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  • BOTTEGHE OSCURE | Quando il freezer era la Sila

    BOTTEGHE OSCURE | Quando il freezer era la Sila

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    Quanto sareste disposti a pagare per un chilo di neve? Probabilmente nulla, ma attenzione: la domanda non è così peregrina come si può immaginare. Fino a circa un secolo fa (prima dell’avvento dei mezzi meccanici per produrre il ghiaccio), la neve alimentava un discreto mercato anche fuori dai mesi invernali. Era pratica diffusa acquistarne quantitativi più o meno grandi da usare in casa per i motivi più svariati, dal più intuibile tentativo di rinfrescare l’acqua a realizzare bevande. Che ai nostri trisavoli piacesse gustare una scirubetta ad agosto, diciamocelo, non ce lo saremmo immaginati.

    La pratica era diffusa non solo in Italia ma anche in Francia, Germania e in altri paesi europei. Certo, suscita curiosità come un simile settore economico abbia potuto prendere piede anche al Sud e in Calabria in particolare, visto il torrido clima estivo. Era necessario disporre di neve, o ghiaccio, nei mesi estivi, quindi bisognava trovare il modo per conservarne nei mesi invernali, quando ce n’era in abbondanza. E quale luogo se non la Sila poteva divenire la “miniera” calabra dove “estrarre” questo prodotto?

    In Magna Sila

    «Su i monti della Sila vi sono alcuni fossi, ne’ quali si ripone la neve, che con diritto proibitivo si dispensa alle popolazioni delle due Calabrie» scriveva nel 1788 l’avvocato Giuseppe Maria Galanti nella sua Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie. La Sila era tra gli “arrendamenti”, cioè le fonti di gabelle e imposte per il Regno di Napoli, che ne appaltava la riscossione a privati. La Sila generava allo Stato un gettito fiscale non indifferente perché forniva legname per le navi, pece bianca e nera di buona qualità, pascoli. E, appunto, neve in abbondanza.

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    Pinelli, venditore di Sorbetti a Napoli, 1840

    Nello stesso periodo nella città di Napoli la neve si vendeva al minuto a tre grana il rotolo (circa 900 grammi). I venditori la compravano a 2,40 ducati al cantaro (circa 90 kg, dunque 2,4 grana al rotolo, con un guadagno di 0,60 grana a rotolo) e su questi dovevano pagare diverse gabelle. Una buona parte della neve “napoletana” arrivava in città via mare dalla Calabria e in particolare dalle neviere silane. Si trattava di cavità, a volte naturali ma molte altre volte opera dell’uomo, quasi sempre sotto terra, nelle quali d’inverno la neve veniva accumulata, pressata e compattata fino a formare un enorme blocco di ghiaccio. Le neviere venivano poi “foderate” con legname, foglie o paglia, creando, per quanto possibile, una sorta di isolamento termico.

    A vineddra d’a nive

    Dalla centrale (almeno un tempo) piazza del Duomo, si dirama a sinistra della Cattedrale l’attuale via Giuseppe Campagna, che scende verso il quartiere dello Spirito Santo. Siamo nel cuore del centro storico di Cosenza, a monte delle antiche mura romane che costeggiavano il fiume Crati, in quella che tutti conoscono come a vineddra d’a nive.
    La delimitano in alto la piazza del duomo e in basso la pustìerula, la postierla, porta d’accesso secondaria nelle mura della città. Era conosciuta nel ‘500 come ruga dei Morti, probabilmente per via del vicino cimitero della Cattedrale.

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    La ‘vineddra d’a nive’ nei pressi di piazzetta Toscano

    Iniziò successivamente ad essere indicata come via della Neve perché divenuta intanto il punto di concentrazione delle neviere urbane e dell’attività di vendita di neve e ghiaccio, che generalmente avveniva da maggio ad ottobre. La via era adibita a questo uso probabilmente perché, essendo stretta e formata da edifici alti, il sole difficilmente riusciva a penetrare fino a giù. I bassi di via della Neve erano così perfetti per realizzarvi le neviere cittadine e replicare il sistema silano all’interno di grotte e cantine. Anche qui erano presenti delle cavità scavate nel terreno dove la neve veniva stipata, e coperta di paglia perché la temperatura rimanesse più bassa possibile.

    Caterina a nivara

    Dalle pergamene dell’Archivio storico diocesano di Cosenza apprendiamo come agli inizi del ‘700, ad esempio, vi operasse Caterina De Prezio alias a nivara, vedova di Francesco Santanna da Cosenza che nel 1709 vendette al Capitolo della Cattedrale di Cosenza la sua casa «sita in Cosenza alla Ruga dei Morti o dove si vende la neve». Il soprannome a nivara dato alla De Prezio e il toponimo rappresentano una testimonianza straordinaria del legame tra luogo, abitanti e attività commerciali: via dei Mercanti, degli Orefici, dei Cassari, dei Pettini, delle Conciarie, piazza delle Uova, del Pesce, dei Follari, della Neve e così via. Si trattava di attività spesso portate avanti dalle classi popolari, ma la vera partita si giocava molto più in alto.

    Monopolio sulla neve

    La possibilità di estrarre la neve era prerogativa del regio fisco, che ne appaltava la gestione a privati. Il conduttore della bagliva e delle neviere della regia Sila, aggiudicatario dell’appalto, aveva la gestione in monopolio della distribuzione della neve in tutta la regione. Non di rado sorgevano controversie tra questo, i baroni e le università demaniali, che pretendevano di mantenere alcune libertà sui loro feudi e territori. I “conduttori” avevano il compito di far realizzare le neviere in Sila e il loro monopolio subiva la concorrenza di feudatari e università con territorio in altre zone nevose, dove sorgevano altre neviere in genere per uso locale.

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    Biblioteca Nazionale di Napoli. 1770. Documentazione della causa dei baroni calabresi contro il Conduttore delle Neviere

    I problemi arrivavano quando feudatari e università calabresi posti in luoghi senza neviere non acquistavano la neve della Sila dal conduttore delle neviere ma da altri feudatari o università che le realizzavano per proprio consumo. Ne scaturivano dispute infinite per dazi e diritti vari, con “molestie” ai nevaioli che trasportavano e vendevano la neve in giro per la regione.

    Appalti e multe

    «La sera fui presa da un caldo violento; mandai a comprarmi un po’ di neve. Gesù! Che porcheria! Vi era paglia, vi era cenere, né potei spiccarne un po’ di netto per metterlo dentro il bicchiere e rinfrescarmi l’acqua». Così fa dire Vincenzo Padula a Mariuzza Sbriffiti nel 1864 su Il Bruzio, in una lettera-denuncia in cui accenna alla scarsa qualità della neve venduta a Cosenza. E non era un problema di poco conto. In città l’appalto per la vendita della neve era oggetto di dibattito nell’amministrazione comunale ancora nel 1869.

    Per il municipio di Cosenza l’appalto della “privativa della neve”, come veniva in passato indicato il sistema di monopolio esercitato dal Comune sulla vendita della neve, era una risorsa finanziaria consistente. L’aggiudicatario dell’appalto aveva il compito di provvedere al trasporto della neve dalla Sila alla città, venderla pulita e scartare quella gelata. Nei mesi estivi la richiesta era tale che l’appaltatore doveva fare in modo di tenere le rivendite aperte giorno e notte «per ogni bisogno, almeno fornita di non meno di otto balle di neve». E per gli inadempienti erano previste pesanti multe.

    U Zumpo

    A dispetto dell’attuale rete idrica colabrodo e della relativa mancanza cronica in gran parte dei quartieri cittadini, nei tempi passati attorno all’acqua cosentina – pubblica, potabile e pure di buona qualità – gravitava tutta una serie di attività. La data più importante da annotare è il 14 marzo 1899. Centoventidue anni or sono, infatti, l’arcivescovo – che, scherzo del destino, di cognome faceva Sorgente – tenne a battesimo insieme al sindaco Salfi la fontana detta dei Tredici canali, così detta per il numero di “bocche” all’epoca tutte attive (che però all’inizio erano dodici). Quest’ultima era il simbolo di quel progresso che, finalmente, portò l’acqua corrente in città grazie alla rete idrica dello Zumpo. Lo stesso acquedotto che in epoca fascista sarebbe stato affiancato da quello del Merone per servire una città ormai lievitata a vista d’occhio.

    La “belle époque” dell’acqua cosentina vide venire alla luce tre floride attività. Nell’estate del 1900 i cosentini andavano a fare i bagni nel fondo agricolo dei Frugiuele detto “la Castagna”, dentro una vasca d’acqua – «potabile» secondo le autorità sanitarie – che proveniva dallo Zumpo. A questa si aggiunse nel 1911 la gloriosa Risanatrice, una lavanderia a vapore che fungeva anche da stabilimento balneare. Ma, cosa più importante, fu l’impianto nel 1912, sempre alla Castagna, di una ghiaccieria o ghiacciaia, vale a dire una fabbrica per la produzione di blocchi di ghiaccio.

