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  • Il miracolo di Guarascio: ultras di nuovo uniti, ma contro di lui

    Il miracolo di Guarascio: ultras di nuovo uniti, ma contro di lui

    Il miracolo di Natale quest’anno non arriva dalla 34° strada di New York ma da via degli Stadi a Cosenza. Niente Jingle Bells di sottofondo, però: solo silenzio. Né tantomeno regali, ché quelli costano. Eugenio Guarascio, presidente con la passione per il risparmio, è riuscito dove tutti gli altri hanno fallito, compiendo una vera e propria impresa: mettere d’accordo gli ultras della squadra che ha acquistato nell’ormai lontano 2011.

    Separati in casa

    La parte più calda della tifoseria rossoblu, infatti, si è divisa in due tronconi tra il 2014 e il 2015 e da allora ognuna delle due “fazioni” ha seguito le partite in casa da settori diversi dello stadio. E il divorzio, apparentemente pacifico, è perfino degenerato in scontro in occasione di alcune trasferte del recente passato. Emblematica in tal senso, la battaglia a Matera del 2017, con le due anime del tifo cosentino a darsele di santa ragione nel settore ospiti tra gli sguardi attoniti degli spettatori di casa e del telecronista.

    Oggi gli animi sono più pacati e la convivenza in trasferta fila liscia. Di tifare davvero insieme dentro il San Vito-Marulla, però, non se ne parla proprio. La Curva Sud fa i suoi cori, la Nord altri.
    Nel match di domenica 18 contro l’Ascoli, invece, si tornerà ai vecchi tempi. Tutti uniti, anche se a distanza. In silenzio, però, per protesta contro l’ultima mossa di Guarascio e del club.

    Ultras: il miracolo di Guarascio

    Nella mattinata, infatti, il gruppo Anni Ottanta, anima della Nord, ha rilasciato un comunicato per annunciare l’accoglienza che riserverà alla squadra all’ingresso in campo: 15 minuti di silenzio. Il motivo? «Adesso il presidentissimo Guarascio ha deciso anche di chiudere la bocca ai tifosi e agli ultras che lo contestano. Una multa – si legge nella nota degli ultras – è stata notificata ad uno dei nostri lanciacori per aver osato intonare un coro offensivo, accompagnata da minacce di Daspo».

    Che l’imprenditore lametino non brilli per tolleranza di fronte a chi ne critica l’operato è cosa nota in città. Sono ancora gli Anni Ottanta a ricordarlo: «Già qualche anno fa aveva applicato il cosiddetto “daspo societario” ad un tifoso ultrasessantenne che aveva osato contestarlo nella tribuna centrale». La novità però, si diceva, è un’altra. E cioè che l’astio verso Guarascio – dopo l’ennesimo inizio di stagione fallimentare – è cresciuto al punto tale che alla protesta della Nord si unirà anche la Sud.

    «Indipendentemente dal settore in cui vengono applicati, questi provvedimenti assurdi rappresentano una minaccia per chiunque occupi i gradoni del Marulla. È per questo che tutto il popolo rossoblù – si legge in un altro comunicato, stavolta degli inquilini della Bergamini – deve dare un segnale unito e compatto. Invitiamo tutti coloro i quali prendono posto in Curva Sud a restare in silenzio per i primi 15 minuti della partita».

    Un silenzio assordante

    Niente cori all’unisono neanche stavolta, quindi. Ma «un silenzio assordante» sì. Poi l’amore per il Cosenza tornerà a trionfare (con voci distinte), sperando che i giocatori facciano altrettanto.
    Quel quarto d’ora muto per una squadra che di buono ha avuto finora quasi solo il supporto dei tifosi non è una bella notizia. Resta un dubbio nei più disillusi: dopo 11 anni di disinteresse sul tema, basteranno gli ultras temporaneamente muti per convincere Guarascio a «riflettere su quale sarebbe l’atmosfera nel nostro stadio senza la spinta e la passione del suo pubblico»?

  • Quadara, una lingua di rame a Dipignano

    Quadara, una lingua di rame a Dipignano

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    La quadara (il calderone) è una questione da prendere sul serio a Dipignano e in Calabria. Se non altro perché ospita la cottura di parti molto saporite del maiale, quadrupede culto e prelibatezza immancabile nella cucina e nell’immaginario dei suoi abitanti.
    Dipignano è sempre stato, nei secoli dei secoli, il paese dei quadarari, i calderai, maestri abilissimi nella lavorazione del rame. Probabilmente sin dal 1300.

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    Calderoni nella bottega-officina di Roberto Farno a Dipignano

    Roberto Farno: ultimo dei calderai di Dipignano

    Oggi cosa resta di questa antica tradizione? Non poco, nemmeno tanto. Innanzitutto le mani grandi e callose di Roberto Farno, ultimo superstite di un mestiere in estinzione. La sua bottega è a Motta, parte bassa del comune a pochi chilometri da Cosenza. Abbastanza lontano dalla città per raggiungere e superare i 700 metri di altitudine. Roberto si cimenta anche con il ferro, che gli è «costato tre ernie». I cancelli li fabbrica e poi li prende di peso. Alla lunga persino Ercole avrebbe qualche problema alla schiena.

    Suo padre è il “mitico” Franchino Farno. È stato calderaio, comunista e uomo incline all’ironia. Roberto ha appreso questa arte come i suoi fratelli più grandi, oggi «radiatoristi e meccanici alla Riforma», storico quartiere di Cosenza.
    Rame e stagno, eccoli i due metalli intrecciati in una lunga storia di fatica e passione. Roberto racconta l’apprendistato iniziato a 16 anni e le prime tappe. In giro per i paesi il padre e i fratelli preparavano un piccolo fuoco per fondere lo stagno in piazza. E lui richiamava l’attenzione «iettannu ‘u bannu», diffondendo la voce per le viuzze.

    Nell’economia domestica, fino a qualche decennio fa, non poteva mancare una quota da destinare all’involucro interno di pentole e calderoni. Oggi è tutto cambiato. In cucina il rame è utilizzato dai grandi chef. Il calore si diffonde in maniera uniforme a tutto vantaggio di una buona cottura. I costi, però, sono elevati. Roberto Farno ci parla del listino prezzi dei calderoni: per 80 cm di diametro in rame si spendono fino a 600 euro, in acciaio 250 e in alluminio appena 60. Ci sarà una ragione se il prezzo varia così tanto. Qualche commessa arriva da proprietari di ville e da chi ama creazioni uniche. Poca cosa ormai.

    Il museo del Rame

    Un pezzo di storia di Dipignano e dei suoi calderai vive ancora nel Museo del rame e degli antichi mestieri. È un viaggio a ritroso tra utensili e strumenti della bottega artigiana, fatiche e vita grama, oggetti quotidiani e libri. Compresi quelli scritti da Franco Michele Greco che ha ricostruito il cammino di una comunità.

    Il tempo dei calderai nel Museo del Rame e degli antichi mestieri a Dipignano (foto Alfonso Bombini)

    Ammascante, la lingua dei calderai

    I calderai erano un po’ alchimisti, custodivano gelosamente i segreti del mestiere. A tal punto da inventare una lingua, l’ammascante. Che significa, appunto: parlata mascherata. E i calderai erano mascheri, varvottari, erbari, mussi tinti. Tutti sinonimi.

    Esiste pure un vocabolario grazie alle ricerche del glottologo John Trumper e della linguista Marta Maddalon, entrambi professori dell’Università della Calabria. Oltre 400 lemmi catalogati e spiegati con tutta la ricchezza di idee che solo due studiosi così attenti potevano restituire e donare alla memoria collettiva. Parole di questa lingua hanno contaminato il gergo dei calderai sardi a Isili. E altrove. Segno che gli artigiani di Dipignano hanno girato in lungo e in largo per l’Italia nei secoli passati.

