Tag: cosenza

  • Vampiri a San Nicola Arcella, l’horror che stregò Lovecraft

    Vampiri a San Nicola Arcella, l’horror che stregò Lovecraft

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Con l’arrivo dell’estate, come ogni anno, lungo tutto il tratto nord della Statale 18, da Praia a mare fino a Cetraro, debutta l’ingorgo delle presenze turistiche anarchiche. Quelle che sfuggono a statistiche e controlli, che significano economia super-sommersa, inquinamento e abusivismo senza fine, ingorghi, bancarelle e lungomari che diventano una specie di Piedigrotta a tutte le ore del giorno e della notte.

    Chi può si gode la vista del golfo di Policastro. Magari da uno di quei villini fucsia o color pisello che occhieggiano dal mostruosissimo Villagio del Bridge, una catasta di spaventosi cottage in cemento con vista sulla baia di San Nicola Arcella, che leggenda dice costruito coi soldi di Maradona.

    san-nicola-arcella-vampiri-crawford-stregarono-lovecraft
    Lo scrittore Francis Marion Crawford

    Grand Tour: stregati dal nord della Calabria

    Niente come il turismo di massa è capace di marcare i cambiamenti nella cultura e nei costumi. Queste coste magnifiche della Calabria del Nord un tempo non così lontano dal nostro furono il luogo elettivo del mito un poco svenevole degli stranieri del Grand Tour a caccia di natura selvaggia e panorami mozzafiato.

    Qui scesero lo scozzese Craufurd Tait Ramage e il più noto e pruriginoso Norman Douglas. Ma, su tutti, da queste parti visse l’eccentrico e ricchissimo scrittore americano Francis Marion Crawford. Non un personaggio qualsiasi, anche se il nome di Crawford (1854-1909) oggi direbbe poco anche al lettore più erudito e smaliziato. Questo autore che compare solo in cataloghi antiquari e nelle ristampe di editori minori di serie horror e fantasy, fu un caso fra i più curiosi e insoliti nella letteratura popolare di fine Ottocento.

    Crawford fu uno scrittore di storie incredibilmente prolifico e versatile, di grande mestiere e di enorme successo. Ma anche uomo eccentrico e misterioso. Eccezionale poliglotta (parlava ben 11 lingue) studioso di culture esotiche ed etnografo sui generis, ma anche uomo di mondo, eccellente marinaio e viaggiatore avventuroso, cultore di esoterismo e scienze occulte, abile schermitore e architetto. Al culmine di un’esistenza intensa e stravagante, bruciata in soli 55 anni, i suoi 44 romanzi ottennero un successo eccezionale fra fine ‘800 e inizio ‘900.

    Autore del primo libro in inglese sulla mafia

    In vita la sua popolarità e la sua fortuna di narratore raggiunsero vette leggendarie. Già il suo primo romanzo, l’anglo-indiano Mr. Isaac (1882), ebbe un successo immediato di pubblico, e Crawford ne fece subito un seguito l’anno appresso, tradotto in 23 lingue. La sua carriera da allora fu un crescendo, fino alla morte improvvisa avvenuta nel 1909 in Italia, a Sorrento.

    Fu lui a scrivere il primo romanzo in inglese sulla mafia che si conosca, l’antropologico I padroni del Sud (The Rulers of the South, 1900). Crawford con la sua penna fosca e fantasiosa riuscì guadagnare grandi fortune, assieme all’ammirazione del pubblico e una celebrità che dava sui nervi. Con un best seller dopo l’altro era infatti il nababbo della letteratura d’evasione del primo Novecento.

    In barca con Joseph Conrad

    Innamorato del mare e della navigazione a vela, nelle sue crociere verso il Sud, Crawford spesso si faceva accompagnare dalla bellissima moglie americana Elizabeth Berdan, da Sarah Bernhardt (per la quale aveva scritto nel 1902 il dramma Francesca da Rimini), dal pittore danese Henry Brokmann-Knudsen e da pochi altri amici scrittori della colonia britannica, come Norman Douglas, che ricorderà Crawford nei suoi Biglietti da visita. Qualche volta nelle crociere verso questi luoghi del Sud lo accompagnò anche Joseph Conrad, con il quale il nostro, che era capitano di lungo corso della marina americana, si alternava al timone del «The Alda», uno schooner a tre alberi, «grande e bello» che lo stesso scrittore, esperto navigatore, pilotava dall’Atlantico a Sorrento, e poi giù fino a San Nicola Arcella.

    Fu durante uno di questi lunghi detour nautici verso il Sud che Crawford scoprì l’estremo arco meridionale dell’ampia insenatura delimitata da un costone di roccia che si apre tra l’isola di Dino e il Golfo di Policastro, a San Nicola Arcella, in Calabria.

    La torre dello scrittore

    Una vecchia torre bastionata che «spunta isolata da un uncino di roccia», squadrata e tetra, affrontava il mare e le tempeste, dominando un tratto di costa a quel tempo deserta e solitaria, dove «nel raggio di tre miglia non si scorge una sola casa». Il paesaggio lo ammaliò, e Crawford trovò proprio in questo scorcio di costa selvatica e disabitata una straordinaria fonte di ispirazione. Così come aveva fatto a Sorrento, decise di prendere dimora a San Nicola per stabilirsi armi e bagagli proprio nella torre che, abbandonata e quasi ridotta a rudere, regnava sulla baia.

    Per un canone irrisorio prese in affitto da un proprietario del posto, un certo Alario, quella tetra e spettacolare torre costiera costruita dagli spagnoli nel ‘500 per tenere lontani i pirati, e la restaurò. E fu proprio in questa sua strana residenza di elezione che Crawford, anno dopo anno, si rifugiò per scrivere quasi tutti i suoi più noti capolavori letterari. Vi scrisse storie di fantasmi, misteri e vampiri come La strega di Praga, La cuccetta superiore e Il teschio che urla.

    san-nicola-arcella-vampiri-crawford-stregarono-lovecraft
    Lo scrittore Francis Mario Crawford nel suo studio all’interno della torre di San Nicola Arcella

    Se ne stava rinchiuso per mesi nello scenografico bastione, isolato in un piccolo studio con biblioteca, vivendo in solitudine nella torre, tra le mura spoglie, abbandonate dai tempi degli spagnoli ai venti e alle sinistre dicerie di luogo stregato. Un posto davvero perfetto per immaginare le trame dei suoi racconti horror e fantasy. Lo stesso Crawford nei suoi diari ricorda lo stupore provato nello scoprire una sorgente d’acqua limpida sullo scoglio, buona da bere, proprio a fianco alla torre, e i successivi lavori di costruzione di un pozzo che spaventarono molto la popolazione del villaggio, estremamente superstiziosa riguardo alla fama che la torre aveva come luogo di calamità e di disgrazie.
    Nel 1911, due anni dopo la morte di Crawford, si pubblica postuma una raccolta di racconti sul soprannaturale intitolata For the Blood is the Life and other Stories. Tra questi otto racconti di «wandering ghosts», Perché il sangue è la vita, che dà il titolo alla raccolta, è ambientato tra le mura di questo eremo stregato e remoto sulle coste della vecchia Calabria amata da Crawford.

    Uno dei migliori racconti horror secondo Lovecraft

    Perché il sangue è la vita fu considerato in assoluto da H.P. Lovercraft uno dei migliori racconti di vampiri mai scritti. La sua particolarità sta nel fatto che la storia, scritta da Crawford forse nel 1908, un anno prima della sua morte, si svolge praticamente in presa diretta, proprio tra le stanze della torre di San Nicola, dal calco di personaggi locali, tra gli scenari naturali affascinanti e stregati di quel fortilizio lungamente abitato dall’«americano», che attinse per questa sorta di «ghotic tale» alla calabrese, a quella che pare fosse un’accreditata superstizione popolare di San Nicola.

    san-nicola-arcella-vampiri-crawford-stregarono-lovecraft
    Lo scrittore americano H. P. Lovecraft

    Vampiri a San Nicola Arcella

    Per queste particolarità “Perché il sangue è la vita” è, nel suo genere, un capolavoro, «one of the absolute best tales of the folkloric vampire of tradition» (H.P. Lovercraft), in mezzo a decine di altri racconti di vampiri che nei primi decenni del Novecento ripetevano stancamente i temi del Dracula letterario di Stoker. Qui Crawford sfata tutti i luoghi comuni che vogliono questi esseri soprannaturali infestare unicamente le nebbiose brughiere dell’Inghilterra o le montagne nere della Transilvania. Il plot fu dettato dalle numerose conoscenze folkloriche dello scrittore americano, che saprà mescolare le atmosfere gotiche con le credenze popolari del luogo.

    Il vecchio Alario del racconto altri non era che il padrone della torre affittata da Crawford, la leggenda del fantasma di Cristina era una superstizione raccolta di prima mano nel villaggio, i personaggi realistici, mentre il sinistro bastione di Crawford era considerato un luogo interdetto dai tabù locali. Un terribile omicidio fa da sfondo a una storia di passioni morbose e denaro. Due ladri trafugano il baule con la fortuna accumulata all’estero dal vecchio Alario, lasciando in povertà il figlio Angelo. Per farlo, uccidono una serva, la zingara Cristina, una misteriosa ragazza che li aveva visti nascondere il tesoro.