    Una “dieci” di ghiaccio

    L’acqua allo stato solido, in forma di neve oppure ghiaccio, conserva un posto speciale nelle memorie bruzie. Nei vasci della vineddra d’a nive, a un tiro di schioppo dal Duomo, la stessa veniva raccolta e conservata in apposite vasche e cummegliata con uno strato di paglia. Oggi la maggior parte di quei magazzini versa in uno stato pietoso, ricettacolo di macerie e spazzatura. Dell’antica pratica di conservare la neve per i più svariati usi non rimane la benché minima traccia.

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    Un ‘vascio’ nella ‘vineddra d’a nive’

    Ma ancor più care nella memoria collettiva sono le due storiche e rinomate “ghiacciaie” cosentine: Cinnante, sempre ara Castagna, e Gervasi ara Riforma. Quest’ultima fino alla seconda metà degli anni ‘50 era ritrovo per grandi e soprattutto piccini, specie per motivi di centralità e densità abitativa. A pochi metri dalla salita dell’ospedale civile – oggi via Migliori – nello stabile che per molti anni ospiterà un rifornimento di benzina stava la rinomata ghiacciaia di Gervasi. Qui accorrevano torme di monelli armati di mappina pulita a comprare il ghiaccio. A quell’epoca con 10 lire te ne portavi a casa quasi 1 chilo e mezzo!

    L’Anthony Quinn della Riforma

    «Lo portavamo a casa e ccu u murtaru du sale o ammaccaturu si triturava per ottime granitine a base di mel’i ficu, mandorla o altri estratti che si aveva in dispensa» ricorda un nostalgico Ciccio De Rose. Qui pare che un tipo dallo sguardo torvo e dai lineamenti poco gentili desse quotidianamente vita a una danza del ghiaccio. Servendosi di uno spaventoso arpione, l’Anthony Quinn della Riforma tirava giù con vigoria gli enormi pezzi che si formavano per via di alcune serpentine poste nella parte alta del locale. Un movimento che ripeteva fino allo sfinimento, cadenzato dalla caduta dei pesanti blocchi che s’infrangevano su una sorta di tavolato. Qui li frenava lo stesso omaccione a colpi d’arpione, per poi ridurli con una serra a mano in “tagli” da cinque, dieci e venti lire per i più svariati usi ed esigenze.

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    Piazza Riforma negli anni ’60: il distributore di benzina ha da poco preso il posto della ghiaccieria di Gervasi

    L’Anthony Quinn bruzio appese il proprio arpione al chiodo intorno alla fine degli anni ’50. Le due ghiaccierie sopravvissero ancora per qualche anno, ma non ressero all’arrivo dei moderni frigoriferi e congelatori, una vera e propria svolta per quanto concerne la conservazione degli alimenti e le abitudini famigliari. Furono in breve gli altoparlanti Marelli, in vendita da Scarnati in piazza Ferrovia e da Caputo in via Sertorio Quattromani, a suonare il requiem per neviere e ghiacciaie cosentine.

     

  • Alici, amore e caro gasolio: il mare dentro i pescatori di San Lucido

    Alici, amore e caro gasolio: il mare dentro i pescatori di San Lucido

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    A San Lucido i pescatori under 30 hanno mangiato pastina e acqua salata da piccoli, hanno deciso che da grandi avrebbero fatto questo lavoro già alle prime uscite in mare con i nonni e con i papà. Oggi salgono sui pescherecci di notte come navigatori fenici. Non è un mestiere semplice. I rischi sono diversi. E adesso che il gasolio è aumentato, per una battuta di pesca bisogna fare i conti fino all’ultimo centesimo. Una notte in mare costa almeno 400 euro soltanto di carburante. Bisogna tornare con un bel carico per non perderci.

    Riposa in pace capitano Mazza, tra i primi morti per Covid

    Nel minuscolo porto della terrazza sul mare, così è chiamato il paese del basso Tirreno cosentino, per decenni il San Giovanni e la Nuova speranza sono usciti e rientrati con al timone il capitano Gianni Mazza. Era il più autorevole dei pescatori ed è stato una delle prime vittime di covid in Calabria, morto nel marzo del 2020 a 75 anni. Anche i colleghi del Nord Italia lo hanno ricordato tributandogli manifesti e saluti tra le onde.
    Le barche di famiglia sono accompagnate dal suo volto, formato poster, sulla plancia. Suo nipote ha 20 anni, porta orgogliosamente lo stesso nome, fa lo stesso mestiere. «La prima volta mio padre Andrea, che ha 45 anni, mi ha portato in mare con la pastina a tre anni e mezzo. Siamo una famiglia di pescatori. Io i miei due fratelli, uno di sedici anni e l’altro quasi quindici, mio padre, due zii e quattro cugini».

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    Gianni Mazza, pescatore esperto di San Lucido morto a 75 anni dopo aver contratto il Covid

    A un passo dalla laurea, poi ha scelto il mare

    È sabato mattina. Nel porto di San Lucido l’acqua brilla, una famiglia di papere scivola sul mare, mentre sui pescherecci si srotolano le reti per riparare il tremaglio. Un’arte che solo i pescatori conoscono, che apprendono senza bisogno di teoria, osservando i più anziani. Con gli occhi fissi sulle trame e le mani che si muovono veloci, è questo il momento della condivisione, dei racconti e degli aneddoti che viaggiano da una barca all’altra.
    Francesco Maria Tonnera, 27 anni, è qui da prima dell’alba. Lui e il suo equipaggio sarebbero dovuti uscire presto per la pesca, ma hanno rimandato a causa del vento. «Un giorno, avrò avuto otto anni – racconta, – ho detto a mia madre: io continuerò a studiare, però tu mi devi fare andare in mare. Trascorrevo la notte sul peschereccio, tornavo alle cinque del mattino, facevo una doccia, mi mettevo il grembiule e andavo a scuola».

    Quella di Francesco Tonnera (un destino già scritto nel cognome), è la terza generazione di una famiglia di pescatori. La promessa fatta a sua madre – purtroppo scomparsa due anni fa – l’ha mantenuta: con i buoni voti ha sempre meritato borse di studio, si è diplomato ed era a un passo dalla laurea in Giurisprudenza e da una vita completamente diversa da quella dei suoi. «Ero stato selezionato per un colloquio per un posto in banca a Milano, ma non me la sono sentita: una vita in giacca e cravatta non fa per me, ho scelto la libertà». La libertà è la pace e la poesia delle notti sulla barca sotto un cielo stellato. «Non so descriverla, è una sensazione unica».

    Francesco Tonnera (con il cappuccio) è un giovane pescatore di San Lucido

    Il pescatore 4.0 di San Lucido su Tik Tok

    Ne è passato di tempo da quando si buttavano le rizze a mare e poi si vendevano i pesci sul molo del porto facendo a gara a chi urlava più forte. Francesco non ha l’aspetto del lupo di mare, è piuttosto un pescatore 4.0: da una parte la tradizione, la sapienza e i riti che si tramandano; dall’altra le innovazioni, per esempio le telecamere a bordo per filmare il pescato e un uso efficace dei social. Basta digitare il suo nome e su Tik Tok è un trionfo di seppie e polipi e altri pesci ancora nella rete ma pronti ad arrivare sulle tavole dei clienti che possono ordinare on line.
    A San Lucido i giovani scelgono ancora di fare questo lavoro duro ma soprattutto usurante perché l’umidità e la fatica alla lunga compromettono la salute. A muovere tutto è la passione, ma le difficoltà sono tante.

    Peschereccio nel porticciolo di San Lucido

    Concorrenza sleale

    «Le leggi europee stanno ammazzando il nostro lavoro – dice Tonnera – viviamo con il terrore delle sanzioni, con la costante incognita dei controlli dei militari della Capitaneria che salgono a bordo a controllare il pescato, ma si fa troppo poco invece per arginare la concorrenza del pesce che arriva da altri paesi», il malepesce lo chiamano.
    «La nostra famiglia ha perso tre pescherecci, uno più bello dell’altro», interviene il padre Tullio, 57 anni, cinquanta anni di lavoro, due figli, entrambi pescatori. «La Michelangelo, 18 metri, è stata affondata nel porto di Vibo per pesca illegale del pesce spada. Un altro è finito bruciato. Là – indica la strada – è ferma la Mariella, 14 metri di peschereccio, sequestrata per disastro ambientale, poi ce l’hanno ridata ma a questo punto non è più utilizzabile».

