo solo mia madre – scrive – e, ormai, non ho più nessuno né un posto dove andare. Ormai a me hanno tolto la voglia di vivere».
L’incontro con l’attivista
Una madre in fin di vita, fa notare Berardi, è, per qualsiasi persona, un evento tragico, doloroso. Ancor più se la morte arriva dopo una lunga malattia. «Francesco – racconta l’attivista che ha fondato Yairaiha – l’ho incontrato una sola volta, durante una ispezione. Dalla chiacchierata che facemmo emerse l’amore per la madre, il desiderio di poterle stare vicino, la volontà di cambiare vita anche, e soprattutto, per lei».
Rieducazione o vendetta?
Un legame, un pensiero costante, che è rimarcato anche in altre lettere che Francesco scrive all’associazione ormai da qualche anno. «Una figura senz’altro positiva nella sua vita, non una di quelle “frequentazioni con soggetti controindicati” registrate nelle informative di p.s. fino al 2008, piuttosto uno stimolo – osserva ancora Berardi – ad operare quel cambiamento che il carcere si propone quale fine della pena».
La possibilità di rimediare
Il Got (Gruppo di osservazione e trattamento) avrebbe dovuto, secondo l’attivista, «mettere a valore» l’elemento positivo del rapporto con la madre «per permettere a Francesco di recuperare gli sbagli del passato». Magari «anche facendo un piccolo strappo alla regola laddove non ci fossero stati i requisiti; oppure suggerendo di presentare subito la richiesta di permesso di necessità in vece del permesso premio perché Francesco aveva tutto il diritto di beneficiare di un permesso di necessità».
Cosa dice la legge
L’articolo 30 della legge sull’Ordinamento penitenziario recita: «Nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, ai condannati e agli internati può essere concesso dal magistrato di sorveglianza il permesso di recarsi a visitare, con le cautele previste dal regolamento, l’infermo. Agli imputati il permesso è concesso dall’autorità giudiziaria competente a disporre il trasferimento in luoghi esterni di cura ai sensi dell’articolo 11. Analoghi permessi possono essere concessi eccezionalmente per eventi familiari di particolare gravità».
La pietà perduta
Nel caso riguardante il carcere di Cosenza però il magistrato di sorveglianza non ha risposto. «Dimenticandosi – conclude amaramente Berardi – del suo ruolo di garante principale della correttezza dell’esecuzione penale che dovrebbe essere sempre ispirata, e guidata, da quei principi di umanità e dignità espressi dall’articolo 27 della nostra Costituzione». Vedere attraverso un anonimo cellulare la madre nella bara «è tortura». Un atto «di una brutalità mostruosa del quale dovremmo vergognarci tutti se avessimo ancora il senso della pietas».
La dea Iride amerebbe come proprie creature le meraviglie variopinte che accolgono i visitatori. Da lei prendono il nome le iris (viola, gialle, rosa, ciclamino) che costeggiano il viale d’ingresso dell’Orto botanico dell’Università della Calabria, l’unico (riconosciuto) della regione. La fioritura a maggio è nel suo pieno, ma il caldo fuori stagione rende i petali già un poco vizzi, quasi a chiedere alla dea dell’arcobaleno di gonfiare di pioggia le nuvole. L’Orto botanico è uno scrigno che racchiude bellezza (in superficie), biodiversità, sapere scientifico, cultura del territorio (a un livello più profondo). È, anche, un laboratorio a cielo aperto, in cui le piante alimentano l’attività di ricerca e l’osservazione può portare a scoperte sorprendenti.
L’ingresso dell’Orto botanico di Cosenza
L’orto botanico e la tutela della biodiversità
«L’Orto botanico è stato fondato nel 1981 per conservare la biodiversità, tutta l’attività di ricerca e divulgazione è orientata in questo senso», spiega Nicodemo Passalacqua. Botanico, è referente scientifico della struttura che da fine 2021 rientra nel Sistema museale universitario, come parte del Museo di storia naturale della Calabria (Musnob). La missione è quella di tramandare alle generazioni future la vita vegetale e animale delle colline di Arcavacata di Rende, a due passi da Cosenza, in cui habitat poco modificati dagli umani convivono con terreni un tempo coltivati. «Qui sono state messe a dimora piante autoctone, spesso a rischio, per far conoscere ai calabresi le varietà del territorio». Ma ci sono anche specie provenienti da altri territori, alcune anche esotiche.
Il botanico Domenico Passalacqua, referente scientifico della struttura
Zona speciale di conservazione
Va bene la conoscenza, ma tutelare la biodiversità è necessario. Perderla significa contribuire all’insicurezza alimentare ed energetica, aumentare la vulnerabilità ai disastri naturali, diminuire il livello di salute della popolazione, ridurre la disponibilità e la qualità delle risorse idriche e impoverire le tradizioni culturali. L’Orto botanico, tra l’altro, è considerato zona speciale di conservazione dall’Unione europea, per la presenza di una pianta primitiva, la calamaria (Isoetes) e di due insetti, la falena euplagia, che abita tra gli arbusti ai margini del bosco e il cerambice della quercia (Cerambyx cerdo), un coleottero che vive nel legno morto.
Il fungo sconosciuto
La biodiversità si declina anche nelle circa trecento specie di funghi che qui sono state osservate. Tra queste, un piccolo fungo sconosciuto al mondo, lo Psathyrella cladii mariscii (dal nome botanico della pianta palustre alla cui base è spuntato). Il falasco (Cladium mariscus) era stato prelevato dalle rive del lago dell’Aquila, vicino Rosarno, e piantato vicino all’ingresso principale dell’Orto, tra un roseto e la vasca con le ninfee. Alcuni anni dopo, alla base dei fusti della pianta è spuntato il piccolo fungo con cappello marroncino, mai descritto e classificato fino a quel momento. La rivista scientifica MykoKeys ha pubblicato la scoperta nel 2019.