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    Franco Araniti, poeta che scrive pure in Ammascanti (foto Alfonso Bombini)

    Franco Araniti, poeta e scrittore di Gallico (Reggio Calabria), ha fatto tesoro di questo vocabolario. Arrivato a Dipignano per amore, non è più andato via. Uno “straniero” che scrive versi anche in ammascanti. Parole poi musicate dal Collettivo Dedalus in un album valso al gruppo musicale il secondo posto al prestigioso Premio Tenco.

    Araniti, da attento osservatore, ha notato come questa lingua sia sopravvissuta pure nelle comunità dipignanesi in Canada. Dove, prima dell’avvento di Watt’s up, si scambiavano sms farciti di ammascanti. Un piccolo matrimonio tra nostalgia del paese natale e tecnologia. Manca solo una quadara sul fuoco. Magari a Montreal o Toronto qualcuno in giardino non rinuncia al suo pezzo di Calabria. Alla sua porzione di frittole.

  • Animal Party: orge e riti sul Monte Cocuzzo

    Animal Party: orge e riti sul Monte Cocuzzo

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    Una citazione colta per iniziare: Orazio, riferendosi a certe abitudini dei Bruzi, parlava di «amores insanes caprini», cioè amori insani con le capre.
    Segno che lo sfottò terribile, «noi avevamo le terme quando voi vi accoppiavate con le bestie», non era solo un modo di dire.
    Anzi, certe forme di zoofilia sarebbero sopravvissute all’antichità e alle proibizioni del cristianesimo fino a poco tempo fa.

    Lo scrittore e i pastori

    Il protagonista di questa vicenda, che risale a una fredda serata d’inverno di fine’800, è Giovanni de Giacomo, scrittore originario di Cetraro e pioniere degli studi sul folklore.
    Lo studioso, vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo fu forse tra gli ultimi testimoni oculari di una farchinoria, ovvero di un’orgia tra i pastori e le loro pecore. Un nome bizzarro per una pratica bizzarra: parrebbe che farchinoria derivi dal latino farcino, riempire.

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    Percore al pascolo (olio su tela, XIX sec)

    Ma in che modo de Giacomo apprese di questa strana abitudine? Lo scrittore cita le testimonianze di Domenico Bascio e Nicola Svago, due anziani pastori che vivevano sulle pendici del Monte Cocuzzo. I due, in una serata di novembre 1891, gli avrebbero raccontato, anche con una certa nostalgia, dei loro svaghi di gioventù. Soprattutto della farchinoria…

    Monte Cocuzzo

    Coi suoi 1.541 metri, il Monte Cocuzzo è la vetta più elevata della Catena Paolana, la prima fascia dell’Appennino Calabro.
    È una montagna dalla classica forma di cono, che fa pensare a un’origine vulcanica. Per gli antichi, il Cocuzzo, coi suoi boschi fitti e oscuri, non era un luogo rassicurante. Lo fa capire lo stesso nome, che deriverebbe dal greco kakos kytos, pietra cattiva.
    Ma per i pastori calabresi di fine ’800 quei boschi erano un rifugio, dove agivano indisturbati.
    Al riparo di quelle stesse fronde, si sarebbe appostato anche de Giacomo, per spiare una farchinoria, nella notte di un 6 gennaio agli albori del ’900.

    Il festino

    I pastori riuniti attorno al fuoco cenano con una pecora arrostita, che hanno macellato in maniera a dir poco particolare.
    Le hanno infilato un palo nel retto e le hanno dilaniato le viscere per simulare un incidente. Così potranno dare una spiegazione al padrone, quando gli restituiranno la pelle dell’animale.
    Finito il pasto, innaffiato da abbondanti bevute, quattro giovani vestiti di pelli bianche e nere danno il via al festino, che comincia con una specie di corrida.

    Il dio Pan e la capra (gruppo marmoreo esposto nel Museo Nazionale di Napoli)

    I pastori fanno entrare un montone che, spaventato e infuriato, inizia a caricare i giovani. Stavolta non c’è nulla di cruento: i quattro provocano la povera bestia e ne schivano le cornate. Poi l’animale crolla sfinito e il gioco finisce.
    Anzi no: entra nel vivo.

    Amplessi bestiali sul Monte Cocuzzo

    A questo punto iniziano a suonare le zampogne e un pastore fa entrare sette pecore, agghindate con nastri e fiori.
    Alla corrida segue una specie di maratona: i quattro giovani possiedono ripetutamente le povere bestie. Come tutte le maratone, anche questa è una gara di resistenza: vince l’ultimo che cede. Per citare Highlander, ne resterà solo uno.
    Anche il pubblico, più che avvinazzato, si scatena. Alcuni si lasciano andare con le proprie compagne, altri fanno da sé.
    Infine, dopo tanta “fatica”, la stanchezza prende il sopravvento, protagonisti e spettatori si addormentano e la festa termina.

    Un giallo letterario

    Fin qui, la vicenda di cui Giovanni de Giacomo asserisce di essere stato testimone.
    Tuttavia, il pubblico ha appreso questa storia molti anni dopo.

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    Giovanni de Giacomo

    Infatti, risale al 1972 La Farchinoria. Eros e magia in Calabria, il libro in cui lo studioso racconta la sua esperienza di voyeur per amor di scienza. Intendiamoci: il Nostro aveva finito il manoscritto nel 1914, cioè quindici anni prima della morte (1929).
    Quindi parliamo di un testo rimasto inedito per 43 anni, che è riuscito a vedere la luce solo grazie all’interessamento di Paride de Giacomo, figlio di Giovanni e generale dei carabinieri, il quale consegnò il testo a un altro studioso, Raffaele Sirri.

    Come mai questo ritardo nella pubblicazione di una storia così interessante?
    A pensar male, si potrebbe ipotizzare che la farchinoria sia in buona parte una fake d’epoca. Oppure, con più credibilità, si può ritenere che forse gli ambienti scientifici dell’epoca non fossero pronti per questa scoperta.
    Ma quest’ultima ipotesi è davvero difficile: parliamo degli stessi anni in cui Lombroso teorizzava il delinquente e la prostituta per nascita e in cui la psicanalisi freudiana, piena di sesso fino all’orlo, si faceva strada nel dibattito scientifico.
    Oppure, più semplicemente, l’autore ha lasciato questo manoscritto nel classico cassetto per il timore di non essere creduto.

    Solo per amore

    Delle farchinorie, che si svolgevano tutti gli anni tra l’Epifania e la Quaresima, oggi si parla poco. Al riguardo, c’è chi si rifà al mondo arcaico. E c’è chi, invece, richiama le vecchie letture gramsciane, in una sorta di marxismo pecoreccio. Non mancano, ovviamente, i riferimenti alla psicanalisi.
    Ma forse la verità è più semplice: i pastori calabresi amavano il loro duro lavoro. Molto e intensamente, più di quanto non si creda.

  • Daniel Cundari, quel “ragazzo dell’Europa” tra poesia e politica

    Daniel Cundari, quel “ragazzo dell’Europa” tra poesia e politica

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    Daniel Cundari si muove con la stessa disinvoltura tra i locali del Barrio Gotico a Barcellona oppure tra i vicoli della sua Cuti, contrada di Rogliano. E legge ad alta voce Jorge Luis Borges così come recita Duonnu Pantu, il monaco di Aprigliano autore di rime «controverse e lascive». Sopratutto «in privato», confessa, omettendo particolari da censura.

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    Daniel Cundari a Cuti, sotto il murales di Alice Pasquini in via Pietro Nicoletti (foto Alfonso Bombini 2022)

    Non solo Daniel Cundari: la strada degli artisti

    Poeta, performer, autore teatrale. È difficile inquadrare Daniel. Vive nella sua personale Macondo in Via Pietro Nicoletti proprio a Cuti, nota anche per il suo pane prelibato. Sulla destra abita e lavora Sandro Sottile, liutaio e polistrumentista. A due passi si sente il rumore degli attrezzi di Ferdinando Gatto, scultore di legno e pietra. Bastano poche centinaia di metri per raggiungere il ceramista Telemaco Tucci, la talentuosa artista del trucco Ilenia Tucci e la street artist Alice Pasquini. Daniel ci tiene a citarli tutti. Come parte di un’unica comunità.