    Dopo la morte di Alario, Angelo, umiliato e povero, viene attirato dal fantasma di Cristina, trasformata in vampiro, con cui si congiunge nel luogo in cui i ladri l’hanno sepolta. Da viva Cristina, creatura misteriosa e sensuale che ha il fascino maledetto della zingara fatale, è sempre stata innamorata di Angelo, che però non l’ha mai corrisposta. Da morta, come vampira, è irresistibile, e Angelo si lascia vampirizzare eroticamente da lei, finché Antonio, «una piccola creatura simile a uno gnomo», il bizzarro servitore del narratore della storia (lo stesso Crawford), con l’aiuto del vecchio prete del villaggio combatteranno contro il maleficio di Cristina, che viene infine sconfitta e uccisa con il solito paletto spaccacuore.

    San Nicola Arcella, la torre e lo scrittore

    Nella torre di San Nicola, Crawford scrisse, tra l’altro, anche i capitoli finali dell’ultimo libro, The diva’s ruby, uno dei suoi romanzi più belli. Quasi a testimoniare che il suo lavoro di scrittore di storie romantiche e gotiche fosse davvero ben concluso solo in quel luogo, in un’atmosfera così carica di suggestioni imperscrutabili. Il manoscritto di The diva’s ruby, conservato alla Houghton Library dell’Harvard College (dono della figlia «Countess Eleonora Marion Crawford Rocca»), suggella la circostanza. Con solennità Crawford alla fine dell’opera impugnò la penna e, testimoniando il profondo legame instaurato con la sua torre alchemica, con i personaggi e i luoghi circostanti, lasciò che l’inchiostro vergasse la chiusa: Francis Marion Crawford, San Nicola Arcella, 6 Settembre 1907.

    La passeggiata di Crawford a San Nicola Arcella

    Oggi resta ben poco del paesaggio e dei luoghi incantati che «l’americano», aveva scelto per vivere e scrivere. Qui un tempo il paesaggio era quello del magnifico e intoccato tratto di costa che va da Castrocucco, su cui scendono a picco i monti di Maratea, fino a San Nicola Arcella. Un mare azzurrissimo dominato dall’isola di Dino, punteggiato da isolotti e scogli, con splendide insenature e la piccola baie dell’Arco Magno, che sovrasta una piccola laguna dove il mare è raffreddato da polle sorgive di acqua dolce. Sull’arco di accesso alla grotta passava, dove oggi è franato, una stretta mulattiera. Era la passeggiata di Crawford, sulla vecchia strada di collegamento tra la Taverna dell’Orco e la Fonte del Tufo. Sui luoghi immortalati tra le pagine fantasy del magico Crawford si compie la nemesi del contemporaneo.

    san-nicola-arcella-vampiri-crawford-stregarono-lovecraft
    Spiaggia dell’Arco magno a San Nicola Arcella

    La torre assediata: ville, discoteche e movida

    La torre è ormai assediata dai vicini disco-bar, dai club e dai quartierini di villette estive affastellate in ogni angolo sulla marina di San Nicola Arcella. Tutto intorno il paesaggio sottosopra dei villaggi turistici e delle seconde e terze case per il mare. Compresi i famosi villoni esagerati con annessa caletta privata dei politici calabresi che qui tengono banco nella stagione estiva, e vicino alla torre di Crawford le discoteche pompano a tutto volume le notti della movida locale. Sullo sperone di San Nicola oggi c’è un belvedere ridotto in condizioni di degrado tristissime.

    Le piante della macchia mediterranea sono secche o bruciate. Al loro posto un mucchio di spazzature e bottiglie di plastica, cartacce e rifiuti di ogni genere. La superstrada tirrenica, la SS 18, giorno e notte scarica sulle marine affollate tra Praia a Mare e Diamante, il caos di un turismo mordi e fuggi, immemore e fracassone. Altri vampiri, sfuggiti dalle trame dei suoi esorcismi letterari, qui hanno fatto scempio di quello che fu il paradiso di Crawford.

  • Il cardinale Pietro Parolin a Cosenza: Duomo centro di fede e di importanza civile

    Il cardinale Pietro Parolin a Cosenza: Duomo centro di fede e di importanza civile

    «Oggi è una data importante: si celebrano gli 800 anni da quando la Cattedrale di Cosenza è stata consacrata ed è diventata un centro di fede ma anche di importanza civile proprio per la dimensione sociale che ha ricoperto nel corso degli anni. Credo che oggi debba sentirsi in festa tutta la città». Sono parole pronunciate dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, parlando con i giornalisti a margine della celebrazione.

    cardinale-parolin-cosenza-duomo-centro-fede-importanza-civile
    Il cardinale Pietro Parolin e il vescovo di Cosenza Francesco Nolé (ultimo a destra)

    L’alto prelato ha celebrato la santa messa in piazza XV Marzo. Sempre a margine della celebrazione per gli ottocento anni dalla dedicazione delle cattedrale ha toccato temi fondamentali come la guerra in Ucraina: «Il Papa ha usato parole veramente forti per sottolineare l’assurdità del conflitto. Accanto a questo, naturalmente, c’è tutta l’azione umanitaria della Chiesa e i tentativi che la Santa Sede sta facendo anche a livello diplomatico. È stata avanzata l’offerta di trovare una soluzione alla quale però, al momento, non è stata data risposta».

    Il segretario di Stato vaticano si è espresso anche in merito ai mutamenti innescati dalla pandemia da Covid 19: «Il Papa ha sempre detto che dopo la pandemia non saremo stati più uguali. Se ne potrà uscire migliorati o peggiorati. Difficile oggi fare un bilancio di quanto è accaduto, anche perché siamo ancora in tempo di pandemia. Speriamo davvero che queste vicende così dolorose possano aiutarci a riscoprire i valori spirituali e sentirci tutti nella stessa barca, solidali gli uni con gli altri».

     

  • In viaggio con Adele Cambria tra luoghi e memorie

    In viaggio con Adele Cambria tra luoghi e memorie

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    A volte mi trovo a curiosare tra gli scaffali dei rigattieri, o mercatini dell’usato, come li si chiama oggi.
    Resto affranto dallo spettacolo di tutti questi oggetti – tappeti, lampade, servizi per il thè – raccolti negli anni, acquistati forse a rate con sacrifici e rinunce, e custoditi nelle case dove il loro ingombro rende impossibile la vita. Oppure creano dissapori, per il costo eccessivo e il gusto non condiviso.
    Fino a quando, insieme ai mobili scuri ed enormi di vecchi arredamenti, finiscono in vendita a poco prezzo, segno che i loro proprietari non ci sono più.

    Oggetti morti, ricordi vivi

    adele-cambria-scrittrice-calabrese-racconto-donne-sud
    La copertina di Storia d’amore e schiavitù

    Sono visite istruttive, “didattiche”: mi riprometto sempre di non comprare più nulla, neanche un ombrello. La sociologia e la psicologia hanno cercato di spiegare il motivo per cui ci riempiamo di cose superflue (pare che la casa sia un’estensione, della tana primitiva).
    I tormenti maggiori mi vengono dai libri, specie quelli originali, raffinati, autografati dagli autori. In vendita per pochi spiccioli.
    Pure i libri vanno incontro al loro destino, e cerco di non comprarne, perché poi penso che verranno portati, di nuovo, dopo la mia prematura dipartita, dal rigattiere a rattristarsi.

    Un ricordo di Adele Cambria

    Ma davanti a un testo di Adele Cambria non ho resistito, l’ho comprato. Tre euro. Mi ha colpito la dedica autografa: «Ad Alessandra, con gratitudine per il suo contributo alla “piccola felicità” di questo mio soggiorno a Cosenza. Adele 19 aprile 2000».
    Si intitola Storia d’amore e schiavitù (Marsilio editore, 2000). Adele Cambria non ha bisogno di presentazioni, è stata una notissima giornalista e scrittrice, nata a Reggio Calabria nel 1931, scomparsa nel 2015.
    La Rai l’ha scelta tra le protagoniste della serie Donne di Calabria (prima puntata il 21 giugno su Rai Storia, alle 22,10). Un racconto del suo modo di vedere la vita affidato al ricordo di persone amiche, alla suggestione di vecchie foto.

    adele-cambria-scrittrice-calabrese-racconto-donne-sud
    Eleonora Giovanardi interpreta Adele Cambria in Donne di Calabria

    Critiche dure, provocazioni innocenti

    Non conosco bene i suoi scritti, ho trovato divertente l’articolo che l’ha resa famosa, giovanissima, quando prese di mira le ragazze col Cantù.
    Cioè le ragazze meridionali di buona famiglia, titolari di ampi corredi in vista delle nozze. Questi corredi che dovevano assolutamente comprendere vari capi di pizzo delle pregiate manifatture di Cantù.
    Lei invece desiderava diventare giornalista, perciò dopo la laurea in legge andò a Roma, presentandosi in varie redazioni (ha anche raccontato che avrebbe desiderato fare il magistrato, ma all’epoca le donne non erano ammesse al concorso).

    Il mistero della dedica

    La dedica attesta una sua presenza a Cosenza, probabilmente per la presentazione di questo libro. Ho trovato alcuni video in rete, che si riferiscono ad altre occasioni, a Cosenza e a Reggio Calabria, per i suoi ultimi libri, Nove dimissioni e mezzo (Donzelli, 2010) e In viaggio con la zia (Città del Sole, 2012).

    adele-cambria-scrittrice-calabrese-racconto-donne-sud
    Una delle ultime immagini di Adele Cambria

    Non sono riuscito a trovare immagini di questa giornata, del 19 aprile 2000, anche se credo di avere individuato la destinataria della dedica, ma non penso sia importante qui.
    Piuttosto ci sono rimasto male perché nel 2000 ero spesso presente agli eventi, dunque ho cercato di ricostruire perché non c’ero.

