«Quando a Cariati hanno chiuso l’ospedale è stato come se avessero chiuso la Fiat». L’amarezza di Cataldo Curia, attivista del comitato Le Lampare Basso Jonio Cosentino, la dice tutta. Perché, oltre a garantire il diritto alla salute, il nosocomio del piccolo centro sulla SS 106 assicurava anche tanti posti di lavoro. Un presidio economico e sociale importante per molti medici, infermieri e personale sanitario della zona.
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L’ingresso dell’ospedale di Cariati (foto Alfonso Bombini)
Quando ha aperto, nel 1978, era una struttura così all’avanguardia che chi era già emigrato al nord decideva di tornare a Cariati per partorire “a casa”. «Mia madre abitava a Bolzano e decise di farmi nascere all’ospedale di Cariati perché all’epoca era una struttura all’avanguardia», rivendica emozionata una giovane donna, all’uscita dal cinema San Marco di Corigliano Rossano. È il 6 dicembre e ha appena visto la seconda anteprima nazionale del film documentario C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando, dei registi Federico Greco e Mirko Melchiorre, prodotto da Studio Zabalik.
C’era una volta l’ospedale a Cariati
I due film-maker romani hanno scelto di iniziare proprio dalla punta dello Stivale, con tappe a Reggio e Rossano, il tour di questo “western” sulla distruzione della sanità pubblica in Italia. Un richiamo a Sergio Leone in salsa calabra, a partire dalla chiusura dell’ospedale di Cariati con la «resistenza epica» dei cittadini che lo hanno occupato durante la pandemia per chiederne la riapertura. C’era una volta in Italia è a tutti gli effetti il sequel di PIIGS, del 2017, film narrato da Claudio Santamaria, che racconta gli effetti nefasti delle politiche di austerity sul caso specifico del lavoro della Cooperativa sociale Il Pungiglione di Monterotondo (Rm).
Federico Greco durante le riprese a Cariati
Stavolta Federico Greco torna alle origini. «Mio padre era di Crotone – ricorda il regista – e ho riscoperto questa terra filmandola». Si trovavano proprio nel capoluogo pitagorico, con il collega Melchiorre, e stavano facendo riprese per Emergency all’ospedale dove era appena arrivato Gino Strada per gestire il reparto covid.
Lì vengono a sapere dell’occupazione dell’ospedale di Cariati e vanno subito a capire cosa stesse accadendo. «Non ricordo altre occupazioni di un ospedale prima d’ora – spiega Melchiorre – e ci ha colpiti il coraggio e la tenacia di questi cittadini, giovani e anziani insieme, che sono andati avanti a testa alta e con pazienza per rivendicare il diritto alla salute».
Così è successo che il film è diventato parte integrante dell’occupazione. «Abbiamo seguito – spiega Greco – la lotta delle Lampare per molto tempo. Infatti abbiamo narrato sia i momenti duri, tristi, sia quelli molto entusiasmanti». Come l’appello di Roger Waters, proprio durante la loro intervista. «Le sue parole, come avete visto, sono finite su tutti i telegiornali e l’ospedale di Cariati è diventata una questione internazionale».
Proprio come il documentario che, nel solco di PIIGS, segue il doppio binario glocal.
Come distruggere la sanità pubblica
Si parte dalla storia di un piccolo territorio e gli effetti delle politiche globali su di esso. La privatizzazione della sanità e il Washington Consensus, le dieci raccomandazioni dell’economista inglese John Williamson al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale e al Tesoro degli Stati Uniti, che puntavano alla liberalizzazione del commercio estero e del sistema finanziario, con l’obiettivo di attrarre capitali stranieri nei PVS (Paesi in Via di Sviluppo) per condizionare l’intervento statale nell’economia.
Poi la riforma del Titolo V della Costituzione italiana, nel 2001, che di fatto trasforma il Sistema Sanitario Nazionale, in un sistema sanitario regionale, aggravando le grandi disparità economiche e sociali tra Nord e Sud Italia e la conseguente emigrazione sanitaria da quest’ultimo verso il centro-nord.
Come risultato, documentato nel film, un’ambulanza privata della Misericordia, che si inerpica di corsa e a fatica sulle strade dissestate dell’entroterra jonico «che sembrano bombardate», fa notare Greco, per andare a prendere con la barella una persona nel paesino di Scala Coeli. «Abbiamo voluto mostrare, a chi calabrese non è, cosa significhi essere costretti a percorrere anche poche decine di chilometri dissestati in questi luoghi abbandonati, nella rincorsa al primo Pronto Soccorso vicino».
Indonesia, Cile, Calabria: a ciascuno la sua Giacarta
Il “metodo Giacarta” fu il massacro di comunisti nel genocidio in Indonesia deciso dal generale Suharto nell’ottobre 1965. Si replicò in Cile, quando per le strade di Santiago comparirono le scritte Ya viene Jacarta, un disegno mortale contro il presidente democratico Salvador Allende (e i suoi sostenitori), ucciso dal golpe militare di Pinochet l’11 novembre 1973.
Giacarta, inteso come massacro dei diritti sociali, a partire dalla salute, è arrivata anche in Calabria. C’è una data precisa che lo testimonia e ringraziamo la collega giornalista Giulia Zanfino per averci concesso le immagini dell’intervista a Roberto Occhiuto, allora neoeletto deputato Udc, oggi presidente della Regione Calabria e commissario straordinario della Sanità calabrese.
Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto
Il 9 ottobre 2010 sedeva in prima fila nel gremito Teatro Morelli di Cosenza, dove l’ex presidente Scopelliti presentava il piano di rientro dal debito sanitario. Occhiuto rivendicava la riforma e i tagli: «Oggi spieghiamo ai cittadini e agli operatori del settore che la sanità non può più essere un baraccone per alimentare clientele». E ancora: «Si possono tagliare i posti letto per impedire i ricoveri impropri e investire, allo stesso tempo, nella medicina territoriale, perché la qualità dei livelli essenziali di assistenza sia garantita a tutti».
Su la testa
Ma Giacarta arriva e non perdona. Solo che, anche in un territorio spopolato e spolpato come la Calabria, c’è chi non ci sta e si mobilita. E richiama l’attenzione di chi calabrese non è, ma coglie l’importanza di certe storie e decide di raccontarle, «anche se rischiano di vendere poco», spiega Alessandro Pezza, di Studio Zabalik, produttore del film. «A noi – precisa – piace il cinema scelto dagli spettatori e non imposto dalle case di produzioni. Ci siamo innamorati di questa storia perché i ragazzi dell’ospedale di Cariati hanno alzato la testa contro le ingiustizie e sono un esempio da seguire. Con questo film speriamo di farci anche portavoce dei diritti dei calabresi. Del resto, ormai ci sentiamo un po’ calabresi anche noi».
Nell’attesa che arrivino risposte certe sulla riapertura completa dell’ospedale, continuano le proiezioni del film con la lotta delle Lampare del Basso Jonio Cosentino contro Giacarta “mani di forbice”. Le prossime? Il 12 dicembre al cinema San Nicola di Cosenza alle 20 e al Nuovo Olimpia di Roma alle 21. Il 13 dicembre, sempre a Roma, ore 21, cinema Giulio Cesare.
Sostenibilità Esg per le piccole e medie imprese. È questo il titolo del convegno in programma lunedì 12 dicembre alle ore 17 nella sala De Cardona della Banca di Credito cooperativo Mediocrati a Rende.
Il convegno è stato promosso da Eftlia in collaborazione proprio con la Bcc Mediocrati.
Eftilia è presente anche in Calabria grazie allo studio del dottore commercialista Clemente Napoli.
Lo scopo dell’evento è quello di diffondere la cultura della sostenibilità nelle comunità imprenditoriali, finanziarie ed amministrative del territorio ed assicurare la crescita di medio-lungo periodo delle PMI.
L’iniziativa può contare sul patrocinio de il Sole24ore, di cui Eftilia è partner qualificato, e su quello di Confindustria Cosenza.
Dopo i saluti di Nicola Paldino (presidente Bcc Mediocrati) e Fortunato Amarelli (presidente Unindustria Cosenza), interverranno: Paolo Sardo (presidente di Eftilìa); Mauro Pallini, presidente di Scuola Etica Leonardo; Annarita Trotta (docente Unical e amministratore delegato di BCC Mediocrati).
Coordinerà i lavori del convegno Federico Bria, segretario generale Bcc Mediocrati.
Addio compagno Gagarin. Adesso è il tempo di tovarišč Conte. Segno dei tempi e della turbopolitica. Macella, trita e inghiotte tutto: storie, appartenenze, colori. Nessuno, però, ha mai avuto il coraggio di rimuovere e cambiare il nome della piazza intitolata al cosmonauta russo. A Pedace, oggi frazione di Casali del Manco, una cosa del genere potrebbe ancora provocare una sollevazione popolare.