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    Daniel Cundari tiene molto al progetto della Piccola biblioteca di Cuti (foto Alfonso Bombini 2022)

    La piccola biblioteca di Cuti

    È una comunità che adesso ha pure una casa dei libri. La piccola biblioteca di Cuti, esempio in controtendenza rispetto a una Calabria che legge pochissimo. Un progetto a cui tiene molto. Non una semplice collezioni di testi.

    Molte rarità letterarie (compresi grandi classici sudamericani in lingua originale e autografati) hanno messo radici tra le mensole di quella che è stata per lungo tempo pure una vineria.

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    Il celeberrimo vino Savuto “Succo di Pietra” bevuto dallo scrittore Mario Soldati (foto Alfonso Bombini 2022)

    E conserva una bottiglia di Succo di Pietra del 1973, una delle ultime rimaste di quel Savuto “Britto” bevuto e lodato dallo scrittore Mario Soldati nel suo celebre Vino al vino. Una targa ne ricorda il passaggio a Rogliano.

    Un paese, almeno per poterci restare

    Fa freschetto a 650 metri, ma il sole si fa sentire ancora. Daniel si ferma a parlare con un barbiere d’eccezione, Pino alias Pippos Orlandos. Una vecchia gloria dei concerti alternativi. Sui muri sciarpe e immagini di Bob Marley. Pino, però, ammette di essersi perso l’unica tappa italiana del re del Reggae a Milano. Correva l’anno 1980. In paese si dice che abbia persino tagliato i capelli a Vinicio Capossela mentre si esibiva sul palco. Di queste piccole mitologie si nutre una parte del suo immaginario.

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    Pino, alias Pippos Orlandos, barbiere “reggae” di Rogliano (foto Alfonso Bombini 2022)

    Repentismo cutise

    Nei sei anni trascorsi nel quartiere gitano di Granada, Daniel ha appreso le tecniche del flamenco. Da qui nasce l’amore per il repentismo. Che ha declinato in salsa cutise, colorandolo della sua cultura: con le sue contraddizioni, le sue ricchezze, i suoi personaggi. Un concentrato di differenze molto apprezzato anche fuori dal vecchio continente. Cuba in primis. Cundari è di casa in terra caraibica. E in Messico tra rime e Tequila y Mezcal.

    Daniel Cundari, ragazzo dell’Europa

    Ma la seconda patria di Daniel è la Spagna. Lì ha iniziato a collaborare con la prestigiosa rivista letteraria Quimera. Tra i fondatori c’è lo scrittore Mario Vargas Llosa. A Barcellona confessa di essere stato stregato dall’anarchismo catalano. E nella città blaugrana ha conosciuto Gianna Nannini. «Le serviva un tecnico del suono in tutta fretta, ha chiesto a un mio amico – ricorda Daniel – e io ho le ho risolto il problema». Nel suo studio di registrazione la rocker senese ha poi ascoltato per caso il poeta di Cuti impegnato a declamare qualche suo verso. Da lì è scattata la scintilla. Gianna capisce la forza dirompente di quel calabrese che poi si esibirà sul palco con la star italiana. Fino a gridargli, sottolinea sorridendo Cundari: «Daniel, ragazzo dell’Europa».

    Due raccolte di poesie di Daniel Cundari (foto Alfonso Bombini 2022)

    Il poeta pluripremiato

    Scrive in italiano, spagnolo e nella sua lingua d’infanzia, quella dei padri e dei nonni, il dialetto definito «strumento musicale». Grazie a Geografia Feroz Daniel ha vinto il Premio Genil de Literatura nel 2011. Nello stesso anno ha collezionato il prestigioso Lerici Pea. Tra gli ultimi riconoscimenti compare il Premio Ischitella. Autore di numerose pubblicazioni come Cacagliùsi (2006), Il dolore dell’acqua (2007), Istruzioni per distruggere il vento (2013), Poesie contro me stesso (2014), Nell’incendio e oltre (2016) ‘Ngilla orba (2017), Il silenzio dopo l’amore (2019).

    La Calabria di Daniel Cundari tra poesia e politica

    Nella Calabria di Daniel Cundari scrittura e impegno civile si danno appuntamento. Non è un caso se chiama in causa spesso Franco Costabile e il suo Canto dei nuovi migranti. Lo ha persino recitato alla sua maniera in un comizio durante le ultime elezioni regionali. Le ha affrontate da candidato con Luigi De Magistris. Buoni risultati nel suo territorio e tanta voglia di continuare la strada intrapresa.

    Oggi la luna di miele con l’ex sindaco di Napoli è finita. È tempo di guardare oltre. In cantiere un movimento politico con radici nel suo Savuto e la voglia di conquistare spazio e idee altrove. Si chiamerà Calabria giovane dentro. E promette pure di ripristinare le vecchie sezioni. Al suono di un suo vecchio mantra: la poesia è l’ultimo partito che rimane.

  • Qualità della vita, province calabresi in fondo alle classifiche

    Qualità della vita, province calabresi in fondo alle classifiche

    Come ogni anno Il Sole 24 Ore ha pubblicato il suo report sulla qualità della vita nelle 107 province italiane. E come ogni anno quelle calabresi si ritrovano nei bassifondi della classifica. Fanalino di coda, 107esima su 107, è infatti Crotone. Ma le altre quattro rappresentanti della Calabria non vanno molto meglio. Vibo si piazza al 103esimo, Reggio una posizione più su, Catanzaro 96esima. Cosenza, la meglio piazzata, tiene alto il nomignolo della regione alla posizione numero 95.
    Il quotidiano di Confindustria analizza la qualità della vita attraverso sei macrocategorie, suddivise a loro volta in molteplici indicatori. Ma da qualsiasi punto si analizzi la classifica è impossibile non notare come, invece di progredire, i nostri territori registrino un arretramento.

    Qualità della vita a Cosenza

    Prendiamo il caso di Cosenza, punta di diamante della regione alla luce dei risultati. La provincia bruzia peggiora in 5 categorie su 6. Rispetto all’anno precedente scende di due posizioni in classifica per quanto riguarda Ambiente e servizi (ora è 58esima), Cultura e tempo libero (posizione n°98). Si ritrova 103esima per Ricchezza e consumi, prima era cinque posti più su, e 80esima (da ex 71esima) nella categoria Demografia e società. Precipita di ben 44 posizioni in classifica (ora è 85esima) anche in quella Giustizia e Sicurezza anche per l’incapacità di riscuotere i tributi dei Comuni che la compongono. In questa specifica sottocategoria, infatti, è la terzultima in tutta Italia.

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    Si registra, al contrario, un bel balzo in avanti nella classifica che riguarda il settore Affari e lavoro. In questo caso la provincia di Cosenza guadagna 16 posizioni rispetto all’anno precedente, grazie anche a una percentuale sopra la media nazionale per quel che riguarda l’imprenditorialità giovanile. Ma anche qui c’è poco da esultare. Cosenza, infatti, anche nella sua performance migliore tra le 6 macrocategorie non va oltre l’80° posto in classifica.

    I dati di Catanzaro

    A Catanzaro, invece, si può festeggiare per i pochi furti negli appartamenti: solo in altre tre province italiane ne denunciano meno. Va molto peggio nei tribunali però, con la provincia che si piazza al penultimo posto nazionale per durata delle cause civili e i reati legati a stupefacenti; quartultima invece per la quota cause pendenti ultratriennali, con una durata media che è due volte e mezza quella del resto d’Italia. La provincia del capoluogo regionale comunque può essere soddisfatta rispetto al recente passato. Migliora infatti in tre macrocategorie: Affari e lavoro (50°; + 20 rispetto al 2021), Ambiente e servizi (41°; + 10) e, seppur di poco, Cultura e tempo libero (95°; + 2). Sarà, in quest’ultimo caso, per le 8,8 librerie ogni 100mila abitanti, contro le 7,7 della media nazionale.