    L’invito mancato

    Il 19 aprile 2000 era mercoledì, prima di Pasqua (ho controllato). All’epoca ancora si usavano i manifesti, gli inviti spediti per posta.
    Non mi hanno invitato, evidentemente (mi mancava l’iscrizione a qualche circolo esclusivo). Conservo molti ritagli di stampa locale e non. Non trovo niente sul 19 aprile 2000. Forse, approfittando delle vacanze scolastiche, ero partito per qualche giorno? I posteri avranno grossi problemi a ricostruire la mia biografia, se già io non mi raccapezzo.

    In giro con gli scrittori

    Mi dispiace non esserci stato perché accogliere e accompagnare scrittori in visita nella propria città può essere un’esperienza. A scuola, con altri colleghi, per parecchi anni abbiamo scortato e portato a spasso l’autore di turno, per l’annuale incontro con gli alunni.
    Roberto Pazzi fu colpito dalla toponomastica locale, si soffermò davanti al monumento ai fratelli Bandiera, al vallone di Rovito (contò i cipressi e annotò altri dettagli).
    Dacia Maraini aveva sofferto il viaggio e fu condotta con tutti gli onori a fare un massaggio che la rimise in sesto per affrontare i giovani lettori.

    Dacia Maraini, altra importante icona della scrittura al femminile

    Un altro noto romanziere scroccò la macchina a una collega molto gentile e se ne andò al mare, esonerandoci dai nostri doveri.
    Dante Maffia ci raccontò del metodo di lavoro di Elsa Morante, che aveva frequentato a Roma.
    Ettore Masina mi inviò due romanzi in regalo, lo avevo salvato dal congelamento portandolo in albergo (aveva un abito estivo, ma era una primavera cosentina gelida anche per lui che era nato in Valcamonica).

    Il ritorno in Calabria in punta di penna

    Chi si è occupato di Adele Cambria? Cosa avrà chiesto prima dell’incontro? Avranno organizzato una cena in suo onore?
    Sembrerebbe di sì: nella dedica esprime gratitudine per il soggiorno in città, e non suonano come parole di circostanza.
    Adele Cambria aveva fatto ritorno in Calabria con gli ultimi romanzi, collocandovi storie e personaggi.

    Un’immagine iconica di Adele Cambria

    Forse per fare i conti con le sue radici, come accade a tutti, anche a quelli che non scrivono libri. In Storia d’amore e schiavitù parla di una famiglia benestante, colta, che potrebbe anche essere la sua, di una nonna che nel 1891, appena quindicenne, riceveva lettere appassionate da un giovane brillante e geloso. Un amore contrastato ovviamente.
    E poi racconta del terremoto del 1908, che sconvolge quel mondo e della vita della figlia e della nipote di quella ragazzina, chiusa in casa e sorvegliata a vista fino al matrimonio. Vengono rappresentati gli ultimi decenni del secolo scorso, attraverso la vita di tre generazioni d donne, le libertà conquistate dalle più giovani, ma anche la devastazione del territorio ad opera della ‘ndrangheta.

    Gli occhi di un viaggiatore

    Guardare la propria terra attraverso gli occhi di un viaggiatore ci aiuta a riflettere, ci fa notare particolari a cui non abbiamo prestato attenzione. La Calabria mi sembra ancora poco raccontata, e sta correndo il rischio di diventare lo sfondo cinematografico di nuove, insopportabili saghe criminali.
    Altri libri di Adele Cambria, pubblicati successivamente, portano in Calabria. Ad esempio In viaggio con la zia. Una zia con due ragazzine in giro per la Magna Grecia, tra Calabria e Sicilia, ad esplorare luoghi e miti e culti. Anche qui storie di donne, di case e famiglie viste da una sensibilità femminile.
    Insomma forse non è male andare per rigattieri. Con tre euro si può viaggiare. Se ci torno potrei trovare qualche pizzo di Cantù, da mettere accanto ai libri della Cambria. Come citazione.

  • Strade perdute| Antiche torri, lucciole e nobili ruderi ai piedi del Pollino

    Strade perdute| Antiche torri, lucciole e nobili ruderi ai piedi del Pollino

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Avevamo lasciato la Strada Regia delle Calabrie (borbonica, poi napoleonica) all’altezza delle Vigne di Castrovillari. Pochissimi chilometri più a Sud, l’antico percorso trovava l’altrettanto antico quadrivio, posto pressappoco a metà strada tra due edifici di non poco significato: il Casino Gallo e il castello di Serragiumenta. Antica stazione di posta, il primo, sede di ricche scoperte archeologiche e costruito dunque su edificio preesistente (così come accadde a Nova Siri per la Taverna cinquecentesca lungo il Tratturo Regio, la quale pure oggi resiste ma nulla più ha di antico); maniero rinascimentale dei Sanseverino, il secondo.

    Dal quadrivio allo svincolo

    pollino-piana-sibari-viaggio-antiche-meraviglie-moderne-brutture
    Santa Margherita in Ciparsia

    Oggi l’incrocio originario è seppellito sotto al nuovo, ieri era un crocevia fondamentale, tra la Contrada Cammarata e quella degli Stombi. Pochi metri più ad ovest, la storia si ripete e si incarna nello svincolo autostradale per Sibari-Firmo-Saracena. Da qui si intravede magnificamente il monastero di Santa Margherita in Ciparsia, diruto sulla collina, in mezzo a file di ulivi. Ciparsia/Capràsia, altro nome di una statio, stavolta più antica, sulla Annia-Popilia.
    Qui si univano i punti cardinali della Magna Grecia e, ancora, i corsi d’acqua del Garga, del Gordo, dell’Esaro. Siamo alla testa, se non nel cuore, della Piana di Sibari, in mezzo alla triade fluviale Crati-Esaro-Coscile. Lungo la strada per Sibari, sull’estremità orientale si raggiunge l’altra piazzaforte cinquecentesca dei Sanseverino: il Castello San Mauro; nel mezzo, una tendenziale desolazione, umana e infrastrutturale.

    pollino-piana-sibari-viaggio-antiche-meraviglie-moderne-brutture
    Il Castello San Mauro

    Strade, stradoni, autovelox, blocchi spartitraffico si rincorrono in mezzo agli agrumeti, costeggiando più avanti le floride masserie dei Chidichimo, fino al ponte Mariacristina, nei pressi della Contrada Lattughelle. Un ponte buffo, questo. Breve, e ripido da una parte e dall’altra. Piccolo ma ardito nella sua comica necessità di scavalcare un binarietto ferroviario di scarso utilizzo. Proprio nulla a che vedere con l’omonimo ponte ottocentesco nel beneventano…

    Attribuisco a questa strada un primato indecoroso: dopo aver guidato in 2 giorni attraverso 10 regioni d’Italia, su tratte di ogni tipo, è qui che ho incrociato i peggiori guidatori, fieri di mosse da tentata strage. Roba da ritiro della patria potestà, oltre che della patente.

    Via del campo

    Ma, dicevo, più nel cuore della Piana, cosa c’è? La piccola motta naturale della zona archeologica di Torre Mordillo. Quell’avamposto che conserva – a me pare – un che di lugubre, mentre ora resta solo a guardia del lenocinio lungo la Strada delle Terme: prostitute, infatti, ad ogni ora del giorno, ogni giorno dell’anno. Ai soliti incroci, all’ombra delle solite siepi, al sole delle stesse piazzole di sosta. Credo d’aver visto una situazione più degradata, in Italia, solo sulla SS16 tra Sansevero e Marina di Chieuti. Oppure sul confine fra Marche e Abruzzo, tra Offida e Ancarano, dove addirittura l’ufficialissima segnaletica verticale ammonisce “divieto di contrattare prestazioni sessuali”.

    pollino-piana-sibari-viaggio-antiche-meraviglie-moderne-brutture
    Due ragazze in attesa di clienti nella piana di Sibari

    Lo spettacolo del Pollino

    Verso la Strada delle Terme scendono dalle colline più a Sud alcune vie tra loro gemelle, come affluenti che si riversano verso il fiume principale. Sono le varie strade per San Lorenzo del Vallo, Tarsia, Spezzano Albanese eccetera. È bello percorrerle in discesa, quando dalla loro sommità – ad esempio dalla cappelletta di San Francesco di Paola, subito fuori Tarsia – ci si para davanti lo spettacolo di tutte le cime del Parco Nazionale del Pollino, anzi di più: dal Cocuzzo al Sèllaro, un anfiteatro orografico apparecchiato da un mare all’altro, con le principali spaccature in evidenza – quelle della Gola del torrente Rosa e quella di Campotenese – che per millenni hanno suggerito il miraggio di un varco semplice per il mare e per il Nord.

    pollino-piana-sibari-viaggio-antiche-meraviglie-moderne-brutture
    Filari di lavanda a Campotenese

    Come don Chisciotte

    Un’altra di queste vie, nella stessa zona, passa donchisciottescamente proprio in mezzo a un gruppo di pale eoliche. Ma siamo senza Sancho Panza e qui c’è più odore di erbe selvatiche, quasi d’incenso, e di balle di fieno. Tutte queste strade sono state, da tempo immemorabile, le uniche opportunità per scollinare da Sud verso la Piana di Sibari prima dell’arrivo della galleria autostradale di Tarsia.