Le piante a rischio custodite nell’orto botanico
Il viale delle iris costeggia l’orto degli ulivi, con gli alberi da frutto, anche esotici, come il giuggiolo e il melograno, e il giardino roccioso mediterraneo, con le sue colorate varietà di valeriana. Peccato per i tabelloni usurati dal tempo e dalle intemperie, resi quasi illeggibili. Più in là c’è una delle piante più minacciate d’Italia, la Zelkova sicula. «In Sicilia ci sono solo un centinaio di individui, un singolo evento accidentale, come una frana o un incendio, – spiega Passalacqua – può provocarne l’estinzione. Così l’hanno riprodotta e mandata agli orti botanici per la conservazione ex situ». Nell’orto delle cerze (dal nome dialettale delle querce) c’è invece una quercia a rischio di estinzione in Calabria, la farnia (nome botanico Quercus robur). «Si trovava alla foce del Crati e del Neto e stava con le radici sempre nell’acqua. Ora questi habitat hanno subito molte trasformazioni».
L’arboreto dell’orto botanico all’Unical
L’arboreto della Calabria
Le farnie si trovano nella parte più recente dell’Orto botanico dell’Unical, l’arboreto della Calabria, che custodisce, insieme alla biodiversità, anche la cultura del luogo. «Le specie arboree costituiscono il paesaggio e il paesaggio è un aspetto culturale». Oltre alle querce, ci sono aceri, carpini, frassini, carrubi, sorbi. Accanto al laghetto artificiale, già a secco in questo anticipo d’estate, si stende il viale dei gelsi, le cui foglie si usavano per nutrire il baco da seta, il cosiddetto bombice da gelso. In Calabria la gelsicoltura ebbe la sua massima espansione nel XV secolo fino agli inizi del XX. Poi una grave malattia colpì gli allevamenti dei bachi. All’estremità del viale dei gelsi si trova la cibia, una vasca che un tempo i contadini creavano per avere a disposizione l’acqua per innaffiare l’orto. La superficie è completamente ricoperta dalla lenticchia d’acqua, una pianta che dà al liquido un aspetto vetroso. All’interno della cibia dimora il tritone, un piccolo anfibio a rischio estinzione.
La ricerca sul corbezzolo
Più in alto, nel bosco della collina di Monaci, uno dei tre boschi custoditi dall’Orto, si trovano i corbezzoli (Arbutus unedo). I suoi frutti rossi e commestibili e le foglie sono state oggetto di uno studio che ha condotto il dipartimento di Farmacia per verificare l’attività antiossidante e inibitoria di due enzimi (alfamilasi e alfaglucosidasi) per il trattamento del diabete di tipo 2. I risultati sono stati buoni e sono stati pubblicati nel 2020 sulla rivista scientifica Antioxidants. Si tratta di studi in vitro, però, solo un primo step. Per proseguire lo studio ed effettuare le sperimentazioni sugli animali servono risorse ma anche l’interesse.
falasco
calamaria (isoetes)
il giardiniere Antonio
De Giuseppe e un bonsai d’ulivo
farnia
gelso
Servono più risorse per l’orto botanico
Più risorse ci vorrebbero anche per la manutenzione dell’Orto botanico. «Uno di queste dimensioni, oltre otto ettari, avrebbe bisogno di 15 giardinieri, noi ne abbiamo solo due», aggiunge Passalacqua. Di questi, Antonio De Giuseppe è giardiniere dell’Orto dei Bruzi da vent’anni, lo conosce come le sue tasche. Il suo lavoro gli permette di osservare come il clima sia cambiato negli ultimi tempi. «Ora le piante hanno bisogno di molta più acqua, persino l’ulivo soffre il troppo caldo. Sono aumentate anche le malattie delle piante. In particolare, si sta sviluppando la cocciniglia, un parassita che un tempo veniva distrutto dal freddo invernale».
L’arte del bonsai
De Giuseppe è anche istruttore nazionale di bonsai e ne realizza utilizzando piante calabresi: pini, ginepri, ulivi, mirti. «Noi bonsaisti recuperiamo piante rotte o morenti, cercando di imitare gli stili che esistono in natura». Ha fondato un’associazione, Shibumi, che promuove l’arte giapponese della coltivazione di alberi in vaso e svolge attività di educazione ambientale, in convenzione con l’Orto botanico. Ogni tanto l’associazione organizza eventi, esposizioni. Occasioni, anche, per stare insieme e condividere l’amore per la natura.
La dragontea o erba serpentona
Il fiore che sa di cadavere
E la natura sa essere sorprendente e straordinariamente complessa. Come nella dragontea o erba serpentona (Dracunculus vulgaris Schott), una pianta bellissima eppure velenosa che cresce nel bacino del Mediterraneo. Nell’Orto botanico si trova vicino una le due piccole serre, tra il bosco della sorgente e quello dell’amore. Si chiama così perché un tempo, quando l’Orto non era recintato, gli studenti andavano lì ad appartarsi. La dragontea ha un fiore incantevole eppure disgustoso, per il suo odore di carne in putrefazione. Tant’è che attira moltissimo le mosche. Queste entrano nel fiore e rimangono imprigionate da due corone di peli, imbrattandosi di polline. Una volta uscite, saranno le mosche a impollinare i fiori femminili. La vita ricomincia anche così.
A volte la violenza si percepisce nell’aria, che si satura fin quasi a esplodere.
Nella Cosenza del ’77 è proprio così: la violenza politica degli anni di piombo inizia pian pano a evaporare.
Quella della malavita, invece, è in crescendo.
È il pomeriggio del 23 gennaio. Mancano poco più di undici mesi alla morte cruenta di Luigi Palermo, detto ’u Zorru, il mitico capo della mala locale, erede dell’altrettanto mitico Luigi Pennino, detto ’u Penninu.