Fausto Gullo, antifascista e ministro (foto bibliotecagullo.it)
Nel cuore della rossa Presila di Fausto Gullo e Cesare Curcio il colore dominante è il giallo. Nelle ultime elezioni politiche il Movimento 5 Stelle ha raggiunto il 46,1 % alla Camera. Il Pd si è fermato al 13,28 %, tallonato da Fratelli d’Italia con il 12,81%.
Le destre sono pronte per la spallata alle prossime amministrative. Dove i grillini fanno sempre fatica a sfondare. Un copione già visto pure altrove quando si parla di crisi della sinistra.
Presila zona rossa: Ingrao fuggiasco a Pratopiano di Pedace
Pedace ha rappresentato per la sinistra calabrese un simbolo. Qui fu nascosto Pietro Ingrao, in fuga dai fascisti. Una storia di resistenza in un Sud dove non erano tanti ad opporsi al regime di Mussolini. Uno dei pochi fu Cesare Curcio, meccanico specializzato. Tenne con sé Ingrao, futuro presidente della Camera, nei boschi di castagne a Pratopiano. Oggi ha raccolto il suo testimone ideale il figlio Peppino, attivista e scrittore, raccoglitore di storie di briganti.
Pietro Ingrao a Pedace prima e dopo la caduta del regime fascista. In alcune foto compare Cesare Curcio
È ancora lì la casa dove fu nascosto il dirigente del Partito comunista italiano. L’hanno trasformata in una suggestiva abitazione di montagna. Basta salire poche centinaia di metri e un’altra costruzione ospita un piccolo museo familiare. Con gli atti parlamentari del padre eletto parlamentare del Pci e poi morto troppo presto. Foto, carte, documenti. Uno dei piccoli tesori nascosti. Non lontano in linea d’aria da San Martino di Giove a Canale di Pietrafitta, dove morì Gioacchino da Fiore.
Peppino Curcio, storico e attivista (foto Alfonso Bombini)
Il Pd governa con Fratelli d’Italia
La memoria è un esercizio difficile. Consente di capire – o, almeno, provarci – perché sono cadute storiche roccaforti della sinistra. Sesto San Giovanni e Sant’Anna di Stazema su tutte. Passate a destra. Figuriamoci se questo non può succedere a Casali del Manco. Comune, tra l’altro, dove un primo cittadino del Pd governa con un assessore di Fratelli d’Italia.
Sul punto Peppino Curcio, già candidato a sindaco del M5S, ha le idee chiare: «L’inciucio ha un suo peso». È un ritorno alle «politiche di prima, quelle del mettersi d’accordo per fini elettorali». Ne ha pure per il Movimento Presila Unita, a suo dire «rivelatosi una succursale del Partito democratico».
Parole che Peppino Curcio pronuncia nella casa museo di Fausto Gullo a Macchia. Un condensato di storia e aneddotica: appunti del ministro dei contadini, ricordi catalogati di uno dei padri costituenti, carte del processo Valpreda (difeso dall’illustre giurista). Senza dimenticare quella lettera di Togliatti che ringrazia Gullo per il dono ricevuto: deliziosi fichi calabresi.
I timori dell’ex segretario provinciale del Pd
Persino Luigi Guglielmelli, ex segretario provinciale del Pd, ha il timore che l’assalto al fortino Presila possa andare a segno prima o poi: «Mi auguro che il prossimo primo cittadino di Casali del Manco non sia di centrodestra, ma non è scontato». I motivi? «C’è una grande frammentazione della sinistra e del M5S, non vedo in campo un percorso unitario».
Luigi Guglielmelli, ex segretario provinciale del Pd di Cosenza
Non deve meravigliare più di tanto il fenomeno delle liste civiche «che racchiudono – puntualizza Guglielmelli, oggi nella direzione regionale del partito – tutto l’arco costituzionale, è molto diffuso dappertutto». Ultimo tabù ancora in piedi? «Anche nelle formazioni civiche con presenze di centrodestra il sindaco è sempre stato iscritto al Pd».
I tempi sono maturi per il centrodestra
Chi è convinta che Casali del Manco sia vicino ad essere conquistato dal centrodestra è Emma Staine, militante della Lega che, poco tempo dopo aver parlato con I Calabresi, è diventata assessore regionale nella Giunta di Roberto Occhiuto: «I tempi sono maturi. Negli ultimi 5 anni ci siamo affermati scardinando determinati dogmi e luoghi comuni che volevano la Presila rossa». Ormai da quattro anni il partito di Salvini – spiega – «è stabile dall’8 al 10% raggiungendo picchi del 15 alle Europee affermandosi lo scorso anno a Celico come prima forza alle regionali».
Emma Staine, assessore regionale alle Politiche sociali e ai Trasporti
Zona rossa e memoria corta
Uno spostamento spiegato anche in termini di «perdita della memoria storica di un luogo». Fausto Gullo, Cesare Curcio e il sindaco Rita Pisano «purtroppo sono figure che interessano soprattutto gli studiosi». Francesco Scanni, ricercatore di Scienze Politiche all’Università di Teramo e attivista di Voci in Cammino, fa notare «la distanza fra queste personalità di grande valore e il ceto politico attuale». Perché «non basta avere avuto cittadini così illustri, resta un obbligo ricordarli, riconoscerne l’importanza e trasmettere l’insegnamento alle generazioni future».
Francesco Scanni, ricercatore universitario a Teramo e attivista di Voci in Cammino (foto Alfonso Bombini)
L’antipasto del totonomi
L’attuale maggioranza in consiglio comunale tenterà di restare in sella in vista delle amministrative del 2024. Probabilmente cambiando il candidato a sindaco. Che non dovrebbe essere l’attuale primo cittadino Nuccio Martire. Uno tra gli ex sindaci di Trenta e Casole Bruzio, Ippolito Morrone e Salvatore Iazzolino, potrebbe decidere di scendere in campo. Così come l’ex primo cittadino di Pedace, Marco Oliverio. Defilato ma attento si muove l’ex consigliere regionale, tornato nel Pd dopo la sbornia De Magistris, Giuseppe Giudiceandrea. Il centrodestra osserva con attenzione. Se le divisioni a sinistra resteranno ferite aperte, il tempo di conquistare l’ex roccaforte rossa è davvero arrivato. E Gagarin sarà costretto a farsene una ragione.
Anche Telesio sul web si unisce al rito dei cuddrurìeddri
Eppure ci sono almeno tre posti di Cosenza (li sveleremo alla fine così siete obbligati a leggere fino in fondo) in cui il nostro fritto tipico fa durare le vigilie non un mese (7, 24 e 31 dicembre, ben più raramente il 5 gennaio) ma dodici mesi, o quasi.
Forse non tutti sanno che anche da febbraio a novembre, in un giorno della settimana fissato solitamente nel venerdì – momento votato al pesce o comunque negato alla carne, di qui forse lo scivolamento semantico alle ricette di mare natalizie e di lì a tutto il resto, fritti compresi – su fogli di carta ‘nzivàti vengono annunciati in vetrina, spesso in incerto lettering tracciato rigorosamente a pennarello, banchetti e pentoloni d’olio che vanno in ferie solo quando il caldo si fa insopportabile anche per i forzati dell’unto e della frissùra.
La stessa cosa accade con le frìttule e gli scarafùagli, in poche e selezionatissime macellerie tipo Pilerio – nomen omen – su via Nicola Serra, zona Loreto, una di quelle botteghe dove al posto dell’insegna c’è una minuscola targhetta di latta con la licenza risalente agli anni ‘50/60. Ma non divaghiamo ché la faccenda è seria.
Il mistero della vecchiaréddra
A Cosenza esiste una vecchietta natalizia più iconica della Befana. Sarebbe stato bello, infatti, se il senso di questo articolo fosse stato “Alla ricerca della vecchiaréddra perduta”: o meglio, bisognerebbe risalire alla sua escalation – da circoscrivere al massimo all’ultimo ventennio – e soprattutto alla ricetta originale.
In assenza di fonti, nel range bibliografico che va da La cucina calabrese in 300 ricette tradizionali di Ottavio Cavalcanti (Newton&Compton, 2003) al formidabile e forse sottovalutato Calabria in cucina di Valentina Oliveri (Sime Books, 2014), abbiamo trovato una flebile traccia della dicotomia forma circolare vs. forma allungata soltanto in un remoto volumetto sulle grandi cucine regionali edito dal Corriere della Sera nel 2006.