    Pale eoliche tra Tarsia e Spezzano Albanese (foto L.I. Fragale)

    Oggi vi si incrociano talvolta sciami di motociclisti, più spesso un trattore o un’Ape qua e là e, per uno strano incantesimo, una quantità inspiegabile di auto storiche (non necessariamente ‘blasonate’ e perciò, invece, relitti magnifici nella loro semplicità). Come se le vecchie automobili fossero rimaste ammanettate alle strade della loro infanzia, non essendo del resto troppo adatte alle nuove strade. Meglio così, perché mai sorpassare una vecchia 500 luccicante quando un turista straniero pagherebbe oro per guidarle lentamente dietro, nel mezzo di una campagna italiana?.

    La piana degli errori urbani

    Più interna è la strada che aggira le colline da Ovest, quella che dai pressi di Ferramonti risale verso Contrada Cimino per raggiungere una minore località “Amendolara” attraverso le alture amene del Ghiandaro, Stamile e Maiolungo (erroneamente segnalato – da qualche parte – come Mailungo, mentre è chiaramente il majo, il ramo. Come quei Maiolo e Maioletto nelle colline riminesi a ridosso del Montefeltro).

    Resti della villa romana di Larderia (Roggiano Gravina)

    Qui resiste ancora qualche florida fattoria in piena attività, non resiste però quell’enorme quercia monumentale in mezzo al nulla, mozzata un paio d’anni fa per chissà quale ragione. E fa invece orrendo sfoggio di sé un’immancabile cattedrale nel deserto (un’ipotesi di centro commerciale con megaparcheggio?) che dà il benvenuto nella piana degli errori urbani, come lo Scalo di Roggiano-San Marco – palma di bruttezza a pari merito con un altro paio –, inemendabile come tutti quegli scali che costellano la Calabria come paillettes di pessimo gusto su un capo da bancarella rionale.

    La civiltà del buongusto

    Eppure a pochissimi chilometri da qui fioriva una civiltà, e una civiltà del buon gusto. Ne sono testimoni le aree archeologiche – tra loro vicinissime – di Roggiano Gravina e di Malvito (ovvero le ville romane di Larderia e di Pauciuri). Gli stessi luoghi dove, secoli dopo, cominceranno a sorgere altre tipologie di “ville”, ovvero certe magnifiche masserie padronali come il bellissimo fortino turrito del Casino Amodei, in contrada Occhio di Bove, che oggi affaccia sull’invaso dell’Esaro; o l’imponente Casino La Costa, palazzotto signorile munito anch’esso di torri, dodecagonali, ai quattro angoli (e oggi sede di una rispettabile azienda vinicola); e poi il Casotto Mirabelli, verso contrada Peiorata, una sorta di masseria da villaggio Potëmkin, così com’è, tutta facciata e niente arrosto (nel senso di profondità).

    pollino-piana-sibari-viaggio-antiche-meraviglie-moderne-brutture
    Il Casino La Costa agli inizi del Novecento

    Una curiosa parentesi su questi Mirabelli… il secondo Catasto Onciario di Malvito (una sorta di censimento del Regno, redatto soprattutto a fini fiscali), trovai, elencato nel nucleo familiare del “nobile vivente” don Luigi Mirabelli – assieme a moglie, figlio, cameriere, due servi, una serva, un servitore, un famiglio, due ‘volanti’ e due mulattieri – finanche “Asà, schiavo costantinopolitano”: l’unico, peraltro, privo finanche di età dichiarata e/o conosciuta. E siamo al 1783. Mica a chissà quanti secoli fa…

    Fattoria abbandonata presso Contrada Ministalla di Mottafollone (foto L.I. Fragale)

    Il paese delle magare

    Se procedessimo verso Mottafollone troveremmo invece gli edifici rurali più modesti di contrada Ministalla (dal germanico marhastall, scuderia, il che vale anche per l’omonima contrada sibarita o per la Menestalla di Scalea). E invece torniamo a Malvito. Che, nei secoli, si è ritirata sulla collina: mi pare sempre in ombra, sempre torturata dal vento. Anni fa ne ho visto le vecchiette coprirsi un lato del volto – quello appunto preso di mira dalle raffiche – mentre si recavano puntuali alla messa pomeridiana, benché sapessero benissimo che il prete fosse un ritardatario cronico.

    Fuorviate dall’innocentissima borsa di pelle dell’ignoto sottoscritto – e con l’aggravante della compagnia di un amico medico del luogo – chiesero, preoccupate, chi stesse male in paese. Chi talmente tanto da dover necessitare l’intervento di un medico forestiero. L’abito può non fare il monaco ma una borsa sì. Ma se fosse davvero paese di magare, come qualcuno dice, non avrebbero dovuto saperlo prima di noi?

     

  • Il caso de I Calabresi arriva in Parlamento

    Il caso de I Calabresi arriva in Parlamento

    La strana vicenda de I Calabresi approda in Parlamento. Il 22 giugno scorso è stata presentata un’interrogazione parlamentare rivolta al presidente del consiglio dei ministri, Mario Draghi. Primo firmatario è stato il senatore Elio Lannutti. Gli altri, preoccupati per una possibile limitazione della libertà di stampa, sono: Nicola Morra (presidente della Commissione Antimafia), Rosa Silvana Abate, Bianca Laura Granato e Luisa Angrisani.

    i-calabresi-interrogazione-parlamentare-sostegno-liberta-stampa
    Elio Iannutti, senatore e primo firmatario della interrogazione parlamentare sul caso del giornale I Calabresi

    Nella interrogazione parlamentare si legge testualmente: «I Calabresi è un giornale on line fondato il 19 luglio 2020, edito da Calavria editrice S.r.l. di cui è socio unico la fondazione Attilio e Elena Giuliani onlus, con sede a Villa Rendano (Cosenza), e diretto da Francesco Pellegrini; il tipo di approccio cui si ispira il giornale è quello del giornalismo d’inchiesta, “con l’intento primario di non omettere o manipolare le notizie, rispondere solo ai lettori, essere svincolati dai pregiudizi di tipo politico o ideologico ed utilizzare essenzialmente fonti primarie per la raccolta delle informazioni”. Il suo obiettivo principale è quello di “dare voce a tutte le persone che vivono in Calabria e a coloro i quali sono legati a tale regione, per garantire un’informazione libera affidata a bravi giornalisti”».

    Come risulta – continua il testo dei parlamentari «da un articolo del giornale I Calabresi intitolato “Così vogliono fermare I Calabresi” a firma di Francesco Pellegrini, uscito il 20 giugno 2022, ci sono stati diversi tentativi da parte di soggetti interni alla fondazione, e non solo, di affondare il giornale e metterlo a tacere una volta per tutte».

    i-calabresi-interrogazione-parlamentare-sostegno-liberta-stampa
    Il direttore de “I Calabresi”, Franco Pellegrini

    «I fatti a cui si fa riferimento nell’articolo – scrivono i parlamentari – sono stati oggetto di apposita denuncia alle autorità competenti. In particolare, si riporta la frase pronunciata dal consigliere della fondazione Walter Pellegrini, ripresa anche da altri componenti del consiglio di amministrazione della stessa fondazione, che fa riferimenti espliciti alla linea editoriale: “Il giornale I Calabresi è dannoso per la Fondazione”. È bene ricordare che ad oggi “I Calabresi” risulta essere “letto e apprezzato da oltre 2 milioni di lettori in tutta Italia e in Europa, mentre la stima del valore patrimoniale è di 240mila euro”; il consiglio di amministrazione della fondazione tenutosi il 30 maggio 2022 è stato dichiarato, da quello che risulterebbe essere l’ex presidente del consiglio di amministrazione Francesco Pellegrini, come risulta dal verbale, “illegittimo” e contrario agli interessi della fondazione».

    «Nonostante l’appunto, – continua il testo dell’interrogazione parlamentare – è stato eletto nuovo presidente della fondazione Walter Pellegrini, grazie anche al sostegno di “soggetti a lui fedeli, tra i quali vi rientra l’ex sindaco archistar di Cosenza Mario Occhiuto”, come sottolineato dal presidente uscente, una manovra, a quanto è dato capire, che sembrerebbe dunque funzionale a liberarsi de “I Calabresi”, dando l’ambiguo messaggio che “l’ordine è stato ristabilito”. Tuttavia, ad oggi (21 giugno 2022), sul sito della fondazione il nome del presidente non è stato ancora modificato».

    Considerato tutto questo, i parlamentari chiedono al presidente del consiglio dei ministri, attraverso il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio, «se sia a conoscenza dei fatti esposti e se intenda tutelare, con iniziative di propria competenza, il diritto dei cittadini ad essere informati correttamente, tenendo conto che la libertà di stampa è tutelata nell’articolo 21 della Costituzione».

    E chiedono altresì «se il Governo, nei limiti dei suoi poteri, intenda intervenire per tutelare la libertà d’informazione che risulta essere censurata, di fatto, nei suoi contenuti essenziali».

  • Grazie ai medici dell’Annunziata ora posso riabbracciare le mie figlie

    Grazie ai medici dell’Annunziata ora posso riabbracciare le mie figlie

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Ho trentasette anni e sono la mamma di due bellissime principesse, rispettivamente di sei e un anno. Posso ancora abbracciarle e fare loro le coccole grazie a una pagina di buona Sanità della neurochiurgia all’ospedale di Cosenza, fatta di umanità e competenza, che merita di essere raccontata a quante più persone possibile.