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    (foto Antonio Capria)

    Reggio Calabria, la più lenta nei pagamenti

    A Reggio Calabria invece le fatture si pagano più tardi che in tutto il Paese: se altrove la media è di 10 giorni oltre i canonici 30 usati come indicatore, sullo Stretto il tempo extra sale a tre settimane. Certo, la provincia reggina è tra quelle più soleggiate (15°), ma l’apporto al clima di Madre Natura contrasta con il terzultimo posto nella categoria Ambiente Servizi (l’anno scorso era 25 posti più su in classifica). Reggio è terzultima anche per quel che riguarda Cultura e tempo libero, addirittura un gradino più giù se si parla di Ricchezza e consumi.

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    Nubi minacciose sull’Arena dello Stretto a Reggio Calabria

    Sale invece di ben 40 posizioni (ora è 58esima) nel settore Affari e Lavoro, nonostante sia 101esima per tasso di occupazione. Sale anche di 23 posizioni, piazzandosi 52esima, in Giustizia e Sicurezza. Anche qui pesa parecchio la lunghezza delle cause in tribunale, così come il numero altissimo di cause civili, circa il 40% in più che altrove.

    Vibo Valentia non è una provincia per donne

    Vibo invece è la migliore d’Italia per imprenditorialità giovanile sul totale delle imprese registrate, ma anche la peggiore di tutte quando si parla di qualità della vita per le donne. Paradossale, inoltre, che la provincia della Capitale del libro si piazzi nei bassifondi quando si parla di Indice di lettura (87°), Offerta culturale (105°) e librerie (7,3 ogni 100mila abitanti, in Italia la media è di 7,7). In più è la seconda provincia del Paese per numero di estorsioni, quella col maggior numero di cause pendenti ultratriennali e con le cause civili che durano di più. Il valore, in quest’ultimo caso, è di 1.453, in Italia si ferma a 561,9.

    L’insegna sbagliata con cui Vibo si è celebrata “Città del libro”

    Anche il Vibonese, nonostante tutto, può comunque festeggiare per la qualità dell’aria (19°), uno dei dati che gli permette di risalire 14 posizioni, piazzandosi 78° in Ambiente e servizi. E, anche se non esistono o quasi start up innovative sul territorio, anche in Affari e lavoro la classifica segna un sontuoso +49 nel settore Affari e lavoro: ora Vibo è 52esima, l’anno scorso era 101esima.

    Qualità della vita, Crotone ancora nei bassifondi

    Infine Crotone, che si conferma fanalino di coda nazionale. Da qui sono in tanti a scappare, il decuplo che dal resto d’Italia: la provincia pitagorica è 107esima per saldo migratorio totale. Ma Crotone è anche ultima per Depositi bancari delle famiglie consumatrici e Spesa delle famiglie per il consumo di beni durevoli. È anche il territorio con la percentuale più alta di beneficiari del reddito di cittadinanza.E poco importa che qui le case costino in media 1000 euro in meno al metro quadro rispetto al resto del Paese.

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    Italia. Crotone 2013: Veduta della città: Crotone è circondata da colline di argillose che la dividono in due.
    (foto © Agostino Amato)

    Crotone e la sua provincia sono anche il posto dove si studia meno: ultima per numero di laureati (o con altri titoli terziari), penultima per anni di studio tra la popolazione over 25, quart’ultima per persone con almeno un diploma. Chi non studia, però, ha poco da fare nel tempo libero: pochissime librerie (104°), palestre e piscine (106°), ancor meno spettacoli (107°). In compenso gli amministratori pubblici sono tra i più giovani del Paese (4°), nonostante da queste parti si registri la più bassa partecipazione elettorale d’Italia. Qui almeno, però, le cause civili durano meno della media (57°). E in mancanza di altri svaghi si passa il tempo tra le coperte: in sole tre province italiane le donne partoriscono prima che a Crotone, dove l’età media delle neo-mamme si attesta a 31 anni, contro i quasi 32 e mezzo del resto d’Italia.

  • Fosse che fosse la volta buona… per l’asfalto?

    Fosse che fosse la volta buona… per l’asfalto?

    La volta buona, diceva Nino Manfredi. In realtà era “fusse”, ma a me serve la parola fosse e il meraviglioso di Missoni vestito mi capirà. Provate a pronunciarla, la parola fosse, e fatelo ad alta voce. È l’emblema della leggiadria calabra unità all’asprezza dei Bruzi. Fosse ovunque, crateri divenuti ormai patrimonio comunale, che è già assai che chi lo abita per qualche secondo con la propria ruota di macchina non debba pagarci l’Imu. Con il freddo e le piogge non si può fare niente, dobbiamo tenercele, così ci dicono. Ce lo dice Caruso, ce lo dicevano Occhiuto, Catizone e persino l’icona Mancini.

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    Tra le fosse e Cosenza è amore

    Poi ti capita per caso di andare ad Oslo, a Berlino, ad Amsterdam. Città più piovose e più fredde delle nostre, e vedi asfalto perfetto, senza un centimetro di crepa. E pensi: ma allora a noi dicono bugie? E a questa domanda dai la risposta: sì, ci dicono bugie. Perché il problema non è il maltempo ma la qualità del materiale utilizzato. Semplice no? Se usassero materiale idoneo avremmo Piazza Loreto come Piazza Dam. Ma noi di europeo vogliamo solo Piazza Europa, sia ben chiaro! E aspetteremo sempre che un giorno arrivi in Comune un Van De Carusen e chissà che… Fosse che fosse la volta buona. Tanto Nino non potrà correggerci. S’i’ fosse foco arderei lo mondo, si Fosse assai sarei Viale Parco.

    Sergio Crocco

  • BOTTEGHE OSCURE | Gassose: un “derby” tutto calabrese

    BOTTEGHE OSCURE | Gassose: un “derby” tutto calabrese

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    Ancor più dell’agone calcistico è una bibita tutta calabrese a dividere le città di Cosenza e Catanzaro. Una bevanda semplice, che si ottiene aggiungendo caffè alla gassosa, determina una quasi fideistica adesione a due brand o “parrocchie”: la cosentina Moka Drink e la catanzarese Brasilena. Impossibile cercare di stabilire quale sia la più buona, ricercata o ancora la più datata. Ma un fatto è certo: in quanto ad “acque gassose” entrambe le città vantano, insieme a Reggio Calabria, una tradizione che affonda le proprie radici nella seconda metà dell’Ottocento.

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    Il derby delle bolle: “Brasillena” contro “Moka drink”

    Derby calabrese: in principio era Reggio contro Cosenza

    Nel 1879 erano soltanto tre le fabbriche calabresi che producevano “acque gassose”: due in provincia di Reggio Calabria e una a Cosenza, tutte classificate come produzioni “di minore importanza” e che davano lavoro a un manipolo di operai. Catanzaro non conosceva ancora una produzione locale di bollicine.

    Il successivo ventennio fece registrare per le bibite frizzanti con proprietà toniche e rinfrescanti un discreto successo, preludio al boom dei decenni che verranno. Alla metà del Novecento la gassosa era diventata un must, l’alternativa innovativa ad acqua e vino. Con quest’ultimo la gassosa formava un’abbinata “vincente” che accontentava persone poco avvezze all’alcol o serviva a camuffare vinacci di terza o quarta scelta.

    Questa tendenza ottocentesca ad “aggiustare” vini poco gradevoli era incoraggiata un po’ dovunque da pubblicazioni come la Rivista d’igiene e sanità pubblica del 1895. Qui apprendiamo che la produzione delle prime acque artificialmente gassate avvenne nel corso del Settecento, ma per molto tempo furono considerate un bene di lusso per l’alto costo.

    Acquafrescaio a Napoli

    Bollicine e progresso

    Poi negli anni ‘30 dell’Ottocento nella Francia funestata dal colera si diffuse «la credenza che l’acqua di Seltz, ed in generale tutte le bevande gassose, giovassero assai contro il morbo asiatico» al punto che «si pensò a svilupparne grandemente l’industria». Il prezzo scese notevolmente e la produzione s’incrementò, anche per la convinzione che «le acque gassose devono essere considerate come bevanda di notevole importanza dal lato igienico».