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    Peschereccio rientrato dalla battuta di pesca a San Lucido

    Pesce azzurro e delfini che t’inseguono

    È tanta la voglia di mollare ma alla fine vince il richiamo del mare. Di notte, lontano dalle coste, si capisce quanto inquinamento di luci trasfigurino il cielo. Sul mare quelle delle stelle sono abbaglianti, dicono i giovani pescatori.
    Poi, con le reti in acqua, tutto può succedere. Perché laggiù è un turbinio di pesci che si muove sotto la barca. «È in quei momenti che capisci che dovrai agire col pugno fermo e i nervi saldi, perché ogni tua decisione avrà una conseguenza», dice Francesco Tonnera. E l’obiettivo è rientrare nel porto, quando il sole è già sorto, con un bottino ricco. «Con quello che costa il gasolio, se qualcosa va storto il danno sarà enorme».
    Il mare di San Lucido è uno scrigno di pesce azzurro: alici, sarde, sgombri soprattutto. E il Tirreno regala spettacoli improvvisi di delfini che inseguono il peschereccio o che giocano intorno alle barche ferme, di notte. «Ce ne sono tantissimi, noi pescatori sappiamo quanto possano essere addirittura “infestanti”, perché nel loro periodo di transito spesso danneggiano le reti e le imbarcazioni».

    La maledizione delle tartarughe

    E nonostante l’esperienza, lo stupore è sempre grande davanti alle tartarughe – «tante, enormi, meravigliose», dice Tonnera – che si incontrano lungo il cammino. «Specialmente di notte capita di avvistarle in acqua, stanche, affaticate. Quando possiamo le teniamo un po’ a bordo per farle riprendere e poi le rimettiamo in mare». Guai a far loro del male e non solo perché le sanzioni in caso di controlli della Capitaneria sarebbero altissime, ma soprattutto perché secondo una credenza popolare, «le tartarughe bestemmiano», quando sono in pericolo o vengono catturate emettono dei suoni cupi e quella è una maledizione che colpirà chi le uccide.

    Francesco Tonnera porta i segni del morso di uno squalo azzurro: 75 punti

     

    Azzannato dallo squalo azzurro

    Hai mai avuto paura? La domanda è rivolta a Francesco, ma risponde suo padre Tullio: «Paura unn’avi mai». Francesco ha il suo trofeo, mostra una enorme cicatrice sul polpaccio, è il morso di una verdesca, lo squalo azzurro. «Era finita nella rete e dovevamo smagliarla per poi farle riprendere il largo. Io e mio padre abbiamo dovuto tirarla a bordo, è un pesce molto mobile con una torsione rapidissima: uno scatto e mi ha azzannato alla gamba, il risultato è questo, hanno dovuto mettermi 75 punti di sutura».

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    La statua di Cilla a San Lucido, che perse marito e figli in mare

    La donna che perse marito e figli in mare

    Sulla gente marinara di San Lucido veglia Cilla, la moglie e madre ormai leggendaria che ha perso i suoi uomini in mare. È ritratta da una scultura di Salvatore Plastina che sembra una donna in carne e ossa affacciata sul belvedere. I sanlucidani raccontano che nelle notti di mare grosso la sentono lamentarsi.
    Ha pianto lo scorso venti agosto. Gianni Mazza, il giovane pescatore di razza, era al largo di Belmonte insieme con l’equipaggio della Nuova speranza e «all’improvviso ci siamo trovati davanti una tromba marina, con onde alte fino a tre metri. È stato un momento veramente difficile. Ma siamo riuscito a tornare nel porto. Mio nonno ci ha insegnato a capire il mare. Lui, diceva non vuole caputoste, non si può sempre sfidare, altrimenti soccombi».

    Il grande squalo bianco

    Gianni Mazza è stato il capitano di tante imprese. Nel lontano 1978 prese lo squalo bianco, la creatura più temuta dai bagnanti, che rare volte si è vista nei mari calabresi.
    Lui e la sua famiglia sono i protagonisti del documentario dell’antropologo Giovanni Sole “Pescatori d’argento. Alici e lampare in Calabria”.

    È anche nelle notti calme e silenziose che possono accadere cose starne. «Una volta eravamo a motore spento con le reti calate – racconta Francesco Tonnera – c’era una pace assoluta e soltanto la luce delle stelle. Ero a prua, quando all’improvviso ho visto sollevarsi l’acqua per una lunghezza di circa dieci metri, come se ci fosse un pesce in superficie. Ho seguito l’enorme sagoma che lentamente si muoveva di fianco alla barca a filo d’acqua. Sono certo che si trattasse di un enorme capodoglio».

  • Mastrolorenzo è il nuovo amministratore unico di Amaco

    Mastrolorenzo è il nuovo amministratore unico di Amaco

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    Michelangelo Mastrolorenzo è il nuovo Amministratore unico di Amaco S.p.a. Il commercialista è stato nominato dall’assemblea ordinaria dei soci. Mastrolerenzo prende il posto del dimissionario Paolo Posteraro. L’assemblea ha nominato anche il nuovo collegio sindacale alla cui presidenza è stato designato Carlo Cannataro. Del collegio sindacale sono stati chiamati a far parte anche Antonio Naso e Sandra Salemme, quali sindaci effettivi. Sindaci supplenti sono stati, inoltre, nominati il  Ivo Mazzotti e la dottoressa Antonella Rizzuto.

     

  • Ponte di Calatrava, raddoppia il conto da pagare?

    Ponte di Calatrava, raddoppia il conto da pagare?

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    Il ponte di Calatrava potrebbe abbattersi sul Comune di Cosenza. Non fisicamente, ma con un salasso che metterebbe k.o. le già disastrate casse dell’ente. Cimolai Spa, l’azienda che lo ha costruito, ritiene che il suo credito nei confronti di Palazzo dei Bruzi non sia affatto esaurito. E chiede altri 19,2 milioni di euro per il lavoro fatto. Raddoppierebbe così il conto da saldare per il più grande inno alla grandeur cosentina, un gioiello architettonico che, a detta di molti, ora come ora collega il nulla al niente.

    Mancini, Calatrava e l’Europa

    Tutto ha inizio a cavallo tra il vecchio e l’attuale millennio. Alla guida del Comune c’è il primo sindaco eletto direttamente dai cosentini: Giacomo Mancini. È lui a siglare a inizio maggio del 2000 nel teatro Rendano l’intesa con Santiago Calatrava, vincitore di una selezione tra progettisti che lo vede imporsi su altri grandi nomi dell’ingegneria civile.

    Mancini e Calatrava al Rendano

    L’architetto e ingegnere spagnolo è già una star in patria e all’estero, ma il ponte cosentino sarà – meglio, dovrebbe essere – la prima opera a sua firma in Italia. Dal Rendano parte la prima sfida di Palazzo dei Bruzi, quella alle ovvietà. «La committenza», riportano i resoconti ufficiali di quella serata, ha voluto e avrà «un ponte che colleghi Cosenza con l’Europa», con buona pace dei cartografi e della tettonica a zolle così poco inclini alla retorica da aver già piazzato qualche millennio prima la città nel Vecchio Continente.

    Le ultime parole famose

    Passano un paio di mesi dalla première al Rendano e nel Salone di rappresentanza del municipio arriva pure la presentazione del plastico del ponte. Le fanno da contorno i primi dettagli tecnici e gli annunci dell’allora assessore all’Urbanistica – e di lì a breve sindaca – Evelina Catizone. Traendo forse ispirazione dal collega di Giunta ed esperto conoscitore delle volte celesti Franco Piperno, Catizone dichiara che «i tempi di realizzazione potranno essere contenuti fra un anno e mezzo e due anni. I costi: 16 miliardi (di lire, nda) per il solo ponte, 34 se si vorranno realizzare anche le opere di complemento, piazza e viali di collegamento alla città compresi».

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    Evelina Catizone insieme a Franco Piperno

    In quelle parole, cariche di ottimismo, si nasconde il segreto per rispettare il cronoprogramma e sconfiggere lo scetticismo generale. Basta infatti calcolare gli anni in questione come se fossimo su Giove, pianeta che per completare tutto il suo giro intorno al Sole impiega oltre 4.300 giorni terrestri. E che ha pure un satellite che si chiama Europa. Se la committenza avesse voluto collegare Cosenza a quello tramite il ponte di Calatrava tutto tornerebbe. E a un costo irrisorio per un’opera così audace.
    Secondo il meno confortante calendario gregoriano in uso dalle nostre parti tra quell’annuncio di metà estate del 2000 e il taglio del nastro, invece, di anni tocca contarne quasi una ventina. E il conto da pagare, già più salato del previsto, adesso rischia di schizzare – per restare in tema – alle stelle.

    Il tempo se ne va

    In omaggio alla tradizione italiana, infatti, nonostante l’opera «stia per passare alla fase esecutiva» a settembre 2001, per aggiudicare l’appalto toccherà attendere l’autunno del 2008, quando il successore di Catizone, Salvatore Perugini, è già a metà del proprio mandato da sindaco. I lavori, stando agli atti, dovranno durare 877 giorni (terrestri, nda). Ad occuparsene, questo l’esito della gara, sarà proprio la già citata Cimolai, colosso delle costruzioni in acciaio.