Crispeddi appena fritte
Ebbene, in un glossario in appendice, alla voce Crispeddi ecco, pur senza menzione della versione con G iniziale, una distinzione di massima: «Due le versioni di questa preparazione: una salata, fatta con pasta da pane lavorata con strutto fino a ottenere panini allungati, farciti con acciuga dissalata e origano, quindi fritti; e una dolce, preparata con ricotta zuccherata e, una volta fritta, servita cosparsa di zucchero».
Niente di più sulla versione circolare e salata né, soprattutto, sulla genderizzazione – come direbbe Michela Murgia – e sulla connotazione anagrafica imposte a Cosenza alla versione salata e allungata con acciuga. Insomma, per ora la genesi anche etimologica della vecchiaréddra resta avvolta nel mistero, oltre che nell’alone di frittura.
Acciughe in una vecchiaréddra
Qualcosa di erotico
Senza avventurarci nella infinita e periodica disputa sulla corretta grafia/dizione del termine maschile (doppia D o doppia L? Serve qualche H?), ma non dopo aver preso posizione optando per la forma basic, diciamo anzitutto che la pronuncia è quella dell’inglese children.
Poi chiariamo una cosa: il cuddrurìaddru – prima ancora della variante vecchiaréddra che è comunque successiva, in virtù di un imprinting tipicamente patriarcale vigente nel mondo bruzio – non è da considerarsi una “devozione” nell’accezione partenopea o comunque meridionale del termine; laddove per “devozione” lì s’intende una tipicità del Natale, ciò che al contrario risulta impossibile nella città blasfema e sboccata dove «rompere la devozione» significa tutto tranne che «rompere una ricetta tradizionale natalizia» (sulla “divozione” nel senso di organo riproduttivo maschile manca un solido corredo filologico, persino nel fondamentale dizionario di Gerhard Rohlfs, il quale su cuddrurìaddru spiegò invece il legame con il greco kollùra = ciambella, nelle varie forme dialettali calabresi che abbracciano diversi cibi a forma circolare, dal pane ai biscotti ai fichi alle focacce e persino ad anelli vegetali o di vimini).
A Cosenza Vecchia si venerano i cuddrurìaddri
Piuttosto, antropologi del cibo dovrebbero chiarire il capovolgimento concettuale nonché formale in base al quale la versione maschile della ricetta (cuddrurìaddru, di qui in poi solo C, per una questione di comodità) abbia forma circolare mentre quella femminile (vecchiaréddra, V) sia allungata: una specie di teoria lgbtqi+ adattata alla gastronomia, notata anche quando si parla di fico, frutto-non-frutto e per di più transgender (noi dicendo «ficu» bypassiamo eventuali dibattiti colti su fica, fic* o addirittura ficə).
E dunque ritorniamo alla disfida della frissùra, che ne contiene altre minori al suo interno, a partire dall’olio da usare: proviamo a fare un po’ di chiarenza (cit.).
Olio, ingredienti, ripieni
Essendo la cucina e in generale “il mangiare” qualcosa di sacro alle nostre latitudini (un infinito per definire al contrario quanto di più concreto esista, per un cosentino: «Hai portato il mangiare?»), tutto ciò che è contenuto in questo perimetro diventa oltremodo serio, appena un gradino sotto il Cosenza ma uno sopra tutto il resto (donne, famiglia, soldi etc.).
Capitolo olio: l’attualità di questo strano 2022 ci fa impattare purtroppo su prezzi altissimi per gli oli di semi (girasole, arachidi, misti), un tempo considerati “poveri” e oggi con prezzi da Brunello di Montalcino. E allora, con un colpo di reni autarchico-sovranista possiamo optare anche per un extravergine (evo) locale, come giustamente suggerisce Dino Briglio Nigro, vigneron dalla barba marxista famoso per le sue magnum, non nel senso di armi ma di bottiglie di vino: «Olio d’oliva, sempre, almeno a Cleto dove il più povero ha 50 ulivi». Dunque, chi può lo faccia, magari mettendo da parte gli onanismi cerebrali sul celeberrimo e temutissimo “punto di fumo”.
Altro argomento su cui non esistono disciplinari o ricette depositate – se non nelle agende delle cuciniere cosentine, patrimonio (im)materiale Unesco – è il giusto dosaggio di patate, farina/e, lievito, nonché sui ripieni delle V, e quindi alici, ‘nduja o sardella con relative varianti da bancone dai nomi improponibili tipo “pesciolini piccanti”; ci avventureremmo in un campo più minato della carbonara o dello spritz perfetti. Una cosa è certa: meno patate significa spesa più bassa dunque meno materia prima e più farina insomma qualità più scarsa.
A proposito, le patate: ancora ieri un fruttivendolo (zona Sopraelevata) consigliava con sicumera quelle a pasta gialla di Parenti, sfuse, rispetto a più anonimi ed economici sacchetti. Naturalmente la Ipg silana, forte anche del battage pubblicitario nazionale e della massiccia presenza nella grande distribuzione, la fa da padrona.
Su una cosa si può essere invece d’accordo: in fatto di accompagnamento musicale a tema ci sentiamo di consigliare la bossanova di Enrico Granafei, un must che per i cosentini social è paragonabile soltanto al video virale e poeticissimo “pàranu piume” quando si deve commentare l’arrivo della prima neve, magari con tanto di hastag #jarammalidìtta.
Ma ora è il momento di allargare la visuale, fare un passo indietro e alzare un altro po’ la musica, e soprattutto la fiamma.
Cuddrurìaddri per Carlo V
Il panzerotto è il generico del C come la brioscia con la palla lo è del maritozzo. Non solo: visto che il fritto è qualcosa di ancestrale, a Cosenza il tempio del freet (perché non chiamare con questa crasi lo street food fritto? mah) per eccellenza si trova alla confluenza tra Cratie Busento: luogo germinale della città. In principio fu la friggitoria Sasà, tra l’altro uno dei pochi luoghi o forse l’unico dove potete trovare le birre artigianali sanlucidane Gio Bi, si trova nel punto esatto da cui Federico II passò 800 anni fa imboccando il futuro corso Telesio per andare a inaugurare il Duomo, la porta dell’entrata solenne, tre secoli dopo, di Carlo V al quale magari fu offerto un embrionale C (la V ancora non esisteva…) in segno di ospitalità.
Il Duomo di Cosenza
Poco lontano, su via Sertorio Quattromani, le narici di un piccolo Stefano Rodotà venivano sopraffatte dalle invadenze olfattive di una arcaica friggitoria sotto il livello della strada, dove anni dopo avrà sede Reda, meta prediletta dei panzerotti-addicted di tutte le età soprattutto a cavallo tra gli ’80 e i ‘90.
Sì, perché i cosentini raramente rinunciano allo spracchio (sottocategoria culinaria del chiurito) del panzerotto: sostituisce in un certo senso la michetta al prosciutto del centro-nord Italia ma anche il morzeddu (letteralmente piccolo boccone) dei catanzaresi, i quali ci scusino anche loro per la forma scelta, con S e senza H.
Una short list minima (10 posti)
Si può alimentare questa dipendenza tutto l’anno in altri luoghi simbolo di Cosenza come La Rotonda sul sagrato di piazza Loreto, mentre simili stand in legno vengono montati nel periodo pre-natalizio come emanazione di pizzerie o bar aperti tutto l’anno (vedi Totò pizza su viale Mancini in zona carcere), U paisanu (via XXIV Maggio) in questi giorni parcheggia un’Ape Piaggio dovutamente carenata in versione friggitrice mobile ma in realtà immobile, e con la fila. Poi meritano una menzione la pasticceria Orrico su viale Cosmai (solo su prenotazione, e quest’anno anche con C e V “sospesi” per l’associazione di volontariato Home odv), l’Arte del pane (via Monte San Michele), il Bronx (via Caloprese – piazza Loreto), Pasti e impasti (ex Pizzami, piazza Europa), Comalpi (via Panebianco).
Covid o non covid, a Cosenza si frigge in uno dei chioschi aperti per le festività natalizie (foto Alfonso Bombini)
Infine tra gli eventi interessanti in ambiente mixology si segnala, sabato 10 dicembre dalle 18,30 alle 22, un aperitivo a base di C e V con i distillati dell’Opificio artigianale degli spiriti(via Rivocati) e le creazioni artistiche di Toni Annunziata (La Sal De Color); l’8, il 24 e il 31 dicembre tornano al Gizmo di via Quasimodo a Rende gli Spritzurìaddri (gradita la prenotazione).