    L’aggiunta della gassosa al vino era addirittura incentivata: «Infatti un vino debole acquista così una certa sapidità per la quale il gusto è meglio soddisfatto». Ma soprattutto «si è osservato che i casi di ebbrezza sono tanto meno frequenti, quanto più si fa uso di acque gassose mescolate al vino» e per questo, come sosteneva il batteriologo Francesco Abba: «il crescere del consumo dell’acqua di Seltz è cagione ed indizio di progresso nella civilizzazione».

    Il giro di affari cresce

    A fine Ottocento le fabbriche di acque “gassose” o “gazose” iniziarono a diffondersi capillarmente anche in Calabria. Nel 1891 la provincia di Reggio contava sette fabbriche, nelle quali lavoravano sedici operai e che quell’anno avevano prodotto nel complesso 197,69 ettolitri di acque gassose. Quattro di queste erano attive a Reggio e impiegavano 10 operai. Le altre tre fabbriche sorgevano a Bagnara Calabra, Gioia Tauro e Palmi e vi lavoravano due operai ciascuna.

    Le fabbriche nella provincia di Cosenza erano quattro: due a Rossano che davano lavoro a quattro operai, una a Cosenza con tre lavoratori e una a Castrovillari che contava un solo impiegato. Nel Catanzarese nel biennio 1890/1891 erano attivi quattro impianti per la produzione di acque gassose che impiegavano in tutto otto operai. Oltre alle due del capoluogo che davano lavoro a quattro operai, erano in funzione altre due fabbriche, una a Monteleone e un’altra a Nicastro che impiegavano due operai ciascuna. La produzione catanzarese complessiva si aggirò in quel biennio sui 123.87 ettolitri di bevande gassose.

    Il giro di affari continuò a crescere nel giro di pochi anni anche se non è facile disporre di dati esaustivi considerato che la produzione di acque gassose era spesso affiancata nell’ambito della stessa fabbrica ad altri generi: dolciumi, spiriti, materie vinose e confetture.

    Pubblicità di D’Atri da Indicatore postale-telegrafico del Regno d’Italia 1902-1903

    Gassose d’antan

    Nel 1902 a Castrovillari il proprietario del Gran Caffè Unione, un certo Alberto d’Atri, oltre a commerciare armi e altri articoli da caccia era noto come “Fabbricante di Acque Gassose”. Negli anni successivi gli elenchi dei produttori calabresi, spesso piccoli artigiani che inseguivano la fortuna nei settori più disparati, si fanno più fitti. A Castrovillari nel 1918 operava la “Società Riunite”, a Cosenza si dedicavano alla produzione di bollicine Agostino Deni e Giovanni Gallo, a Scigliano Luigi Virno.

    A Catanzaro operavano Raffaello Camistrà, Giuseppe Castagna, Demetrio Quattrone e Luigi Turrà. Antonio Scerbo era titolare di un’industria a Marcellinara. Nel 1924 a Catanzaro operavano i fabbricanti di gassose Giuseppe Corace e Nicola Taranto, a Nicastro Vincenzo e Fedele Ferrise e Santo Riommi, a Cutro Ferdinando Mancuso, a Sambiase Rocco De Silvestro, a Soriano Pasquale Vari mentre a Limbadi Vincenzo Musumeci.

    In provincia di Reggio nel 1918 era attiva l’industria di Spataro a Bova Marina, di Francesco Laganà a Motta San Giovanni, di Giovanni Belordi e Antonio Lazzaro a Sambatello, di Giuseppe Mittica a Sant’Ilario dell’Ionio, Matteo Laganà a Radicena, Mariano Ursino a Roccella, Domenico Spagnolo a Rosarno. A Gallina nella fabbrica di Pasquale D’Ascola si producevano insieme “Gassose e Birra” e lo stesso avveniva a Siderno negli impianti di Raffaele Pellegrino e Vincenzo Cremona.

    Il dato significativo riguarda il 1924, anno in cui si registrò una produzione considerevole. Tra i beni soggetti a dazio, le acque gassose erano associate alle acque minerali da tavola e raggiungevano una produzione di 2.717 ettolitri in provincia di Cosenza, per un reddito generato di 22.515 lire, 2.810 ettolitri ed un reddito di circa 20mila lire in quella di Catanzaro, e 2.402 ettolitri con un reddito di circa 24mila lire in quella di Reggio Calabria.

    Vuoti a rendere

    Negli anni ‘50 del Novecento fabbriche e fabbrichette si moltiplicano, dai centri più grandi fino ai piccoli paesi. La gassosa si è ormai ritagliata un posto sulle tavole e nei bicchieri dei calabresi, con l’immancabile bottiglietta di vetro “vuoto a rendere”.
    A Cosenza spopolavano le gassose di Gallo, di Bozzo, di Spadafora e di varie altre piccole fabbriche, in genere a conduzione familiare, che avevano sede in quella che era allora considerata la parte nuova della città.

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    Marchio di Fabbrica per le bibite di Annino Gallo a Cosenza depositato nel 1933

    Prima della Seconda guerra mondiale, stando all’Annuario generale d’Italia e dell’Impero italiano, la fabbrica di acque gassate di Annino Gallo aveva sede in corso Umberto, quella di Antonio Spadafora in via Monte Santo, quella di Sante Filice in corso Mazzini e quella di Alfio Deni di Agostino in via Rivocati.

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    Alcuni marchi di gassose cosentine (foto L. Coscarella)

    Nei decenni successivi molte si spostarono, altre aggiunsero nuovi prodotti al loro listino, qualcuna chiuse del tutto, qualche altra continua ancora la sua attività mutando col tempo forma e denominazione. Quella di Gallo è rimasta particolarmente impressa nei ricordi, anche perché il suo laboratorio, oltre alle semplici gassose, produceva anche bibite al limone, cedrate e, più in là, la mitica gassosa al caffè.

    Il marchio di fabbrica, che non poteva che rappresentare un gallo stilizzato, venne depositato nel 1931 da Annino Gallo per una generica “Bibita Gallo” e comparve poi con nuove forme sui tappi e sul vetro delle mitiche bottigliette di gassosa. Più in là comparve anche la marca “3 galletti”, mentre tra la concorrenza si diffondeva anche la gassosa della fabbrica di Eugenio Bozzo. Qualunque fosse la marca, in cantina e in famiglia la gassosa divenne per alcuni decenni ospite fisso della tavola, sia in cantina, accompagnando i famosi tre quarti di vino, sia in famiglia, soprattutto nelle ricorrenze.

  • Il paninazzo made in Calabria che vuol sfidare McDonald’s

    Il paninazzo made in Calabria che vuol sfidare McDonald’s

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    Le idee sono come germogli, ha detto qualcuno. Se poi partono dalle proprie radici e, infilate in un panino, fanno il giro, arrivano alla Capitale e cercano di oltrepassare i confini, allora sono destinate a durare. È la storia di Marco Zicca e del marchio Mi ‘Ndujo, partito da Cetraro alla conquista dei palati italiani ed europei.

    Come inizia la tua storia?

    «Sono nato a Cetraro. Non sono mai stato particolarmente brillante a scuola, quindi inizialmente mi sono messo a fare il pizzaiolo, poi, essendo già molto intraprendente, ho aperto un circolo per far giocare a carte e biliardino. L’altro passo è stato prendere in gestione con la mia famiglia un ristorante solo d’inverno, così nel frattempo la mattina andavo a scuola. A diciannove anni, la prima occasione concreta: il ristorante Miramare (oggi conosciuto come Frittura al metro). Non avevo nessuna esperienza, ma mi sono lanciato e dopo circa due anni le cose hanno cominciato a ingranare bene».

    Sempre da solo?

    «Con la mia famiglia. La tradizione calabrese di gestione familiare, che poi ha continuato ad accompagnarmi nelle mie scelte. Le difficoltà sono tante e senza la famiglia non si possono gestire».

