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  • Marco Forgione e gli altri rapiti del terribile ’79

    Marco Forgione e gli altri rapiti del terribile ’79

    Non ebbe, forse, il clamore esplosivo della vicenda di Paul Getty III né creo catene di solidarietà in tutto il Paese, come il caso di Cesare Casella.
    Tuttavia, il sequestro di Marco Forgione, dieci anni compiuti l’antivigilia del Natale 1979, scosse Cosenza e divenne un caso nazionale.

    La città “babba”

    Cosenza ha solo la fama di zona civile e tranquilla. In realtà, in quell’ultimo scorcio di anni ’70 si spara e ammazza alla grande.
    L’escalation inizia il 14 dicembre 1977, con l’omicidio di Luigi Palermo detto ’u Zorru, lo storico capo della vecchia malavita bruzia.

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    John Paul Getty III

    Sotto la patina di un’apparente tranquillità i cosentini vivono quasi sotto coprifuoco.
    In questo contesto, il sequestro del piccolo Forgione è il primo punto di rottura. È il primo segnale all’opinione pubblica nazionale che anche il nord della Calabria è come tutto il resto del Sud infestato dalla mafia. Già: i sequestri di persona, negli anni’70, significano soprattutto ’ndrangheta.
    Certo, ci sono stati i sardi, in testa Grazianeddu Mesina, e poi ci sono state le spacconate di Vallanzasca. Ma i calabresi sono un’altra cosa: con loro non si può assolutamente scherzare.

    Il sequestro

    È la sera del 9 novembre 1979. Una Fiat 500 imbocca lo svincolo per Pianette di Rovito, una manciata di chilometri dal capoluogo.
    La guida Davide Forgione, un ragazzo di 19 anni, rampollo di una celebre famiglia di commercianti di calzature. A bordo con lui c’è Marco, il fratello minore.

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    La 500 su cui viaggiava Marco Forgione

    All’improvviso, due auto bloccano la 500. Ne escono otto uomini armati, che bloccano Davide per circa mezzora e rapiscono Marco.
    È l’inizio di un calvario, per il piccolo e la sua famiglia, che durerà cinquantasette giorni.

    Silenzio, parla il Papa

    Il 16 dicembre 1979 Karol Wojtyla è Papa da poco più di un anno. Più deciso e carismatico dei suoi due predecessori immediati (Paolo VI e Giovanni Paolo I), inizia a prendere posizione nei confronti delle mafie, sulle quali la Chiesa aveva tenuto fino ad allora atteggiamenti altalenanti.
    Quel 16 dicembre è domenica e Giovanni Paolo II dedica la sua omelia proprio a Marco.
    «Ho presente in questo momento il piccolo Marco Forgione, rapito a Cosenza nel mese scorso e che l’antivigilia di Natale compirà il decimo anno di età», dice il Papa alla folla che riempie piazza San Pietro.

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    Il ritaglio di Gazzetta del Sud con la notizia del rapimento

    E continua: «La sua voce e quella di altre persone che versano nella stessa dolorosa condizione, giunge al mio cuore, insieme a quella dei familiari, carica di ansia e di angoscia».
    Infine l’appello: «È questo dolore profondo di anime innocenti e di famiglie colpite nei più intimi affetti che mi induce a rivolgere un accorato appello ai rapitori: la grazia del Natale tocchi i loro cuori, li distolga dai loro propositi e li induca a restituire alle famiglie i loro cari».
    Non è ancora il Pontefice che, tredici anni dopo, lancerà la scomunica ai mafiosi, ma la strada è quella.

    La parola ai comunisti

    Anche l’altra Chiesa italiana, cioè il Pci, prende posizione sul rapimento di Marco. Sulle colonne de L’Unità del 27 dicembre Filippo Veltri riporta una dichiarazione del papà del piccolo prigioniero: «Non fategli sapere che è Natale».
    I comunisti vivono l’era Berlinguer e tentano il dialogo con la “borghesia”, fino ad allora trattata con sospetto da molta sinistra. Disinteressata o meno, la linea legalitaria, sperimentata già con grande durezza nei confronti delle Br durante il sequestro Moro, assume definitivamente le vesti dell’antimafia.

    L’articolo dedicato da L’Unità al sequestro Forgione

    Proprio a fine ’79, il Partito comunista organizza due dibattiti sulla criminalità mafiosa: uno a Paola e l’altro a Sibari. E di questa criminalità i sequestri di persona sono un segno tangibile.
    O meglio, «un segno ulteriore di come la piovra mafiosa si sia ormai propagata in tutta la regione, non risparmiando oasi un tempo ritenute felici ed immuni dalla criminalità organizzata».

    La liberazione

    Più che le parole del Papa e le polemiche dei comunisti, per Marco è stato decisivo il riscatto: circa quattrocento milioni di lire dell’epoca.
    Il piccolo ritrova la libertà il 5 gennaio del 1980, quando i suoi carcerieri lo rilasciano nella periferia di Sant’Onofrio, il paese del Vibonese noto per il rito religioso dell’Affruntata.
    Le indagini, coordinate dal procuratore capo Saverio Cavalcanti e dai suoi sostituti Oreste Nicastro e Alfredo Serafini, approdano a poco, tanta è l’omertà. Che, tuttavia, non riguarda solo l’affaire Forgione.

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    Marco Forgione assieme al sostituto procuratore Oreste Nicastro

    Alfredo: l’altro bambino rapito

    Marco è il più piccolo tra i sequestrati di quell’anno.
    Poco più grande di lui, Alfredo Battaglia in quel terribile ’79 ha compiuto tredici anni. Alfredo, figlio di un gioielliere di Bovalino, viene sequestrato il 30 ottobre ed è rilasciato il 23 febbraio del 1980, dopo centoquindici giorni di prigionia vissuti in piena sindrome di Stoccolma.
    Intervistato dalla neonata Rai 3 durante il sequestro, suo padre si dimostra duro: «Non si tratta solo dei mafiosi ma dei politici che li proteggono, che alle elezioni li abbracciano e li baciano sui palchi dei comizi».

    Enrico: lo studente universitario

    Piuttosto giovane è anche Enrico Zappino, che nel ’79 ha ventidue anni e studia all’Università di Pisa.
    Figlio di Pasquale, ufficiale medico di Mileto, nel Vibonese, e della professoressa Giuseppina Naccari Carlizzi, Enrico viene sequestrato il 22 dicembre e torna in libertà quattro mesi dopo. Il suo riscatto subisce varie negoziazioni: all’inizio i rapitori pretendono due miliardi, alla fine si “accontentano” di duecento milioni.
    Quando si dice chiedere cento per ottenere dieci…

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    Adolfo Cartisano, il fotografo morto in balia dei rapitori

    Zappino torna agli onori della cronaca nel ’93, quando si offre prigioniero al posto di un altro rapito di Bovalino: il fotografo Adolfo Cartisano, sequestrato a luglio di quell’anno e non ancora liberato, a dispetto dell’avvenuto pagamento del riscatto.
    Il gesto è nobile ma inutile: Cartisano, probabilmente, era già morto. I suoi familiari ne ritrovano il corpo solo nel 2005, in seguito alla cantata anonima di un pentito.

    Gli altri

    Antonio Rullo, imprenditore di Reggio Calabria, resta botte di mesi in mano ai suoi rapitori.
    I quali, tuttavia, gli consentono di inviare lettere e foto ai suoi familiari perché si affrettino a liberarlo.

    L’articolo de L’Unità sul sequestro Rullo

    L’ultimo della lista è Domenico Frascà, farmacista di Locri, anche lui imprigionato per mesi.
    Forse anche questa sequenza di rapimenti stimola il legislatore a far presto sulla normativa antimafia, all’epoca in elaborazione, che sarebbe stata varata solo nel 1982, sulla scia dell’impatto emotivo del delitto dalla Chiesa.
    Ma nel ’79 la consapevolezza del pericolo mafioso era comunque alle stelle. Scrive ancora, al riguardo, Veltri: «Attenti che si è giunti ad un punto limite». Col senno del poi, è impossibile dargli torto.

  • Pizza al taglio, anche la Calabria ai vertici nazionali

    Pizza al taglio, anche la Calabria ai vertici nazionali

    Roma è la capitale della pizza al taglio in Italia, ma anche la Calabria si difende egregiamente. A sancirlo è 50 Top Pizza, la guida delle migliori pizzerie che vede ben piazzate in classifica due locali del Cosentino. Il primo posto se lo aggiudica il celebre – ormai ha anche il suo show in tv – Gabriele Bonci. Quella del suo locale romano, Pizzarium, si conferma per il terzo anno consecutivo la migliore “Pizza in Viaggio (da taglio e asporto)” del Paese.

    Pizza al taglio: tra le prime 15, due sono in Calabria

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    Antonio Oliva insieme a Gabriele Bonci

    Si resta nella capitale anche per gli altri due gradini del podio. Il secondo posto va all’Antico Forno Roscioli, storica insegna familiare nel centro storico, mentre al terzo si piazza Lievito Pizza, Pane del giovane Francesco Arnesano. Ma è scorrendo la classifica – senza lasciare la Top 15 però – che arriva la Calabria. Dopo indirizzi mitici per i buongustai come La Masardona (4°) a Napoli e altri, al nono posto un nome che ha ormai fatto la storia della pizza al taglio in Calabria: Oliva Pizzamore di Antonio Oliva. Poco più giù, al dodicesimo posto, troviamo Campana Pizza In Teglia, la pizzeria di Daniele Campana a Corigliano-Rossano.