    Oltre ad aver già lavorato con Calatrava e il suo studio, l’azienda di Pordenone può oggi vantare nel proprio curriculum di aver partecipato «alla ricostruzione di Ground Zero a New York, al recupero sottomarino della nave Concordia e, tra le tante altre attività, ai lavori del New Safe Confinement di Chernobyl». A Cosenza non le tocca rimediare a disastri simili, per fortuna. Ma anche sulle sponde del Crati non mancheranno le tragedie – la morte di Raffaele Tenuta, operaio di una ditta impegnata in un subappalto – né le polemiche, come accaduto per un’altra opera progettata da Calatrava in Italia nel frattempo.

    Il ponte di Calatrava e i fondi Gescal

    Se a Venezia si scivola (e non solo), a Cosenza fa discutere il denaro utilizzato – o, meglio, la sua provenienza – per realizzare il ponte, il cui montaggio vero e proprio è partito solamente nel 2014 con un altro sindaco ancora, Mario Occhiuto, insediatosi tre anni prima. È Sergio Pelaia a sollevare il polverone dalle colonne del Corriere della Calabria. Già da tempo il giornalista ha rivelato con una serie di articoli che per anni la Regione ha fatto un uso allegro dei fondi Gescal. Cosa sono? Soldi detratti dalle buste paga dei dipendenti pubblici con l’impegno di realizzarci case popolari. Quel fiume di denaro, però, è finito disperso in mille rivoli, molti dei quali con l’edilizia popolare pare abbiano ben poco a che vedere.

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    Mario Occhiuto alla riapertura del cantiere del ponte di Calatrava (foto Ercole Scorza)

    Nell’elenco delle spese discutibili, si scopre a poche settimane dall’inaugurazione, ci sarebbero pure quasi 6 degli oltre 19 milioni di euro usati per costruire il ponte di Calatrava e le opere accessorie, il cui unico rapporto col sostegno a chi vorrebbe un tetto tutto suo a basso costo si concretizzerà tempo dopo nell’offrire saltuario riparo a qualche clochard.

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    Un rifugio di fortuna costruito da un clochard sotto il ponte di Calatrava nell’estate del 2021

    Paradosso nel paradosso, parte dei fondi Gescal legati davvero alle attività dell’Aterp è stata al centro di un’inchiesta che ha visto protagonisti anche più o meno grandi nomi della politica calabrese, quali Pino Gentile e Antonino Daffinà. Una storia tutta vibonese, quest’ultima, che si è chiusa poche settimane fa per gran parte degli imputati con l’equivalente giuridico dei tarallucci e vino: la prescrizione. A Cosenza invece, nonostante qualche protesta degli attivisti locali per il diritto alla casa, per liquidare la questione Gescal-Calatrava si è optato per una soluzione diversa. Altrettanto efficace, ancora più rapida: il tutto va bene, madama la marchesa.

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    Una simbolica protesta a Cosenza: 100 casette di cartone sul ponte di Calatrava per criticare l’impiego dei fondi Gescal

    Cimolai va all’attacco

    Il ponte di Calatrava, oggi intitolato a San Francesco di Paola, all’attenzione di un tribunale c’è finito lo stesso però, anche se finora non se n’è accorto nessuno. A luglio del 2019 Cimolai si è rivolta a quello di Catanzaro chiedendo che il Comune di Cosenza risponda davanti ai giudici di tutto ciò che l’azienda ritiene abbia provocato un «andamento anomalo dei lavori». L’elenco delle doglianze è lungo, ben 35 differenti riserve espresse su altrettanti avvenimenti. Le valutazioni dei singoli danni subiti a causa di quelle presunte anomalie vanno da circa 6mila a quasi 6 milioni di euro. Senza contare gli eventuali interessi maturati nel frattempo, sommandole tutte si sfiorano i venti milioni extra richiesti a Palazzo dei Bruzi.

    Un peso notevole nella stima delle perdite ha il lunghissimo stop ai lavori dovuto alle bonifiche del terreno che ha ospitato il cantiere. Il rinvenimento di ordigni bellici e rifiuti pericolosi nell’area ha impedito per anni a Cimolai di dare il via al montaggio della struttura e costretto la ditta a tenere per tutto quel tempo i componenti del ponte – che nel frattempo aveva costruito – chiusi nei capannoni in attesa di poterli portare a Cosenza. Ma non mancano i rilievi relativi a perizie di variante in corso d’opera, aumenti dei costi dovuti allo slittamento dei lavori, presunte discrepanze col progetto messo a gara. E poi, ancora, contestazioni sulle attività extracontrattuali che non sarebbero state retribuite a dovere, il fermo forzato e improduttivo di macchinari e personale tra un’interruzione e l’altra, finanche l’allagamento del cantiere durante una piena del Crati nel 2016.

    Il Comune di Cosenza si difende

    A Palazzo dei Bruzi, però, sono sicuri del fatto loro, pronti a smontare le accuse punto per punto. Reputano di aver sempre agito nel rispetto delle norme e degli accordi. Le richieste di Cimolai sarebbero quindi pretestuose e infondate dal punto di vista giuridico. L’ammontare dell’eventuale risarcimento, poi, del tutto sproporzionato rispetto a quello dell’appalto originario. Se davvero l’azienda avesse subito danni di tale portata, rilevano in municipio, avrebbe potuto esercitare il suo diritto alla risoluzione del contratto a lavori ancora in corso. Invece Cimolai ha continuato ad affrontare il rischio d’impresa per anni, salvo poi tornare a battere cassa a Cosenza qualche mese dopo la consegna del ponte di Calatrava.

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    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza

    Alcuni ritardi, inoltre, sarebbero da addebitare ad altri soggetti coinvolti, come le Ferrovie dello Stato o la Provincia. In vista del processo il Comune ha anche assunto poche settimane fa un consulente tecnico, l’ingegnere Francesco Mordente, per far valere le proprie ragioni in aula.

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    Una parte dell’atto da cui emergono la causa in corso tra Cimolai e il Comune e l’ammontare del contenzioso

    Di generazione in generazione… in generazione?

    Il 26 gennaio 2018, giorno della faraonica cerimonia inaugurale cofinanziata dall’ancora amichevole Cimolai, Santiago Calatrava definì la sua creatura un ponte che «collega due generazioni: il sindaco Mancini, per il quale l’ho progettato, e il sindaco Occhiuto che è riuscito a portarlo a termine». Il verdetto di Arianna Roccia, giudice della Sezione specializzata per le imprese, servirà a chiarire se collegarle a una terza: quella che per finire di pagarlo dovrebbe sborsare quanto o più delle altre due messe assieme.

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    Cosenza, un momento della cerimonia d’inaugurazione del ponte di Calatrava
  • L’Italia che frana: pioggia, fango e condoni

    L’Italia che frana: pioggia, fango e condoni

    Ci sono due espressioni forti, per indicare i rischi del territorio in Italia, soprattutto al Sud.
    La prima è un classico: si dice Casamicciola, per rievocare il terribile terremoto del 1883, in cui rischiò la vita Giustino Fortunato e perse la famiglia Benedetto Croce.
    La seconda riguarda la Calabria ed è tratta da un’espressione dello stesso Fortunato: lo sfasciume pendulo sul mare.
    La recente alluvione che ha messo in ginocchio Ischia e, in particolare, Casamicciola Terme, ha riacceso i riflettori sui pericoli del nostro territorio, dovuti a tre fattori: la gracilità del suolo, il rischio sismico e l’intervento dell’uomo, molte volte incosciente.
    Di tutto questo si è discusso durante il dibattito svoltosi a Villa Rendano lo scorso 2 dicembre, significativamente intitolato: “Pioggia, fango, lutti e licenze edilizie: l’Italia crolla”.

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    L’architetto Daniela Francini

    Cinque studiosi a confronto

    Moderato dal giornalista Antonlivio Perfetti, il convegno di Villa Rendano è stato il quarto avvenimento organizzato dalla Fondazione Attilio ed Elena Giuliani su argomenti di stringente attualità.
    Il dibattito, pacato nelle forme ma forte nei contenuti, è stato animato da cinque addetti ai lavori: Paolo Veltri, professore Ordinario di Costruzioni Idrauliche dell’Unical, i due ricercatori del Cnr Carlo Tansi e Olga Petrucci, l’architetto e urbanista Daniela Francini e Flavio Stasi, il sindaco di Rossano-Corigliano, un territorio ad alto rischio idrogeologico, come ricorda l’esondazione del 2015.