Sono passate da poco le quattordici e Francesco Fotino, appuntato di polizia che presidia la guardiola della vecchia prefettura (che oggi è diventata la sede della Provincia), sente alcuni spari e delle urla.
Un duello di malavita alla Villa Vecchia
I rumori provengono dalla Villa Vecchia, l’ex regno di Ciccio Scarpelli, alias Ciccio Fred Scotti, ex custode della struttura comunale e celebre per essere stato uno dei primissimi cantanti di malavita calabresi.
Fotino si precipita fuori e nota uno spettacolo agghiacciante: un ragazzo cerca di trascinare a spalla un coetaneo gravemente ferito a una gamba. Quest’ultimo si chiama Giuseppe Castiglia e ha 21 anni. Ma gli amici lo chiamano Nuccio.
Il poliziotto urla l’alt e poi spara un colpo di avvertimento in aria.
Fred Scotti e il leone della Villa comunale
Il soccorritore molla Castiglia e scappa. Fotino rientra di fretta e furia nella guardiola e chiama il 113 per avere rinforzi. Poi va alla Villa Vecchia.
Lo spettacolo, stavolta, è peggiore: un altro giovane riverso per terra, davanti al cancello della Villa. Ha una grossa macchia di sangue all’altezza del cuore. Si chiama Carlo Mussari, ha 25 anni e anche lui ha il suo bravo nomignolo: Dipignano.
Per Mussari non c’è niente da fare: un proiettile gli ha attraversato il torace da parte a parte e i soccorritori lo trovano già cadavere.
Il soccorso inutile e la morte
Qualche speranza in più ci sarebbe per Nuccio: i suoi amici lo caricano su una Mini Minor Cooper 1300 e tentano di portarlo in Ospedale.
Alla tragedia si aggiunge la sfortuna: l’auto è a rosso fisso e si pianta all’imbocco del ponte Mancini, che collega Cosenza Vecchia all’Ospedale.
I soccorritori se la danno a gambe e abbandonano Castiglia, ormai agonizzante, per la seconda volta.
Una mitica Gazzella degli anni ’70
Anche l’arrivo di una volante della Polizia è inutile: gli agenti trasbordano il ferito e cercano di arrivare al Pronto Soccorso. Ma Nuccio è gravissimo, perché il proiettile gli ha reciso l’arteria femorale e fermare l’emorragia è impossibile. Il ragazzo arriva a destinazione già cadavere.
Le indagini sul duello, in tre sotto torchio
Il boss Franco Perna
La prima pista degli inquirenti porta ad Alfredo Andretti. Questa pista parte dalla Mini Minor usata per soccorrere Nuccio, che appartiene alla sorella di Andretti. Tra l’altro, i poliziotti hanno trovato dentro l’auto delle prove non proprio trascurabili: i documenti di Castiglia, una pallottola calibro 7,65, una bottiglia di brandy e un paio di guanti in pelle marrone. Quanto basta ad Alfredo Serafini, il procuratore incaricato delle indagini, per fermare Andretti con l’accusa di concorso in omicidio.
Inoltre, spuntano dei testimoni, tuttora sconosciuti, e un’altra prova: un caricatore Mauser trovato in una tasca di Dipignano. I questurini fermano altre due persone: Salvatore Pati, che all’epoca ha 26 anni, e Antonio Musacco, che ne ha 30.
La prova che manca e l’antefatto
Anche per loro due l’accusa è di concorso in omicidio. Ma a loro carico c’è una sola certezza: aver soccorso (e poi mollato) Nuccio.
Ma il guanto di paraffina, negativo per tutti e tre gli indagati, toglie ogni dubbio: gli unici pistoleri di quel maledetto 23 gennaio ’77 sarebbero stati Nuccio e Dipignano.
La sera prima, infatti, Castiglia ha litigato col cognato di Mussari e lo ha preso a schiaffi. I due, quindi si sarebbero dati appuntamento davanti alla Villa Vecchia, anche coi relativi compari, per chiarirsi.
Ma le cose avrebbero preso un’altra piega: anziché “appaciarsi”, Castiglia e Mussari si sarebbero insultati e poi presi a revolverate a vicenda. Un duello violento, tipico di certa mala cosentina, finito male.
I compari
Il doppio omicidio della Villa Vecchia è la prima occasione in cui Andretti, Pati e Musacco compaiono nelle cronache giudiziarie. Ma i loro sono nomi destinati a tornare. Vediamo come. Andretti, considerato affiliato del boss Franchino Perna, sarà ucciso nel 1985 per un regolamento di conti. Qualche anno dopo, il pentito Roberto Pagano lo accuserà dell’omicidio dell’imprenditore Mario Dodaro. Musacco finisce in vari procedimenti, tutti dovuti a presunti fatti di mafia, a partire dal celebre maxiprocesso “Garden”. Stesso discorso per Salvatore Pati.
Il boss, poi pentito, Franco Pino
«Eravamo “grattisti”, siamo diventati “sgarristi”». Con quest’efficace espressione, il boss pentito Franco Pino racconta la trasformazione della criminalità cosentina da malavita in mafia. Violenti, a volte in maniera vistosa e stupida (come Castiglia e Mussari, appunto), i giovani leoni di una certa Cosenza si preparavano, ognuno a modo suo, al salto di qualità che sarebbe arrivato proprio alla fine del ’77.
Ma questa è un’altra storia…
Le sorti di questa storia – che sarebbe tutta calabrese – si decidono a Montecitorio. Perché se una presunta diffamazione la commette un comune mortale deve andare a difendersi in Tribunale. Se il denunciato è invece un deputato o un senatore allora può scattare lo scudo parlamentare. Anche se l’accusato deputato non lo è più, ma lo era all’epoca dei fatti. Proprio come Roberto Occhiuto.