    Daniele Campana

    La Top 20 d’Italia

    Nelle valutazioni si è tenuto conto di molti fattori: qualità delle materie prime, ambiente, pulizia e cura dei dettagli.
    Queste le prime 20 posizioni di Le 50 Migliori Pizze in Viaggio in Italia 2022:

    1. Pizzarium, Roma (Lazio)
    2. Antico Forno Roscioli, Roma (Lazio)
    3. Lievito Pizza, Pane… Roma (Lazio)
    4. La Masardona, Napoli (Campania)
    5. Saporè Pizza Bakery, San Martino Buon Albergo – VR (Veneto)
    6. Sancho, Fiumicino – RM (Lazio)
    7. La Pia Centenaria, La Spezia (Liguria)
    8. Tellia, Torino (Piemonte)
    9. Oliva Pizzamore, Acri – CS (Calabria)
    10. Granocielo, Avezzano – AQ (Abruzzo)
    11. PorzioNi di Pizza, Napoli (Campania)
    12. Campana Pizza In Teglia, Corigliano-Rossano – CS (Calabria)
    13. ‘O Fiore Mio Pizze di Strada, Bologna (Emilia-Romagna)
    14. Grotto Pizzeria Castello, Caggiano – SA (Campania)
    15. Gina Pizza, Ercolano – NA (Campania)
    16. Forno Brisa, Bologna (Emilia-Romagna)
    17. La Divina Pizza, Firenze (Toscana)
    18. Alimento, Brescia (Lombardia)
    19. Pane E Tempesta, Roma (Lazio)
    20. PezZ de Pane, Frosinone (Lazio)
  • Operazione Alarico: il flop dei nazisti e il bis dei cosentini

    Operazione Alarico: il flop dei nazisti e il bis dei cosentini

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    Negli anni passati, sindaci, assessori e operatori culturali di destra e di sinistra, per certificare un glorioso passato di Cosenza, hanno pensato di rievocare con cortei storici, convegni e statue le figure di condottieri, re e imperatori: Alarico e il suo mitico tesoro, Federico II di Svevia Stupor mundi e Carlo V sul cui impero non tramontava mai il sole. Hanno pensato che, soprattutto il nome di Alarico, avrebbe funzionato da attrattore per i turisti e portato lustro e benefici alla città e ai suoi abitanti. Il biondo guerriero sepolto nello spazio magico alla confluenza tra Crati e Busento, più di ogni altro ricordava la grandezza della gloriosa città.

    Alarico innamorato di Cosenza

    Alarico è stato sottoposto a un processo di revisione storica, presentato come un re che  voleva unire i popoli europei, che predicava la pace e la convivenza civile, che aveva amato profondamente Cosenza tanto da volerla capitale di un nuovo regno. La rielaborazione «positiva» del re barbaro è avvenuta in tutti i campi: letteratura, cinema, fumetti, teatro, arte e poesia. Le scuole cittadine di ogni ordine e grado, sono state coinvolte in progetti imperniati sulla vita di Alarico.

    Il funerale di Alarico

    Ricordo che in una pubblicazione alcune insegnanti scrivevano entusiaste che il capo dei Visigoti, considerato erroneamente un rozzo e spietato invasore, era in realtà un uomo colto, fautore di una società multietnica e amante della cooperazione tra i popoli. Un sindaco recentemente è arrivato addirittura a proporre la costruzione di un grande museo dedicato al re barbaro e ai Goti. Molti ancora si chiedono con quali reperti o documenti lo avrebbe riempito.

    E Von Platen sparisce dalle celebrazioni

    Un ritratto di August Von Platen

    Come sempre accade, nel processo d’invenzione della storia, molte cose finiscono nel dimenticatoio. È interessante notare, ad esempio, che durante le celebrazioni dedicate ad Alarico, il poeta August von Platen  è stato completamente ignorato. Eppure, se la leggenda del re visigoto è nota in  tutta Europa, lo si deve a una sua bellissima poesia. Von Platen non era un uomo molto amato. Widmann lo aveva rimproverato di aver composto quei versi senza mai essere stato a Cosenza, altrimenti avrebbe visto che il Busento non era un fiume dalle acque vorticose ma un misero fiumicello! Heine accusò il poeta di essere un «immondo omosessuale».

    Forse per questo motivo Von Platen lasciò la Germania, considerata più matrigna che madre, per vagare senza meta in Italia. La speranza che un giorno le sue opere sarebbero state apprezzate e il suo nome sarebbe divenuto immortale mitigava le umiliazioni che era costretto a subire. Mussolini, in un saggio giovanile sul poeta, ne ricordò il valore definendolo un tedesco mediterraneo che amava profondamente l’Italia e in un’ode aveva scritto che la «rozza schiatta tedesca» aveva un tempo annientato la civiltà italiana.

    L’invenzione della tradizione

    La rielaborazione storica di Alarico fa parte di quel processo che Hobsbawn e Ranger hanno definito «invenzione della tradizione»: manipolare e appropriarsi di personaggi e tradizioni che diano lustro a una comunità. A questa esigenza rispondono le manifestazioni volte a narrare i fatti remoti, a celebrare i protagonisti di avvenimenti famosi, a far conoscere luoghi legati a eventi storici. Riprodurre e ricostruire il passato con mezzi e linguaggi immediatamente fruibili, ricreare situazioni emotive in cui ognuno si riconosce spontaneamente all’interno della comunità. L’obiettivo è quello di dare fondamento mitico alla storia della propria città, processo ideologico in cui storia e mito si confondono.

    Gli eventi celebrativi dedicati a re e imperatori contengono verità deliberatamente manipolate, come scrive Debord. Il falso forma il gusto e si rifà il vero per farlo assomigliare al falso. Gli operatori dell’industria dello spettacolo, convinti che gli spettatori non abbiano alcuna competenza, sono portati a falsificare la storia o a dare spiegazioni inverosimili.

    La passione bruzia per gli invasori

    Non sappiamo spiegare l’entusiasmo dei politici cosentini per popoli stranieri che in diverse epoche storiche hanno impoverito e umiliato la loro terra. Le manifestazioni dedicate a personaggi storici fanno comunque parte di una fabbrica del consenso che, come scrivevano Horkheimer e Adorno, liquida la funzione critica della cultura e favorisce l’inerzia intellettuale, una fabbrica di feticizzazione della cultura che a volte appare originale ma che, in realtà, elegge lo stereotipo a norma. L’obiettivo di questa strategia culturale caratterizzata da effimere iniziative, è offrire una fruizione dell’evento senza alcuno sforzo da parte del consumatore, mettere in scena sogni collettivi e forme archetipe dell’immaginario su cui gli uomini ordinano da sempre i propri sogni.

    Horkheimer e Adorno

    Il tentativo di restituire a Cosenza il primato che aveva un tempo ricorrendo all’invenzione della storia si è rivelato un insuccesso. Le celebrazioni dedicate a grandi personaggi come Alarico sono prive di valore sentimentale, prevale l’aspetto ludico e di consumo. I cittadini partecipano agli eventi culturali come ad una grande fiera. Non sono attratti dai contenuti che il più delle volte appaiono loro incomprensibili. Gli operatori culturali, volendo appagare i gusti e gli interessi di tutti, alla fine riescono a soddisfare solo quelli di pochi; pur se animati da nobili intenti, non riescono a rendere tali iniziative «tradizione».

    Una memoria ricostruita o inventata, per conquistare legittimità e consenso sociale, ha bisogno di contenuti condivisi. Per essere vitale occorre che i suoi sistemi rappresentativi convergano con l’universo culturale dei gruppi coinvolti. Feste, cerimonie e ritualità per affermarsi devono attivare un meccanismo spontaneo di identificazione che consenta alla collettività di riconoscersi in una storia comune.

    Operazione Alarico a Cosenza, la replica di un fallimento

    La statua equestre dedicata ad Alarico, alle spalle quel che resta dell’ex Hotel Jolly

    Richiamandosi all’invasione del re visigoto che nel 410 a. C. saccheggiò Roma, i nazisti hanno usato come nome in codice Unternehmen Alarich il piano militare elaborato per occupare l’Italia in caso di una resa agli Alleati. La Unternehmen Alarich degli amministratori cosentini si è rivelata un clamoroso fallimento. Il re visigoto che in una strana statua sta ritto sulla testa di un cavallo alla confluenza del Crati e del Busento, sembra tentenni a tuffarsi per ritornare sotto le acque putride dei fiumi coperti da una fitta boscaglia e pieni fino all’inverosimile di spazzatura. Alle sue spalle le macerie di un palazzo abbattuto e una città vecchia abbandonata che sta cadendo a pezzi.

     

     

     

     

     

     

     

  • Calabria “ammore” mio: Cutolo e la ‘ndrangheta

    Calabria “ammore” mio: Cutolo e la ‘ndrangheta

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    Iniziamo con una data: 28 giugno 1982. L’avvocato Silvio Sesti, penalista cosentino di grande livello e specchiata onestà, cade sotto il fuoco di due sicari, che lo freddano nel suo studio.
    Di questo cold case della storia criminale calabrese rimane un dettaglio vistoso. Gli assassini non sono calabresi, ma due napoletani: Alfonso Pinelli e Sergio Bianchi, detto ’o Pazzo.
    «Sparava come un dio e non gliene fotteva niente di nessuno», ha detto di lui Pasquale Barra, detto ’o Animale che, prima di pentirsi, faceva il killer delle carceri per conto della Nuova camorra organizzata. Suo l’assassinio truce di Francis Turatello, nel carcere di Badu ’e Carros.
    Ma in quanto a sangue versato, Bianchi lo fregava: portava sulla coscienza (posto che ne avesse una) trecento morti ammazzati. A questo punto, la domanda vera è una: cosa ci facevano due killer campani a Cosenza? Un altro dettaglio può aiutare: anche ’o Pazzo faceva parte della Nco. E la Nco significa solo un nome: Raffaele Cutolo.

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    Il funerale di Silvio Sesti

    Cosentini in trasferta

    Facciamo un passo indietro e cambiamo zona: il 3 settembre 1981 i carabinieri arrestano a Napoli Franco Pino, boss rampante della malavita cosentina, l’ultima che si era costituita in ’ndrangheta.
    Assieme al giovane boss (29 anni all’epoca), finiscono in manette i cosentini Giuseppe Irillo, detto ’a Vecchiarella, e Antonio De Rose, che qualche anno dopo sarebbe diventato il primo pentito di Cosenza. Più il paolano Osvaldo Bonanata, detto ’u Macellaiu. Più vistosi i nomi dei napoletani arrestati assieme ai compari calabresi: Francesco Paolo Alfieri e suo padre Salvatore, entrambi uomini di spicco della Nco. Di nuovo Cutolo. La domanda, stavolta, è invertita: che ci facevano i quattro cosentini a Napoli?

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    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    L’alleanza d’acciaio

    Per Franco Pino è facile rispondere: il boss dagli occhi di ghiaccio aveva l’obbligo di dimora fuori regione e risiedeva all’Hotel Vittoria di Sapri.
    Ma anche a Napoli Pino si era fatto notare, almeno dalle forze dell’ordine che lo sospettavano di alcune rapine.
    In realtà, il rapporto tra il clan Pino-Sena e la Nco faceva parte di una strategia più complessa e sofisticata, messa a punto da don Raffaele, all’epoca latitante nel suo castello di Ottaviano.