L’adesivo che omaggia i cuddrurìaddri apparso in questi giorni sui muri della città
Fuori da questa lista, che poteva arrivare tranquillamente a 100, sia chiaro, restano fuori decine di locali e soprattutto uno che il “freet food” ce l’ha nell’insegna: se Siamo Fritti (via Roma) non sforna né C né V lo fa per una scelta di campo, quasi filologica, una citazione uguale e contraria che rende un tributo al compianto Tonino Napoli: al tempo del Pantagruel di Rende, proponeva anzi imponeva ai clienti i turdiddri come dolce fuori dal periodo canonico. «Perché dobbiamo mangiarli solo a Natale?». Un concetto espresso bene in un adesivo che da qualche giorno inizia a occhieggiare sui muri della città: “Cuddruriaddru everywhere”.
Tonino Napoli
Dove trovarlə sempre
Il bar 667 (via Nicola Serra lato piazza Zumbini) è stato tra i primi a sfruttare l’onda lunga, e oleosa, della frittura natalizia sdoganandola presso i fautori del C o della V senza legacci festivi comandati. Alla vecchia scuola appartiene anche il Bar del Moschettiere, mitologico locale in zona autostazione dove potete trovare una delle ultime zuccheriere con doppio cucchiaino e coperchio automatico rimaste in città, o forse in Calabria o Italia (in Europa sarà già intervenuta l’Ue).
Altro luogo dove si pratica il “freet” è all’inizio di via degli Stadi (angolo Città 2000 / San Vito alto) al minimarket Gran Risparmio, uno di quei posti che mantengono il fascino vintage nonostante il recente cappello della Gdo, in questo caso Carrefour Express. Queste segnalazioni risalgono al periodo pre-Covid quindi forse hanno subìto un rallentamento nell’ultimo triennio, ma basta attendere il passaggio della Befana per verificare il primo venerdì possibile se la tradizione continua. Speriamo di sì.
Vecchiaréddre worldwide
Infine, tornando a cosa bere, per fare i toghi potremmo consigliare un pairing con una bollicina (ormai non ne mancano di ottime anche calabresi) che notoriamente «sgrassa», invece optiamo per una birra artigianale o un vino casarùlo mediamente forte e capace di creare un tappeto alcolemico adeguato per i volumi dicembrini, quando un hang-over lungo un mese (7 dicembre / 7 gennaio, quando il mantra al bar torna a essere “Uvucafé?”) vi renderà all’altezza di una sfida con quelle nonnette di Dublino che nel tardo pomeriggio al pub alternano i bicchierini di whisky con le pinte di Guinness. Ma quelle, benché altrettanto meritevoli di rispetto, ci mancherebbe, appartengono a un altro genere di Vecchiareddre.
Non si sono ancora spente le polemiche per Marco Bellocchio, autore della dibattuta serie Tv Esterno notte che ha toccato un nervo scoperto della recente storia d’Italia come il “caso Moro”. Bellocchio, originale e sempre controverso cineasta, oggi è per tutti l’autore della pellicola sull’oscuro rapimento e la morte di Moro, ribadito nella sequela ipnotica e spiazzante della recente serie TV.
Quasi nessuno, invece, ricorda un suo lontano film politico, documento dal vero su povertà e sottosviluppo del “popolo meridionale”.
Eppure si tratta di un film di Bellocchio appena consecutivo al suo esordio di successo nel grande cinema, che riporta alla vicenda giovanile del cineasta e ad un periodo – mai rinnegato – di impegno politico militante e fortemente ideologizzato, in cui egli incontrava la realtà marginale del Sud e della Calabria, a Paola.
Fabrizio Gifuni interpreta Aldo Moro nella serie tv “Esterno notte”
Bellocchio e la rivoluzione
Accadde quando Bellocchio era già al suo terzo film, dopo gli anni da studente del Centro Sperimentale di Cinematografia. In questo film-documento girato in Calabria, a Paola e a Cetraro, con mezzi di fortuna, emergono l’impegno politico ela vena sociale di Bellocchio. Da militante rivoluzionario maoista, racconta con il suo occhio di cineasta e in presa diretta, il Sud arretrato e povero e le lotte per l’occupazione delle case popolari nella Calabria di fine anni ‘60.Il lungometraggio “Paola, il popolo calabrese ha rialzato la testa”, girato nel 1969, arriva quattro anni dopo I pugni in tasca e appena due anni dopo La Cina è vicina del 1967.
La proiezione di un film durante una delle ultime edizioni del Locarno Film Festival
Il lungometraggio fu ideato e realizzato con le finalità di un prodotto di propaganda e di azione della “Associazione Marxisti Leninisti Italiani”, meglio conosciuta come Servire il popolo. Dopo un lungoperiodo passato nel dimenticatoio, la pellicola è stata ripresentato per la prima volta al Festival di Locarno del 1998, all’interno di una retrospettiva dedicata al cinema di Bellocchio. La fine del Sessantotto vide Bellocchio impegnato in prima persona nel movimento di estrema sinistra della Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti). Testimonianza di questo periodo di militanza rivoluzionaria fu la sua diretta partecipazione nel 1969 alle azioni per l’occupazione di case popolari organizzata dai militanti di Servire il Popolo, che in quegli anni aveva una sua forte base politica e organizzativa proprio nella cittadina calabrese.
Un manifesto politico con lo stile di sempre
Anche in questa pellicola “meridionalista” con un’impronta da manifesto politico, pesantemente forzata da vincoli ideologici, si intravedono nel suo linguaggio scarno e minimalista, nel girato di un livido e scialbo bianco e nero, le tracce di quello stile filmico e narrativo che renderà sempre riconoscibile la cifra tematica e compositiva del cinema di Bellocchio: l’attenzione insistita per i temi della famiglia, gli spazi chiusi della casa in cui regna il disagio e la miseria morale e sentimentale, l’ombra e la malattia, l’uso della camera che indaga come un occhio acceso che sembra frugare tra le pieghe i volti per scorgervi i segni del tempo e della storia, un linguaggio spesso divagante, astratto, avvitato su sé stesso, e soprattutto l’accamparsi dei corpi nella precarietà dell’esistenza, che riempie l’inquadratura del suo enigma.
Una scena de “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Anche Lou Castel con Bellocchio a Paola
La pellicola maoista girata da Bellocchio in mezzo ai miseri sottoproletari calabresi e tra i tuguri del rione “Motta” di Paola, ben oltra la retorica ideologica e la verbosità che la pervade, è piana zeppa di questi segni e di questo e del suo modo di raccontare per immagini. Non è infatti un caso che a seguire Bellocchio anche in questa sua immersione politica e nella vicenda rivoluzionaria della frazione maoista che ebbe vita nella realtà calabrese, fu, in primo luogo, quello in quegli anni divenne l’alter ego cinematografico di Bellocchio, l’attore svedese Lou Castel, l’indimenticabile Ale de I pugni in tasca.
Lou Castel e Paola Pitagora ne I pugni in tasca
Castel, di fatto, di quel film divenne insieme a Bellocchio, il finanziatore. E in quel periodo di impegno di lotta e frequentazione politica della realtà calabrese, divenne anch’egli un volto noto per le stradine del paese, dove era arrivato la prima volta da Roma a bordo della sua Mini Morris scassata.
I pedinamenti dei carabinieri
Anche Lou Castel nel 1969, tra i fuoriusciti dal Movimento studentesco, aderisce convintamente alla formazione maoista di Servire il popolo. «Sono stato militante per dieci anni, questo resta il mio orgoglio», ha dichiarato di recente. Spintosi anche lui sino a Paola per cercare di sovvertire con la rivoluzione marxista-leninista la Democrazia (Cristiana, che quella sì in quegli anni a Paola comandava tutto), dalla sua partecipazione ai moti maoisti di Paola partì una parabola che porterà poi alla sua espulsione.
Un agente della municipale precede il corteo maoista tra i vicoli di Paola (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Castel fu dichiarato indesiderabile e messo su un aereo per Stoccolma, lontano dall’Italia. Il duo Castel-Bellocchio a Paola era sempre pedinato dai carabinieri, che ne seguivano ogni movimento, sin dalla partenza da Roma. Castel all’arrivo veniva fotografato nel sottopassaggio ferroviario della stazione di Paola e seguito negli spostamenti di Cosenza, Cetraro e San Giovanni in Fiore, che pure in quegli anni furono mete di sortite maoiste.
Un’occupazione in 100 minuti
Per me che ero ragazzino negli anni in cui questo accadeva nel mio paese (sono nato a Paola e lì, in quegli stessi luoghi e tra quelle persone, ho vissuto i mei anni più giovani), quella stagione rappresenta i ricordi di una realtà umanamente complessa, fonte di incontri e di conoscenze successive, e di un insieme di riflessioni politiche e sociali che non hanno smesso ancora, a distanza di anni, di interrogarmi e di farmi problema.
“Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Bellocchio è in fondo la storia in 100 minuti, esemplarmente triste ed esaltante, di un’occupazione di case organizzata e guidata da un gruppetto di militanti dell’allora “partito maoista”, una formazione politica rivoluzionaria che ebbe in quegli anni forti basi organizzative e individualità costitutive del movimento in questa piccola città calabrese.
Triste perché negli occhi della gente poverissima filmata da Bellocchio rivedo più che la comprensione delle ragioni di una lotta, lo stigma di una sfiducia atavica, un fatalismo disperato, una scarsa o nulla coscienza politica, piccoli compiacimenti regressivi, piccoli e supplicanti infingimenti tattici, la necessità di affidarsi all’avucatu del popolo, colui che sa, il tribuno autoproclamato che si incarica per loro di rappresentarne le ragioni e di fare di quei disperati uno strumento attivo “per la rivoluzione proletaria”.
Compagni e compagne di ogni età discutono della rivoluzione in un salottino di Paola. Mao osserva dalla parete (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Ma, detto questo: in quelle condizioni poteva andare diversamente? Ciò che a distanza di tempo mi colpisce di più nelle immagini tramandate dal film calabrese di Bellocchio, è l’entità del cambiamento, la metemorfosi pasoliniana, che, comunque, dopo, è avvenuta. Senza però davvero liberare il “popolo” da altre, più nuove e persino più insidiose sottomissioni e miserie.
Paola, 1969
C’erano in quelle immagini e tutto intorno a quel mondo i segni di una povertà disperata e assoluta: bambini immersi nel fango, vecchi marcescenti, stradine da terzo mondo, l’ospedale cittadino già in rovina prima di essere inaugurato, una catasta di catapecchie in cima al paese vecchio. I vecchi quartieri medievali della Port’a Macchia e del Rione Motta, intorno al castello, dove abitava pure mia nonna e dove anch’io sono cresciuto quando stavo con lei. Recessi marginali che erano buche spaventose, tuguri invivibili.
Io la gente di quel film di Bellocchio sulle lotte per la casa a Paola la conoscevo bene. Ero tra loro, bambino, proprio lì dove fu girato. Forse sono uno di quegli scugnizzi che in un contropiano compaiono anonimi in mezzo alle scene del girato per strada, sulla Motta, tra gli altri bambini che giocano ad aggrapparsi alla rete di ferro sopra il cavalcavia della nuova statale.
1969, l’ospedale non ancora inaugurato e già circondato dalle erbacce ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Il Boom si è fermato ad Eboli
Erano già gli anni del Boom. Ma quasi non si riesce a credere che gli abitanti, i cittadini più poveri e abbandonati di un paese, i proletari e i sottoproletari di quella Paola del 1969, italiani del sud, possano aver vissuto in quelle condizioni mentre altrove e al nord si viveva già, chi più chi meno, in condizioni più dignitose. Ci viene presentata in quel film una realtà durissima, che non ci pare vera, e che adesso risuona così lontana. E invece era verissima, disperata, disperatissima e persino allegra nella sua indecente, scandalosa e misera normalità. Oggi al Sud e in Calabria, anche i paesi sono un’altra cosa, quando va bene e non sono del tutto spolpati dall’emigrazione e dall’abbandono. Oggi posti così li chiamiamo “borghi”, e i vecchi paesi del Sud li candidiamo a mete turistiche, a rappresentare i cosiddetti “marcatori identitari”.
Il sogno della rivoluzione? Una guerra tra poveri
Certo, anche a Paola nel frattempo qualcosa del vecchio centro storico e del cuore antico del paese è stato risanato, ma non per effetto della rivoluzione maoista o per mano pubblica. E persino qualcuna di quelle vecchie catapecchie malsane della Motta, ora restaurata, è stata trasformata in graziosi B&B per turisti. Nel 1969, a chi ci abitava “a forza” pur d’avere un tetto e un ricovero per le famiglie numerose e poverissime (e spesso in qualche casupola ci si contendeva lo spazio col maiale o col ciuccio), i maoisti di quel film proponevano di abbattere con la società borghese anche quel residuo fatiscente di storia millenaria e di occupare le “case nuove”, le case popolari, destinate altrimenti “ai borghesi, ai servi dei capitalisti”, ovvero impiegati e dipendenti statali: altri poveri.
Il sogno della rivoluzione maoista in fondo era tutto lì, in quella rivendicativa e accanita pretesa di metamorfosi pauperistica. Le palazzine IACP appena costruite sul bordo anonimo della Statale 18, non ancora finita. Le case del paese vecchio da buttare giù, contro le case nuove, anguste, brutte e squatrate, ugualmente prive di servizi e dignità sociale, da destinare a un popolo di disoccupati e lavoratori sottoproletari. Era quello il sogno della “rivoluzione maoista”: la casa popolare. Il Sud ribelle trasformato tutto in una Matera di palazzine popolari e senza più i Sassi.
I poveri e l’avvocato del popolo
La cosa che forse resta cinematograficamente più vera di questo film calabrese di Bellocchio, è invece l’uso potente, politico, del montaggio. Un montaggio essenziale, mimetico. Povero, povero come la gente che abitava quei tuguri e quelle stanze senza mobilia vicino al castello. I pezzi di girato sono messi lì in sequenza per esteso, l’inquadratura è fissa e sosta, uno ad uno, su tutti quei volti abbattuti. La scena si riempie dei corpi smunti e sofferenti, istupiditi dalla presenza della camera, agiti da pochi gesti ripetuti, dalle parole che escono come un bolo indigerito dalle loro bocche, lamentele e ridomandate articolate a fatica in un dialetto appesantito da inflessioni ormai inaudite – quando tutto era ancora pre-televisivo.
Marcia rossa a Paola, 1969 (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
In corteo lungo le strade del paese (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Un’altra immagine tratta dal film di Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Militanti e bandiere rosse ripresi da Marco Bellocchio(foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Il popolo che parla smozzica una lingua dolente e torbida, che si incide sull’audio delle pellicola come un anatema inascoltato. Credo siano questi, non gli slogan, le improvvisate “guardie rosse” o le “marce rosse” paesane, non lo spesso e fastidioso strato retorico, fitto di frasi fatte e invettive politiche, la consegna più toccante del film.
Invece fanno spessore allo scheletro minimalista della narrativa di Bellocchio, proprio i momenti in cui c’è il voice overdell’avvocato del popolo, l’intellettuale-commissario che deve mimare la voce anonima di partito, e incarnare l’esigenza dura di spersonalizzazione che richiede la lotta antiborghese, a cui si ispiravano quei militanti di Servire il popolo paolano. Un frasario ruvido e privo di echi sentimentali, sempre in bilico tra demagogia e schematismo: «Gli operai fanno tutto, ma non hanno nulla». L’imperativo rivoluzionario prevaleva sul ragionamento politico, sempre schematico, dogmatico, goffo.
Nel film si assiste da spettatori alla preparazione della manifestazione generale, il clou della lotta, la scena finale, nella sala pubblica, tutta piena dei codici tipici delle riunioni politiche rivoluzionarie, che sembrano riproporre con in scena le plebi irredente del Sud, un parallelo con La Cina è vicina. Un finale illusoriamente trionfale e speranzoso, col corteo che parte dai vecchi quartieri poveri alla volta di quelli più ricchi, il paese dei borghesi. La gente dei quartieri poveri scende per le strade a manifestare e ritorna vittoriosa.
Non solo Bellocchio: maoisti e celebrità
Lo stesso Marco Bellocchio, che immortalò quelle vicende di lotta per la casa e l’ospedale, ad un certo punto prende la parola (o era invece il leader Aldo Brandirali, secondo quanto ricorda qualcun altro dei testimoni dell’epoca) in mezzo a un affollato comizio finale nello sgangherato cinema Cilea. Finì così che l’azione dei maoisti si risolse in una sorta di happening politico. Un “grande raduno popolare e di lotta” dentro uno dei cinema cittadini, concluso con la liturgia consolidata del messianismo comunista alla cinese: “Lunga vita al compagno Aldo Brandirali, ai compagno Todeschini, a Marx, Stalin, Lenin e al compagno Mao Zedong”.