    In che anno hai cominciato a pensare di cambiare?

    «Nel 2006 ho ricevuto la proposta di un amico, voleva aprire un piccolo locale all’interno del centro commerciale Metropolis di Rende, ma non poteva gestirlo personalmente. Ho pensato che fosse comunque importante mantenere un’alternativa al ristorante sul mare e così ho deciso di occuparmene io. Mia sorella mi ha dato una mano. Era Panino Genuino, l’antenato di Mi ‘Ndujo, nel 2007».

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    Il centro commerciale di Rende da dove è partita l’avventura di Mi ‘ Ndujo

    Era già partita l’idea.

    “Sì, contemporaneamente ho aperto in Polonia, tramite un ragazzo che aveva lavorato da me a Cetraro. Ma lì non ha funzionato, perché il centro commerciale del luogo aveva già problemi economici. Quindi ho provato anche a Bergamo, ma lì i ragazzi che lo gestivano hanno fatto troppi errori. Così mi sono riempito di debiti e ho dovuto ricalcolare tutto. È stato un periodo complicato».

    Come ne sei uscito?

    «Ho capito che mi mancavano le basi, allora sono andato a studiare per un anno in una scuola di formazione a Bologna, con la mia Fiat Multipla scassata, avevo sempre paura di restare per strada. Mi serviva capire come funzionassero il marketing, le competenze gestionali, conoscere le strategie imprenditoriali e la gestione del personale. Ho capito gli errori che avevo fatto».

    E hai ripreso il cammino da Cosenza…

    «Sì, abbiamo cominciato a lavorare bene, con una scelta molto attenta a tutti i prodotti del territorio, dalle carni al caciocavallo e alle patate silane, fino alla farina biologica. Le polpette di melanzane le produce un laboratorio di Crotone, quelle di sopressata il Salumificio Menotti secondo la ricetta di mamma Tonia. Grazie all’incontro con Coldiretti, si è sviluppata una collaborazione con tutti i produttori locali che si sono occupati del rifornimento. Niente roba congelata, solo fresca. Persino le bibite, come il chinotto».

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    Patate della Sila e polpette di melanzane: due cibi tipici calabresi che la catena propone ai suoi clienti oltre ai panini

    Quando è arrivata la svolta per Mi ‘ndujo?

    «Con Roberto Bonofiglio. Ci siamo conosciuti perché volevamo investire in bitcoin. Io non ne capivo niente, ma mi ha convinto. Poi parlando gli ho proposto di investire nella ristorazione e ha accettato volentieri. Lui inizialmente voleva provare nel Nord Europa, ma abbiamo ricominciato dal “piccolo”. Aprendo un punto Mi ‘Ndujo a Cosenza, su corso Mazzini, le cose sono andate subito molto bene. Da lì tutto è cresciuto molto velocemente e in poco tempo abbiamo aperto a Quattromiglia, a due passi dall’uscita dell’autostrada. In banca pensavano che fosse un azzardo, quindi ci abbiamo messo soldi nostri. Invece ha funzionato ancora».

    Nel frattempo quante persone avevi impiegato?

    «Già erano una quarantina. Poi ne abbiamo preso altri per gli uffici e quelli del Miramare per l’estate. Ma volevo provare altri territori. Ho pensato prima a Reggio, poi a Catanzaro. Alla fine ho deciso per Roma, che sicuramente, con qualche ora di macchina in più poteva offrire più prospettive di sviluppo. Pensavo ai quattro McDonald’s qui e mi chiedevo: ma perché non posso provare a fare la stessa cosa nella Capitale?».

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    Il progetto di Marco Zicca conquista anche le pagine di Vanity Fair

    E quindi a Roma com’è andata?

    «Sono andato in avanscoperta. Il primo punto vendita lo abbiamo aperto al centro commerciale Aura, nel quartiere Aurelio. Tante difficoltà anche lì, una cosa è viverla da turisti, una cosa è lavorarci. Era la fine del 2019. Poco dopo è arrivato il Covid e abbiamo dovuto ricominciare tutto, sfidando la paura e cercando di restare in piedi, attivandoci subito con le piattaforme di delivery e facendo riunioni online per studiare ogni giorno strategie nuove di sopravvivenza».

    Come siete usciti dalla pandemia?

    «Piano piano, ogni piccola consegna che riuscivamo a fare era una conquista. È stato un momento di grande disperazione, ma ci siamo intestarditi, da veri calabresi. Cinque soci più due ragazzi che lavoravano con me. Una volta finita la tempesta, oggi possiamo dire di essere rimasti in piedi».

    E oggi quanti Mi ‘Ndujo ci sono a Roma?

    «Ne abbiamo sei, oltre a quello all’Aurelio oggi ne ho uno in centro, Ponte Milvio, poi al rione Monti, un altro sulla Tuscolana, uno nel centro commerciale Euroma2 e uno in zona Piazza Bologna (storica zona di immigrati calabresi nella Capitale). La Banca Centro Calabria ha creduto in noi, ci hanno fatto un finanziamento importante per aprire nuovi locali. In Calabria sono rimasti tre locali».

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    L’interno di uno dei locali aperti da Zicca

    Pensi di aprire altri punti Mi ‘Ndujo nella regione?

    «Sì, ho ancora l’idea di aprire anche a Reggio, sul lungomare e a Catanzaro Lido. Poi Milano, Bologna e Puglia. L’idea adesso è quella di aprire un po’ in tutta Italia. E magari riprovarci all’estero. Oggi siamo circa 120 persone».

    Siete anche molto attivi sui social…

    «Eugenio Romano, il nostro direttore marketing, si occupa di questo aspetto e poi mia sorella Teresa fa i video, intervistando anche i ragazzi che lavorano per noi. Noi teniamo tanto alla formazione interna continua. Ogni punto vendita ha i suoi corsi settimanali e mensili, vogliamo che tutti si mettano in gioco e crescano insieme».

    Hai mai pensato alle fiere per Mi ‘ndujo?

    «Al momento non la vedo come una cosa fatta per noi».

    Secondo te, dei nostri sapori cosa piace di più ai “non calabresi”?

    «La ‘nduja, la salsiccia ma anche cose meno famose come il caciocavallo silano, o i cuddrurìaddri. Ne abbiamo venduto 200 a locale, sono stati un successo, la gente non li conosceva. Poi, in futuro, vorrei introdurre la liquirizia Amarelli, il bergamotto o la rosamarina, anche se il pesce va lavorato in un modo diverso e con quantità e tempi di deterioramento differenti».

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    Uno dei panini sfornati da Mi ‘Ndujo

  • Stessi diritti: Sud alla carica contro le oligarchie del Nord

    Stessi diritti: Sud alla carica contro le oligarchie del Nord

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    Ci risiamo: l’autonomia differenziata è tornata al centro del dibattito, dov’era entrata poco prima delle Politiche del 2018, su iniziativa degli allora tre governatorissimi del Centronord-che-conta: Luca Zaia, Roberto Maroni e Stefano Bonaccini.
    Il tutto con un inquietante trasversalismo (Bonaccini, è il caso di ricordare, è dem di estrazione Pci) che lascia mal sperare.
    L’allarme, allora, partì da Gianfranco Viesti, guru dell’economia, e fu accolto soprattutto da Roma in giù.
    E ora? Ha provveduto Massimo Villone, costituzionalista ed esponente della sinistra dura-e-pura, a rinfrescare la lotta con un ddl che prova a dare uno stop al cosiddetto neoautonomismo, iniziato più di venti anni fa con la riforma del Titolo V della Costituzione promossa da D’Alema.

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    Un momento del dibattito a Villa Rendano

    Se n’è parlato il 9 novembre a Cosenza, per la precisione a Villa Rendano, in Stessi diritti da Nord a Sud, un dibattito promosso dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani, che ha restituito gli umori e le preoccupazioni sulle autonomie.