Manzini va in Tribunale, ma Occhiuto e Mulè chiedono lo stop
Il presidente della Regione è uno dei protagonisti della vicenda. L’altro è l’attuale sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè, all’epoca portavoce di Forza Italia alla Camera. A portare in Tribunale – o meglio, a provare a farlo – Mulè e Occhiuto è Marisa Manzini, già procuratrice aggiunta a Cosenza. Il suo atto di citazione risale al 3 dicembre 2019 e il procedimento è attualmente pendente al Tribunale civile di Salerno. Solo che ora della questione si sta occupando la Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio. Perché Occhiuto e Mulè hanno chiesto che la Camera «voglia domandare la sospensione del procedimento».
Marisa Manzini
Occhiuto e Mulè si rivolgono alla Giunta dopo il no del giudice
Il nocciolo della vicenda riguarda l’articolo 68 della Costituzione: «I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni». Il giudice di Salerno a gennaio ha rigettato la richiesta avanzata al Tribunale da Occhiuto e Mulè. I quali invece chiedono che venga loro applicata questa prerogativa costituzionale. E di fronte al diniego ora si sono rivolti alla Giunta della Camera richiamando la possibilità (prevista dalla legge 140/2003) che sia direttamente Montecitorio a chiedere al giudice la sospensione.
I presunti rapporti tra Manzini, Morra e un maresciallo
Secondo quanto riportato oggi in un breve articolo sul settimanale cartaceo di Tpi, la Camera sarebbe pronta «a salvarli». Con la motivazione che l’asserita diffamazione sarebbe avvenuta in una conferenza stampa che si è tenuta a Montecitorio. Proprio questa circostanza potrebbe garantire a Occhiuto e Mulè «l’ombrello dell’immunità». I fatti risalgono al 13 maggio 2019. Quando dalla sala stampa di Montecitorio e dalla web-tv della Camera i due deputati, affiancati dalla compianta Jole Santelli, parlarono dei rapporti tra il senatore M5S Nicola Morra, Manzini e un maresciallo della Guardia di finanza.
Il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra
L’intercettazione a casa Morra
L’argomento è tutto cosentino e risale al febbraio del 2018. Ovvero una conversazione con l’ex segretario dell’allora sindaco Mario Occhiuto che Morra avrebbe registrato, a casa sua, portando poi alla Gdf il dvd con l’intercettazione. Ne sarebbe scaturita un’indagine che avrebbe coinvolto il fratello dell’attuale presidente della Regione, poi però assolto dalle accuse che riguardavano alcuni rimborsi per viaggi istituzionali (qui il Quotidiano del Sud fornisce i dettagli della vicenda processuale).
Occhiuto su Manzini consulente dell’Antimafia
Nella conferenza stampa romana da cui è scaturita l’azione legale di Manzini proprio Occhiuto (Roberto), secondo la magistrata, avrebbe avuto «il ruolo centrale». In particolare nel sottolineare i tempi insolitamente rapidi con cui Gdf e Procura avevano dato seguito all’iniziativa di Morra. I forzisti accusano: «Il maresciallo a cui ha consegnato il dvd e il pm che ne ha disposto la trascrizione (il riferimento è proprio a Manzini,ndr) sono diventati consulenti dell’Antimafia». Che non all’epoca dei fatti, ma poco dopo e ancora oggi, è presieduta da Morra.
La sala stampa e l’attività parlamentare
La conferenza stampa tenuta alla Camera da Santelli, Mulè e Occhiuto
Nel resoconto della Giunta si legge che un deputato del Pd (Alfredo Bazoli) ha sottolineato «l’esigenza di soffermarsi sulla possibilità o meno di qualificare gli interventi svolti durante la conferenza stampa medesima come attività parlamentare tipica».Il presidente dell’organismo, di FdI, pur «senza volere anticipare l’esame dei profili giuridici o il giudizio nel merito del caso in esame», ha fatto notare che «una conferenza stampa svolta all’interno di una sede istituzionale su temi di rilevanza politica dovrebbe essere comunque qualificata come espressione di attività parlamentare eseguita intra moenia». Non sorprende che si sia detto d’accordo sul punto Carlo Sarro di Forza Italia, che ha richiamato anche il fatto che la conferenza stampa sia stata affiancata da un’interpellanza parlamentare.
Un lieto fine per Occhiuto e Mulè?
L’orientamento del centrodestra è, ovviamente, abbastanza chiaro. Non è un dettaglio che dei 21 componenti della Giunta per le autorizzazioni, 11 facciano riferimento a partiti del centrodestra (Fi, Lega, FdI e Coraggio Italia), 8 al centrosinistra (Pd, M5S e LeU) e 2 sono di Italia Viva. L’organismo ha rinviato la trattazione della vicenda a un ulteriore esame. Ma il finale della storia sembra abbastanza scontato.
I festeggiamenti in onore di San Francesco di Paola partiranno lunedì 30 maggio 2022 per poi concludersi giovedì 2 giugno. Torna la processione del santo dopo le restrizioni imposte dall’emergenza pandemica degli anni scorsi.
È quanto fanno sapere i Frati Minimi della parrocchia di San Francesco di Paola a Cosenza.
Nei giorni del Sacro Triduo – lunedì 30 maggio, martedì 31 maggio e mercoledì 1 giugno – le sante messe saranno celebrate alle ore 08:30 e 18:00 e il Santo Rosario sarà recitato unitamente alla preghiera al Santo per le ore 17:30.
Il programma della festa
Il programma del 2 giugno, che è il giorno della festa del Santo Patrono della Calabria e della Gente di Mare d’Italia e Compatrono della città bruzia e dell’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano: sante messe alle ore 08.30 e 11:00 nella Chiesa di corso Plebiscito; alle ore 17:30 celebrazione dei Vespri; alle ore 18:00 processione; ore 19:00 solenne celebrazione eucaristica presieduta nella Chiesa Cattedrale da Monsignor Francesco Nolè, arcivescovo metropolita di Cosenza-Bisignano.