    Lo strano battesimo

    Tutto comincia in carcere, quando (erano gli anni ’70) Egidio Muraca, storico boss di Lamezia, inizia Raffaele Cutolo alla ’ndrangheta.
    Altra domanda: perché Cutolo aveva bisogno di farsi iniziare in un’altra struttura criminale, tra l’altro più giovane della Camorra? E ancora: perché la ’ndrangheta, struttura notoriamente “chiusa” e familistica, accettava tra le sue file un napoletano?
    La risposta è articolata. Iniziamo dal punto di vista napoletano: la Camorra, a differenza delle sorelle calabrese e siciliana, non ha mai avuto una struttura compatta e verticistica e, tranne qualche ritualità, non ha mai fatto davvero il salto di qualità verso la mafiosità “vera”. Detto altrimenti, Cutolo aveva bisogno di farsi riconoscere per ritagliarsi un ruolo.
    Viceversa, per i calabresi trovare contatti di rilievo era vitale per mettere un piede a Napoli, fino ad allora “colonizzata” dai siciliani. Insomma, un matrimonio d’interesse in piena regola, che diede i suoi frutti.

    …E se n’è gghiuto puro ’o calabrese

    Qualcuno ricorderà la scena del delitto in carcere de Il Camorrista di Giuseppe Tornatore, un classicone dei mafia movie.
    Bene: la sequenza richiama l’omicidio di don Mico Tripodo, lo storico boss di Sambatello, nemico giurato del reggino Paolo De Stefano, con cui Cutolo aveva stretto un’alleanza di ferro.
    Tripodo fu ammazzato da due giovani cutoliani: Luigi Esposito e Agrippino Effige, neppure cinquant’anni in due.

     

    L’alleanza tra Cutolo e gli emergenti della ’ndrangheta prevedeva lo scambio di killer: i calabresi in Campania e, viceversa, i campani in Calabria.
    Questa gestione non era una novità per i reggini. A Cosenza, invece, era quasi inedita.
    Franco Pino, infatti, non era solo un boss che sgomitava per emergere: tentava di trasformare la mala cosentina in ’ndrangheta vera e propria. E questo spiega perché la Calabria Citra, a un certo punto, si riempì di camorristi.

    Sul Tirreno

    Un uomo chiave di questa trasformazione è il sanlucidano Nelso Basile. Anche Basile aveva un legame d’acciaio coi cutoliani: il suo compare d’anello era Antonio Russo di Afragola. Russo, a sua volta, agiva in Calabria assieme a Bianchi e a Nicola Flagiello di Sant’Antimo.

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    Un ritaglio d’epoca sull’arresto di Pino a Napoli

    Quest’ultimo aveva un ruolo fortissimo nella Nco, perché cognato di Antonio Puca, detto ’o Giappone, luogotenente di Cutolo. I cutoliani venivano in Calabria non solo ad ammazzare, ma anche a svernare, cioè a sottrarsi ai killer della Nuova Famiglia, contro la quale ’o Professore aveva ingaggiato una guerra senza quartiere.
    Secondo varie testimonianze i napoletani si rifugiavano nelle montagne di Falconara Albanese, dove non davano nell’occhio.
    Ma al riguardo è meglio non andare oltre. Soprattutto, è importante evitare paralleli strani con la tragedia tuttora irrisolta di Roberta Lanzino, che morì proprio in quei luoghi.

    Sulla Sibaritide

    Il primo grande boss della Sibaritide, Giuseppe Cirillo, non era calabrese. Neppure napoletano: era di Salerno.
    Anche lui aveva un legame forte con Cutolo, che passava attraverso suo cognato Mario Mirabile, capoparanza della Nco a Salerno. Come se non bastasse, Cirillo era vicino anche a Vincenzo Casillo, detto ’o Nirone, altro uomo di fiducia di don Raffaele.

    La parabola criminale

    Questo intrico termina col declino di Cutolo, che a partire dalla seconda metà degli anni ’80, viene emarginato dalla scena criminale e non solo.
    Forse il suo progetto di una Supercamorra organizzata in maniera militare era un po’ troppo, sebbene avesse sedotto tantissimi soggetti borderline: si contano, al riguardo, cinquemila tra affiliati e fiancheggiatori negli anni d’oro della Nco.

    Raffaele Cutolo alla sbarra

    Ma i calabresi e i cosentini, cosa facevano per Cutolo? Franco Pino, in uno dei suoi verbali fiume, fa un nome: Francesco Pagano, che a suo dire agiva coi campani e, quando era necessario, andava a sparare in trasferta.
    Un’altra “cantata” di Pino getta luce sul delitto Sesti: secondo il superpentito, lo avrebbe commissionato Basile. Ma quest’ultimo non può confermare né smentire: è stato ucciso nell’83.
    Stesso discorso per Bianchi ’o Pazzo, morto com’è vissuto: ammazzato per strada a Napoli nella seconda metà degli anni’80.

  • Il martirio e l’esempio: cosa resta dei fratelli Bandiera?

    Il martirio e l’esempio: cosa resta dei fratelli Bandiera?

    All’alba del 15 marzo 1844, un centinaio di patrioti cosentini attraversò in armi le vie del centro al grido di «Viva la libertà!». Sventolavano con orgoglio una bandiera tricolore attaccata a una canna.
    Giunsero al palazzo dell’Intendenza e cercarono di abbatterne il portone con accette. A questo punto intervenne un reparto di soldati a cavallo e vi fu un aspro conflitto a fuoco. Caddero alcuni soldati, tra cui il capitano della gendarmeria Vincenzo Galluppi, e, fra i sovversivi, Francesco Salfi, Michele Musacchio, Giuseppe Filippo e Francesco Coscarella.

    Qualche tempo dopo, il 16 giugno, i fratelli Bandiera e altri rivoltosi, sbarcarono nei pressi della foce del Neto. Ma furono accerchiati e fatti prigionieri sulla via verso Cosenza.
    Il 25 luglio Nicola Ricciotti, Domenico Moro, Anacarsi Nardi, Giovanni Venerucci, Giacomo Rocca, Francesco Berti, Domenico Lupatelli, Attilio ed Emilio Bandiera furono fucilati nel Vallone di Rovito. L’11 luglio erano stati condannati a morte i patrioti cosentini Pietro Villacci, Giuseppe Franzese, Nicola Corigliano, Sante Cesareo e Raffaele Camodeca.

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    Da sinistra: i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera

    Mazzini celebra i fratelli Bandiera

    Giuseppe Mazzini dedico all’episodio una pagina importante, scritta a caldo: «Molti fra voi vi diranno, lamentando ipocritamente il fato dei Bandiera e dei loro compagni alla bella morte, che il martirio è sterile, anzi dannoso, che la morte dei buoni senza frutto di vittoria immediata incuora i tristi e sconforta più sempre le moltitudini … Non date orecchio, o giovani, a quelle parole … Il martirio non è sterile mai».

    Già, proseguiva il rivoluzionario genovese: «Il martirio per una Idea è la più alta formula che l’Io umano possa raggiungere ad esprimere la propria missione; e quando un Giusto sorge di mezzo a’ suoi fratelli giacenti ed esclama: ecco, questo è il Vero, ed io, morendo, l’adoro, uno spirito di nuova vita si trasfonde per tutta quanta l’Umanità, perché ogni uomo legge sulla fronte del martire una linea de’ proprj doveri e quanta potenza Dio abbia dato per adempierli alla sua creatura. I sacrificati di Cosenza hanno insegnato a noi tutti che l’Uomo deve vivere e morire per le proprie credenze: hanno provato al mondo che gl’Italiani sanno morire … Io vi chiamo a combattere e vincere: vi chiamo a imparare il disprezzo della morte e a venerare chi coll’esempio ha voluto insegnarvelo, perché so che senza quello voi non potrete conquistar mai la vittoria».

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    Giuseppe Mazzini, l’apostolo del Risorgimento

    Eroi tragici

    I patrioti giustiziati a Cosenza sono diventati eroi tragici: uomini che si erano battuti contro forze soverchianti per una causa giusta fino alla fine.
    Senza chiedere nulla in cambio, avevano ingaggiato una lotta disperata per la patria e la libertà contro un potente nemico. La loro morte era una vergogna per l’umanità. I loro corpi non vennero adagiati su un letto funebre, ma su una carretta. Non vennero lavati ma rimasero sporchi di sangue. Né vennero offerti al compianto dei loro familiari ma nascosti dal nemico. Non ebbero solennità, ma furono sepolti in una fossa comune.

    Don Chisciotte e Sancio Panza

    Quella drammatica spedizione ha comunque reso immortali i fratelli Bandiera e i loro seguaci. Gli studiosi collocano la loro vita nella storia e la interpretano con la ragione.
    Gli uomini, invece, la collocano nel mito e la interpretano tramite l’amore.
    I martiri cosentini sono più vicini agli uomini di quanto si pensa. A volte siamo spinti a credere che nel mondo vi siano dei don Chisciotte o Sancio Panza. I primi sono prigionieri dei loro sogni e si sacrificano per affermarli, i secondi sono prigionieri della felicità materiale e vivono per soddisfarla. I primi sono mossi da una natura spirituale che li spinge all’azione e al sacrificio, i secondi da un empirismo animale che li spinge all’ozio e ai piaceri.

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    Don Chisciotte e Sancho Panza

    Rivoluzione vs (auto)conservazione?

    Forza attiva e rivoluzionaria quella dei primi, forza passiva e conservatrice quella dei secondi. In realtà nessun uomo si riconosce completamente in Don Chisciotte o in Sancio Panza. Tutti, invece, si aggrappano sia alla poesia sia alla materia, impulsi naturali che esistono indipendentemente dalla loro volontà.
    Gli uomini si commuovono pensando ai patrioti caduti a Cosenza nel 1844 perché avevano combattuto per quell’amore di giustizia che il più delle volte rimane nascosto perché non si ha il coraggio di mostrarlo nell’agire.
    Gli storici hanno scritto che la spedizione dei fratelli Bandiera e dei loro compagni era votata a una inevitabile sconfitta. Inoltre, hanno detto che erano degli esaltati, isolati dalle masse e senza alcuna possibilità di successo.

    Due testimoni d’eccezione

    Un importante commento a caldo proviene dall’intendente De Sangro, recatosi a San Giovanni in Fiore Il 29 agosto 1844 per distribuire le ricompense di Ferdinando II ai catturatori.
    De Sangro disse che fra gli attentati strani e audaci della storia umana nessuno per follia era comparabile a quello compiuto dagli esuli di Corfù. Già: quei fuggiaschi giunti per sollevare la popolazione contro il Re erano in preda al delirio e al disordine mentale.

    Il secondo commento è di Cesare Marini, difensore dei patrioti. Marini disse nella sua arringa al processo: «Si vuol rovesciare un governo costituito, in estranea contrada, e lo si tenta con 21 esuli mancanti di tutto! Si vuol combattere il forte esercito del nostro re, che sorpassa i sessanta mila uomini, e s’impiegano non più che 21 fucili! Si vuol creare un nuovo politico reggimento che assicurasse di tutta Italia le sorti, senz’altri mezzi pecuniari che poche migliaia di ducati, senz’altra forza che 21 uomini privi di notizie, di rapporti, di aderenze e di nome in contrade ad essi sconosciute!».

    Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie

    Quasi ironica la conclusione: «Signori, questo folle tentativo non diversifica punto dall’impresa ridicola di quel fanciullo che, con una ciotola attingendo acqua nel mare, intendeva ottenere il prosciugamento dell’Oceano, o dall’intrapresa di quel fanatico il quale, per via di alcune erbe abbruciate in sulla vetta dei monti del Peloponneso e di alcuni esorcismi, intendeva produrre la peste in Atene!».

    Non visionari ma eroi

    Marini era un avvocato e il suo compito era difendere gli imputati, anche invocando una specie di “semiinfermità”.
    Tuttavia, i fratelli Bandiera non erano dei visionari, non erano fuori dalla storia, non piegavano la realtà ai loro sogni. Soprattutto, non credevano che i mulini a vento fossero giganti o le mule dei frati dromedari.
    Un eroe, uomo diverso dagli altri per le sue qualità non comuni, diventa tale solo se rientra nei sentimenti e nella mentalità della sua epoca.
    I fratelli Bandiera e compagni erano espressione delle aspirazioni sociali, politiche e intellettuali del loro tempo. L’eroe realizza nella forma più nobile le virtù ideali di un’intera nazione. E concretizza con l’agire ciò che nella gente è solo un’idea, con le sue imprese memorabili, nutre e arricchisce il suo popolo.

    Il sacrificio e l’esempio

    Il dramma dei patrioti cosentini ha commosso l’intera Europa.
    La sincerità delle intenzioni si rivela nei fatti: le parole, quando non si traducono in azioni, sono sempre ipocrite. Molti patrioti predicavano bene e razzolavano male: facevano grandi discorsi, ma quando dovevano scendere in campo, trovavano mille scuse.
    I patrioti di Cosenza erano diversi: predicavano la necessità di combattere e impugnarono il fucile nonostante gli ostacoli insormontabili e la soverchiante nemica.
    Quei sentimenti patriottici che avevano spinto migliaia di uomini e donne a combattere per nobili ideali non ci sono più.

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    L’ara dei Fratelli Bandiera a Cosenza

    C’è chi preferisce i barbari

    L’Unità d’Italia si è realizzata ma vasti settori dell’opinione pubblica del Nord e del Sud maledicono l’unificazione nazionale. E c’è chi sostiene che si stava meglio quando il Paese era diviso in tanti Stati. Ricordo che alle scuole elementari la maestra ci portava ogni anno nel Vallone di Rovito per raccontarci la storia di quei giovani che avevano sacrificato le loro vite per la nostra libertà. Da molti anni, invece, amministratori di destra e di sinistra preferiscono innalzare statue e organizzare eventi per esaltare e glorificare la figura di Alarico che era giunto in città per saccheggiarla. Che tristezza.

    Cosa resta del Risorgimento?

    Il Risorgimento rimane una delle pagine più belle della storia di Cosenza.
    Nella Calabria Citeriore migliaia di cittadini finirono a processo e i più subirono condanne enormi. In un verbale di polizia si legge che tra i patrioti del 1844, coinvolti nell’attacco al palazzo dell’Intendenza del capoluogo, ce n’erano alcuni vestiti da ricchi galantuomini e altri da umili contadini.
    Giovani di condizione sociale, cultura e paesi diversi si trovarono uno accanto all’altro per combattere in nome della libertà. L’amore per la patria, vaga aspirazione sentimentale, si tradusse nell’azione politica e non si arrestò davanti all’esilio, la prigione e il patibolo.

  • Bisturi, cotone e chimica: il lifting del Duomo di Cosenza

    Bisturi, cotone e chimica: il lifting del Duomo di Cosenza

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    La cattedrale di Cosenza è una signora di 800 anni, un poco austera ma accogliente. La storia scorre tra le sue pietre rosa di Mendicino, coi suoi inevitabili scompigli.
    Un terremoto distrusse nel 1184 l’antica chiesa paleocristiana e la cattedrale fu ricostruita sui resti della precedente. Al riguardo, non tutte le fonti coincidono: secondo alcune ipotesi, la cattedrale sarebbe stata spostata per un certo periodo ai piedi del castello svevo. Tuttavia, non si hanno notizie certe. Poi arrivarono i restauri e alcuni rifacimenti irrispettosi dello stile originario, romanico-cistercense con innesti gotici. Di tutto ciò la Signora porta i segni con orgoglio. Senza cicatrici nessuna vita può dirsi davvero tale. Con un bagaglio di memorie, identità e qualche mistero, la cattedrale di Cosenza quest’anno festeggia l’ottavo centenario e continua a vivere nelle storie che la abitano.

    Cotone e bisturi per recuperare gli affreschi

    Queste storie sono il prodotto di mani laboriose. Quelle di Isabella Valente cercano di riportare alla luce alcuni affreschi che un tempo abbellivano le pareti del Duomo e che poi furono ricoperti. Un lavoro delicato, con cui la studentessa si laureerà in Conservazione e restauro dei beni culturali all’Università della Calabria.
    Isabella, 27 anni, di Crotone, usa un bisturi per rimuovere l’intonaco, dopo averlo ammorbidito con un batuffolo di cotone imbevuto d’acqua. Già s’intravedono due figure di santi ma per identificarli servono tempo e pazienza. «È l’aspetto archeologico a rendere il lavoro interessante, e la pulitura permette di riconoscere le figure». Questo lavoro le è stato assegnato perché è precisa e minuta. Il cantiere, alla fine della navata sinistra, è piccolino.
    Isabella (una dei primi laureati del corso di laurea, istituito sei anni fa e coordinato dalla professoressa Donatella Barca) alterna giornate di lavoro in cantiere a momenti di studio all’università, quando c’è da attendere i risultati di laboratorio.

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    Angelo dell’Annunciazione, altro affresco recuperato grazie ai restauratori

    Lifiting a regola d’arte

    «Prima c’è la fase diagnostica: attraverso raggi X e infrarossi si cerca di capire com’è composto il dipinto. Poi si applicano i reagenti chimici. Innanzitutto per la pulitura, dove la pittura presenta strati che non consentono la lettura. E poi per il consolidamento dove la materia pittorica è indebolita dal passare del tempo», spiega Raffaella Greca, docente di Restauro, una dei relatori della tesi di laurea.
    «I reagenti chimici cambiano a seconda della composizione del colore, per bilanciarne il Ph. Si lavora affinché i materiali siano compatibili con quelli storici e per la reversibilità dei trattamenti». Le restauratrici spesso lavorano accompagnate dal suono dell’organo Mascioni. Anche l’organo, uno dei più grandi al Sud, è un’attrazione: gli studenti del conservatorio vanno spesso ad esercitarsi in cattedrale.

    Stile su stile

    Il ciclo pittorico risale probabilmente al 1300, ma la datazione è ancora incerta.
    Stesso discorso per gli altri due affreschi visibili su alcuni pilastri della navata destra: un Cristo e l’Angelo dell’Annunciazione.
    Furono ricoperti di intonaci e stucchi barocchi durante la più imponente trasformazione della cattedrale, avvenuta nel ’700 per volontà dell’arcivescovo Capece Galeota. «Quando si voleva rinnovare la diocesi, si modificava la cattedrale come segno di cambiamento», spiega suor Valentina.

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    Un affresco di Gesù recuperato grazie al restauro

    Di Milano, 40 anni, è a Cosenza quasi da due, dopo essere stata formata come educatrice. Lavora coi bambini e i ragazzi dei quartieri Santa Lucia e Spirito Santo, insieme alle associazioni S. Lucia e San Pancrazio, per contrastare l’abbandono scolastico.
    Con alcuni di loro porta avanti il progetto “Pietre vive”. Ai ragazzi insegna a fare le guide, dopo una formazione storico-artistica e degli aspetti liturgici legati all’architettura. «Per esempio, l’arco della navata centrale del duomo non è perfettamente centrato perché simboleggia il Cristo in croce con la testa reclinata da un lato. Un simbolismo proprio dell’architettura cistercense».

    Psicoterapia di gruppo in cattedrale

    Nella cattedrale di Cosenza si può imparare anche ad ascoltare sé stessi.
    Da novembre 2021 lo psicologo Domenico Mastroscusa incontra i genitori dei ragazzi impegnati col catechismo per un percorso (gratuito) di psicoterapia di gruppo.
    Una volta al mese si ritrovano nella sala capitolare, una sala riunioni realizzata nel 1950. «Molti genitori lamentano problemi nel rapporto coi figli, così è nata l’idea di fare questi incontri».
    Ma non è una passeggiata. «Siamo partiti con 5 papà e ora sono rimaste solo le mamme. C’è ancora un pregiudizio sull’educazione dei figli che si considera prerogativa femminile», dice lo psicologo.

    Lo psicologo Domenico Mastroscusa durante una seduta coi genitori

    Una mamma separata, che vuole restare anonima, ne sa qualcosa. «Con mio figlio di 13 anni siamo riusciti a creare un rapporto col padre solo grazie allo sport».
    Caterina Paletta, invece, grazie a questo percorso ha messo in discussione l’educazione che aveva ricevuto. «Ho avuto una madre rigida e mi comportavo allo stesso modo con mia figlia. Ora lei mi racconta il suo mondo».

    Il lavoro nei quartieri

    Don Luca Perri con i ragazzi del catechismo

    La cattedrale di Cosenza è anche un punto d’osservazione privilegiato del centro storico e dei suoi problemi sociali e strutturali.
    «Organizziamo la recita del rosario nei quartieri, ogni primo venerdì del mese portiamo la comunione a casa dei malati, poi c’è la benedizione delle case: questo è anche un modo per monitorare la situazione. Quando è critica, come nel quartiere di Santa Lucia, tentiamo di dialogare coi servizi sociali», racconta don Luca Perri, rettore della cattedrale dal 2016, dopo essere stato il vice del suo predecessore, don Giacomo Tuoto (a lui si deve una guida approfondita sulla cattedrale di Cosenza edita da Pellegrini e ristampata quest’anno).

    Aria d’Europa: da Isabella d’Aragona allo Stupor Mundi

    Don Luca è anche socio fondatore dell’associazione 8centoCosenza, che cura le celebrazioni per l’ottavo centenario della cattedrale.
    Lo storico dell’arte Tomaso Montanari ha tenuto una lectio magistralis sul Duomo di Cosenza, elogiandone il meticciato artistico-culturale, a cominciare dal monumento funebre a Isabella d’Aragona, del 1275 circa, di ignoto artista francese.