    Falcone: il Sud alla Riscossa

    Il Sud alla riscossa? Sì. Ma stavolta non fa rivendicazioni inutili o gratuite. Lo ha chiarito Anna Falcone, giurista e portavoce di Democrazia Costituzionale, che sostiene il ddl Villone: «Il Coordinamento Democrazia Costituzionale non vuole demolire l’autonomia differenziata, che anzi per vari argomenti può essere utile».
    Piuttosto «miriamo a garantire i diritti fondamentali del cittadino attraverso l’uniformità normativa».
    In pillole: «Ci sono materie che non possono essere gestite direttamente dalle Regioni, neppure da quelle più ricche». E cioè: Sanità, Scuola e istruzione, Università e ricerca, Lavoro e Infrastrutture. «Questi settori», prosegue Falcone, «Devono essere disciplinati dalla legge dello Stato per garantire l’uniformità di trattamento di tutti i cittadini».

    Altrimenti, «L’Italia rischia di fare un percorso antistorico: un Paese già non grande di suo che si spezzetta in aree più piccole si indebolirebbe davanti all’Ue, che ha fatto il contrario». Ovvero, che «sta pian piano cementando la sua identità politica attraverso i fondi del Pnrr». Detto altrimenti: attraverso la solidarietà.

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    Anna Falcone

    Esposito: attenti al portafogli

    Non è del tutto vero che il Coordinamento Democrazia Costituzionale non abbia rivendicazioni. Lo ribadisce l’intervento di Marco Esposito, firma economica de Il Mattino di Napoli e autore di due libri chiave di un certo neomeridionalismo: Zero al Sud (Rubbettino, Soveria Mannelli 2018) e Fake Sud (Piemme, Milano 2020).
    «Il progetto dell’autonomia differenziata contiene un nuovo pericolo, dovuto al Pnrr». In pratica, alcune classi dirigenti del Nord, secondo Esposito, «mirano a egemonizzare questi fondi».
    Con un risultato paradossale: «L’Ue ha concesso i fondi all’Italia sulla base di tre parametri a rischio: popolazione, disoccupazione e reddito», che sono determinati (purtroppo) dalla situazione del Sud.
    Viceversa, se si fosse puntato sul Pil, che avrebbe avvantaggiato il Nord «il Paese avrebbe avuto le briciole».

    L’inghippo dell’autonomia differenziata

    Quindi, i problemi del Mezzogiorno consentono l’incasso dei fondi, che tuttavia il Nord vuole capitalizzare. Anche con un meccanismo non bello: la predisposizione di una “cassa” da cui le Regioni ricche potrebbero attingere i fondi che i “terroni” non sono in grado di impiegare.
    Ma la situazione è cambiata: «Il Sud non è solo, perché una parte dell’opinione pubblica settentrionale ha capito l’inghippo» ed è pronta a dare battaglia.

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    Marco Esposito

    Gambino: il Parlamento è impotente

    Silvio Gambino, costituzionalista e ordinario Unical, denuncia un’altra insidia: la marginalizzazione del Parlamento nell’attuazione delle autonomie differenziate.
    «La legge Calderoli, che attua il comma 3 dell’art. 16 della Costituzione, è bloccata. Tuttavia, è prevista un’intesa diretta tra governo e Regioni, che il Parlamento può solo accettare o respingere in blocco, senza possibilità di emendamenti».

    Una specie di plebiscito da aula, che non consente passi indietro, a meno che non vogliano farli le Regioni. «Tuttavia, perché una Regione dovrebbe rinunciare a ciò che la avvantaggia?».
    Ma la avvantaggia fino a un certo punto: «Se l’autonomia differenziata passasse», spiega ancora Gambino, «Ci troveremmo di fronte al paradosso per cui una Regione a Statuto ordinario come la Lombardia avrebbe più poteri di una Regione a Statuto speciale come la Sicilia, che a sua volta ne ha di più della Baviera, che non è una Regione, ma il più ricco Stato federato della Germania». Ogni altra considerazione è superflua.

    Paolini: che brutta la prepotenza delle oligarchie

    Più barricadero, Enzo Paolini di Avvocati Anti-Italicum. L’autonomia differenziata, argomenta Paolini, «è una delle due facce della stessa medaglia». L’altra è il Rosatellum.
    Già: «Il sistema elettorale attuale è prodotto dalla stessa cultura istituzionale che vuole riformare le autonomie». Cioè «una cultura irrispettosa del rapporto tra cittadini e rappresentanti e che vuole privilegiare solo le oligarchie».

    Giannola: silenzio, parla Svimez

    In chiusura del dibattito, il lungo intervento di Adriano Giannola, il presidente di Svimez. Più di quaranta minuti a braccio, densi di concetti e polemiche, gestiti con tono pacato ma parole ferme.
    Il ragionamento centrale di Giannola è semplice: il Sud è ridotto male, ma il Nord arretra. Morale della (brutta) favola: le tre Regioni che vogliono l’autonomia differenziata rischiano di  diventare le cenerentole dell’Europa settentrionale.
    Di questo pericolo ci sono le avvisaglie: «Il Piemonte è entrato nell’area di coesione e alcune Regioni del Centro (Marche e Umbria) sono in palese declino».

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    Adriano Giannola

    Quindi, o si cresce tutti assieme oppure il crollo sarà inesorabile: solo questione di tempo.
    La possibilità di ripresa passa attraverso la posizione geografica dell’Italia: «Il centro del Mediterraneo che guarda verso l’Africa, un continente problematico ma in forte crescita commerciale».
    Ma con la litigiosità interna e la scarsa intenzione del governo a gestire seriamente le opportunità, quasi non ci sono vie di uscita.
    I terroni, quando si arrabbiano, incutono qualche timore. Ma quando pensano fanno addirittura paura.

  • STRADE PERDUTE | Rende di sotto e la Borbonica dimenticata

    STRADE PERDUTE | Rende di sotto e la Borbonica dimenticata

    Popi popi vita mia: all’insegna di questa non eccellente lode amorosa si intraprende il 50% approssimativo dei viaggi autostradali degli abitanti di Rende (per chi non ci avesse fatto caso, sta scritta con lo spray sul lato sud di un cavalcavia a breve distanza dallo svincolo di Rende-Cosenza Nord). Tutto un programma, insomma, e soprattutto un’altra buona ragione per ignorare il tracciato autostradale e deliziarsi sul vecchio, su quell’antica Strada per Napoli, la borbonica, la Regia, delle Due Sicilie o come volete chiamarla.

    Quella che a Rende da svariati decenni, dopo secoli di doppi sensi di circolazione per i carri, le carrozze, i cavalli, i pedoni e pure gli alfieri, e infine poi per i primi mezzi a motore, è stata declassata a strada urbana a senso unico – sacrilegio! – sotto il nome di JFK, della Resistenza, di Giuseppe Verdi e di Alessandro Volta, nell’ordine da sud a nord: né santi né poeti né navigatori, quindi, per la strada che separa in due “Rende di Sotto”, e che un tempo separava soltanto una campagna da un’altra campagna.

    Lungo questa strada, fino a un secolo fa, sorgeva al massimo qualche casupola e forse riusciva a intravedersi, poco più a valle, la cappelletta nel mezzo degli ulivi, dei peri e degli eucalipti, della Commenda di San Giovanni Battista.

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    “Popi popi vita mia”, genio anonimo rendese

    Nord Sud Ovest Est

    Il panorama più lontano è rimasto un po’ più invariato: a ovest l’opprimente cortina scura della Catena Costiera: alta e monotona, sempre in ombra (anche quando non lo è, sembra esserlo), quasi una tenda pesante e opaca appesa al cielo.

    Là dietro ci sarebbe pure il mare, vicino e irraggiungibile, impercettibile. Ma è come se non ci fosse: un muro di acacie e di faggete impenetrabili. Dell’oscuro profilo della Catena si distingue solo il pizzo di Monte Cocuzzo. A sud, un pizzico del centro storico di Cosenza e un accenno di basse Serre. A nord, lontane ma più illuminate, le cime aguzze del massiccio del Pollino, spessissimo innevate nei canaloni a dirupo.