L’itinerario della processione e le chiavi della città al santo
L’itinerario della processione: Via San Francesco di Paola, Ponte San Francesco di Paola, corso Umberto I°, Piazza dei Bruzi, via Sertorio Quattromani, Piazza dei Valdesi, Corso Telesio, Duomo, Piazza Piccola, Ponte Gravina, corso Plebiscito.
Il sindaco di Cosenza, Franz Caruso, consegnerà davanti al municipio la chiave d’oro della città a San Francesco di Paola.
Venerdì 3 giugno alle ore 18:00 sarà celebrata una messa di ringraziamento nella Chiesa del Santo in corso Plebiscito.
Il pubblico arranca, il privato avanza. Da un lato cantieri che si trascinano da anni, dall’altro micro e macro colate di cemento che coprono fazzoletti anche minuscoli in centro città: è il caso della palazzina incastonata sul lato nord di piazza Bilotti o della mega-struttura sanitaria per ora segnalata solo dalla maxi-gru visibile tra via Alimena e l’isola pedonale all’incrocio di via Miceli.
La struttura sanitaria privata che sta nascendo nel cuore di Cosenza
Cosenza e le incompiute: il non finito bruzio
Nel frattempo, di alcune incompiute non resta neanche la prima pietra, ma solo gli annunci a mezzo stampa: ricordate l’Ecovillaggio? Avrebbe dovuto trasformare il campo rom in una sorta di cittadella campanelliana. Un milione di euro (da fondi Pisu) destinato al “villaggio creativo” nell’ex mercato ortofrutticolo di Vaglio Lise («spazi e strutture attrezzate per favorire la nascita di un mercatino per la vendita di prodotti realizzati dai rom e per fornire occasioni di socializzazione, incontro e valorizzazione della loro cultura» si leggeva nelle cronache del 2011, anno 1 dell’EO, l’Era Occhiuto), con il vicino campo sosta e i box già in uso ai grossisti da convertire in alloggi da 40 metri quadri «con zona living, due camere da letto, bagno», ambienti «all’esterno colorati e con temi diversi per caratterizzarli» e la luce che «arriverà anche dall’alto». Wow.
Ombre di tutte le età si intrattengono tra tetti in eternit e box colorati nel Villaggio Rom progettato dal Comune
Fanta-urbanistica. Undici anni dopo, nella città sospesa dove l’unica opera sbloccata – ammesso che di opera si possa parlare – è il tratto di via Roma riaperto al traffico tra le due scuole, il “non finito” bruzio parla di promesse, polemiche e fallimenti. Piccola ricognizione.
1. Viale Mancini
La madre di tutte le incompiute. In principio – dopo i tagli del nastro del sindaco eponimo – fu la voragine che si spalancò il 1° aprile 2005. E non era uno scherzo, anzi poteva scapparci il morto. Ne seguì un’inchiesta giudiziaria, poi il rifacimento e la riapertura, il tira e molla politico tra livelli istituzionali (Comune-Regione-Ue) sulla nuova destinazione d’uso con tanto di derby tra i due Mario O. (Occhiuto e Oliverio), la riduzione della carreggiata a favore di pista ciclabile durante il primo lockdown e l’ennesimo cantiere aperto – quasi per ripicca – a poche settimane dal voto che avrebbe incoronato Franz Caruso sindaco.
Il tutto mentre continua ad aggirarsi lo spettro della metro leggera, argomento per tutte le stagioni elettorali come il nuovo ospedale, la corte d’appello e lo svincolo autostradale a Sud; e la nuova giunta annuncia come imminente – un po’ come la campagna di rifacimento del manto stradale che stiamo ancora aspettando – la ripresa dei lavori del parco del benessere intanto intitolato a Jole Santelli.
Il cantiere della metropolitana leggera su viale Mancini a Cosenza (foto Camillo Giuliani) – I Calabresi
Livelli toponomastici che si stratificano, proprio come i rifiuti nelle aree transennate, rischi che pedoni e bikers corrono proprio per via dei pali arrugginiti che puntellano le reti di plastica arancione, cestini praticamente assenti e un senso di sospensione riassumibile nei semafori che lampeggiano da 5 anni nonostante le auto arrivino dal senso opposto. Soprattutto: il traffico già congestionato dal dimezzamento della carreggiata è aumentato dopo la riduzione a una sola corsia. Mentre la bretella che costeggia via Popilia resta un miraggio.
2. La bretella che non c’è
Ad osservare il rendering del Parco Urbano, che prevede la chiusura totale e definitiva del tratto di viale Mancini che va dai Due Fiumi alla sopraelevata, appare chiaro che si renderà vitale, più che consigliata, la bretella che correrà a est, parallela a via Popilia (da via Giovanbattista Lupia alla rotatoria del ponte di Calatrava), una volta venuta meno la principale via di accesso al centro città.
Era il 2018 quando il Comitato Cs Viabilità Sicura raccolse migliaia di firme per sollecitare i lavori. Da allora solo annunci. E, ancora di più, imprecazioni degli automobilisti impelagati nel traffico, con disagi – anche filmati e rilanciati sui social – di ambulanze in file impossibili da “stappare”.
Il paradosso di via Buffone (foto Alfonso Bombini) – I Calabresi
Nell’Accordo di Programma tra la Regione Calabria e il Comune di Cosenza fu prevista la realizzazione della viabilità alternativa (più un’ovovia nel centro storico). Ma la realtà parla di una discarica, sottoposta anche a sequestro. E di situazioni kafkiane come alcune traverse pronte, con tanto di segnaletica, ma inutilizzabili (vedi via Pierino Buffone): conducono a una strada che non c’è! Nel frattempo l’erba si fa largo sull’asfalto nuovo e già invecchiato.