    Il mausoleo funebre di Isabella d’Aragona

    La spagnola regina di Francia era incinta di sei mesi quando cadde da cavallo attraversando il fiume Savuto, di rientro dall’ottava crociata. Secondo alcune ipotesi, le parti deteriorabili del suo corpo, compreso il feto, furono seppellite al Castello Svevo, mentre lo scheletro fu trasferito in Francia.
    Nel duomo rimane il mausoleo che per lo storico dell’arte Cesare Brandi vale da solo una visita a Cosenza. Il monumento fu nascosto nel ‘500, poi riposizionato dove doveva trovarsi in origine, nel transetto, sul lato sinistro. La storia della cattedrale s’intreccia con la storia della città e quella europea anche in altre occasioni. Quando l’imperatore Federico II venne a Cosenza per la consacrazione del duomo, il 30 gennaio 1222, probabilmente per la prima volta la città dei bruzi adottò il gonfalone coi sette colli.

    Piccole storie importanti

    Ma le piccole storie tengono in vita la cattedrale. Maria Anna Marrello ne custodisce le chiavi dal 1997, apre e chiude la chiesa tutti i giorni da allora. «All’inizio non volevo questa responsabilità, anche la famiglia era contraria». Poi la fede ha preso il sopravvento.
    La signora Annamaria, come la chiamano tutti, ha 73 anni ed è l’assistente del parroco. Dal suo mazzo di chiavi estrae quella che apre la grande porta di legno intagliato della sagrestia. Poi apre i bellissimi armadi all’interno (tutti opera di artigiani roglianesi del 1700, come il coro ligneo nell’abside), per mostrare le tende che ha cucito per il tabernacolo e le tovaglie con cui prepara l’altare prima delle funzioni religiose.

    Maria Anna Marrello e Giovanna Brescia, le “tutrici” della cattedrale

    La signora Giovanna Brescia, 80 anni, la aiuta di tanto in tanto con le pulizie, lavando a mano la biancheria più delicata.
    Ad esempio, i due corporali in lino, le tovaglie che si mettono sotto il calice, ricamati a punto a giorno, con le spighe e l’uva, da donna Rachele Andreotti Loria in occasione della visita del cardinale Parolin. La signora è una professoressa in pensione del liceo classico Telesio, discende da antica famiglia nobiliare della città ed ha ereditato il palazzo Giannuzzi Savelli.

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    L’ingresso della cappella dei nobili

    Il mistero della cappella dei nobili

    Proprio il barone Domenico Giannuzzi Savelli fece restaurare, alla fine del ’700, la cappella dei nobili.
    Quest’antica chiesetta del ’400 sorge nel giardino, sull’antico cimitero della cattedrale, ricoperto dopo che l’editto di Saint-Cloud nel 1804 vietò le sepolture entro le mura cittadine. Vi si accede dall’interno, dal corridoio della sagrestia del duomo, e versa in stato d’abbandono.

    Fossa funebre della Cappella dei nobili

    Sul pavimento della chiesa si vedono le fosse tombali in cui venivano sistemati i cadaveri in posizione seduta per far confluire gli umori della decomposizione in un canale di scolo sottostante. I corpi subivano così una mummificazione naturale. La congregazione dei nobili della città, cui era stata ceduta la chiesa, si occupava infatti di dare sepoltura ai condannati a morte.
    Chissà se i 2 milioni di euro stanziati dal ministero per la cattedrale si potranno usare, tra le altre cose, anche per restaurare la cappella dei nobili.

    Simona Negrelli

  • Dalla Campania con furore: i turisti mannari tornano nell’alto Tirreno

    Dalla Campania con furore: i turisti mannari tornano nell’alto Tirreno

    Sono arrivati i turisti mannari: i consumatori di fritture di gamberi e calamari, gli occupatori di spiagge e qualsiasi cosa sia fruibile per trascorrere una giornata estiva. Conoscono tutte le aree picnic lungo i fiumi, tutte le spiagge libere, le scogliere profumate di iodio. E si alzano la mattina presto per portarvi sedie a sdraio, ombrelloni, perfino barbecue. Tutto è privatizzato secondo questa mentalità che tende a togliere spazi pubblici – o comunque non propri – agli altri. Da decenni va avanti questa occupazione. Da decenni una popolazione intera si riversa dai propri territori originari a quelli vicini. Salta a pie’ pari aree di confine della Campania, come la costiera amalfitana e quella di Agropoli.

    Il motivo? Lì i prezzi sono alti da sempre. Poi il mare non ha la profondità e la trasparenza che ha nelle coste calabre. E qui si sentono padroni di ogni cosa. Perché hanno comprato casa trent’anni fa, perché i loro genitori venivano qui fin dagli anni ’70, perché qui pagano le tasse dell’immondizia e dell’acqua. Se non ci fossero loro moriremmo di fame, ripetono quando discutono con qualche commerciante o residente, e tutte le amministrazioni abbozzano. Ma qualcosa si sta rompendo. Il sindaco di Scalea ha cominciato a mettere dei paletti con un’ordinanza.

    Scalea e la guerra agli ombrelloni

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    Polizia municipale all’Ajnella

    La storica spiaggia cittadina dell’Ajnella, con una scogliera unica e l’acqua sempre pulita, era diventata inaccessibile a molti residenti e turisti. Sempre occupata da ombrelloni che vi rimanevano per mesi interi. Nessuno li spostava per non incorrere in risse o aggressioni, come avvenuto negli anni scorsi. Chi si alzava prima la mattina aveva privatizzato la spiaggia piantando file di ombrelloni per gli amici, i parenti ed anche per chi pagava dieci euro al giorno per farsi piazzare il proprio ombrellone.

    Le proteste e le denunce del passato si erano rivelate inutili. Ignorate, in nome del turismo e della gente che porta danaro qui e «non fa morire di fame i negozianti». Quest’anno la svolta con l’ordinanza del sindaco Perrotta. Chi vuole bagnarsi all’Ajnella potrà farlo solo con un telo da mare. Niente ombrelloni o sedie. E, soprattutto, niente barbecue.

    L’Arcomagno sotto attacco

    Il grido d’allarme arriva da Italia Nostra che con un comunicato stampa stigmatizza il comportamento dei turisti-mannari. In questo caso quelli che, come accadeva all’Ajnella, si piazzano armi e bagagli nella piccola spiaggetta suggestiva ed unica di San Nicola Arcella.

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    Turisti “mannari” sulla spiaggia dell’Arcomagno

    L’associazione chiede con una lettera al sindaco Eugenio Madeo, a che punto sia «l’affidamento del servizio di vigilanza, bigliettazione e pulizia inerente le visite controllate all’Arcomagno» per tutelarlo da comportamenti inadeguati. Italia Nostra auspica la scomparsa di «bivacchi, attendamenti notturni e diurni, ombrelloni», da sostituire con «visite guidate per piccoli gruppi, controlli, nel rispetto della fragilità ambientale del luogo».

    Madeo e la sua Giunta hanno già deliberato il 24 maggio scorso di affidare il «servizio di vigilanza, bigliettazione e pulizia inerenti le visite controllate all’Arcomagno e vigilanza serale e notturna». L’amministrazione ha approvato la proposta di una ditta di Belvedere e ora sono trascorsi i termini per l’acquisizione di una eventuale altra proposta migliorativa. A questo punto, chiede Italia Nostra, occorre di sbrigarsi, così da garantire «il modo migliore per valorizzare il patrimonio ambientale del nostro territorio, il modo migliore e moderno per fare turismo». Nonostante la lettera degli ambientalisti, l’occupazione dei turisti mannari continua indisturbata anche qui con pedalò e barbecue.

    Non c’è pace neanche per i fiumi

    La foce del Lao era diventata un’area picnic: c’era, addirittura, chi metteva i tavoli nell’acqua all’ora di pranzo e poi buttava i rifiuti nel fiume che li portava via. E così via, lungo l’Abatemarco e l’Argentino. Anche le aree picnic sono ad uso e consumo di chi si alza prima. Auto a pochi metri dal fiume, comportamenti da spiaggia, musica ad alto volume, giochi con pallone, divertimenti vari, compreso il lancio di pietre nel fiume.

    Calabria vs Campania

    Nei cartelloni estivi lungo l’Alto Tirreno cosentino non c’è traccia di cantanti, comici o attori calabresi. Qui primeggiano i napoletani, da Nino D’Angelo a Biagio Izzo o Gigi Finizio. In alternativa si può scegliere un Riccardo Cocciante alla modica cifra di 82 euro. In tutta la costa primeggia la neomelodica napoletana. La si sente ad alto volume nei lidi balneari o la sera negli improvvisati karaoke di fronte alle pizzerie prese d’assalto dal primo pomeriggio.

    Bisogna andare verso la Calabria del sud, a Palizzi e Bova per sentire la tarantella calabrese durante il festival Palearizza, che in calabro-greco significa “antica radice”. È un festival itinerante della musica e delle tradizioni popolari della Calabria greca, completamente gratuito. Si svolge di solito tra la fine di luglio ed il mese di agosto, nei borghi dell’Area Grecanica. Un’area che ancora è calabrese e dove si balla la tarantella tenendo i piedi per terra e le mani a coltello che circondano la donna.

    Una tarantella in costume grecanico

    È vietato il saltarello tipico della tarantella napoletana o pugliese. Lo testimonia un episodio a cui ho assistito a Riace Marina: durante un concerto dei Kumelca, il cantante scese dal palco per dire a due giovani ballerini di origine campana di smettere di fare il saltarello e seguire una coppia calabrese che ballava secondo tradizione. «Imparate la nostra tarantella, quando tornate a casa fate il saltarello», disse loro, fra gli applausi di tutti i presenti.

    Andando un po’ più a nord sulla linea jonica si distingue Roccella Jonica. Qui ogni anno un festival jazz attira turisti di qualità da ogni parte d’Italia. Si respira aria diversa, tranquilla, non invadente. Qualche anno fa l’intero festival fu dedicato a Frank Zappa: questo fa capire che tipo di turista si vuole e che tipo di cultura si pratica.

    Il Tirreno cosentino derubato della propria identità

    Una volta, pochissimi anni fa, non era così. Il Tirreno cosentino era solcato da pescatori, non da lussuosi yacht ormeggiati nei porti di Cetraro o Maratea. Erano tantissime le marinerie di Cetraro, Amantea, Diamante, Scalea, Cittadella del Capo. Ed erano loro, i pescatori, i padroni del mare. Quasi 70-80 in ogni paese. Uscivano in mare la notte e tornavano la mattina con carichi di pesce che vendevano direttamente ai turisti e ai residenti in attesa sulla spiaggia.