    L’inizio del calvario

    La mia storia è iniziata con un semplice mal di schiena, mentre allattavo Noemi, la mia piccola di un anno. All’istante non mi sono allarmata, quindi non non ho fatto cure mediche, ma mi sono rivolta un chiropatico per alleviare i dolori.
    Tuttavia, dopo la seconda manipolazione, i dolori sono cresciuti, tant’è che ho chiesto aiuto, lo scorso 26 maggio, alla guardia medica.
    Mi hanno somministrato il Voltaren, sono rimasta a letto per due giorni perché non mi reggevo in piedi e avevo perso la sensibilità nel bacino.

    neurochirurgia-cosenza-pagina-buona-sanita
    Medici in azione all’Annunziata di Cosenza

    L’arrivo in Ospedale a Cosenza

    I giorni seguenti ho tentato una cura cortisonica ma, non avendo alcun miglioramento, il 31 maggio sono andata in Pronto soccorso. Da lì, mi hanno inviata al reparto di Neurochirurgia per fare una consulenza e lì, per fortuna, ho trovato un angelo.
    Non finirò mai di ringraziare la dottoressa Donatella Gabriele per aver preso a cuore la mia situazione sin dall’inizio senza mai abbandonarmi.

    La diagnosi

    La dottoressa mi ha diagnosticato la cauda equina, cioè una patologia neurologica causata da una lesione delle radici nervose contenute nell’ultima porzione del canale vertebrale, che decorre all’interno della colonna vertebrale.
    Questa patologia si manifesta con un insieme di sintomi che riflettono la compromissione dei nervi spinali inferiori. E quindi può comprendere deficit sensitivi e motori alle gambe e disturbi sfinterici.
    Il dolore si può irradiare a partire dalla zona lombare e sacrale fino agli arti inferiori. Al dolore segue la diminuzione o, peggio, la perdita della sensibilità a livello degli arti inferiori e della regione perineale. Questo sintomo, a causa della sua particolare distribuzione, è detto “anestesia a sella”.
    E può esserci di peggio: un deficit di forza che può portare a una paralisi degli arti inferiori.
    Io avevo tutti questi malesseri.

    L’intervento in neurochirurgia

    Il 5 giugno sono stata ricoverata e la mattina del 7 ho subito l’intervento all’ospedale di Cosenza.
    Il mio ringraziamento va a tutto il personale di Neurochirurgia: purtroppo non conosco i nomi di tutti. In particolare, ricordo l’infermiere Giuseppe Grandinetti.
    E non finirò mai di ringraziare il dottor Salvatore Aiello, direttore di Neurochirurgia, e i suoi collaboratori per la loro competenza e per l’umanità e la sensibilità che hanno mostrato nei miei confronti.
    Durante la degenza, grazie a loro, non mi sono mai sentita sola.
    Ho sperimentato in prima persona che una Sanità di alto livello esiste anche alle nostre latitudini ed è fatta di uomini e donne che lavorano, spesso lontano dai riflettori, con un enorme spirito di sacrificio.

    Jole Esposito

  • Mobilità sostenibile: il sogno di Cosenza senz’auto

    Mobilità sostenibile: il sogno di Cosenza senz’auto

    Sono le sette del mattino del 25 giugno 2032, la temperatura è gradevole.
    Cosenza, di solito bollente d’estate, sembra più fresca del solito. Sulla mia bici percorro via Roma fino a piazza Loreto. Le auto parcheggiate ovunque, le doppie e triple file, sono un ricordo del decennio precedente.
    Mi sovviene, quando nel 2021, sono ritornato a Cosenza, quanto invivibile e zeppa di auto, smog, traffico, fosse questa piccola città. Oggi è trasformata in un giardino:  ovunque piste ciclabili, parchi verdi, piazze piene di alberi, percorsi pedonali e autobus pubblici a idrogeno che trasportano cittadini da una parte all’altra.
    Mi sono trasferito a Cosenza Vecchia, come da sempre viene chiamata la parte alta della città. Ma di vecchio qui è rimasto poco, se non le mura restaurate di case e palazzi.

    Cosenza futuribile e bella

    Le strade, i vicoli, le piazzette, si sono rianimate. Sono piene di gallerie d’arte, negozi selezionati, ristoranti biologici e vegetariani, nuovi artigiani digitali, centri di ricerca, giovani studenti di Accademie e luoghi per la creatività e l’innovazione.
    Mi sorprendo a pensare che i fondi del Pnrr sono stati spesi bene al Sud. Che il New Green Deal e il New European Bauhaus sono serviti non solo a cambiare i luoghi, ma anche le coscienze di cittadini e amministratori

    mobilita-cosenza-allarme-caos-inquinamento
    Traffico su via Misasi

    Un brutto risveglio

    Mi sveglio: sono le sette del mattino del 25 giugno 2022, e mi sorprendo a pensare, che bel sogno che ho fatto. Ma non so ancora, incredulo, se davvero affacciandomi non sia accaduto qualcosa di magico, miracoloso nella notte.
    Mi rompe un timpano l’ennesimo clacson di un autobus bloccato dal solito villano parcheggio in doppia fila, negli spazi della caotica piazza Riforma, un folle crocevia di auto in quantità assurde, smog e caldo. Purtroppo ho sognato: la realtà amara è sotto i miei occhi e orecchie!
    E torno a riflettere su quanto questa pregevole località calabrese, potenziale capofila di un radicale rinnovamento dei modelli urbanistici meridionali, sia sorda ai tantissimi campanelli di allarme che provengono dalla grande massa di auto.

    Inquinatori e incivili

    Le macchine fendono le vie ogni giorno, occupano con prepotenza spazi pedonali, inquinano, non rispettano le – estinte – strisce pedonali.
    Provocano enorme disagio a chiunque desideri, già oggi, muoversi in maniera ecologica: a piedi, in bici, coi pochi mezzi pubblici.
    Nel caos degli innumerevoli fioristi, fruttivendoli (ma davvero i cosentini consumano tutti questi ortaggi?) legali e abusivi, nello slalom tra plateatici di bar, caffetterie, friggitorie e parcheggi assurdi, la città muore, letteralmente soffocata. E vedere un vigile urbano che provi a snellire solo qualcuna di queste situazioni è come trovare un terrestre su Marte.

    mobilita-cosenza-allarme-caos-inquinamento
    Polizia municipale in azione

    Ribadire che sulla mobilità si gioca il presente e futuro delle città e delle comunità urbane, non è affatto scontato. Sembra uno dei tanti problemi, invece questo è: il problema. A Cosenza, a Catanzaro, a Reggio. Ovunque le città abbiano assunto dimensioni disumane e sproporzionate rispetto alle reali esigenze abitative e di spostamenti.

    Cattive abitudini

    Alcuni dati inconfutabili: solo il 26,40% dei cittadini di Cosenza-Rende si muove a piedi o in bici, ben il 60,90% lo fa in automobile, e circa un ulteriore 12,86% usa i mezzi pubblici.
    A Cosenza il verde pubblico occupa appena il 2,2% dell’area urbanizzata. Lo standard per abitante è pari a 11,9 metri quadri, ma questo perché parte della superficie comunale ha zone naturalistiche (il Crati, il Busento, aree agricole, orti, ecc.).
    Nella realtà, il verde è ben al di sotto dello standard minimo urbanistico e sotto la media per densità di tutte le tipologie di aree verdi (dati Istat e Por Calabria 2014-2020).

    Le auto sono la principale fonte di inquinamento da polveri sottili a Cosenza

    Tra le 8 e le 12 e tra le 17 e le 19, i picchi di traffico hanno impennate preoccupanti. Creano caos, con quantità significative di autobus extraurbani e mezzi in entrata e uscita da Cosenza per raggiungere le attività di rango provinciale del capoluogo.
    Il parco auto è vetusto e presenta un 54,70% di auto a benzina, il 41,12 diesel, il 3,78% tra metano e gpl, e solo lo 0,4 ecologico.

    Allarme polveri sottili

    Un dato preoccupante emerge dai dati atmosferici, che collocano Cosenza tra le categorie A e B, le più instabili. Infatti, la percentuale di pm (polveri sottili) va oltre i 2,5 micron e in alcune zone, tocca i 10. Ciò, come provato, significa che le particelle da 10 micron sono inalabili e si accumulano nei polmoni. Quelle da 2,5 micron, invece, possono finire nel sangue e raggiungere varie parti dell’organismo (fonte Ministero Salute).
    Da questa lettura impietosa deriva la necessità di una Agenzia della Mobilità Urbana di Cosenza, dedicata esclusivamente a questa delicata tematica. Un rimedio che va ben oltre un generico assessorato o un ulteriore carico di personale già sovraccarico.

    Ripensare la città

    Ma esso non può essere scollegato dal ripensamento complessivo della struttura urbanistica della città. Ragionando a compartimenti stagni e solo per specialismi, si torna sempre al punto di partenza. Cioè, si risolvono in forma parziale e non organica i problemi urbanistici generali.

    mobilita-cosenza-allarme-caos-inquinamento
    Una panoramica di Cosenza

    Non è una città perfetta quella cui aspirare, ma una rinnovata comunità in equilibrio, educata e rieducata, anche con robuste campagne di marketing urbano-civico. Per realizzarle, occorre che l’auspicata, necessaria, Agenzia si dia un tempo (una legislatura) per progettare e poi testare (una seconda legislatura) il nuovo sistema di mobilità sostenibile.