    Il colpevole quasi perfetto è il Comune

    La requisitoria di Veltri, che ha aperto i lavori subito dopo i saluti della vicesindaca di Cosenza Maria Pia Funaro, è pesantissima.
    Per l’ex preside di Ingegneria, tragedie come quelle di Ischia non hanno un solo imputato, ma sono l’esito di una serie di responsabilità diffuse. Si va dalla pessima utilizzazione dei mezzi e del personale all’insufficienza della politica nazionale di difesa del suolo, in cui la Calabria ha il consueto ruolo della Cenerentola, perché priva di una classe politica forte, capace di pretendere dallo Stato.
    Al riguardo, si registra il pesante paradosso dei sorveglianti idraulici, che sono in cassaintegrazione proprio quando piove, cioè quando servirebbero di più.
    Gli indiziati più pesanti, tuttavia, restano la Regione, accusata di assenteismo nelle opere fluviali e gli enti locali. I Comuni, in particolare, sono il colpevole quasi perfetto, sia per quel che riguarda i controlli sia per la facilità con cui le amministrazioni chiudono un occhio sugli abusi edilizi o li condonano.

    La natura è benigna, l’uomo no

    Carlo Tansi e Olga Petrucci del Cnr intervengono nel focus organizzato dalla Fondazione Giuliani con due approcci diversi ma convergenti.
    Tansi va giù duro sugli abusi e rovescia il paradigma dei disastri ambientali. Le frane e le alluvioni? Secondo il geologo sono processi benigni, perché consentono il ripascimento delle spiagge, che altrimenti verrebbero spazzate vie dall’erosione costiera.
    I danni, invece, li fa l’uomo, quando usurpa con interventi edilizi dissennati gli spazi della natura. E la Calabria? Occorre fare attenzione al meteo: i guai inizieranno con le piogge.
    Già, prosegue il geologo: possiamo fregare la legge e lo facciamo spesso. Ma la natura è un tribunale che emette sentenze inappellabili.
    L’unica risposta è la prevenzione, che inizia dalla consapevolezza. In questo caso, dalla conoscenza dei luoghi su cui non si deve costruire.
    Al riguardo, è utilissima l’esperienza di Petrucci, che ha realizzato una serie di volumi (reperibili anche su Google Books) dedicati alle zone a rischio idrogeologico in Calabria e ha realizzato un data base sulle catastrofi nel bacino mediterraneo.

    Il colpevole? La burocrazia. Parola di sindaco

    Flavio Stasi, il sindaco di Rossano-Corigliano, punta il dito sulla lentezza delle procedure per l’erogazione di fondi e mezzi per la tutela del territorio.
    «Le situazioni mutano sempre, perché il territorio non è statico. I mezzi arrivano spesso quando non servono più». Il rimedio, secondo il primo cittadino dello Jonio, si riassume in una parola: semplificazione. Già: la tempestività degli interventi, molte volte, è più importante dei fondi stessi.
    Dura l’accusa sulla facilità con cui spesso sono concessi i condoni. Ma al riguardo, Stasi dichiara di avere la coscienza a posto: «Noi abbiamo ripreso a demolire».

    Prima la sicurezza, poi la giustizia

    L’architetta urbanista Daniela Francini si sofferma, invece, sulla pianificazione.
    A suo giudizio, la pianificazione inesistente o inadeguata è in cima alla lista dei rischi.
    In particolare, è difficile tuttora implementare i nuovi metodi di pianificazione, come dimostra il caso di Ischia.
    Prevenire i disastri significa soprattutto tutelare le vite umane: quando si scopre un abuso, sostiene Francini nell’incontro promosso dalla Fondazione Giuliani, occorre innanzitutto mettere in sicurezza i fabbricati sotto accusa, poi sanzionare. «Se si fosse agito così», commenta l’architetta, «forse non piangeremmo dei lutti».

    L’Italia crolla e la Calabria ancor di più? Forse sì. Ma prima di stracciarci le vesti sarebbe il caso di acquisire consapevolezza e approfondire.
    Prevenire è meglio che curare. Ma per prevenire occorre sapere.

  • MAPPE | La guerra dei supermercati lungo l’antica strada consolare

    MAPPE | La guerra dei supermercati lungo l’antica strada consolare

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    «Anche via Popilia è Cosenza»
    (frase attribuita a Tonino Napoli, visibile su una recinzione di lamiera)

    Finirà che dovremo ringraziare la grande distribuzione per questo lento eppure costante processo di integrazione che interessa via Popilia, un processo che in vent’anni la politica a Cosenza non è riuscita a portare a termine.
    Ora che anche la Lidl ha aperto un supermercato sulla antica strada consolare romana, è ufficiale che non è bastato l’abbattimento della secolare linea ferrata per inglobare nel tessuto urbano ’a petrara (così detta un tempo in virtù dei ciottoli del fiume Crati che le scorre a est): i binari erano un diaframma che la isolava da un centro incredibilmente ravvicinato. E oggi di nuovo allontanatosi.

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    1910, Crati: Santa Maria degli Angeli e foresta, poi via Popilia

    Il rilevato ferroviario è stato sostituito da un viale ibrido (alberato ma anche asfaltato e con pista ciclabile ma anche pedonale) che continua a non avere pace tra annunci di restyling e cantieri sospesi e riaperti, anzi no; ma nel frattempo anche la presunta rinascita edilizia dei primi anni Duemila sembra fallita, con molti palazzoni in gran parte ancora vuoti e che iniziano a invecchiare seppur disabitati fin dalla costruzione.
    Oggi almeno si registra un ritrovato attivismo da ricondurre ai Bonus 110 sulle tante cooperative nate già da fine anni Ottanta. Fu quella la prima “riconversione” del quartiere (una scommessa di gentrificazione ante litteram), quando viale Parco era ancora un progetto – a cui però, evidentemente, i costruttori credevano.

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    Il vecchio rilevato ferroviario che separava via Popilia dal centro città

    Subito dopo, la diffusa colata di cemento del nuovo millennio non è servita a rendere via Popilia più vivibile: all’aumento della volumetria non ha fatto seguito un parallelo miglioramento dei servizi.
    La spazzatura accatastata all’ultimo lotto, a qualche decina di metri in linea d’area dai lussuosi appartamenti rendesi, è un simbolo perfetto di questo abbandono assoluto, che fa ancora più rabbia dopo la prosopopea dell’ultima campagna elettorale in cui si prometteva l’ennesima rinascita.

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    Rifiuti all’ultimo lotto di via Popilia a Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Perché se una legge non scritta della politica a Cosenza vuole da sempre che «le elezioni si vincono a via Popilia», alle ultime amministrative, questo elemento è apparso come qualcosa di più di una indicazione, rivelandosi piuttosto la conferma dell’esistenza di un blocco di consenso decisivo nel ballottaggio che ha incoronato Franz Caruso: proprio in nome della «attenzione per le periferie», o meglio per la periferia cosentina per antonomasia.

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    La protesta, organizzata dall’allora consigliere di maggioranza – diventerà assessore poco dopo, carica che riveste anche oggi nella Giunta Caruso – De Cicco contro il progetto di un campo rom a via Popilia

    Capannoni tutti uguali per salvare le periferie?

    Di certo questo isolamento non è attribuibile (solo) agli ultimi arrivati a Palazzo dei Bruzi.
    Viale Mancini e la bretella fantasma a est di via Popilia (ex via Reggio Calabria, con innesto sul ponte di Calatrava) rappresentano due simboli della più totale inadeguatezza amministrativa a Cosenza essendo, rispettivamente, un’eterna incompiuta e un cantiere che non parte mai: due confini più o meno immaginari – il primo incerottato d’arancione, il secondo solo tracciato – che corrono paralleli e continuano a condannare l’ex stradone popolare alla marginalità, a rimanere il ghetto che si credeva di aver cancellato – diciamo spostato nel ghetto/bis di via degli Stadi – oltre vent’anni fa con il “trasloco” della vecchia baraccopoli (dicembre 2001) e il viale Parco poi intitolato al sindaco che lo immaginò e ne inaugurò i primi spezzoni mentre era ancora in vita.

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    La baraccopoli demolita per volere di Mancini: il ghetto trasloca a via degli Stadi (foto Ercole Scorza)

    Di recente, un lunedì mattina in cui molti se le aspettavano proprio su viale Mancini – annuncio di due esponenti di giunta in una trasmissione tv –, le ruspe si videro spuntare nel tratto centrale della petràra. Veloci e aggressive come solo quelle di un privato, per di più forestiero, sanno essere.
    La tabella dei lavori conferma la vox populi di un nuovo supermercato Lidl e il polverone dovuto al livellamento del terreno, misto agli sventramenti di antiche palazzine basse e disabitate, ufficializza come conclusa la parabola che dalla guerra di mafia ha portato a una ben più innocua guerra dei supermercati, passando da quella del mattone: forse, quest’ultimo, un conflitto dormiente e sempre dietro l’angolo.