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    Una bella immagine della spiaggia dell’Arcomagno

    La strada del Tirreno cosentino era ancora quella costruita da Mussolini nel 1927 e solo nel 1970 fu costruita la variante SS 18. Ora è diventata intasatissima, teatro quotidiano di incidenti stradali con morti e feriti. Si viaggiava per forza di cose lentamente e gli incidenti erano rari. La mattina, il risveglio nei paesi della cosiddetta Riviera dei cedri profumava davvero di cedro. Oppure dello iodio profuso dalle scogliere ricche di ricci di mare e “capelli di mare” ormai scomparsi. Ora si sente il profumo dell’olio delle barche a motore, degli scarichi fognari clandestini, dei depuratori malfunzionanti.

    L’arrivo dei turisti mannari

    Gli unici turisti presenti erano quelli della “Cassa di Risparmio” di Cosenza, che mandava nella costa tirrenica i propri dipendenti in caseggiati appositamente costruiti per loro. Ai cosentini che avevano costruito ville a Diamante, Sangineto, Cittadella, si affiancarono turisti romani e così fu fino agli inizi degli anni 80. Poi arrivarono loro, i turisti mannari. Certo, non tutti sono turisti mannari. Esistono persone che hanno acquistato casa e si sentono calabresi, ma la maggioranza non rispetta il residente. Emblematica fu l’uccisione di un giovane cosentino, accoltellato a Diamante da un napoletano per futili motivi.

    Mafia e politica, Dc in primis, si allearono e cominciò la grande distruzione. Si cominciò a costruire ovunque. Senza legge. Senza ritegno. Derubarono le spiagge della sabbia per farne cemento. Colonizzarono i fiumi per realizzare impianti per il prelievo della sabbia. Le ruspe cominciarono ad abbattere ogni cosa per far posto a enormi villaggi turistici. Ed ecco che a migliaia acquistarono mini appartamenti di 30-40 mq. Tutti ammassati come formiche in condomini dai nomi bellissimi e ingannevoli. Niente venne risparmiato. E ora correre ai ripari invocando un turismo di qualità o un turismo sostenibile è pura fantasia. Questo è il Tirreno cosentino e questo sarà per i prossimi anni. Facciamocene una ragione.

  • Donna Pupetta e il triathlon dei cosentini

    Donna Pupetta e il triathlon dei cosentini

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    Non si può parlare solo delle strade extraurbane, e si deve parlare anche delle persone che le percorrono. Cosenza offre un magnifico teatro umano di strada, ad esempio. E non mi riferisco soltanto al centro storico. Anzi, tutt’altro. Lo dico da anni, Cosenza e la cosentinità mi ricordano sempre un set di Scorsese.

    La locandina di Quei bravi ragazzi (Goodfellas)

    L’homo consentinus, quello medio, non ha nulla da invidiare al carisma – per usare un eufemismo – di certi personaggi da Goodfellas o da Casinò. Paul Sorvino andrebbe benissimo come politicante bruzio. Joe Pesci me lo vedo come penalista agguerrito o come medio imprenditore locale… tutta roba fatta di sguardi di tre quarti, frase dette a mezza bocca, allusioni che è bene capire al volo.

    I cosentini e la supponenza

    Saranno i negozianti annoiati, che fumano mille sigarette davanti al proprio esercizio e poi lanciano la cicca con maestria, sicuri di sé, attenti a farla cadere al di là del marciapiede. Sarà il libero professionista con lo smanicato, l’uomo attempato con aria da usuraio che – a detta sua – te ne potrebbe raccontare mille ma non lo farà mai. Sarà l’anziano che passeggia su via Roma, di ritorno dalla spesa, e sputa gusci di lupini con aria disinvolta… O sarà la comica – involontariamente comica – prosopopea cosentina: l’homo consentinus conosce ogni cosa meglio, prima e più di te.

    Uno scontro tra titani, se due cosentini dovessero sfidarsi su una primogenitura del genere: non vale la pena, se non per divertimento. Ecco, potrebbe nascere semmai una nuova disciplina olimpionica: una sorta di triathlon retorico bruzio, oppure non so, di “supponenza bruzia”.

    Provate a dire ad un cosentino d’aver appreso la notizia della tale rapina in banca… bene, comincerà a dirvi che lui l’ha saputo prima. Sfidatelo, ditegli che voi passavate proprio per quella strada, in quel momento. Vi dirà che lui era dentro la banca. Ditegli che voi eravate appena usciti e avete visto in faccia i rapinatori. Vi dirà, stremato ma non finito, che non li avete visti tutti, perché uno dei rapinatori era proprio lui. Gioco-partita-incontro.

    Mansplaining nel ‘500: Aulo Giano Parrasio

    Non ci crederete ma questa sorta di mansplaining bruzio o bruziosplaining ce la portiamo dietro da secoli. Ne ho scovato una traccia nel Cinquecento: avete presente Aulo Giano Parrasio, “quello” al quale, per intenderci, è intitolata la piazza alle spalle del Duomo? Bene: al secolo Giovanni Paolo Parisio, Parrasio (1470-1522), era un umanista eccelso e insegnò a Cosenza, Napoli, Vicenza, Padova, Venezia, Roma e Milano, e sposò la figlia di un altro grande umanista, il greco Demetrio Calcondila (1423-1511). Questa Teodora non era né bella né ricca ma era “figlia del padre” (è Parrasio stesso a esprimersi così, cazzu cazzu iu iu).

    Aulo Giano Parrasio

    Ma non è finita qui: le fonti narrano che Parrasio era particolarmente pratico di greco e, soprattutto, di latino. Tanto pratico da scrivere a Basilio Calcondila, fratello di sua moglie, una frasetta che è un capolavoro di protervia cosentina: «In graecis ad patrem refers, in latinis ad me». Me lo vedo. E me lo vedo dirglielo in dialetto («fin a qquannu parram’i greco…») magari con una Marlboro tenuta in punta di pollice e indice.

    Demetrio Calcondila

    Donna Pupetta e la Cosenza borghese

    Ma, in realtà, il personaggio più tipico della Cosenza borghese è lei: Donna Pupetta. Saprete senz’altro chi fosse la Donna Brettia (forse più per le polemiche recenti, in merito alla statua che tenta, molto maldestramente, di darne una rappresentazione) mentre non potete sapere chi è Donna Pupetta, in quanto è inventata di sana pianta (quindi ogni riferimento ecc. ecc…). Eppure ne avrete conosciuta più di una.

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    La statua di Donna Brettia donata a Palazzo dei Bruzi e ancora in attesa di collocazione

    Donna Pupetta non è una persona, è un modus vivendi, è una genìa, un concetto. Al tempo stesso non esiste e ne esistono tante. Ognuno di voi potrà identificarla con qualcuno. Riconoscerete in lei una vostra suocera, cognata, zia, cugina, nonna, collega o vicina di casa (mai la propria mamma: nessuno di noi avrebbe la franchezza di doverlo eventualmente ammettere). Donna Pupetta può risultare detestabile, oppure straordinariamente simpatica. Ma chi è? Vediamola da vicino.

    Anatomia di un personaggio

    Si tratta in genere della moglie-tipo dell’attempato libero professionista cosentino (o burocrate, o dirigente). Di solito è nata tra la seconda metà degli anni ’30 e la prima metà dei ’40. Oggi la si riconosce per le misure abbondanti, il caftano estivo, il doppio mento, la sigaretta sottile sempre accesa, vistose collane a pallettoni in simil-ambra o simil-oro, occhiali con grandi lenti scure, stile Sandra Mondaini, acquistati tra la fine dei ’70 e i primissimi ’80, e spesso le sopracciglia inesistenti e soltanto disegnate.

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    Sandra Mondaini

    Altra caratteristica immancabile è la voce rauca, molto rauca, intervallata troppo spesso da roboanti colpi di tosse molto eloquenti in fatto di quantità di nicotina assorbita negli anni.

    Donna Pupetta e la scalata alla Cosenza bene

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    Cosenza, via Alimena negli anni ’50

    In realtà, Donna Pupetta ha origini modeste, a volte modestissime. Ma a cavallo tra gli anni ’50 e i primi ’60 era una bella ragazza. Ovviamente era una moda, all’epoca, farsi chiamare “Pupetta”, o “Pupa”: a qualcuna, il nomignolo è rimasto appiccicato a vita (né sono rare le cene in cui le Pupette sono anche più di due, ma purtroppo è una razza in via d’estinzione. Anzi, no: a pensarci bene, vedo che nuove future Pupette si fanno strada, Pupetta non morirà mai). Il vero nome che le si può attribuire è certamente un qualsiasi nome molto popolare, magari composto.

    Frequentava le cerchie ‘bene’, con grandi sacrifici della sua famiglia, in ossequio al detto «mischiati con i migliori e fanne le spese». Non parla dialetto (se non di nascosto, con la “donna” – ci tiene a chiamarla così – che le fa le pulizie a casa) ma parla un italiano con fortissimo accento dialettale. La povera madre la spingeva a sedurre qualche rampollo altolocato. E, non si sa come o forse sì, le Pupette ci sono sempre riuscite. Mediamente hanno sposato uomini di cultura molto buona, se non addirittura brillanti. Il marito – dicevo – può essere un medico, un avvocato, di solito figlio d’arte, se non nipote d’arte. Un grande, incomprensibile amore.

    Natale in pelliccia

    Pupetta, ovviamente, non è mai stata vista benissimo dal suocero, figuriamoci dall’altezzosa suocera. Ma ha raggiunto l’obiettivo. La Cosenza bene è sua. Sua la messa di Natale in pelliccia, al Duomo. E può chiamare per nome i gioiellieri e i gestori dei negozi storici di abbigliamento. Di solito ha dato alla luce 3 figli, mai tutti dello stesso sesso, entro la fine degli anni ‘60. Almeno uno sarà obbligatoriamente un primario ospedaliero, per diritto antico, una sorta di investitura di sangue. Una figlia si sarà certamente ficcata in qualche Ministero, a Roma. Oggi è solitamente già divorziata e/o già riaccompagnata.

    Vita mondana e venerabili

    Ma torniamo a Pupetta. La sua cultura è sempre piuttosto bassa o perlopiù assorbita per osmosi. La sua indaffarata vita mondana le ha impedito, tra gli anni ’70 e gli ’80, anche di ascoltare un telegiornale. Il suo svago preferito: il tavolo da gioco, baccarà o burraco. Il marito la tollera. Tolleranza è la parola giusta: resta sprofondato nella sua poltrona a leggere l’ultima pubblicazione del Rotary, di cui si onora di far parte, o a correggere le ultime “tavole” del fraterno amico assurto al “settimo scalino” perché, come “un mezzo toscano e una croce di cavaliere”, anche un temporaneo venerabilato non si nega a nessuno. Il tutto con buona pace della scetticissima moglie che non perde occasione di apostrofare gli amici del marito quali persone noiosissime e dai discorsi difficili.