I manifestanti stanno per entrare nel cinema Cilea (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Un intervento nel cinema Cilea (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Al cinema Cilea per rivendicare le case popolari(foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Un altro momento del dibattito nel cinema Cilea (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Sulla scia di quel film politico a Paola passarono tutti i leader di “Servire il popolo”. E dopo quel film di Bellocchio, ai maoisti di casa nostra si avvicinarono, per un brevissimo periodo, anche personalità intellettuali come Umberto Eco, e anche altri cineasti impegnati come Bertolucci, Scola, Monicelli, Antonioni e persino Tinto Brass, ma anche pittori come Mario Schifano e Franco Angeli. L’esperienza maoista del gruppetto di attivisti paolani durò quanto l’alba di un mattino. I maoisti a Paola toccarono il vertice della loro azione politica occupando con le bandiere rosse e scritte inneggianti la rivoluzione proletaria il vecchio cinema Cilea (o era anche il Samà?) sul corso principale del paese.
Il ricordo di Bellocchio
Resta quel film, il racconto per immagini di Bellocchio. «Finanziai in prima persona e girai Il Popolo calabrese ha rialzato la testa, il film sulla rivolta dei braccianti di Paola e partecipai a Viva il primo maggio rosso e proletario, per la festa dei lavoro 1969. A Paola vidi gente che viveva ancora in una povertà spaventosa. Nei tuguri con il braciere al centro». Un’esperienza sul campo che segnò l’uomo e il cineasta.
Donne in nero e bandiere rosse ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Bellocchio ricorda così quella sua esperienza militante calabrese: «Aderire ai maoisti fu un riflesso della mia primissima adolescenza. Il mio cortocircuito verso Servire il popolo era tenuto in piedi da un’infatuazione per qualcosa che pretendeva immedesimazione assoluta, nel quadro di una liturgia di integrazione quasi religiosa. Per i maoisti, cambiare abito, significava necessariamente stravolgere vita e costumi precedenti. Il partito lo chiedeva e per alcuni iscritti questa dedizione alla causa fu veramente totale. Non per me. Volevo ingenuamente che con l’esperienza maoista cambiasse ogni cosa, d’incanto, anche la mia arte. Non volevo più parlare del mio mondo. Niente più drammi borghesi. Tentai anche di fare una sceneggiatura ispirata a modelli marxisti, ma fu un lampo che si spense subito».
Da comunisti a borghesi
L’incontro con la gente di Paola per Bellocchio fu questo: «L’idea di partire dal basso, dagli sfruttati, per riscrivere la storia riconsegnando a loro ciò che era stato tolto dagli sfruttatori capitalisti aveva qualcosa di affascinante per me piccolo borghese dilaniato dai sensi di colpa. Di coerente». Coerenza che man mano venne poi meno anche ad altri esponenti di quel gruppetto di ferventi maoisti calabresi, alcuni imboccarono infine la via delle detestate carriere borghesi.
I ricordi e le avventure di quegli anni, divennero poi le rievocazioni estive di una combriccola di ex e di post comunisti – e qualcuno alle Poste poi c’era poi finito davvero. Le promesse rivoluzionarie non trovarono seguito, e le gesta esemplari degli occupanti le case popolari non guadagnarono altri proseliti agli ideali rivoluzionari di Mao.
Una riunione di Servire il Popolo nella Paola del ’69 (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Il popolo di Paola non andò mai al di là della curiosità. I “rivoluzionari” che intanto avevano preso in fitto un locale sotto una strada al Cancello, (un ex forno dismesso), promossero una fitta azione di propaganda, durante la quale dichiararono di voler «colpire i borghesi, perché solo così si poteva servire il popolo». Negarono che il capo di loro fosse il celebre attore Lou Castel (che intanto parlava poco e male l’italiano) o l’intellettuale e cineasta Bellocchio. Che a Paola, entrambi, dopo quel film non tornarono mai più.
Un libro per capire meglio
Su questa vicenda è uscito da poco un bel libro, ricchissimo di documenti e di testimonianze, dettagliato di riferimenti culturali e politici che riportano al clima dell’epoca, anche per mezzo di un ricco corredo fotografico. Il titolo è Maoisti in Calabria (Ed. Etabeta, 2022, pp. 280), lo ha scritto Alfonso Perrotta, testimone partecipe di quelle lotte e di quel clima rivoluzionario che animò un paese, Paola, che in breve divenne «una base rossa per la lunga marcia delle masse meridionali», senza nascondere «i limiti e le contraddizioni che portarono anche quel movimento al suo rapido dissolvimento». La Calabria non è stata il «nostro Vietnam». O forse lo è ancora.
Chi l’avrebbe mai detto che a un uomo tutto di un pezzo, il quadrunviro col frustino, potesse battere così forte il cuore, innamorato come un ragazzino di una donna che era già, e lo sarebbe stata ancor di più anni dopo, protagonista non certo occulta delle vicende italiane.
La storia d’amore tra Michele Bianchi e Maria de Seta Pignatelli, nata Elia, sta tutta lì, in quel mazzo di lettere che Francesca Simmons, una nipote della marchesa, ha rintracciato nelle carte di famiglia, Anna De Fazio e Antonio Vescio hanno commentato e uno storico del calibro di Giuseppe Parlato ha introdotto e annotato, in un volume di quasi 200 pagine pubblicato da Brenner che avrebbe meritato, proprio per l’argomento e i protagonisti una veste editoriale migliore.
Michele Bianchi e Maria de Seta: cronaca di un amore (e dell’Italia)
Ma non è questo che conta. Contano i contenuti delle lettere finora sconosciuti. Lettere che come scrive Parlato nella sua introduzione «costituiscono non soltanto un significativo documento epistolare che segna un momento importante nel rapporto tra due personaggi pubblici, quali allora erano, ma soprattutto uno degli esempi nei quali la cronaca quasi quotidiana di un amore si intreccia con la storia italiana».
Maria Elia de Seta Pignatelli
È un epistolario a senso unico, in verità, quindi parziale per scrutare a fondo in un rapporto a due. Sono soltanto le lettere d’amore e non solo che Michele inviava a Maria e che questa ha conservato quasi a “futura memoria”. Ora è vero che molto spesso Michele si dilunga a raccontare la propria giornata di lavoro come ministro, una specie di diario che affidava all’amante. Ma è altrettanto vero che intestando le lettere inizialmente con “mia preziosa amica”, “amica sempre più cara”, “amica cara e gentile”, e poi “gioia mia incomparabile”, innamorata mia”, “ti soffocherei di baci”, “mia fiamma ardente”, “tuo, tuo, tuo”, “amore mio bello” “baci e baci”, “morsi e morsi” e altre espressioni analoghe, ci dà l’idea della cotta di un collegiale più che di un uomo maturo, ministro del regime fascista che uno si immagina tutto di un pezzo come ho detto prima, parco di sentimenti, severo.
«Mio tutto»
Sono 77 lettere che il gerarca fascista Michele Bianchi, a quel tempo ministro dei Lavori Pubblici, tra il 5 agosto 1927 e il 19 settembre 1929, inviò alla marchesa Maria Elia de Seta Pignatelli. Se lette in sequenza esse danno anche il senso di un rapporto in crescendo, anche per l’intimità del linguaggio usato da Bianchi che da un asettico “amica mia sempre più cara” della prima lettera dell’agosto 1927, da “gentile marchesa” e “gentile amica”, passa ben presto (ottobre successivo) a “mia gioia divina” e poi “anima mia”, “mia tutto”, “vita mia”.
Non fu un amore clandestino quello tra Michele e Maria perché in tanti sapevano. Fu in un certo senso un amore prudente, anche perché Maria aveva ben quattro figli. Si vedevano ma con discrezione anche se, come una qualsiasi coppia, facevano anche dei viaggi e si facevano vedere in pubblico assieme.
Michele Bianchi pazzo di Maria de Seta. E lei di lui?
Se dalle lettere appare chiaro che Michele si era “perso” per Maria, lei che sentimenti nutriva nei confronti di Michele? Dalle stesse lettere, indirettamente, è evidente che Maria provava gli stessi sentimenti di Michele. Era innamorata e anche gelosa. In una sua lettera, una letteraccia come Michele la definisce, lo accusava di tradimento. E lui come in una qualsiasi coppia di innamorati risponde con una tenerezza «che avalla un po’ gli aculei della passione», dando spiegazioni: «Dov’ero quando tu, alle 6,30 del 14, telefonasti per la prima volta? Presso quale donna? Presso nessuna donna. Ero presso un uomo: S.E. Grandi. È perché? Perché pochi momenti prima avevo ricevuto l’acclusa lettera della tua “Bonne”».
Michele Bianchi con Mussolini
Pubblico e privato
È un epistolario, insomma, che vale la pena di leggere perché consegna, se non alla storia almeno alla memoria, l’altra faccia, quella privata, di un uomo pubblico che uno si immagina senza passioni, di un sindacalista rivoluzionario, di un uomo di lotta, di un interventista della prima ora, del fondatore dei Fasci di azione rivoluzionaria, di un Sansepolcrista fondatore dei Fasci di combattimento che trasformò il movimento in Partito Nazionale Fascista di cui fu il primo segretario, di un uomo di governo, di un uomo la cui immagine pubblica stride con il contenuto delle lettere d’amore inviate alla marchesa.