    Cosenza, i lavori per realizzare un nuovo supermercato a via Popilia

    I capannoni tutti uguali della Gdo si confermano dunque elemento antropico e urbanistico prima che commerciale eppure, in questo, via Popilia è solo l’ultima frontiera se si pensa ai tanti precedenti (EuroSpin e ancora Lidl su via degli Stadi, un’altra Lidl con annessa rotatoria lungo viale Principe a Rende solo per restare agli ultimi): perché, prima di diventare area degli acquisti per residenti e pendolari, questa era e rimane l’arteria delle scuole (anzi di recente si sono aggiunti lo scientifico e il geometra), delle farmacie che si spostano rinnovandosi e delle edicole che chiudono (aumentano solo quelle votive), dei presidi di legalità come la polizia stradale all’estremità sud e i carabinieri al confine nord, del carcere, dell’Agenzia delle entrate e del palazzetto dello sport.

    Gnugna e tressette, scommesse e munnizza: «Questa è la realtà»

    Qui, accanto alla Comunità Bethel, un orto si affaccia sulla strada dove le auto sfreccerebbero a 100 all’ora se non ci fossero i dossi in cemento più alti di Cosenza (due, ma fanno egregiamente il loro lavoro…): un gruppo eterogeneo gioca a carte nel cortile di quello che fu un frequentato centro per anziani.
    Il welfare ha da tempo abbandonato queste latitudini, come se la cementificazione avesse portato anche inclusione: l’associazione di volontariato “IoNoi” ha sede nei locali della fu VII circoscrizione, un tempo anche ludoteca per i bambini della zona.

    Spariti anche i luoghi della politica – un processo comune ai quartieri centrali ma qui forse più doloroso – si è passati dalle sezioni di partito alle sale scommesse come luogo di aggregazione.
    Nel blocco che si vuole costruito coi soldi del piano Marshall – siamo nel tratto centrale, zona sopraelevata – sono quasi stinti i murales tracciati sulle palazzine basse color senape. Uno dei progetti, meritevoli per carità, ma che durano il tempo della foto assessorile e del seguente comunicato stampa: ma almeno in questo casa resta il monumentum, lo stimolo visivo a ricordare.

    Un furgone abbandonato in una traversa di via Popilia

    Tutt’intorno, auto e furgoni abbandonati, ancora spazzatura, siringhe. È anche vero che se la gnugna (l’eroina, ndr) non è mai scomparsa – continua anzi ad avere periodici ritorni di fiamma –, questa periferia non appare più inaccessibile e infernale come un tempo, quanto piuttosto sospesa in un limbo purgatoriale; può essere però ben definita con un verso sempre dantesco ma dal Paradiso (XV, v. 106): «Non avea case di famiglia vote». Il Sommo si riferiva agli appartamenti fiorentini disabitati perché sproporzionati al bisogno delle famiglie, qui siamo piuttosto nel territorio della superfetazione di solai fine a se stessa che ingrassa la lobby dei costruttori mentre altri strati sociali sono condannati all’emergenza abitativa e all’esclusione sociale.

    Uno stallo che raramente permette il salto da uno status a quello superiore, una stratificazione immobile che Lugi, alias Luigi Pecora, orgogliosamente afro-popiliano, racconta benissimo in un pezzo rap (Questa è la realtà) in cui passeggia idealmente da casa sua – l’ultimo lotto che sembra un block di Spike Lee – al centro.

    Via Popilia, dalle guerre di mafia (e del mattone) a quella dei supermercati

    Il culto del dio cemento e il cristianesimo convivono a via Popilia

    Nel 2005 si contavano tredici gru su viale Mancini (intanto saturatosi), nel frattempo altrettante ne sono spuntate su via Popilia (oggi in realtà sono una decina, sparse tra i Due Fiumi e la casa circondariale).
    I due delitti eccellenti al giro di boa dei due secoli e due millenni – tra il semaforo in zona carcere e l’ultimo lotto – sembrano un ricordo lontanissimo. Ora la guerra – dopo quella combattuta a colpi di cazzuola nel ventennio passato – se la fanno i supermercati, a colpi stavolta di oneri di urbanizzazione: a fine aprile 2019 la storica baracca di Felicetta con annessa fontanella fu abbattuta per permettere la spianata con relativa rotatoria in funzione EuroSpin.

    L’ex sindaco Occhiuto e gli allora assessori Caruso, Vizza e Spataro in posa simil Beatles per l’inaugurazione della rotatoria

    Come allora apparve chiaro che servisse un supermercato per cucire la viabilità rimasta monca (in quel caso per collegare il ponte di Calatrava con viale Mancini), adesso un altro mega gruppo (Lidl) invade i territori Conad sbloccando i lavori in un’area pensata in origine come parco – e così “venduta” una quindicina di anni fa agli acquirenti dei nuovi e coloratissimi palazzoni sorti nella zona della chiesa di Cristo Re.
    Urbanisticamente rivoluzionario, il mega-cantiere è l’ennesima dimostrazione che dove non arriva il pubblico tocca al privato. Dovesse leggerci qualcuno di EsseLunga e decidesse di avventarsi su via Popilia: di lotti abbandonati ce ne sono a bizzeffe, tocca soltanto scegliere.

    COSA VEDERE

    Il quartiere è il più classico degli ibridi urbanistici tra case popolari e palazzoni moderni. Da vedere i murales del secondo lotto (ma anche quello di Marulla al Marca) e le tante edicole votive, segni della fede autoprodotti. In assenza di negozi storici – sbranati dal cemento come Carlino o scomparsi come il mitico maniscalco –, un tour a piedi può essere illuminante soprattutto per “pesare” la mancata saldatura della zona cuscinetto venutasi a creare a est di viale Mancini e poi, oltre, nella fascia tra via Popilia e il fiume.

    Il ricordo di Gigi Marulla all’ingresso della scuola calcio che aveva fondato

    DOVE MANGIARE

    La pizzeria di Roberto Presta, figlio del compianto Franchino detto “’a chiacchiera” per il gusto di intrattenersi con i clienti, merita una tappa anche per la piccola rosticceria: fondata nel 1975, si trova al civico 160. Da provare anche il pesce del Pirata, pescheria-trattoria di mare (via Anna Morrone, zona sud) e gli arancini di Cusenza Piccante (n. 60/62)

    DOVE COMPRARE

    Ma se passate da via Popilia non potete non provare la pasta di mandorle di Gaudio! Un antro al civico 230 in cui il tempo si è fermato e dove è possibile trovare anche gli ultimi esemplari di “pastarelle” formato grande: addirittura il diplomatico e il mega-choux con tanto di “gileppo”. Tra l’altro vi servirà uno degli ultimi negozianti cosentini dotato di sorriso…

    (2. continua)

  • Qualcuno volò sul nido di Scanderbeg

    Qualcuno volò sul nido di Scanderbeg

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    Prima una, poi due, e infine tre evasioni rocambolesche. L’ultima volta che è fuggito, il soggetto “socialmente pericoloso” ha ferito un infermiere ed un carabiniere, dopo aver danneggiato i locali che lo ospitavano. Poi ha rubato un’automobile e si è schiantato contro un lampione, uscendo illeso dall’incidente. Ma i 2.500 abitanti di Santa Sofia d’Epiro, in provincia di Cosenza, non si sono scomposti. Ormai hanno adottato la Rems ed i suoi ospiti. «È chiaro che umanamente ci dispiace tantissimo, però non esiste allarme sociale che ci possa indurre al panico. La nostra cultura è fatta di accoglienza, incontro, musica, letteratura. Rinnegheremmo noi stessi se ci lasciassimo abbattere dalla paura e dagli egoismi», spiega Carmine Guido, musicista del gruppo rock Spasulati Band.

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    Sbarre alle finestre e muri alti tre metri nella Rems di Santa Sofia d’Epiro

    Dagli Opg alle Rems

    I sofioti sono una delle tante popolazioni arbëreshe, discendenti dai profughi giunti nel sud Italia sette secoli fa, quando gli antenati del presidente turco Erdogan conquistarono i Balcani e li scacciarono dalle loro case. Gli Albanesi di Calabria hanno sviluppato un’attitudine all’insilienza, la capacità di attecchire in territori remoti, cioè una forma di resilienza in trasferta. Da centinaia di anni resistono ai traumi e si organizzano in modo solidale. Una decina di loro lavora all’interno della Residenza Esecuzione Misure Sicurezza “G. Granieri”, gestita dal Centro di solidarietà “Il Delfino”. Ed è qui che le ripetute e drammatiche fughe di uno degli ospiti hanno svelato alcune delle falle giuridiche della legge 81/14 che finalmente portò alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ed alla loro sostituzione con le Rems.