3. Piazza Bilotti
Non è una installazione-impacchettamento alla Christo, eppure anche di arte si tratta visto che i Filosofi guerrieri di Giuseppe Gallo – dopo la vetrina nazionale della copertina de La Lettura del Corriere della Sera – sono costretti all’interno di un recinto di transenne. In origine si fantasticò di un intervento legato anche alla riqualificazione di piazza Autolinee (un futuribile sottopassaggio pedonale avrebbe dovuto portare all’autostazione…) e l’allora sindaco Mario Occhiuto rivelò di propendere per un tappeto verde piuttosto che per l’ammasso di laterizi attualmente visibile: le cose sono infatti andate diversamente.
Sculture e transenne a piazza Bilotti (foto Alfonso Bombini) – I Calabresi
Passati dieci anni, la vicenda giudiziaria del sequestroper motivi di sicurezza, dopo l’inchiesta che ha coinvolto la ditta esecutrice dei lavori e gli strascichi anche politici incombenti sulle due giunte Occhiuto, riduce la piazza più grande della città a non-luogo, o meglioluogo a metà: struttura dimezzata anche sotto il livello stradale, tra un Museo Multimediale chiuso e il McDonald’s e il parcheggio riaperti. Anche in questo caso, una bella sintesi per chi s’interroga sui motivi della prevalenza del privato sul pubblico.
4. La piscina fantasma
Doveva essere il progetto di punta del fu Parco fluviale poi ribattezzato con grandeur parigina Lungofiume boulevard – eventificio per due consiliature poi riconvertito a luogo di land art – infine Parco acquatico, quasi una risposta del capoluogo all’opera rendese. Invece sulla piscina coperta da 25 x 12,5 metri – inaugurata nella primavera 2011 e mai entrata in funzione – a inizio 2021 è stata anche aperta un’inchiesta dalla Procura di Cosenza: sei indagati tra tecnici comunali e rappresentanti della ditta appaltatrice (con la quale, nel 2017, Palazzo dei Bruzi ha rescisso il contratto stipulato 8 anni prima), ipotizzati i reati di truffa, falso e frode nelle pubbliche forniture.
Il cartello dei lavori. Il completamento era previsto per Natale 2009 (foto Camillo Giuliani) – I Calabresi
La piscina inaugurata nel 2011 (foto Camillo Giuliani) – I Calabresi
Quel che resta del parco acquatico sul pavimento della piscina (foto Camillo Giuliani) – I Calabresi
I macchinari smontati (foto Camillo Giuliani) – I Calabresi
Il corridoio che conduce alla vasca (foto Camillo Giuliani) – I Calabresi
L’ingresso della piscina dal lato opposto all’ex Lungofiume boulevard (foto Camillo Giuliani) – I Calabresi
L’interno della piscina dopo il passaggio di ladri e vandali (foto Camillo Giuliani) – I Calabresi
Per la struttura sportiva negata a una città che ne avrebbe bisogno una sorte più nebulosa dei Bocs Art, musealizzati nel complesso monumentale di San Domenico: come per il Mab, grande battage mediatico e innegabile seguito anche per queste strutture poste lungo l’agonizzante parco fluviale del Crati. Poi il nulla.
5. Cupole geodetiche
Il fantomatico quartiere fieristico è un altro tormentone, anzi manco quello. È uscito dai radar della politica da tempo. Le cupole geodetiche di viale Magna Grecia, sempre rileggendo il libro dei sogni del neosindaco Occhiuto 2011, rientravano nel progetto più complessivo della “porta dello sport e dell’expo” (il 2015 e le fascinazioni di Milano erano dietro l’angolo). L’idea era di eliminare le cupole per sostituirle con un unico spazio espositivo, «una struttura ovoidale, piuttosto avveniristica e realizzati con materiali dall’effetto rifrangente».
Le cupole geodetiche poco prima della loro rimozione (foto Camillo Giuliani) – I Calabresi
Di ovoidale si è potuto ammirare soltanto un cesso troneggiante nella variegata munnizza che colpiva il viandante avventuratosi sulla pista ciclabile e pedonale che unisce Cosenza e Castrolibero. Le tende sfondate delle cupole che negli anni ’80 ospitavano esposizioni e feste dell’Unità come simbolo della grande area urbana, altro refrain da campagna elettorale. Un monumento alla grande bruttezza.
6. La città dei sottopassi
Quando vuoi stupire o non sai come uscirne, tira fuori un sottopasso e il tuo interlocutore ne sarà spiazzato. La “porta commerciale” favoleggiata nell’area di via Popilia all’altezza di Vaglio Lise – che prevedeva l’interramento della strada statale 107 Silana Crotonese a favore di un’enorme piazza con verde attrezzato – avrebbe dovuto saldare la già agonizzante stazione e i quartieri popolari portando nuove attività commerciali, una sorta di quartiere fieristico bis per il quale venivano sventolati 100 milioni di euro già pronti. In dieci anni lo scalo ferroviario si è ulteriormente depotenziato a favore di Paola. L’unico intervento degno di nota è – manco a dirlo – un ennesimo polo della grande distribuzione (non proprio piccolo commercio di prossimità) subito dopo i palazzoni ex Carime e Provincia tirati periodicamente in ballo per il fantomatico nuovo ospedale.
La stazione di Vaglio Lise a Cosenza (foto Alfonso Bombini 2022)
È un intervento strutturale piuttosto imponente per il quale si confida nell’intervento finanziario, attraverso risorse europee, della Regione. La sottopassaggite – branca dell’annuncite che colpisce indistintamente la classe politica locale – si manifestò poco prima del decennio occhiutiano anche dalle parti di viale Trieste (avrebbe dovuto snellire il traffico in zona ospedale) e, da ultimo, è tornata alla grande tra chi suggeriva un piano B alla spianata di via Misasi/largo Rodotà.
Il tutto ha un sapore ancora più paradossale se si pensa che, a fronte di tutti questi non-sottopassi, c’è un ponte facile facile che potrebbe unire i due viali di Cosenza e Rende intitolati ai rispettivi ras socialisti: ma in questo caso, a parte recentissimi ulteriori sviluppi, non siamo neanche agli annunci.