Umberto Calabrone è il nuovo segretario della Fiom Cgil della Calabria. Prende il posto di Massimo Covello. Calabrone sarà ufficialmente ancora segretario della Cgil di Cosenza fino al prossimo 20 dicembre.
«Ho affrontato più volte giornate come quella di oggi, anche con molte più tensione, ma le forti emozioni che mi hanno trasmesso le compagne e i compagni della Fiom rimarranno per sempre nel mio cuore e nella mia testa». Sono parole espresse dal segretario Calabrone in un post sulla sua pagina Facebook.
«Un grazie particolare a Massimo Covello – ha scritto Calabrone – per il grande lavoro svolto e per il sostegno che mi ha sempre dato».
I fantasmi del 1428 sono i figli di quelli del 2022: ora la peste, ora la guerra, ora le religioni usate per togliere libertà agli altri. Magica Corsica, mina del Mediterraneo, durezza ispida e fierezza gravida. I pescatori di Bastia guardano all’Italia, quelli di Ajaccio alla Francia. Mari pescosi. E in quel 1428 due marinai dappoco trovarono un prodigio grande: un crocifisso nero, poco oltre la costa. Segno che gli isolani del mare nostrum si conoscono tutti: i mori e i biondi, i musulmani che leggono Gesù nel Corano, gli ebrei convertiti al Dio Trinitario, gli slavi esperti di corde e chiodi, i bestemmiatori che fedeli alla legge del mare salvano ancora anime di tutti i credi, compreso il più arduo di tutti che è quello per l’uomo.
Nassim Mendil dalla Corsica all’Irpinia
Nassim Mendil ai tempi di Avellino
A fine anni Novanta, esordisce lì a Bastia uno smilzo e tonico franco-algerino di provincia, provenzale di nascita e maghrebino di cultura. Si muove, sbotta, dribbla; nei periodi di forma è appuntito, in quelli di stanca, tra giovanili e tanta panchina e tribuna, appare gracile. Diagnosi da osteopata: deve farsi le ossa. E Nassim Mendil approda ad Avellino a inizio millennio, una big della C che all’epoca tutti pensano possa svezzare il ragazzo molto più di ogni cadetteria francese.
Fa anche il suo, seppure ancora pochino: più continuità fisico-atletica, i primi goal, l’abbozzo della ricerca in un ruolo più preciso sul campo. Fine stagione, rotta Lecco: la provincia disabituata al calcio dopo una piazza tipicamente meridionale, quanto a pressioni, attaccamento, agonismo, sembrerebbe la pietra tombale. Non uno slancio, ma una definitiva dispersione. In otto gare, Mendil dimostra che tutto sommato c’è, che non ha senso languire ancora nel calcio di terza serie, che un biglietto di sola andata per un salto di categoria sa e può meritarlo.
Cosenza sulle montagne russe
E allora eccolo lì: 2001/2002, Cosenza Calcio. Squadra bella e strana il Cosenza di fine Novanta, inizio anni Zero, squadra di quando s’era più giovani. Squadra per sempre. Dal ritorno in serie B, a un anno appena dalle lacrime di Padova e con Marulla che sembrava una volta di più il Dioscuro degli spareggi salvezza, fino al fallimento, al Crati si faranno cinque stagioni sulle montagne russe. Una farsa l’ultima, un travaglio la prima (ingresso sprint, che dalla trasferta al Delle Alpi in poi si avvita in una salvezza stentata), tre onorevolissimi campionati in mezzo. Per larghe fatte di campionato tra le prime, poi pareggi, pareggi, pareggi e piazzamenti e prestazioni che però si rimpiangono soprattutto oggi, quando la salvezza low cost anno per anno è il piatto in tavola. Si mangia, sì, senza troppo piacere né appetito.
Nassim Mendil idolo all’improvviso
A Cosenza, in ogni caso, c’è il miglior Mendil di una carriera di circa quindici anni: dieci reti, falcate, pallonetti, diagonali, tocchi sotto misura da due passi, persino qualche veronica e stacchi di testa. Normale che il ragazzo, dopo una lunga incubazione, si senta pronto per il gran salto, se si concede di dribblare un portiere prima di insaccare o se indifferentemente muove novanta minuti dalla fascia al centro e viceversa.
Gli arriva persino la chiamata dalla nazionale maggiore algerina, all’epoca allenata dal vecchio fantasista di casa, Madjer, tra i migliori giocatori africani di sempre. In grado col Porto, dalla metà degli anni Ottanta ai primi Novanta, di vincere tutto: Coppa dei Campioni, Intercontinentale, campionati. Altro bello spirito libero, col carniere pieno di goal di tacco, calci di punizione, e coppa d’Africa levata al cielo, proprio ad Algeri, nel 1990. Baggio, Vialli, Berti, Mancini, Giannini e gli altri piedi buoni azzurri degli anni Novanta mancarono omologa impresa a Roma, ai Mondiali, pochi mesi dopo; beffati da un serafico Goicoechea e da un invecchiato quanto ribaldo Maradona, nel catino del San Paolo.
Il gran rifiuto
Mendil rifiuta: il ragazzo vorrebbe le giovanili francesi e poi giocarsi un posto tra i Blues, freschi campioni del mondo e d’Europa, prima di essere accappottati nel mondiale nippocoreano del 2002. È l’inizio della fine? Forse che si, forse che no: D’Annunzio docet. E il nostro riparte con una girandola bella a metà: Reggina, Catania, Spezia, Ascoli, Salernitana. Altro che Coupe du Monde!
1998, Zinedine Zidane alza la coppa Rimet, la Francia ha appena vinto il Mondiale in casa
Intanto, però, prima dei titoli di coda rivediamo ancora il bel Mendil di Cosenza in qualche spiraglio anconetano, nella patria del Collettivo e della Curva Nord. Una promozione dalla C2, una sofferta quanto meritata salvezza l’anno dopo. Infine, dilettantismo ancora, ormai più (ri)partenze che false partenze. Peccato. Ci piace pensarlo intorno allo stagno di Rognac, dove ci fu una colonia ligure e il mare alto sferza calette e rilevato ferroviario. Che si rimangia quel rifiuto o coccola di nuovo l’esplosione del tifo cosentino nella gabbia dello Scida dopo un due a zero nel recupero, o il profetico tiraggir in riva allo Stretto di Messina. Che tempi!
L’anello debole della città unica Cosenza-Rende è proprio il capoluogo bruzio. Perde abitanti e servizi. E con i conti in rosso che si ritrova sarebbe una palla al piede per gli altri. Compresi Montalto Uffugo e Castrolibero, due feudi non proprio desiderosi di farsi inglobare da sorelle maggiori così ingombranti.
Nessuno si chiede: i cittadini-contribuenti sono disposti a pagare i debiti dei vicini? E parlare di aria vasta per indorare la pillola non migliora né la situazione, né la percezione del problema. Il sindaco di Mendicino, Antonio Palermo, pensa a giocare la carta Pandosia, intanto, emulando il percorso di Casali del Manco.
Il sindaco di Cosenza, Franz Caruso (foto Alfonso Bombini)
E se i conti migliorano pure a Rende?
Lo ha annunciato assessore al Bilancio del Comune di Rende, Fabrizio Totera. E così in «meno di otto anni» arriverà – a suo dire – entro dicembre 2022 l’uscita dal pre-dissesto.
Una boccata d’ossigeno proprio nel momento di peggiore crisi della maggioranza consiliare oltre Campagnano dopo due inchieste giudiziarie che hanno innescato inevitabilmente, se non un terremoto, almeno uno smottamento politico. Resta il divieto di dimora per il sindaco Marcello Manna (ma è caduta l’accusa di presunta corruzione), mentre continua l’interdizione del vicesindaco Anna Maria Artese.
Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)
Dopo l’annuncio trionfale di Totera, il movimento RendeSì ha messo in guardia dai facili entusiasmi del momento: «Solo la Corte dei Conti può certificare l’uscita dal pre-dissesto».
Intanto Forza Italia si dichiara «autonoma» rispetto all’intero consiglio comunale per bocca del commissario cittadino, Eugenio Aceto. E dice di «non condividere diverse scelte della maggioranza». Non è ancora un divorzio, tuttavia ha il sapore di un appoggio esterno.