    Stop all’ergastolo bianco

    Queste strutture hanno natura più prettamente medico-sanitaria. La logica che sta alla base è quella riabilitativa: gli operatori sono medici, non carcerieri. Il loro scopo è quello di aiutare il paziente, curarlo, al fine di reintrodurlo nella società. Assomigliano più a presidi sanitari che a prigioni. Hanno, inoltre, messo fine all’ergastolo bianco. Se negli Opg non era previsto un termine massimo di durata della misura, con le Rems la tempistica non può essere superiore al massimo edittale della pena prevista per il reato. Lo scoglio più grosso da affrontare resta però la visione che la società ha di queste persone.

    Pericolosi a prescindere da responsabilità

    Lo stigma è ancora molto presente, accresciuto anche da una paura mediatica che viene costantemente proposta ed ampliata. C’è un forte desiderio che il reo venga neutralizzato piuttosto che rieducato, riabilitato o risocializzato.

    «Tali strutture non sono deputate alla detenzione – spiega il responsabile dell’ente gestore, Gianfranco Tosti – bensì alla rieducazione e cura degli autori di reato, per prevenire nuove eventuali azioni criminose. Queste persone non devono scontare una pena. Nei loro confronti è stato emesso un giudizio di pericolosità, a prescindere dalle eventuali responsabilità. Per questo motivo tali provvedimenti si applicano anche nei confronti di soggetti che nel commettere azioni violente sono stati considerati non in grado di intendere e di volere».

    La Rems “Granieri” vista dall’esterno

    Tuttavia, pur essendo di fatto delle residenze socio sanitarie rientranti nel Dipartimento Salute mentale, la responsabilità direzionale è affidata all’ASP di Cosenza tramite un medico psichiatra, con la funzione di Responsabile della Rems. In queste strutture non è prevista la gestione delle acuzie e di gravi scompensi psicomotori, per questo e per eventuali Tso – trattamenti sanitari obbligatori – le cure sono affidate al Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, all’interno degli ospedali.

    Terapia, non pena

    «Essendo una struttura socio-sanitaria – prosegue Tosti – noi non possiamo trattare Tso. Ci occupiamo della parte riabilitativa e sanitaria. Per ogni singola persona l’equipe redige il Ptrr (piano terapeutico riabilitativo residenziale, ndr) che può indicare lo stato di miglioramento della persona e nel corso di questi anni abbiamo cercato di costruire un approccio molto umano che è quello che da sempre a caratterizzato tutte le attività del Delfino.

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    Una stanza della struttura di Santa Sofia d’Epiro

    Il problema si pone quando tra i soggetti che ci sono affidati, qualcuno risulta incompatibile sia col carcere che con una struttura riabilitativa. Non rientra infatti nelle competenze e responsabilità del nostro personale il contenimento di azioni violente. Gli operatori al nostro servizio sono infermieri, educatori, assistenti sociali, OOSS, psicologi, tecnici della riabilitazione psichiatrica, altri addetti. Come possono arginare una persona che improvvisamente aggredisce cose e persone, e tenta di fuggire?».

    Rems: sembra un carcere, ma non lo è

    In Calabria la Rems di Santa Sofia d’Epiro è l’unica sul territorio regionale. Attivata nell’ottobre 2016, con due anni di ritardo, è stata realizzata in un immobile di proprietà dell’Asp. In questi 6 anni vi sono state ricoverate 52 persone, di cui 34 dimesse. L’edificio presenta i segni della mescolanza col sistema carcerario: mura alte tre metri, sbarre verticali e porte in ferro. Un rafforzamento dei sistemi di controllo è stato di recente richiesto dal sindaco, Daniele Atanasio Sisca, al prefetto di Cosenza.

    Un esempio di tolleranza e civiltà

    Nonostante la situazione critica, rimane alto il livello di collaborazione tra comunità locale e soggetto gestore: «La legge 81/14 – spiega Tosti – è stata precisa per le questioni strutturali. Nel contempo, abbiamo sempre cercato di creare spazi accoglienti, idonei alla cura. Gli spiacevoli episodi accaduti negli ultimi mesi non sono però riusciti a destabilizzare la nostra impostazione. E questo lo dobbiamo alla popolazione locale e alle loro istituzioni, il sindaco e il comandante della locale stazione dei carabinieri, che oltre a starci vicino, hanno sempre reagito con una civiltà ed un livello di tolleranza che dovrebbero essere da esempio in tutto il continente europeo».

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  • Bergamini, anche per la Cassazione «ombre» sulla morte di Denis

    Bergamini, anche per la Cassazione «ombre» sulla morte di Denis

    Anche la Cassazione vuole vederci chiaro sulla morte di Donato “Denis” Bergamini. Ad avvolgere «la tragica fine» nel 1989 dell’ex calciatore del Cosenza nei pressi di Roseto Capo Spulico ci sono ancora «numerose ombre», sostengono infatti gli ermellini, riporta Ansa Calabria. Le parole dei giudici della Suprema corte sul decesso del giocatore ferrarese sono arrivate al termine di un processo che vedeva imputato un cronista, alla sbarra per una diffamazione ai danni del magistrato Franco Giacomantonio.

    Quest’ultimo, da capo della Procura di Castrovillari, secondo il giornalista, si sarebbe mostrato fin troppo «pavido» nell’indagare sul caso Bergamini. Così facendo – sostenevano gli articoli su di lui – avrebbe favorito Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore sulla quale gravano da anni i sospetti dei tanti, cosentini e non, che respingono l’ipotesi del suicidio del centrocampista.

    Nessun insabbiamento, critiche eccessive

    Per la Cassazione, invece, c’è poco da imputare a Giacomantonio nella gestione della vicenda Bergamini. Il procuratore, infatti, è colui che nel 2011 chiese al Gip la riapertura delle indagini. Nonché lo stesso magistrato che si impegnò «a svolgere, successivamente, una diffusa ed articolata istruttoria, servendosi di numerosi consulenti tecnici e svolgendo molte audizioni di persone informate dei fatti, in vista di un evidente obiettivo di fare luce sul controverso “caso giudiziario”».

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    La Corte di Cassazione

    Nulla da eccepirgli nemmeno per quanto riguarda la successiva archiviazione dello stesso caso. Per i supremi giudici «è formulata con ampie ragioni (che si snodano lungo 73 pagine di provvedimento), dando conto di tutte quante le indagini effettuate: dunque non una decisione superficiale, o peggio, deviata da una qualche parzialità». Senza contare, scrivono ancora, che Giacomantonio a Castrovillari è arrivato decenni dopo la morte di Bergamini e le relative indagini iniziali. Nessun insabbiamento da parte sua, quindi, per i giudici sebbene il legale della famiglia di Donato avesse fatto notare, all’epoca dei fatti, una certa titubanza del magistrato inquirente a far eseguire ulteriori esami sul cadavere. «Non bisogna aver paura della verità», le sue parole.

    Bergamini e le ombre: le parole della Cassazione

    Ma i dubbi su quella tragica notte di pioggia del 1989 e le successive indagini restano. Anche tra gli ermellini. Che, infatti, chiariscono che al momento la Cassazione «non è la sede per diradare alcuna delle numerose ombre che avvolgono la tragica fine di Denis Bergamini», ricordando al contempo che la stessa Internò è oggi imputata a Cosenza per il presunto omicidio del suo compagno di allora. Il caso, anni dopo l’archiviazione targata Giacomantonio, è infatti «riaperto a seguito della richiesta di riesumazione della salma del calciatore, avanzata dai familiari di Bergamini tramite l’avvocato Fabio Anselmo, con nuovi esami che hanno accertato il decesso per soffocamento».

    La lapide in ricordo di Donato Bergamini ai bordi della strada dove perse la vita
  • Cosenza a mano armata

    Cosenza a mano armata

    Il 1981 a Cosenza fu l’anno di due record particolari: gli omicidi (diciannove nel solo capoluogo) e, soprattutto, le rapine a mano armata.
    In particolare, gli assalti ai furgoni o ai vagoni portavalori. In quest’ultimo caso, il bersaglio preferito dei Vallanzasca ’i nuavutri era il treno Cosenza-Paola.
    Allora, in quella tratta, non esisteva la galleria. Perciò, il percorso sui binari della Crocetta era piuttosto lento e accidentato. Insomma, la zona ideale per i banditi.

    Record in punta di pistola

    Iniziamo con una cifra tonda: le rapine a mano armata del 1981 a Cosenza sono 136 in tutto.
    Questa cifra è l’apice di una escalation iniziata cinque anni prima. Al riguardo, la semplice lettura dei numeri dà un quadro impressionante.
    Nel 1976 le rapine sono solo dodici. Salgono a quarantacinque nell’anno successivo e arrivano a sessantacinque nel 1978.
    Nel 1979 si registra un leggero calo (sessantuno “colpi”) e nel 1980 risalgono di molto: novantasei.