7. Museo di Alarico
Nel “triangolo delle meraviglie” Ponte di Calatrava/Planetario/ Museo di Alarico, l’ex Hotel Jolly poi sede dell’Aterp è senza dubbio il manufatto messo peggio. Sulla confluenza, appena sopra la statua a cavallo con la quale Cosenza si presenta, per dirne una, agli automobilisti nella cartellonistica autostradale, questa sorta di castello dell’Innominato bombardato giace sventrato da anni.
I ruderi dell’ex hotel Jolly, abbattuto per far posto al museo dedicato ad Alarico (foto Camillo Giuliani)
Per quanto era flessuoso e sinuoso il rendering propalato dall’amministrazione precedente, tanto spigoloso e urticante risulta la realtà di questo ex palazzone senape famoso per non essere dotato di balconi, in pieno stile brutalista. La vista su corso Plebiscito si è liberata a favore della chiesa di San Francesco di Paola dopo l’abbattimento dei sei piani. Ma la struttura museale su un piano o poco più che tutti aspetta(va)no sembra davvero lontana da arrivare.
8. Planetario
Tra le incompiute è la più compiuta: alla vigilia della pandemia veleggiava sull’onda dell’entusiasmo. Le domeniche di febbraio 2020 di divulgazione e intrattenimento con la collaborazione di studiosi dell’Unical raccolsero molto favore. Poi lo stop brusco, ancora più doloroso vista la partenza alquanto problematica. Da allora, iniziative sempre meritevoli e per ora estemporanee ma sempre seguite. La speranza è quella di orari definitivi e cartelloni meglio strutturati (e magari la possibilità di pagamenti digitalizzati).
Rifiuti davanti al planetario di Cosenza (foto Alfonso Bombini 2022)
9. Biblioteca Civica
Lo stallo di una delle più importanti istituzioni culturali del meridione è tra i cavalli di battaglia de iCalabresi. Se i tormenti del presente e ai dubbi sul futuro c’è poco da aggiungere.
L’ingresso della Biblioteca in piazza XV marzo, sede dell’Accademia cosentina
Ma forse giova qui riportare una nota trionfalistica di qualche anno fa: «Rassicurazioni e rinnovata fiducia. È ciò che Mario Occhiuto ha trasmesso personalmente ai dipendenti della Biblioteca Civica, storica istituzione culturale cosentina, attraverso la visita che, da neo presidente della Provincia, ha voluto compiere fra le prime uscite pubbliche proprio nel prestigioso edificio adiacente il teatro Rendano. La crisi che ormai da tempo ha colpito l’Ente gestito sia dal Comune che dalla Provincia, rientra nei primissimi punti dell’agenda che attende Occhiuto negli uffici di piazza XV Marzo. Lo aveva anticipato già prima dell’elezione il presidente, e oggi ha voluto ribadirlo direttamente ai dipendenti che subito dopo l’incontro hanno rimosso gli striscioni di protesta posti all’esterno. Mario Occhiuto, che ricopre il duplice ruolo di sindaco della città e massimo rappresentante della Provincia, ha dichiarato che affronterà i problemi in seno ai locali ricchi di un patrimonio vasto (come i manuali antichi di valore inestimabile) con un progetto di rilancio delle attività che potrebbe essere eventualmente legato a una modifica dello Statuto, necessario alla nuova vita della Biblioteca Civica». Era il 21 ottobre 2014. I commenti li lasciamo ai lettori.
10. Le incompiute culturali
A proposito di incompiute culturali, più nella gestione che nella struttura, lo stallo dei teatri storici cittadini risiede tutto tra il Morelli e l’Italia-Tieri, laddove almeno il Rendano ha una stagione, per quanto mainstream. Qui un’analisi ampia e dall’interno: dall’esterno basti dire che, dalle sponde opposte del Busento, i due teatri dirimpettai si guardano e aspettano Godot. Un po’ come tutta la città.
L’ingresso del Cinema-Teatro Tieri è da tempo rifugio per chi non ha un tetto
L’assoluzione, poi le lacrime di commozione dell’assolto più importante: Sandro Principe.
Tutto questo, adesso, è cronaca che impazza per la rete e di cui si attendono approfondimenti già nelle prossime ore.
Ma, alla fine di un’inchiesta cominciata nella prima metà del decennio scorso e di un processo di primo grado iniziato quattro anni fa, resta un dato: il “Sistema Rende” non esiste.
Non, almeno, come lo aveva ipotizzato la Dda di Catanzaro.
Umberto Bernaudo, ex sindaco di Rende
Non erano collusi con la ‘ndrangheta
Secondo il collegio giudicante – presieduto da Stefania Antico e composto da Urania Granata e Iole Vigna – Principe, l’ex sindaco di Rende Umberto Bernaudo e l’ex assessore Pietro Paolo Ruffolo, non sono stati collusi con la ’ndrangheta cosentina, non hanno sollecitato voti né hanno fatto favori alle cosche. In termini giudiziari: il fatto non sussiste.
Discorso più sfumato per Giuseppe Gagliardi, ex consigliere comunale di Rende ed ex assessore provinciale, finito a giudizio solo per corruzione elettorale e assolto anche lui.
Pietro Paolo Ruffolo, ex assessore del Comune di Rende
Rende non è Gomorra
Rende non è Gomorra, sebbene il processo Sistema Rende avesse già i suoi condannati, tutti attraverso il rito abbreviato.
Si tratta di Adolfo D’Ambrosio e Michele Di Puppo, ritenuti affiliati al clan Lanzino-Rua (quattro anni e otto mesi a testa), dell’ex consigliere regionale Rosario Mirabelli e di Marco Paolo Lento (due anni a testa).
Rende non è Gomorra, tuttavia le cosche – e tutto il clima di veleni che ne accompagna la sola presenza – hanno pesato non poco nella vita (non solo politica) della città del Campagnano, ritenuta a lungo un modello civile e urbanistico.