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    Piazza Fera in una cartolina d’epoca

    Il mondo di Donna Pupetta: Cosenza, Camigliatello, Sangineto

    Donna Pupetta a Cosenza non è mai salita su un autobus. O è condizionata ai passaggi di marito, figli, nuore, cognate e amiche o, al limite, guida un’auto sproporzionata alle sue capacità di condurla. Ma non è poi un problema, perché abita in pieno centro. Via Alimena, Piazza Fera o giù di lì. E che interesse può avere ad andare lontano? Cosa c’è mai fuori Cosenza?

    Le “Costellazioni” di Sangineto in un vecchio depliant

    Per lei, solo due posti: Camigliatello (o Lorica) e Sangineto. Solo che il villone sanginetese è perlopiù assediato dai nipotini romani, dalle nuore usurpatrici del territorio domestico, dal caldo e dai rumori della ferrovia (nota bene: nel qual caso i nipotini romani fossero figli di un suo figlio e non di una sua figlia, allora vuolsi che la nuora sia necessariamente bionda naturale. E anche ciascun pargolo. Misteri della genetica, che ai piccoli Dudo, Taio e Attilio porge la nobile chioma alla faccia dei geni recessivi).

    Vacanza o trasferimento?

    Pupetta nemmeno nuota, sta in piedi sul bagnasciuga con i polsi appena poggiati ai fianchi e un brutto cappello di paglia a falde larghe calato sul davanti in malo modo. Con il caldo, poi, la pressione bassa non le fa gustare le sue sigarette, perciò finisce che al mare va sempre a malincuore, certamente nostalgica delle cene a villa Mancini e dei manicaretti preparati dalla cuoca di questi, per fare un esempio. Preferisce la Sila, senz’altro. Dove potrà beatamente condurre la stessa vita cosentina. Più o meno con le stesse persone. Non una vacanza: un trasferimento. Giusto un materasso diverso. Se potesse, si porterebbe dietro pure quello.

  • Federico, il Duomo e i carnefici di Cristo

    Federico, il Duomo e i carnefici di Cristo

    Le manifestazioni per gli ottocento anni della ricostruzione della cattedrale di Cosenza hanno offerto diverse occasioni per ripercorrere la storia della città e della sua vasta diocesi.
    Da qualche giorno è stata inaugurata una mostra presso le Sale espositive della Provincia di Cosenza, in corso Telesio: 1222-2022 Tam Antiqua, quam Nova. La Cattedrale si racconta.

    La Cattedrale perduta

    L’ingresso è gratuito e l’esposizione resterà aperta fino al 30 settembre. Nella sezione La cattedrale prima della Cattedrale sono esposti reperti emersi durante le campagne di scavo. E ci sono immagini relative alla Cattedrale perduta, cioè il rifacimento di epoca barocca rimosso con l’importante restauro di fine Ottocento, che ha ripristinato l’originario edificio romanico.
    Le cattedrali nel corso dei secoli rispecchiano gli orientamenti artistici dominanti e solo di recente si è affermato il principio di non snaturare gli edifici, di non alterarne le linee.

    Il monumento nascosto

    Torniamo al Duomo: sotto gli stucchi barocchi era occultato anche il monumento funebre alla regina Isabella d’Aragona, che oggi si mostra in tutta la sua eleganza.
    Una sala video consente di immaginare come fosse l’edifico barocco. Un percorso efficace, coinvolgente.
    Forse qualche pannello storico avrebbe agevolato l’approccio: sarebbe bastato un semplice elenco dei vescovi attestati dalla tradizione per evidenziare l’antichità delle vicende.

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    Il monumento funebre di Isabella d’Aragona

    La leggenda nera: i bruzi carnefici di Gesù

    La storia religiosa si intreccia con l’antropologia, con l’arte e la vita quotidiana. Un insieme di dati, devozioni, leggende che si possono essere avvicinate con rispetto o rifiutate in blocco, come un peso fastidioso di un passato ormai sepolto.
    Tra le leggende, quella che vuole i carnefici di Gesù sul Golgota reclutati tra gli antichi bruzi è antica e di complessa lettura.
    Il grande storico Augusto Placanica l’ha analizzata in profondità, a proposito dell’immagine della Calabria, degli stereotipi sui calabresi e sulla loro indole. È una leggenda che inizia a circolare nei primi secoli dell’era cristiana, poi rinvigorita durante la dominazione spagnola, che ha contribuito a creare un alone negativo sulla Calabria in epoca moderna.

    Arriva l’imperatore

    Difficile dire cosa ne pensasse il clero cosentino durante il Medioevo, data la scarsa documentazione. Gli ecclesiastici di allora erano diversi, per cultura e stile di vita. Solo alcuni compivano un corso di studi regolari e approfonditi.
    L’imperatore Federico II fece il suo ingresso solenne a Cosenza, il 30 gennaio 1222, accompagnato dai suoi cavalieri e dall’abituale seguito di dame, concubine, animali esotici, nani e ballerine, sapienti ebrei e arabi. La città, ancora raccolta sulle alture tra i due fiumi, lo accolse con entusiasmo. Proprio per l’occasione, i cosentini ricostruirono la cattedrale, distrutta dal terremoto del 1184, e la riconsacrarono alla presenza dell’imperatore.

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    Federico II di Svevia

    Il vescovo che ricostruì il Duomo

    Luca Campano, l’arcivescovo artefice della riedificazione, non poteva essere più soddisfatto. D’altronde, seguire per anni quel cantiere era faticoso: occorreva sorvegliare i conti e dare indicazioni precise alle maestranze affinché non travisassero i simboli e le proporzioni delle parti.
    Completata l’opera, già pregustava di poter tornare ai suoi amati studi. In particolare, alle opere del suo maestro, Gioacchino da Fiore, di cui era stato il fedele scrivano fino alla morte.
    Cercò forse di nascondere il suo turbamento quando, durante la messa, l’imperatore si fece avanti con il suo dono per la nuova cattedrale? Una preziosa croce reliquiario, raffinata, con diverse pietre preziose incastonate e smaltata a colori vivaci. Una croce. Perché non una coppa, una pisside, un prezioso bastone pastorale, una mitra riccamente decorata?

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    Luca Campano, il vescovo che ricostruì il Duomo di Cosenza

    Una croce in dono

    Perché proprio una croce, qui, nella terra dei bruzi, carnefici di Gesù?
    Il suo maestro Gioacchino amava i simboli, ne aveva immaginati e disegnati tanti, affidati poi ai miniatori più abili per i preziosi manoscritti delle sue visioni. Eppure anche lui aveva evitato di usare come simbolo la croce.
    A Luca Campano quella preziosa croce reliquiario ricordava certe visioni apocalittiche del suo maestro, che tanta inquietudine suscitavano nei lettori e nelle gerarchie ecclesiastiche? Dodici secoli erano trascorsi dai fatti del Golgota e i fedeli della sua grande diocesi non gli sembravano migliori o peggiori degli altri cristiani dei suoi tempi.
    Ignoranti, rissosi, ubriaconi, violenti e grossolani nel linguaggio e nei pensieri. Ma allo stesso modo dei Lombardi, dei Franchi e dei Germani. Allora, perché ricordargli quella colpa così lontana nel tempo?

    Ma Federico sapeva?

    La croce reliquiario venne riposta nel tesoro della Cattedrale, dove è tuttora custodita.
    Sono previste altre manifestazioni per gli 800 anni della ricostruzione che portò a Cosenza l’imperatore Federico II e il suo dono. L’imperatore era un uomo colto, cosa rara per un sovrano medievale. La sua corte contava numerosi intellettuali, di solida cultura. Federico aveva avuto notizia della leggenda? E Luca Campano aveva mostrato turbamento per quel richiamo implicito al supplizio?

    La stauroteca donata da Federico II

    Vescovi bruzi alle crociate

    O forse non ebbe alcun turbamento perché, come tutti i vescovi medievali, aveva altre gatte da pelare. Già: i presuli dell’epoca gestivano delle mansioni oggi inimmaginabili.
    Il grande scrittore cosentino Nicola Misasi racconta in un reportage sulla sua città che «i suoi presuli od arcivescovi, ebbero titolo di conte e giurisdizione sulle terre di San Lucido, e di Rende. Con Pietro, Presule e perciò conte di Rende e di San Lucido, mandò nella prima crociata mille soldati in Terrasanta, tutti cittadini di Cosenza che combatterono assai valorosamente».
    Poi aggiunge: «il Tasso ne fa menzione nel canto VII della Gerusalemme Liberata; … questo loco non è il terzo giorno/ Tolse ai pagani di Cosenza il Conte».

    Il supplizio di Gesù, fotogramma da “The Passion” di Mel Gibson (2004)

    Vescovi guerrieri

    Evidentemente, alcuni arcivescovi di Cosenza dovevano avere un certo piglio guerriero. Al riguardo, Misasi cita un altro episodio, avvenuto durante le lotte tra gli Svevi e la Chiesa. Nel 1260, durante la battaglia di Benevento, Manfredi, figlio naturale ed erede politico di Federico II, perse la vita e il regno. E l’arcivescovo Pignatelli, «pastor di Cosenza», gli negò la sepoltura cristiana, dato che era un nemico della Chiesa.
    L’episodio è citato da Dante nel Canto III del Purgatorio: «Se il pastor di Cosenza che alla caccia/ Di me fu messo per Clemente allora/ avesse in Dio ben letta questa faccia».
    Altri tempi. Oggi non capita di vedere arcivescovi armati di tutto punto che dirigono operazioni militari o fanno disseppellire e abbandonare ai cani i resti di un principe caduto in battaglia.
    Siamo anche consapevoli della differenza tra leggenda e storia. Tuttavia, le leggende che pesano ancora sull’immagine di questa terra periferica sembrano non finire. Infatti, ci sono anche quelle sui calabresi ribelli per natura e incapaci di vivere secondo le regole. Briganti per vocazione.

    Mario De Filippis

  • Giufà, Grotowski e quel garage eretico: la buona compagnia di Antonante

    Giufà, Grotowski e quel garage eretico: la buona compagnia di Antonante

    Ci sono ricordi che contano molto, perché diventano fatti, luoghi, cerchie di persone. Ci sono persone che in mezzo a un corteo di amici, spiccano perché raccontano molto non solo di te e del tuo mondo, ma anche di una città e di un certo tempo della vita. A volte anche di più. Dato che ci sono figure che diventano (e sono, persino senza saperlo o volerlo) storia: senza le quali mai si sarebbe avverato un cambiamento, e mai sarebbe accaduto un vissuto collettivo e individuale.