    Un obiettivo minimo

    Concretamente: per stare nei parametri europei Cosenza deve raggiungere, entro dieci anni, il 35% di auto circolanti, il 35 % di pedoni e bici.
    Inoltre la città, si deve dotare in maniera corposa di ciclovie, pedovie, parchi urbani e un 30% di mezzi pubblici elettrici (ancora meglio a idrogeno) con nuove linee dedicate e parcheggi di interscambio per ridurre l’ingresso di mezzi privati in città. Infine, serve una robusta cura di verde. Ovunque. Comunque.

    La volontà oltre gli ostacoli

    Una rivoluzione sostenibile a Cosenza (e altrove) è possibile solo se esiste il desiderio collettivo di sfidarsi. Oltre la normalità quotidiana, oltre la rinuncia e la rassegnazione, oltre la banalità dell’impossibile.
    Oltre quel generico «non si può fare», «non ce la faremo mai», pretesto sempre buono per non fare davvero nulla.
    I sogni si realizzano solo con una ferrea volontà politica e civica. Al 2032 mancano dieci anni, tanti per sperare, per fare, per cambiare.

  • Botteghe Oscure| Il business del “caro” estinto

    Botteghe Oscure| Il business del “caro” estinto

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Il diciannovesimo secolo portò innovazioni nei vari campi della vita. Perciò anche la morte e le sue adiacenze subirono cambiamenti repentini e radicali. La spinta data dalle leggi successive all’Unità d’Italia sulla costruzione dei cimiteri e l’abbandono delle sepolture nelle chiese fu fondamentale per la modernizzazione della “bottega” della morte.

    cimitero-cosenza-business-pelle-poveri
    L’Editto di Saint Cloud

    Chiunque abbia studiato I Sepolcri di Foscolo dovrebbe aver conservato una qualche reminiscenza dell’Editto di Saint Cloud (1804), con cui Napoleone vietava nel suo impero il seppellimento dei cadaveri all’interno dei centri abitati e delle chiese. Una legge di civiltà, non c’è che dire, ma che ovviamente in Calabria venne recepita e applicata soltanto molti decenni dopo. Le discussioni sul tema furono vivacissime per tutto il secolo. Ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo abitudini secolari, scarse finanze degli enti preposti, e l’atavico immobilismo della classe dirigente. Che fosse ormai necessario costruire un camposanto in ogni centro abitato era ormai chiaro ai più.

    Un moderno cimitero a Cosenza

    Nel 1856 il dottor Michele Fera illustrava agli accademici cosentini la sua relazione sulle febbri che periodicamente affliggevano Cosenza. E tra le misure di profilassi indicava la realizzazione di un moderno cimitero, schernendo chi ancora era restio all’idea: «Non si dee credere che i Camposanti siano stati nelle grandi città costruiti per offrire ispirazioni a’ romantici poeti, o perché l’innamorato trovi una perenne ricordanza de’ passati palpiti sull’avello che chiude il frale di colei che amava, ma denno ritenersi come utilissimo trovato della pubblica igiene per evitare che, colla putrefazione de’ cadaveri, s’impurasse l’aria delle città; e le usanze di tutti i paesi dell’antichità ciò mostrano perché i cadaveri s’incenerivano».

    Essiccati come il baccalà

    Ancora nel 1864 la situazione era pietosa anche nelle città più grandi. Il solito, mai abbastanza appezzato, Vincenzo Padula, nel suo periodico Il Bruzio ci offre un quadro a tinte fosche della situazione cosentina. Passando in rassegna le statistiche comunali, osservò che in dieci mesi erano morte più di mille persone. E che tutte erano state seppellite all’interno delle chiese della città. Gran parte di queste ultime si trovava in pieno centro abitato e l’una non lontana dalle altre. Padula ne aveva esperienza diretta: «Il bruzio abitando a 30 passi dal Cimitero di Santa Caterina ha osservato che il fetore dei cadaveri cresce secondo i gradi di umidità, minimo nelle giornate asciutte, massimo nelle piovose […]. Il possesso di un buon naso diventa una sventura».

     

    Sarà stato anche per questo che buona parte della popolazione negli ultimi mesi estivi e in tutto l’autunno “migrava” nelle campagne e nei casali vicini dove il clima era più salubre. Del resto, proprio nella chiesa di Santa Caterina «i morti non che sotterrarsi sotto un buon cofano di calce, si lasciano disseccare col metodo adoperato pel baccalà».

    cimitero-cosenza-business-pelle-poveri
    Padula dixit

    Né si deve credere che altrove la situazione fosse migliore. Anzi. È facile immaginare non solo il fastidio arrecato dal cattivo odore, ma anche le implicazioni negative a livello sanitario. «A medicare tanta pestilenza si grida contro i porti, si perseguitano i cani, si chiama l’opra degli spazzini, e non si vuol capire ancora che quel puzzo scappa dalle sepolture, che i morti uccidono i vivi, e che sarebbe miglior senno agli spazzini sostituire i beccamorti».

    Beccamorti 

    Finché si continuò a seppellire nelle chiese, quella dei beccamorti fu una categoria professionale poco numerosa e ancor meno considerata. I documenti ci restituiscono tracce minime di Carmine Mancino e Gabriele Fabiano, abitanti nel quartiere di Santa Lucia. Indicati come “becchini”, nel 1844 si occuparono della registrazione della morte dei fratelli Bandiera. E, probabilmente, del loro seppellimento. Ma la costruzione dei cimiteri era un problema indifferibile e non di facile soluzione. I comuni, che avrebbero dovuto accollarsi tale spesa, non sempre potevano affrontare l’impresa. Inoltre la resistenza della gente, legata alle proprie tradizioni, era forte e trasversale alle varie classi sociali.

    cimitero-cosenza-business-pelle-poveri
    Atto di morte di Attilio Bandiera, 1844. Foto Museo dei Brettii e degli Enotri

    Confratelli

    I nobili tenevano molto alle proprie sepolture gentilizie, il popolo a riposare all’interno di una chiesa. E parroci e priori delle confraternite si occupavano della gestione di tutto ciò. Le confraternite ebbero un ruolo centrale. Antesignane delle attuali società di mutuo soccorso, erano associazioni laiche di credenti, soggette solo parzialmente all’autorità ecclesiastica, mentre per il resto erano controllate da quelle civili.

    Funerale con Confraternita a Napoli nel 1861

    Le confraternite si occupavano del sostegno ai propri iscritti, che versavano annualmente una quota in denaro, e delle attività di culto. Ma anche di ciò che riguardava la morte, il funerale e la sepoltura dei confratelli. Ogni iscritto aveva diritto a ricevere un funerale particolare, con l’intervento degli altri iscritti e di altre cerimonie. E, soprattutto, a essere seppellito nella chiesa del proprio sodalizio. Un discorso a parte meriterebbero le spese funerarie affrontate dalle famiglie in vista, che per prestigio ambivano a cerimonie particolarmente solenni, ed erano così alte che «tre casi di morte in un anno bastano a rovinare ogni ricca famiglia».

    Servizio pubblico di seppellitori

    Padula proponeva di stornare queste somme di denaro e destinarle alla costruzione del camposanto, visto che «si riposa meglio in campagna, e sotto un albero, o lungo la strada maestra come usavano i nostri antichi che nel recinto d’una chiesa». Un camposanto avrebbe così portato maggiore decoro e migliorato la salute pubblica. Ma la sua proposta era tanto (per l’epoca) innovativa quanto utopica: ogni municipio avrebbe dovuto organizzare un «servizio pubblico di seppellitori, il quale, dietro domanda delle parti interessate, curerebbe l’esequie del defunto in modo eguale e gratuito per tutti, lasciando però la facoltà di pagarle a chi le volesse fatte con maggior pompa».

    La costruzione dei cimiteri migliorò le condizioni igienico-sanitarie di paesi e città. La municipalizzazione del servizio di “seppellitori” avvenuta qualche decennio più tardi non portò invece tutti i benefici sperati, nonostante gli auspici. Le vicende della costruzione dei cimiteri nelle città e nei paesi calabresi in alcuni casi furono delle vere e proprie odissee durate anni. E anche quando realizzati erano spesso in condizioni pessime. Nel comune di Rose, in provincia di Cosenza, nel 1893 le pratiche per la costruzione del cimitero erano state avviate ma i cadaveri si seppellivano ancora nella chiesa di un ex convento, in fosse carnarie ormai sature, tanto che si iniziò a utilizzare anche l’atrio e i corridoi del convento.

    I topi fanno il loro dovere

    Nel 1908 un medico di Catanzaro raccontava che «in alcuni cimiteri della provincia scorrazzano grufolando i maiali». In un paese della provincia di Reggio «il cimitero è circondato da una sconnessa palizzata per cui si introducono nella notte le volpi, tantochè alcuni cacciatori del luogo sogliono mettersi alla posta per ucciderle». Agli inizi del ‘900 in alcuni paesi esistevano ancora le “fosse carnarie”. In una relazione dell’epoca si legge che, ancora in un comune della provincia di Reggio, i cadaveri venivano gettati in una cella carnaria attigua alla chiesa, dove però «durante la notte vi entrano gatti e animali».

    Il sindaco del posto, interrogato su come potesse essere sufficiente quella fossa per tutto il paese, rispose candidamente «i topi fanno il loro dovere». Non mancavano episodi poco edificanti, come il caso di un custode del camposanto di Catanzaro che, per aver sottratto dal cimitero beni mobili come «casse mortuarie, croci di ferro, basi granitiche, ecc.» venne accusato di concussione e il suo caso nel 1895 arrivò fino alla Cassazione.