Giuseppe Gagliardi, ex consigliere comunale a Rende ed ex assessore provinciale
Sistema Rende
I preliminari dell’inchiesta Sistema Rende sono iniziati nel 2012, subito dopo l’arresto di Ettore Lanzino, boss e “primula” delle cosche cosentine, beccato dai carabinieri del Ros proprio in un appartamento di Rende.
L’arrivo della Commissione d’accesso antimafia in municipio fu questione di pochi mesi. E da quel momento in avanti prese il via uno stillicidio pesantissimo, a livello politico e poi giudiziario.
Sono coincidenze, ci mancherebbe. Ma è doveroso rilevarle comunque: nel 2013, mentre la Commissione spulcia le carte del Comune, il sindaco Vittorio Cavalcanti, sostenuto (o, se si preferisce, imposto) da Principe, getta la spugna e Rende finisce commissariata.
L’anno successivo, arrivano altri due stop per Principe: nella primavera 2014 i riformisti perdono clamorosamente contro la coalizione di centrodestra, guidata da Marcello Manna, e nell’autunno seguente il Pd nega la ricandidatura dello stesso Principe al Consiglio regionale.
In tutto questo hanno pesato i sospetti di mafiosità? Impossibile dirlo. Ma occorre ricordare che l’inchiesta Sistema Rende ricostruisce gli ultimi anni ruggenti della leadership di Principe, che tocca il culmine nelle provinciali del 2009, con l’elezione di Ruffolo, Bernaudo e Gagliardi, e nelle amministrative del 2011, quando Cavalcanti diventa sindaco al posto di Bernaudo.
Voti infetti?
Secondo le ipotesi dell’accusa, rappresentata nel processo dall’attuale procuratore capo di Paola Pierpaolo Bruni, i voti delle cosche avrebbero avuto il loro ruolo in questi exploit. E, viceversa, gli amministratori di Rende avrebbero agevolato non poco le “coppole”.
Queste accuse hanno raggiunto il massimo nel 2016, con l’arresto eccellente di Principe, poi revocato dal Riesame. Rende, a partire da quell’anno, non è più l’isola felice.
Il paradosso Lanzino
Nel 2012, quando finì in manette Ettore Lanzino, Marcello Manna non pensava di candidarsi a sindaco di Rende. Si limitava a fare manifestazioni coi Radicali e navigava in quell’area liberalsocialista a cavallo tra centrodestra e centrosinistra.
Soprattutto, era l’avvocato di Lanzino, che avrebbe difeso fino al 2018, cioè fino al rinvio a giudizio di Principe.
Ovviamente non c’è alcuna relazione tra la professione (e gli assistiti) e il ruolo politico di Manna. È solo un paradossale gioco di porte girevoli, grazie al quale un leader finisce in manette per presunte collusioni con un boss e l’avvocato di quest’ultimo gli fa le scarpe a livello politico.
Di più non è possibile (né bello) dire, perché c’è di mezzo la democrazia. E la democrazia dice che i rendesi hanno scaricato da otto anni in qua il meccanismo politico creato da Principe.
Il paradosso salernitano
Il discorso è speculare per Marcello Manna, su cui pende tuttora la richiesta di rinvio a giudizio per corruzione in atti giudiziari presso il Tribunale di Salerno per la nota vicenda dell’ex giudice Marco Petrini.
Questa vicenda, sia chiaro, riguarda l’attività professionale di Manna e non il suo ruolo di sindaco. Che sia così lo hanno ribadito i magistrati che si occupano di questo delicatissimo procedimento, con la conferma dell’interdizione dall’esercizio dell’avvocatura a Manna, ma senza alcuna conseguenza politica. Una beffa del destino.
Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)
Le porte girevoli
Marzo è il mese pazzo per eccellenza. Ma maggio può fare scherzi peggiori. Il mese è iniziato con tre scenari possibili.
Il primo: proscioglimento di Manna e condanna di Principe. Quest’ipotesi avrebbe comportato senz’altro la fine del riformismo rendese e avrebbe fatto colare un bel po’ di fango anche sulle sue innegabili realizzazioni
Secondo scenario: proscioglimento di Manna e Principe. Ormai è un’ipotesi astratta, anche se bella. Se si fosse realizzata, tutto sarebbe finito in un pari e la parola sarebbe ritornata alla politica.
Terzo scenario: assoluzione di Principe e rinvio a giudizio di Manna. Non ci si pronuncia per elementare e doveroso garantismo. Tuttavia, visto che Manna ancora non ha deciso se optare per il rito abbreviato o per quello ordinario, quest’ipotesi è quasi certa e potrebbe rimescolare non poche carte.
Di sicuro il sindaco ne uscirebbe indebolito di fronte al tribunale dell’opinione pubblica, l’unico che conti per un politico. Principe, al contrario, si rafforzerebbe. Anche a dispetto di alcune figuracce (ricordate la storia del “lazzo”?) che gli sono costate le elezioni del 2019 e che sono passate di prepotenza negli annali del trash.
Una veduta aerea di Rende
La città nel mezzo
Stanco, commosso e insolitamente pacato, Sandro Principe ha rilasciato una dichiarazione un po’ confusa non appena lui e i suoi sodali sono stati assolti con formula piena.
Ma nel mezzo di questa vicenda decennale, iniziata con un arresto eccellente, e trascinatasi tra tante contraddizioni, resta Rende, che non è più quella degli anni d’oro.
Il bilancio non è evaporato come quello di Cosenza, ma resta a forte rischio e la fama di oasi è un ricordo.
La città è passata da “modello” a “sistema” e resiste come può al declino, che c’è anche se è meno visibile rispetto al resto dell’area urbana.
Tuttavia, la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Cosenza fa chiarezza su un punto: la poltrona di sindaco a Rende non scotta più. E di questi tempi non è poco…
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