Un debito che fa paura ai vicini
La storia delle finanze in crisi del Comune di Cosenza affonda le radici nel 1876 quando divenne primo cittadino un certo Francesco Martire. Ma il primo dissesto vero e proprio arriva nel 2019. Sindaco era Mario Occhiuto, attuale senatore di Forza Italia. Una situazione contabile precaria ereditata inevitabilmente da Franz Caruso, subentrato alla guida della città dopo l’architetto. La leva del debito facile è stata azionata per primo in maniera massiva da Giacomo Mancini. Erano altri tempi e Roma ci metteva sempre una pezza sopra.
L’incontro sulla città unica organizzato dalla parlamentare della Lega, Simona Loizzo
Città unica Cosenza-Rende? Un salotto bipartisan in casa Loizzo
L’incontro sulla città unica organizzato dalla parlamentare della Lega, Simona Loizzo, non ha ceduto alle solita noia del politicamente corretto. Per il senatore Mario Occhiuto «la città unica esiste nei fatti». In concreto «non l’hanno voluta né Principe, né Manna». Sandro Principe ha risposto per le rime: «Lo sguardo di Occhiuto non andava oltre le cinte murarie di Cosenza»
Il senatore di Forza Italia, Mario Occhiuto (foto Alfonso Bombini 2022)
Picconate e analisi dell’ex sottosegretario socialista con un occhio all’esperienza recente di Corigliano-Rossano: «Territori in crisi profonda». Perché «i matrimoni riusciti hanno bisogno di lunghi fidanzamenti».
Principe non crede nella fusione a freddo. Preferisce partire con servizi condivisi e piccoli passi. Una posizione non dissimile è quella del coordinatore di Forza Italia a Rende, il già citato Eugenio Aceto. A margine del confronto, ha commentato: «Io sono per la città unica, ma le condizioni sono confronto sui Bilanci e unificazioni dei servizi». In questo senso, la bruzia Amaco sull’orlo del fallimento non aiuta.
Guccione c’è, Franz Caruso declina l’invito
In realtà Principe, da politico navigato, sa bene e ha il timore che gli incentivi dello Stato per una futura città unica Cosenza-Rende potrebbero essere pochi e, forse inutili, rispetto al debito consistente dei cugini spendaccioni di Palazzo dei Bruzi.
Da sinistra Sandro Principe (di spalle); Carlo Guccione; Mario Campanella; Mario Occhiuto (foto Alfonso Bombini 2022)
Il sindaco di Cosenza, Franz Caruso ha declinato l’invito a partecipare all’incontro. Gli attacchi dei compagni di partito non hanno fermato, invece, Carlo Guccione, responsabile Sanità per il Pd nel Sud, presente al focus in casa del Carroccio. «Non c’è un progetto di area urbana di centrodestra e di centrosinistra, ma una necessità unica» – ha evidenziato. Del resto l’ex consigliere regionale è uno dei sostenitori più radicali e convinti della “Grande Cosenza”.
La parlamentare della Lega, Simona Loizzo (foto Alfonso Bombini 2022)
Città unica nel metaverso
Simona Loizzo aveva presentato una proposta di legge regionale per la città unica Cosenza-Rende da consigliere regionale. E ha promesso di continuare a lavorarci anche da parlamentare. «I confini territoriali sono dentro di noi» – ha commentato la deputata del Carroccio. Nella costruzione di «un ospedale che sarà azienda sanitaria universitaria, nell’area urbana della cultura e della digitalizzazione» vede tre strade da seguire. E non è un caso se Fabio Gallo, a capo del Movimento Noi che punta molto sulle leve del digitale, era nelle prime file ad ascoltare con attenzione. Perché la città unica nel metaverso forse è possibile, quella reale sembra ancora in balia di un dialogo tra sordi.
Sono passati più di trent’anni da quando, il 27 marzo 1992, è stata approvata la legge che ha vietato l’utilizzo e la produzione di manufatti contenenti amianto. Nel frattempo, però, chi ha lavorato per decenni a stretto contatto con l’eternit spesso ha sviluppato malattie di tipo tumorale. E la bonifica e lo smaltimento del pericoloso materiale in Calabria sono ancora in grave ritardo.
Una sentenza importante per un’intera categoria
A volte, come nel caso che stiamo per raccontare, si è rimosso l’amianto senza le dovute protezioni. Ogni sentenza racconta sempre una storia, questa va oltre il singolo caso perché riguarda una intera categoria di lavoratori.
Per 28 anni di fila, infatti, un uomo aveva lavorato in Ferrovie della Calabria, tutti i giorni, dal lunedì al venerdì e dalle 7 della mattina fino alle 5 del pomeriggio. Poi nel 2008 si era dovuto dimettere perché il mesotelioma pleurico che lo affliggeva non gli consentiva più di fare sforzi. La neoplasia, purtroppo, circa 7 anni dopo non gli concedeva più altro tempo. E l’ex operaio delle Ferrovie della Calabria veniva a mancare, dopo molti ricoveri e cure, nonché un delicato intervento chirurgico presso il Mariano Santo di Cosenza.
Amianto e tumori: la denuncia dei familiari dopo la morte
L’uomo aveva già ricevuto in vita dall’Inail l’indennizzo per malattia professionale dovuta all’esposizione all’amianto. Gli eredi, la moglie e i 3 figli, un paio d’anni dopo la sua morte hanno poi deciso insieme agli avvocati Runco e Coschignano di fare causa a Ferrovie della Calabria per il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali. Ritenevano, infatti, che la causa del tumore fosse la lunga e continuata esposizione all’amianto sul luogo di lavoro.
Il giudice: Ferrovie della Calabria deve pagare
Silvana Domenica Ferrentino, giudice del Tribunale di Cosenza, il 2 dicembre scorso ha depositato le motivazioni della sentenza. E, accogliendo il loro ricorso, ha quantificato in 170mila euro i soldi che Ferrovie della Calabria dovrà pagare a tutti e 4 gli eredi per il danno biologico, più 163mila euro ciascuno per danno da perdita parentale. In totale sono circa 820mila euro, più interessi e spese legali. Il nesso causale emerso in aula tra la presenza di amianto sul luogo di lavoro e il tumore ai polmoni ha sancito la responsabilità (al 55%) di Ferrovie della Calabria nel decesso dell’ex operaio cosentino
L’ingresso del tribunale di Cosenza
Nelle varie udienze del procedimento civile sono stati acquisiti numerosi documenti e sentiti alcuni testimoni. Ma, soprattutto, è stata disposta una perizia medica che è servita a stabilire il nesso diretto tra la presenza d’amianto sul luogo di lavoro dell’ex operaio e il tumore ai polmoni che lo ha poi ucciso.
Nessuna protezione né visite specialistiche
Queste, ad esempio, le parole di uno dei testimoni in aula che la sentenza riporta: «Noi operai lavoravamo solo con la tuta da lavoro ma non abbiamo mai usato mascherine e guanti… Preciso che non avevamo dispositivi di protezione e non eravamo informati sui rischi». Non risulterebbero poi visite mediche specialistiche effettuate dall’azienda sui propri lavoratori al fine di verificarne lo stato di salute. Eppure l’operaio morto riceveva spesso l’incarico di tagliare lastre di amianto, come la stessa sentenza dimostra.
Quindi: presenza di amianto, solo visite generiche, nessun dispositivo di sicurezza. Infine, le dichiarazioni del medico incaricato dal Tribunale: «Ove il soggetto fosse stato effettivamente esposto all’amianto, può certamente riconoscersi un nesso di causa tra l’insorgenza del mesotelioma e le mansioni svolte dal lavoratore».
Amianto e tumori: una decisione storica
Gli elementi per condannare Ferrovie della Calabria, dunque, c’erano tutti, stando alla sentenza di primo grado. A differenza del processo penale che deve provare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, in quello civile vige la regola detta del “più probabile che non”: ossia che sul medesimo fatto vi siano un’ipotesi positiva ed una complementare ipotesi negativa, sicché, tra queste due ipotesi alternative, il giudice deve scegliere quella che, in base alle prove disponibili, ha un grado di conferma logica superiore all’altra.
In questo caso Ferrovie della Calabria (e i suoi comportamenti legati alla presenza di amianto in alcuni luoghi lavorativi) è stata riconosciuta colpevole al 55%, altrimenti la somma liquidata in condanna sarebbe stata più alta. Il giudice, infine, decurtando quello che l’Inail aveva già versato al defunto, ha stabilito le altre somme che hanno formato il risarcimento totale per tutti i danni subiti e da liquidare in favore degli eredi.
Queste le decisioni nel primo grado di giudizio, che comunque sono esecutive, in uno dei primi processi a Cosenza arrivati a sentenza per risarcimento danni da amianto e legati a Ferrovie della Calabria.
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