    Disumani becchini al cimitero di Cosenza

    Nel 1903 il cimitero di Cosenza versava in condizioni pietose, con i cadaveri disposti in «veri carnai» e «i familiari dei morti recenti disponibili a dar mance per ingraziarsi i disumani becchini». A ciò bisogna aggiungere «le Congregazioni di Carità che speculavano sulla concessione dei loculi nelle loro Cappelle», annota Enzo Stancati sulla base di uno spoglio dovizioso della stampa d’epoca. In attesa della municipalizzazione del servizio di pompe funebri, a S. Ippolito e Torzano l’utilizzo del carro era ancora un’utopia e il trasporto dei defunti si effettuava «a spalla d’uomo».

    Un funerale d’inizio Novecento a Paola @Foto Agenzia Funebre De Luca Paola

    Sepolture di carità

    Francesco Marano è un povero lustrascarpe della Cosenza d’inizio Novecento. La morte della moglie «per cui ottenne una sepoltura di carità» lo obbliga ad indebitarsi con la Banca Cattolica per pagare oltre al carro e a una minima «rivestitura della cassa», 2 lire e mezza «per ottenere i documenti dal Comune e centesimi cinquanta per mancia a chi gli portò la cassa». Marano è uno dei primi, impotenti cosentini a finire invischiato nell’allora fiorente ramo industriale del “caro estinto” per trovare un posto alla consorte nel cimitero di Cosenza.

    Cari estinti

    Dal lontano 1903, un’unica ditta, la Gaudio-Cundari, gestiva in maniera monopolistica il trasporto dei cadaveri dell’intera città in un oleato sistema di connivenze e piccole speculazioni proprio a danno degli indigenti. Lo sappiamo grazie a una puntuale Inchiesta sull’Amministrazione del Comune di Cosenza, stilata nel 1913 per conto del Ministero dell’Interno dall’ispettore Paolo Donati, “sceso” per fare le pulci ad amministrazioni pigre e scialacquatrici, tra ammanchi di cassa, scandali piccoli e grandi e una gestione familistica della cosa pubblica.

    Pubblicità di onoranze funebri di Cosenza su un periodico degli anni ’20

    La municipalizzazione del servizio di pompe funebri dalla quale «il Comune potrebbe ritrarre un vantaggio di otto o dieci mila lire all’anno» era ovviamente avversata dall’impresa Gaudio-Cundari alla quale «il Comune paga, invece pel trasporto dei cadaveri appartenenti a famiglie povere lire 12 per ognuno».
    La tariffa corrente, stabilita dal regolamento di polizia urbana, per un carro di terza classe era di 10 lire.

    I miserabili del cimitero di Cosenza

    Nella relazione, l’ispettore governativo pone l’accento sulla gestione della ditta di pompe funebri «cui affermasi appartengano, come soci note persone di Cosenza» e su di un servizio «sfruttato in modo poco pietoso». Ma è la concessione da parte del Comune dei certificati di miserabilità a finire sotto osservazione ministeriale: «Non si dura molta fatica ad essere classificati come poveri, dato il modulo adottato dal Municipio e la facilità estrema con la quale si prestano certi individui, fra cui mi si afferma siano anche i facchini della ditta, ad attestare a favore di chicchessia il concorso dei coefficienti necessari ad essere classificati come poveri».

    La Casa delle Culture, sede dell’amministrazione comunale di Cosenza prima della costruzione di Palazzo dei Bruzi

    L’ultima prova del rodato sistema di connivenze e compiacenze tra la ditta Gaudio-Cundari e l’amministrazione comunale la offre il primo cittadino di allora. Guarda caso si chiamava Antonio Cundari, sindaco dal 22 giugno 1908 al 6 febbraio 1911. In una «statistica dei trasporti funebri per i defunti poveri nel biennio 1908 e 1909», datata 4 aprile 1910, ne denunzia 130 nel primo e 140 nel secondo. Quelli sepolti a carico del Comune risulterebbero, sempre secondo i calcoli dell’ispettore Donati, in un anno circa 180.

    Appalti senza concorrenti

    In una città infestata da batteri d’ogni sorta, con condizioni igieniche allarmanti che minavano la salute dei cosentini, specie quelli di condizioni miserande, l’industria della morte rappresentava una fonte inesauribile di guadagni che gli amministratori tenevano a riparo da fastidiosi concorrenti come Salvatore Belsito. Questi, alla scadenza dell’appalto, si sentì di precisare: «Badiamo di non fare qualche altro contratto a trattativa privata; e loro risposero: non temete, che intenzione nostra è che vada l’asta pubblica, perché vantaggiosa al Comune». Alla fine la premiata ditta Gaudio-Cundari si aggiudicò un altro anno di appalto solo perché non avendo dato la disdetta «nel frattempo il vecchio contratto erasi rinnovato per tacito consenso».

  • Cittadini fai da te: la Massa adotta il suo museo

    Cittadini fai da te: la Massa adotta il suo museo

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    «Io sono affidabile», risponde un personaggio del film premio Oscar La Grande bellezza, a chi si meraviglia del fatto che possiede le chiavi dei palazzi nobiliari. Nel rione Massa si racconta che anche la sede cosentina della Banca d’Italia di metà Novecento scelse un uomo probo per aprire la cassaforte. Proprio come il misterioso custode di Roma inventato da Paolo Sorrentino.
    Era un abitante della Massa, gran signore e proprietario di uno storico mulino ad acqua sulla sponda del fiume Crati. «Don Luigi Leonetti custodiva la seconda chiave del caveau», ricorda la gente del quartiere. «Apriva e chiudeva ogni giorno insieme con il direttore».

    Il museo seconda casa degli abitanti della Massa

    C’è un gran via vai al Museo dei Brettii e degli Enotri. È diventato una casa per gli abitanti del rione. Lo hanno inaugurato nel 2009, nel quattrocentesco complesso monumentale di Sant’Agostino. Una struttura restituita alla città e, negli anni, diventata polo culturale e sociale. Residenti e nativi si ritrovano nel chiostro arioso e mistico, in questo grande scrigno di reperti preistorici e dell’età dei metalli. «Tra il Museo e il quartiere c’è una bella alleanza», dice la direttrice, l’archeologa Marilena Cerzoso.

    marilena-cerzoso-rione-massa
    La direttrice Marilena Cerzoso mostra gli atti di morte dei fratelli Bandiera

    Gli abitanti collaborano alle iniziative, ricostruiscono il puzzle della memoria, masticano storie e radici. Nella notte dei musei hanno fatto da guida ai visitatori e spesso promuovono passeggiate nei vicoli. È tutto documentato sul gruppo Facebook Kiri da Massa, creato da Mario Zafferano, promoter di questo recupero d’identità.

    Hanno anche un presidente, l’ingegnere Franco Mauro che adesso abita nella città nuova, ma alle iniziative, ai convegni, alle inaugurazioni di mostre, partecipa con tutta la granitica memoria di piccole e grandi storie. Ricorda, ad esempio, il ritorno dei soldati dal secondo conflitto mondiale, perché il complesso di Sant’Agostino, tra le tante vite che ha avuto, è stato anche rifugio per gli sfollati. «Ero molto piccolo ma la scena mi è rimasta impressa: un giovane tornato a casa dal fronte, stanco, sporco. Si è levato la maglia e sul pavimento ho visto cadere un tappeto di pidocchi».

    Ritorno in Massa cercando le origini

    Fino a qualche anno fa arrivavano persone in cerca di un pezzo d’infanzia. Cercavano la stanza dove dormivano i genitori, l’angolo in cui si mangiava tutti insieme. Erano gli ex piccoli sfollati del complesso di Sant’Agostino.
    All’epoca era il rione dei pignatari (gli artigiani cosentini della terracotta). “Massa” perché nel ’700, spiega Paolo Veltri, ex preside della facoltà di Ingegneria dell’Università della Calabria che nel quartiere è cresciuto, «vennero erette delle barriere di protezione per limitare i rischi di inondazione derivanti dalle piene del Crati». Ecco l’origine del nome.

    Massa: il rione di Suor Elena Aiello

    Nei vicoli è rimasta l’eco delle sirene delle fabbriche, del vociare delle cantine, dei passi di frati, preti e suore. Dagli agostiniani, alle canossiane, a don Maletta, parroco di San Gaetano che ha costruito pezzetti di dna del rione.

    rione- massa-gli-abitanti-adottano-museo
    A sinistra nella foto, la beata Elena Aiello

    Erano le strade percorse in lungo e in largo anche da Suor Elena Aiello, ‘a monaca santa, figura cult per il popolo bruzio, fondatrice della Congregazione delle Suore Minime della Passione, beatificata nel 2011.
    La storia della Massa è un romanzo dalla trama fitta, una saga di luoghi e persone à la Balzac .