    Una persona unica

    E ci sono luoghi che per questa via diventano movimenti, istituzioni, posture, compagnie, modi di essere. E quelle persone speciali che hanno fatto tutto questo e sono lo spirito di quei luoghi, le vorresti sempre con te. Te ne accorgi col tempo, a distanza. A cose fatte. Quando mancano di più. Antonello Antonante era uno di queste persone indispensabili e uniche, e il teatro dell’Acquario – che era casa sua-, uno di quei luoghi speciali. L’involucro che ha dato forma alle mille metamorfosi che il teatro rende possibili. Abbiamo tutti la nostra prima memoria teatrale. La mia risale alla fine dei ‘70 e ai primissimi anni ‘80, e mi riporta a Cosenza, lì, al Teatro dell’Acquario. Io ero uno studente di provincia, nemmeno ventenne, appena iscritto al primo anno di filosofia all’Unical.

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    Il palcoscenico del teatro dell’Acquario

    Il garage metropolitano ed esistenzialistico

    L’Acquario–Centro Rat era uno di quei posti in cui nasceva il cambiamento di questa regione difficile. Era sorto in mezzo ai palazzoni anonimi di una via secondaria discosta dal centro cittadino, quasi a bocca di fabbrica del vecchio stadio in cui giocava la Morrone, nella zona di espansione anni ‘60 di Cosenza. Un luogo che a cominciare dal nome evocativo, tra l’avanspettacolo e la cantina esistenzialista, di quei tempi tra i benpensanti cosentini si usava definire “off”. Di fatto aveva l’aspetto un po’ losco, anarchico e complice di un garage metropolitano (e come deposito-garage fino a poco prima era servito) in cui succedevano cose importanti e un po’ strambe, per Cosenza, per noi che eravamo giovani, per la Calabria di allora.

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    Il manifesto del Living Theatre a Cosenza

    Grotowski a via degli Stadi

    Era già l’incubatoio di tante novità che stavano per prendere vita. Era un teatro nato dal basso del Centro Rat di Antonante, con azioni teatrali che erano concepite per il fondale della strada, in mezzo alla vita quotidiana dei quartieri popolari, sorti dai laboratori della sperimentazione del “teatro povero”, senza palcoscenico, portati in giro sugli sterrati in mezzo ai casermoni di periferia di via Caloprese, via degli Stadi, via Panebianco. Ma c’erano già stati gli spettacoli memorabili su testi di Grotowski e Genet, e i mitici happening teatrali degli anarchici del Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina.

    Il garage diventa teatro dell’Acquario

    Poi venne il teatro degli spettacoli sotto un tendone da circo era il tendone del Circo Marius, che Antonello comprò a Roma, in una specie di trattativa-svendita che era già teatro. Quel tendone di fortuna ospitò gli spettacoli sull’utopia di Campanella e la riattualizzione critica dei canovacci di “Mascare e Diavuli” della commedia dell’arte, conGiangurgolo in commedia” (e Antonello era lui stesso Giangurgolo), fino a quando il 7 marzo del 1981 non fu inaugurato in quel mitico garage-capannone, ex palestra polisportiva ed ex deposito, ripulito e riadattato a sala con sedute ricavate da panconi di legno e sedie pieghevoli, di via Galluppi 15-19, il Teatro dell’Acquario.

    Un teatro con gente libera e anticonformista

    Il primo spettacolo messo in scena fu «un Woyzeck bellissimo di Buchner, di Libera Scena Ensamble, per la regia di Gennaro Vitiello», ricordava Antonello. Erano tempi buoni per la cultura e il teatro nella Cosenza di allora, quando assessore alla cultura era stato chiamato uno come Giorgio Manacorda. Da quel 1981 il Teatro dell’Acquario cominciò a programmare con regolarità le sue produzioni e quelle delle compagnie «provenienti da ogni parte, dall’Italia e dall’estero». Anch’io da quel momento in poi presi a frequentare assiduamente quel posto magico, anche fuori dagli orari degli spettacoli. Di quel posto mi piaceva l’atmosfera confidente e alternativa, l’aria chiusa che sapeva di polvere e fumo, i rumori delle macchine di scena, il buio in cui ci si poteva calare a tutte le ore. La gente che ci trafficava, che stava intorno e dentro quel garage fuori mano per fare teatro, aveva qualcosa di speciale. Era attraente, libera, anticonformista. Recitavano, avevano storie strane, vivevano su un palcoscenico, viaggiavano.

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    La locandina del “Woyzeck” di Buchner

    Un po’ circo un po’ santuario

    L’Acquario aveva qualcosa che mi ricordava sempre un misto di odore di circo e di santuario. Bastava quello per dargli l’alone improrogabile di un’urgenza, una calamita: in quegli anni di fermenti, lotte e utopie all’Acquario si doveva andare. Per il teatro, per l’arte, per la politica, per le ragazze. Per tutto il resto che poi è diventato importante, importantissimo almeno per me. E io ci andai, come tanti, e cosi divenni spettatore di teatro. E scoprì lì che il teatro mi piaceva e da allora continua a piacermi. Compravo l’abbonamento agli spettacoli quando potevo permettermelo. Ci andavo (e ci vado) ogni volta che posso e adesso sempre meno di quanto vorrei.

    È uno di quei luoghi che col tempo è diventato indispensabile: arrivare lì ed entrare in quel luogo (anche se oggi che per sopravvivere alla morìa culturale di questa città è diventato teatro-bistrot, è molto cambiato rispetto ad allora) mi emoziona sempre; mi intimidisce, mi affascina, mi diverte, mi ci sdoppio. Come succedeva la prima volta, allora, quasi quarant’anni fa. Forse anche per questi motivi l’Acquario e la sua gente, Antonello e Dora su tutti, divenuti col tempo amici da quegli anni, col tempo non l’ho più persa di vista.

    La legge per riconoscere il Centro Rat

    Da consulente dell’assessore regionale alla Cultura Augusto Di Marco, alla metà degli anni ’90 mi adoperai per il varo di una legge specifica per il riconoscimento del Centro Rat (LR 27/’95), che ne istituzionalizzava la funzione di teatro stabile di produzione e sperimentazione teatrale. Ma anche successivamente a quella legge, la «classe politica di questa regione, distratta, arrogante, sonnacchiosa», come scrive lo stesso Antonello Antonante in una intervista del 2011 alla storica del teatro Valentina Valentini, lasciò quella legge lettera morta, decretando di fatto il declino del centro Rat e la crisi, in cui ancora oggi si dibatte senza trovare sbocchi, l’insieme del vivacissimo movimento teatrale cresciuto nel frattempo intorno all’esperienza teatrale fondata a Cosenza da Antonante.

    Per noi poi vennero altre cose. Tanti incontri e una consuetudine durata fino agli ultimi anni, quando mi chiedeva di venire gratis agli spettacoli a patto che gli scrivessi una recensione, poi i tanti progetti scritti e tentati, collaborazioni che poi per qualche motivo diventavano impossibili, e il rapporto sempre difficile con la città e e le istituzioni di questa regione che non ama la cultura e il teatro.

    Antonello Antonante con l’immancabile basco

    Giufà e il mare

    Poi libri, per me importantissimi. Come il ricco volume-memoriale Centro Rat Teatro dell’Acquario – Trent’anni di differenza di cui Antonello e Dora mi affidarono la curatela, con testimonianze, che raccoglieva tra gli altri di Giorgio Barberio Corsetti, Gianfranco Berardi, Alessandro Bergonzoni, Toni Servillo, Valentina Valentini, Valeria Ottolenghi, Saverio La Ruina, Alfredo Pirri, che feci uscire per Abramo editore nel 2011, quando la parabola dell’Acquario, privo di aiuti e di attenzioni dovute, scendeva purtroppo dentro la crisi istituzionale che ancora avvolge tutto il teatro di ricerca calabrese.

    Infine ci fu il bellissimo Giufà e il mare, un testo divertente e profondo frutto di uno spettacolo-ricerca realizzato per il teatro di Antonello, che lui stesso aveva condotto sulle fonti mediterranee di questo personaggio universale e concorde emblema dell’animo e della narrativa popolare, che pubblicai ancora per Abramo nella collana “Teatro in tasca”.

    La tribù dei teatranti

    Per me resta il fatto che l’ambiente che girava intorno al teatro dell’Acquario e al centro Rat, negli anni, è diventato ed è rimasto anche in mezzo alle crisi convulse alle trasformazioni catastrofiche degli ultimi anni, un punto archimedico nella mia vita. Li sono nate conoscenze, amicizie e storie che per ragioni diverse hanno avuto la forza di cambiare anche il corso della mia età d’uomo. Come scrivono in molti in queste ore dopo la sua morte, Antonello con la sua meravigliosa tribù di teatranti è stato un faro colto e cosmopolita in una città che si è via via rassegnata a restare piccola e chiusa. Lui e suoi spettacoli, il suo teatro, finché sono rimasti accesi hanno tenuto viva una speranza in questa città scaltra e annoiata, che senza luoghi e persone come lui e l’Acquario si ritrova adesso è ancora più buia e spenta di idee e di cose belle.

    Il programma della stagione 1976/1977 della Tenda di Giangurgolo

    Un sorriso da vecchio marinaio

    Per molti della mia generazione il teatro non è stato il Rendano, con i suoi stucchi, le signore impellicciate ai galà delle prime, né le rappresentazioni classiche e paludate di autori noti e compagnie di grido. Ma la polvere, il buio, il fumo, le pensate astruse, i copioni stridenti, i commenti salaci e le risate oscene, le compagnie off e gli strani spettacoli dell’Acquario. Oggi di Antonello mi ritorna in mente la sua faccia da Giangiurgolo e il suo nasone a melanzana, il suo sorriso affabile e obliquo da vecchio marinaio d’avventure, sempre affabile, giocoso e arruffato come un vecchio Giufà. L’eredità che Antonello Antonante lascia a questa città immemore e a questa Calabria distratta è una eredità fragile e luminosissima.

    Ci dice che il teatro è una cosa viva, è un’azione costruita da persone che il teatro vivono. Esiste se lo fai esistere il teatro, insieme ad altri, se crei una comunità, e non puoi farlo mai vivere da solo. Ecco perché Antonante e l’Acquario sono stati (e restano) il primo teatro di questa regione e di questa città. Ma Antonello è però già adesso ben più di un ricordo in questo arido e terribile scorcio di estate.