    Anzi, non tutte aguzze, quelle cime: fa eccezione il semicerchio glassato e goloso di Serra del Prete, di fianco al triangolino equilatero del Monte Pollino e all’altro scaleno della Serra Dolcedorme. A est? Gli ampi archi a sesti ribassati della Sila, feriti dai viadotti obliqui, messi lì come spillette su una risma di fogli neri: diagonali, a due due, luccicanti, taglienti nel buio delle abetaie e pinete silane. Insomma, una valle di lacr…, volevo dire un’infelice valle piovosa, quella rendese, anche a giudicare dalle precipitazioni medie.

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    L’elegante Casino Telesio nella contrada Feudo Telesio di Castrolibero (foto L.I. Fragale)

    Toponimi familiari

    Eccettuato il centro storico di Rende di cui anche troppo si scrive, e la chiesina di cui sopra, qua intorno resta d’antico poca roba oltre alla masseria S. Agostino – già dei nobili Spada – munita di propria cappella, posta ai piedi della collina omonima ma che omonima non era mai stata e semmai sempre indicata – assieme a contrada Difesa – come Monte Ventino, toponimo dimenticato. Là dietro, nella zona più impervia e selvaggia di tutto il territorio comunale (l’unica che avrebbe qualche spessore paesaggistico e persino naturalistico… chi se la ricorda la quasi pasoliniana “valle dei fossi”?), sorge l’enorme discarica a deturpare il tutto, nei pressi della Fontana Frassine e delle Destre Spizzirri, sopra la stradina che conduce a Ortomatera.

    E qui comincia l’avventura – per citare Sergio Tofano – della toponomastica prediale della zona, che ripete i cognomi delle più o meno antiche famiglie di proprietari terrieri. Spizzirri, De Matera, quindi, ma anche i fondi Monaco e persino il rione Cavalcanti, presso quella contrada Crocevia – con piccola ex-masseria di impianto cinquecentesco – da cui si arriva dritti dritti a Feudo Telesio, in territorio di Castrolibero, poco alle spalle della buffa contrada “Fontana Che Piove”. Tutto vero.

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    Contrada Fontana che piove

    E si potrebbe sconfinare fino a Cosenza, con questo criterio onomastico, fino alla contrada Mollo (città 2000 – Rende) o alla contrada Muoio (già possedimento della famiglia Mojo, che – chiariamo – non è Mollo pronunciato alla spagnola…) ma non mi va: restiamo in territorio rendese e cambiamo una vocale, passando da Mojo a Piano di Majo, la collina che soffre di complesso di inferiorità rispetto alla fintamente blasonata collina di Piano Monello alias, più modestamente, Serra Lupara, paradiso del parvenu da una cinquantina d’anni in qua.

    Una pseudo Beverly Hills in miniatura a Rende

    Non è l’“Italia in miniatura” ma più ambiziosamente una velleitarissima “Beverley Hills in miniatura”: telecamere, villa con piscina, villa con campo da tennis, villa con tutte e due, villino con ascensore per fare mezzo piano che non si sa mai, torretta d’avvistamento, casetta degli gnomi, castelletto delle fiabe, villone da Miami, cottage inglese, villino azzurro, villino rosa, tutta un’accozzaglia cromatica e stilistica da bazar del dubbio gusto (altrove, in altra zona rendese, addirittura un assai maldestro omaggio a Gaudì…). Torniamo a noi e dalla lupara scorgiamo contrada Femmena Morta, altrettanto ameno toponimo rimpiazzato dal più asettico “Failla” (chissà chi decise il maquillage…).

    La cappella Spada-Alimena, lungo il torrente Mavigliano (da Facebook)

    Ma torniamo alle strade: vogliamo andare a nord? E riprendiamola, questa benedetta strada borbonica! Anzi, zigzaghiamo tra lei e la vecchia strada consolare romana, perché in questo tratto la borbonica è troppo trafficata (siamo in territorio di Montalto, lì dove è una tragedia di semafori, rotonde, brutte insegne di altrettanto brutti negozi e svincoli per centri commerciali, e manifesti pubblicitari orripilanti, fino alla chiesa della SS. Trinità ovvero, più prosaicamente, fino al bivio d’Acri). A contrada Gazzelle – altro feudo telesiano – sorge l’ottocentesca e molto poco autoctona cappella Alimena-Spada, già dei marchesi Episcopia, in stile neogotico-neoceltico-neoirlandese. Una neobomboniera, insomma, a conferma che il problema del buon gusto non è recente.

    La casa nella prateria

    Con buona pace di questa, e poi di quella curva inaspettatamente boscosa – quasi un errore spaziotemporale – sul torrente Mesca, a metà strada tra il bivio per Montalto e Taverna, conviene invece scendere verso Coretto o Coretta, cioè su una parte di ciò che resta dell’antica Popilia. Precisamente sotto l’evocativa contrada Tesauri/Tesori (il tratto precedente della Popilia, dal confine nord del Comune di Cosenza, è impercorribile oltre Santa Chiara e Santa Rosa di Rende, all’altezza della confluenza tra il Surdo e l’Emoli).

    Qui si continua dritti e si infila la vecchia stradina che corre parallela all’autostrada. Qualche buca di troppo ma ne vale ampiamente la pena, specie quando ci si può beare del fatto che, di fianco, gli automobilisti in autostrada vanno spesso più lenti di noi. Una curva obbligata a sinistra, si passa sotto alla suddetta autostrada e ci si immette di nuovo sulla borbonica, all’altezza di una grande casa antica, in mattoni, di cui nemmeno le vecchie mappe registrano la titolarità. Poco più avanti, una casetta minuscola in mezzo alle erbe selvatiche era già crollata ad agosto. A settembre ne restava solo qualche mattone. Era bella, m’è dispiaciuto.

    Casetta scomparsa, lungo la vecchia strada tra Montalto e Torano (foto L.I. Fragale)

    Arrivano i Cavalcanti

    Ed eccoci a Torano Scalo, palma d’oro alla bruttezza – pari merito con almeno altri due Scali in questa provincia, come già accennavo altrove. Eppure questo deprimente abitato è sorto proprio in mezzo a un bel pezzo di storia, in quanto divide in due un antico nucleo feudale: a est, la contrada Sellitte (già Sellitteri/Sellitano) fu il primo possedimento calabrese dei nobili Cavalcanti fiorentini che qui si insediarono proprio per questo motivo (fu Filippo Cavalcanti a riceverlo in dono nel lontano 1363 direttamente dalla regina Giovanna d’Angiò, di cui era ciambellano); a ovest tutta la teoria dei principali insediamenti cavalcantiani: Sartano, Cerzeto e Torano Castello (e, poco più lontano, anche Rota Greca), ognuno con il proprio Palazzo dei duchi Cavalcanti in più o meno bella mostra.

    Portale del Palazzo Cavalcanti di Torano Castello

    Coincidenze

    Perché mi dilungo tanto? Per un dubbio: Wes Anderson è stato qui? Vi starete domandando cosa c’entri. Succede che nel 2013 questo regista ha dato alla luce, su commissione di Prada, un cortometraggio di 8 minuti – delizioso come tutte le sue opere – ambientato in un immaginario paesino italiano degli anni’50, alle prese con il passaggio non della Mille Miglia ma dell’altrettanto immaginaria Molte Miglia. Un pilota – Jed Cavalcanti – si schianta contro una statua nel mezzo del paese, ma sopravvive e scopre che il paese si chiama Castello Cavalcanti ed è proprio quello dei suoi antenati (ecc. ecc. e non vi dico altro). Solo alcune cose non mi quadrano: la livrea di Prada è bianca e rossa; quella della Mille Miglia idem; bianco e rosso sono pure gli smalti dello stemma Cavalcanti, allora perché mai Wes Anderson ha preferito optare per una livrea rossa e gialla? Chissà… Seconda domanda: perché in Calabria non ci si accorge mai di queste coincidenze?

    Il cortometraggio Castello Cavalcanti (Wes Anderson, 2013)