    Cantine e patrioti

    «Ci ho vissuto dai 9 ai 21 anni. Sono andata via quando mi sono sposata e poi sono tornata per sempre. È l’unico luogo dove desideravo mettere radici. Ho ritrovato tanti amici». Rita Ritacco, badante, conosce ogni pietra e ogni famiglia. «Ho comprato una casa e se un giorno farò soldi – ride – ne comprerò un’altra per i miei figli».
    Ha fatto la stessa scelta Giancarlo Spinelli, imprenditore edile. «Sono tornato ad abitare nel mio quartiere d’origine, con mia moglie e i miei figli, quando ho ereditato casa dai miei nonni». Suo padre era una celebrità, tra la gente del posto: Natale Spinelli, proprietario di una cantina. Si beveva vino artigianale mixato alla gassosa prodotta nella vicina fabbrica di Giovannino Gallo.

    rione- massa-gli-abitanti-adottano-museo
    Carte, vino e gassosa in una storica cantina della Massa

    Un’altra cantina mitica del passato era quello di Franchino Perrelli, oggi bar dei Fratelli Bandiera, dedicato a due figure storiche del cuore in questo lembo di città, per via del loro sacrificio in nome dell’Unità d’Italia. L’ara di Attilio ed Emilio Bandiera è nel Vallone di Rovito, dove furono fucilati, dopo un tradimento, il 25 luglio del 1844. Era meta di gite scolastiche, scenario di cori italici e manifestazioni, ma oggi vive lunghi periodi di abbandono. Sono stati gli stessi abitanti, insieme all’associazione Plastic Free, a ripulirlo recentemente, in 15 giorni. Gli atti di morte dei fratelli sono conservati nella sezione Risorgimento.

    Un forte senso di appartenenza

    Gli abitanti della Massa puliscono il Vallone dei fratelli Bandiera

    «Oggi il museo è il nostro gioiello e la direttrice è una persona speciale», dice Giancarlo Spinelli. Marilena Cerzoso è anche lei custode «affidabile», guida di un museo archeologico e inclusivo. «Ho un doppio legame con la Massa, personale e professionale. Sono tornata nei luoghi di cui ho sempre sentito raccontare dai miei genitori. – spiega. – Mia madre è cresciuta nel quartiere limitrofo della Garruba e insieme a mio padre ha vissuto la sua giovinezza nel gruppo scout di San Gaetano, sotto la guida del mitico don Luigi Maletta. Quindi essere tornata nei luoghi dei racconti della mia famiglia è per me motivo di grande gioia e commozione». Il fatto «di aver trovato un quartiere accogliente, che ha un forte senso di appartenenza – continua,- mi dà tanta forza e mi stimola nel fare sempre meglio per la valorizzazione del territorio».

    Remo Scigliano ha un bazaar. Fai un nome del passato e lui risponde con numeri: il civico, l’anno di nascita, date importanti della vita del personaggio citato. Ha lavorato «oltre trent’anni alle poste e telegrafo», anche lui è una risorsa preziosa per unire i fili del passato a quelli del presente. Il suo negozio è in fondo alla scalinata di Sant’Agostino.
    Davanti alla chiesa ci sono sempre gruppi di bambini che giocano a pallone. Hanno imparato. Appena vedono un visitatore in fondo alla scalinata fermano il Super Santos con un piede e aspettano che passi.

    Rita Ritacco e Giancarlo Spinelli

    «Anche io da piccolo giocavo sul sagrato, ma con le palle di pezza». L’ingegnere Mauro è nato nel palazzo accanto alla chiesa. «Una costruzione fatta da mio nonno nel 1910. Ecco – la indica, oltre un minuscolo davanzale con rose rosse rampicanti – quella era casa mia. Oggi si chiama via Viapiana, ma per noi rimane il Puzzillo». Accanto a lui il professore Veltri. Guardano verso l’ex Puzzillo e il piccolo davanzale sembra il colle dell’Infinito di Recanati.

    I confini

    La Massa confina con lo Spirito Santo, con Casali, con il vecchio tribunale di Colle Triglio, oggi Palazzo Arnone, che ospita la Galleria d’arte nazionale. Un itinerario breve e vertiginoso.
    «Sul lungo muretto di collegamento con lo Spirito Santo, fino alla metà degli Anni ’60, si giocava la tombola dei due quartieri ogni domenica, anche quando le giornate erano piovose», ricorda Veltri, che con Ugo Dattis ha scritto un libro, Sertorio a quattro mani, pubblicato dalla Pellegrini, dedicato alla città vecchia.

    Franco Mauro e Paolo Veltri

    Sono scanditi dai suoni i ricordi del passato. «L’orologio del vecchio tribunale, le campane della chiesa, – racconta Franco Mauro. – E poi suonava la sirena della fabbrica delle piastrelle in cemento Mancuso e Ferro, l’ingresso degli operai, alle sette, e l’uscita, alle quattro del pomeriggio».
    I nativi e gli abitanti della Massa sono raccoglitori di storie. «Se non ci fosse stato lo stimolo del Museo dei Brettii e degli Enotri. – conclude Paolo Veltri, – tutti i nostri ricordi si sarebbero dispersi nei vicoli».

    rione-massa-cosenza
    Uno scorcio del rione Massa (foto Mario Magnelli)

    (Le foto nell’articolo sono di Concetta Guido e del gruppo Fb “Kiri da Massa”. Ringraziamo per l’autorizzazione all’uso delle immagini)

  • Rendano torna a casa: un festival per omaggiare la sua musica

    Rendano torna a casa: un festival per omaggiare la sua musica

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Al via la seconda edizione del Festival internazionale “Alfonso Rendano”, tre serate di musica che si svolgeranno a Cosenza, a Villa Rendano, dal 20 al 22 giugno.
    L’iniziativa, ideata e promossa dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani, è diretta da Daniela Roma, musicista calabrese residente negli Usa e massima interprete mondiale della musica di Rendano.

    Perchè un festival dedicato ad Alfonso Rendano

    Alfonso Rendano è stato il musicista calabrese più influente di tutti i tempi. Pianista di enorme talento e di grandi capacità tecniche, è il protagonista di una vicenda artistica di livello mondiale.

    festival-internazionale-alfonso-rendano-seconda-edizione
    Alfonso Rendano

    Al riguardo, anche i non esperti di musica classica, legano il suo nome almeno a un’innovazione tecnica importantissima: il terzo pedale del pianoforte.
    L’avventura artistica di Rendano inizia precocemente a Carolei, il paese alle porte di Cosenza, dove nasce nel 1855.
    Nono di dodici figli, il piccolo Alfonso stupisce i compaesani coi primi brani suonati “a orecchio” sulla spinetta della chiesa. Da qui allo studio vero e proprio della musica, il passo è stato breve.

    Da Cosenza a Napoli

    A soli nove anni, il piccolo Alfonso sostiene brillantemente l’esame di ammissione al Regio collegio musicale di San Pietro A Maiella (Napoli).
    Lì si fa stimare dal direttore Saverio Mercadante e diventa allievo di Sigismund Thalberg, che lo presenta a uno dei massimi compositori europei dell’epoca: Gioacchino Rossini. Quest’ultimo gli fa ottenere una borsa di studio governativa, che apre al giovane pianista le porte dell’Europa che conta. A partire da Parigi.

    festival-internazionale-alfonso-rendano-seconda-edizione
    Daniela Roma in azione al pianoforte

    Un virtuoso in giro per l’Europa

    Nella capitale francese il giovane pianista si specializza con Georges Mathias, allievo a sua volta di Fryderyk Chopin.
    Fa il pieno di successi e parte per una tournée in Inghilterra, dove resta per tutto il 1870.
    Poi torna nel Continente, per la precisione a Lipsia, dove continua a specializzarsi.
    Rientra in Italia nel 1874 e si dedica ai concerti. Fa frequenti puntate all’estero, soprattutto a Vienna, dove fa amicizia con Franz Listz. Proprio assieme a Listz, Rendano esegue alla Corte granducale di Weimar il suo Concerto per pianoforte.

    In Italia e poi in Calabria

    Nel 1880, Rendano sposa la pianista milanese Antonietta Trucco, da cui ha tre figli.
    Si dedica ai concerti e all’insegnamento. E, nel 1886, ottiene la cattedra al Conservatorio di Napoli, che abbandona poco dopo in polemica con l’estabilishment dell’epoca.
    Nel 1892 rientra a Cosenza per risolvere i problemi economici della sua famiglia e si dedica alla composizione. Risale a questo periodo Consuelo, la sua opera lirica tratta da un romanzo di George Sand su libretto di Francesco Cimmino.
    Poi, nel 1901 si sposta a Napoli e, da lì, nella Capitale, dove risiede stabilmente fino alla morte, avvenuta nel 1931.
    Tiene il suo ultimo concerto al Teatro Valle di Roma nel 1925.

    Festival Rendano: apre Leslie Howard

    La seconda edizione del Festival internazionale “Alfonso Rendano” inizia il 20 giugno alle 20 con il concerto di Leslie Howard, pianista, compositore e musicologo australiano.
    Howard è famoso per essere l’unico pianista ad aver inciso tutta la produzione di Franz Listz. Questo progetto musicale ha avuto finora trecento anteprime mondiali.

    Parla il pronipote, suona il Duo Resonance

    La serata del 21 giugno è dedicata ai compositori calabresi. Si inizia alle 19 con un dialogo tra Marco Ruffolo, giornalista di Repubblica e pronipote di Alfonso Rendano, e Daniela Roma, la quale suonerà alcuni brani del celebre artta.
    Seguirà, alle 20, il concerto del Duo Resonance, composto dal soprano Teresa Cardace e dalla pianista Angela Floccari.

    Festival Rendano: chiude il Trio Dmitrij

    Protagonista della serata conclusiva (22 giugno), il Trio Dmitrij, composto da Henry Domenico Durante (violino), Francesco Alessandro De Felice (violoncello) e Michele Sampaolesi (pianoforte).
    Tutti gli artisti eseguiranno, nei loro repertori, dei brani di Alfonso Rendano, in omaggio al padrone di casa.

    È possibile acquistare i biglietti presso Inprimafila o direttamente a Villa Rendano.