    Ma cosa spinge la mala di Cosenza a emulare le gesta di quella del Brenta e, più in generale, delle “batterie” dei rapinatori a mano armata che in quegli anni terrorizzano l’Italia, almeno da Napoli in su?
    E soprattutto: possibile che le bande cosentine avessero sviluppato dal nulla (e praticamente da sole) questa “expertise”?

    La parola al pentito

    In uno dei consueti verbali-fiume, l’ex boss Franco Pino rilascia alcune dichiarazioni inequivocabili.
    La prima riguarda l’ascesa criminale dei gruppi cosentini, avvenuta proprio attraverso le rapine: «Eravamo cani sciolti, poi cominciammo a fare gruppo dando l’assalto ai vagoni portavalori sulla tratta ferroviaria Paola-Cosenza» (appunto…).
    Nella seconda dichiarazione, più generica, Pino fa un riferimento esplicito alla compartecipazione di forestieri, in particolare catanesi.

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    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    Questa affermazione, tra l’altro, è riscontrata da una retata del 19 gennaio 1981. In quell’occasione finiscono in manette trentuno persone, sei di questi sono pregiudicati di Catania.

    Come nasce una ’ndrangheta

    La storia è risaputa fino alla noia, ma occorre un richiamo per chiarire meglio il concetto: con la morte del vecchio boss Luigi Palermo detto ’u Zorru (1977), la mala cosentina cambia struttura.
    Perde l’aspetto popolare, col suo sottofondo di “bonomia”, e mira a diventare una mafia.
    Una cosa simile, per capirci, a quel che nello stesso periodo accade a Roma, in particolare con l’ascesa della Banda della Magliana.

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    La Banda della Magliana

    Le batterie criminali cosentine confluiscono nei due gruppi che si contendono a botte di morti il controllo del territorio: il clan Pino-Sena e quello Perna-Pranno.
    Le rapine portano soldi, pure tanti, che servono a finanziare le cosche che, come tutte le attività, hanno costi non indifferenti: le paghe ai picciotti o ai killer, l’acquisto delle armi e della droga, le spese legali e l’assistenza ai familiari dei carcerati.
    Ma, anche per questo, le rapine sono un criterio di selezione dei picciotti o aspiranti tali.

    Da “grattisti” a “sgarristi”

    Un’altra frase di Franco Pino definisce con grande efficacia questo processo: «Eravamo grattisti e siamo diventati sgarristi».
    Tradotto in soldoni: i rapinatori più bravi, cioè capaci di tenere il sangue freddo e di non usare a sproposito le armi, entrano nelle cosche col grado di picciotto.
    Assieme a loro, agiscono i professionisti indipendenti: i catanesi menzionati da Pino (e quelli finiti in manette), ma anche romani.
    Il meccanismo è piuttosto semplice: il boss “benedice” e le batterie miste, di picciotti e indipendenti, eseguono. Quindi una quota del bottino finisce al capo e il resto viene diviso.
    Questo spiega perché i colpi diventano sempre più spettacolari e lucrosi. Ad esempio, il celebre assalto al furgone della Sicurtransport.

    Cosenza a mano armata: l’assalto alla diligenza

    L’episodio è uno dei più clamorosi nelle vicende criminali cosentine. Sia per il bottino, novecentotrenta milioni dell’epoca, sia per la dinamica, ricostruita anche dal collaboratore di giustizia Dario Notargiacomo nelle pieghe del processo Garden.
    È l’11 agosto 1981. Il portavalori viene seguito a distanza proprio da Notargiacomo, che fa da staffetta a bordo di una moto potente.
    Ed è sempre Notargiacomo a segnalare ai suoi l’arrivo del furgone, che finisce in una trappola micidiale.

    Un camioncino, messo di traverso sulla strada, blocca il portavalori. Contemporaneamente, un’altra auto, alle spalle del mezzo, impedisce la retromarcia.
    Quindi escono fuori i rapinatori: uno di loro spara contro il parabrezza, un altro infila un candelotto di dinamite nel tergicristalli.

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    Mario Pranno

    Sembra la scena di uno di quei poliziotteschi che all’epoca sbancavano ai botteghini.
    Invece è una storia vera, che prova la determinazione con cui i cosentini tentano di non essere secondi a nessuno. Che ci siano le cosche dietro quest’operazione, lo prova la successiva retata, in cui le forze dell’ordine recuperano parte del malloppo e fanno scattare le manette ai polsi di sei persone.
    Tra queste Mario Pranno e Francesco Vitelli.

    Un “milanese” in trasferta

    Nelle rapine cosentine c’è anche chi ci ha rimesso la carriera criminale.
    È il caso di Ugo Ciappina, uno dei più celebri rapinatori italiani.
    Classe 1928, di famiglia comunista originaria di Palmi, Ciappina partecipa alla Resistenza, dove suo fratello Giuseppe ha un ruolo forte: è contemporaneamente dirigente del Pci clandestino di Como e ispettore politico delle brigate Garibaldi.

    Ugo Ciappina in una immagine d’epoca e in una foto di pochi anni fa, ormai anziano

    Nel dopoguerra, Ciappina tenta vari mestieri. Poi mangia la foglia e assieme a varie persone, tra cui un ex fascista, fonda la Banda Dovunque, detta così perché agiva dappertutto. Grazie a questa batteria, il Nostro si fa un nome nella ligera, cioè la mala milanese.
    Tant’è che riprende alla grande l’attività una volta uscito di galera da dove entra ed esce di continuo.

    La rapina di via Osoppo a Milano

    Nel 1958 partecipa a uno dei colpi più sensazionali dell’epoca: la rapina a un portavalori a via Osoppo, nel cuore di Milano.
    Il bottino è lautissimo: 114 milioni di lire di allora, ancora non toccati dall’inflazione. Preso e condannato, esce di carcere nel 1974.
    Eppure proprio a Cosenza, Ciappina prende uno scivolone: lo arrestano sempre nel maledetto 1981 per un tentativo di rapina alla Banca nazionale del lavoro. Ma evita la condanna.
    Alla faccia della città “babba”…

  • L’Acquario a secco: quale futuro per il teatro cosentino? [VIDEO]

    L’Acquario a secco: quale futuro per il teatro cosentino? [VIDEO]

    Cambiare, certe volte, vuol dire beffare la morte. È la partita cui è impegnata la Cooperativa del Centro Rat, anima del teatro dell’Acquario. Da tempo il teatro di via Galluppi fa i conti con difficoltà economiche ormai non più eludibili. E oggi si prepara al cambiamento che potrebbe risultare necessario per non chiudere bottega.

    Cosenza, via Galluppi: l’ingresso del Teatro dell’Acquario

    «Abbiamo un credito presso la Regione di circa centomila euro e debiti verso il proprietario dello spazio che ospita il teatro per quarantamila», spiega Carlo Antonante, annunciando diverse e fin qui promettenti interlocuzioni per ridare fiato alla quarantennale storia dell’Acquario. Se il denaro atteso dalla regione arrivasse, non solo si salderebbero i debiti, ma si potrebbe anche guardare al futuro, sia pure in maniera differente. Infatti sostenere i costi del teatro rimarrebbe difficile e urge trovare soluzioni alternative.

    [CLICCA SULL’IMMAGINE IN APERTURA PER VEDERE L’INTERVISTA]

    Il teatro dell’Acquario trasloca: ma dove?

    E qui entra in gioco il Comune, che ha promesso la disponibilità di altri spazi, come per esempio la Casa delle culture. «Lì ovviamente manca un palco, ma quegli spazi potrebbero ospitare i nostri progetti formativi, molto importanti sul piano economico». Sempre dal sindaco di Cosenza è giunta un’altra ipotesi che riguarda l’uso del Cinema Italia-Tieri. Il Tieri già da un anno è gestito da Pino Citrigno, che aveva vinto un bando proposto dalla passata amministrazione, ma un incontro tra le parti avrebbe aperto alla possibilità di far convivere le due esperienze. Né manca l’interessamento di privati. Assai recente è l’incontro tra i membri del Centro Rat e Bianca Rende ed Enzo Paolini, mirato alla ricerca di una soluzione.

    La Casa delle Culture a corso Telesio, sede storica del municipio di Cosenza prima del trasferimento in piazza dei Bruzi

    L’eredità di Antonello Antonante

    Insomma si cambia per non morire, ma non è detto che questo sia un male, forse perfino una opportunità per rilanciare una storia antica, nata oltre quaranta anni fa nella città vecchia, partorita da un gruppo di intellettuali che già all’epoca animavano la scena culturale della città, tra cui ovviamente il compianto Antonello Antonante.
    Fu lui assieme ad altri a trasformare quella esperienza prima in un teatro sotto una tenda e successivamente ad aprire l’Acquario di via Galluppi. Oggi ai suoi compagni di avventura il compito di affrontare l’ulteriore cambiamento. Perché certe eredità non sono fardelli, ma semi da coltivare.

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    Antonello Antonante (foto Alfonso Bombini 2020)