In merito all’articolo da voi pubblicato il lo scorso 9 febbraio e titolato “Ripartire da Villa Rendano: Associazioni unite per la città”, si evidenzia che l’Archivio di Stato di Cosenza non è «smobilitato o in smantellamento» ma è attivo con una presenza costante sul territorio attraverso iniziative culturali di ampio spessore tra cui mostre documentarie e fotografiche, convegni, e laboratori didattici e visite guidate per le scuole di ogni ordine e grado.
Le citate manifestazioni sono state pubblicate sul sito dell’Istituto, pubblicizzate sui social e sui giornali. L’Archivio ha inoltre curato la partecipazione e condivisione degli eventi con associazioni del territorio con le quali è stato possibile realizzare molte delle iniziative proposte.
Unitamente a quanto sopra descritto, questo Istituto garantisce quotidianamente i servizi all’utenza tra cui l’accesso alla sala di studio per le ricerche storiche e culturali e la consultazione bibliografica. Nonostante l’Archivio di Stato di Cosenza, come altri Enti appartenenti al Ministero della Cultura, vive un momento di marcata carenza di personale è aperto e disponibile ad ogni forma di partecipazione con le associazioni del territorio garantendo il proprio ruolo Istituzionale.
Antonio Orsino Direttore Archivio di Stato di Cosenza
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Spettabile Direttore, Nell’articolo da Lei citato si riportano alcune impressioni emerse durante il dibattito tra associazioni ed enti culturali svoltosi a Villa Rendano. Prendiamo atto di quanto ci scrive. Ma prendiamo atto che anche Lei denuncia il sottodimensionamento del personale dell’Archivio di Stato. Restiamo a Sua disposizione per coadiuvare, nel nostro piccolo, tutte le iniziative opportune a valorizzare e difendere l’Istituzione da Lei diretta.
«Sono qui praticamente da sempre, ma da tre anni presto servizio tutti i giorni», spiega Sonia, ex capo scout. E prosegue: «Io non faccio servizio solo per dare, ma ricevo tantissimo a livello umano».
Sonia parla di una realtà seminascosta, di cui le istituzioni si accorgono ancora poco (e non sempre bene): l’Arca di Noè.
Natura e solidarietà ai disabili in Calabria
L’Arca di Noè si è sviluppata attorno al vecchio giardino botanico dell’Aias, alle spalle dell’ex Pastificio Lecce di Vadue di Carolei, una reliquia semidemolita delle vecchie promesse di sviluppo industriale.
Le due serre originarie si sono arricchite di un capannone, dove trenta persone in media al giorno socializzano e pranzano. Soprattutto, si riabilitano, attraverso il contatto con la natura e i lavori manuali.
L’interno di una serra dell’Arca
Sono disabili, i più. Ma non mancano soggetti con problemi più lievi, come i disturbi dell’attenzione. Qualcun altro, infine, si riabilita a livello legale: l’Arca accoglie anche persone che scontano le pene alternative.
La storia dell’Arca dei disabili
Aria un po’ hippie e modi molto semplici e diretti, Alessandro Scazziota è il Noè della situazione.
«La nostra piccola realtà esiste da circa trent’anni», racconta Alessandro, figura storica del volontariato cosentino.
«Abbiamo iniziato negli anni ’90 in una vecchia dimora del centro storico di Cosenza: eravamo solo quattro obiettori di coscienza». L’attività di accoglienza e integrazione promossa da Scazziota e dai suoi compagni di ventura ha avuto successo.
Da qui la decisione di spostarsi a Vadue, sia per motivi di spazio sia per darsi davvero all’agricoltura.
Una messa all’ingresso dell’Arca
L’Arca di oggi
Franca, come Sonia, proviene dal volontariato cattolico: «Presto servizio qui da dieci anni. Vi sono entrata in un momento di forte smarrimento e l’Arca mi ha abbracciato senza travolgermi».
L’Arca di Noè è una fattoria sociale e didattica. A livello legale è una cooperativa “a” e “b”, ovvero rivolta sia a soggetti svantaggiati sia a disabili.
Gli operatori sono dieci, tra loro Antonio, che da settembre vi svolge per sua scelta il servizio civile.
E c’è Leonard, un assistente sociale keniota, che presta la sua attività professionale su incarico del Moci, il Movimento della cooperazione internazionale.
L’interno di una serra dell’Arca
I mezzi dell’Arca
«Facciamo tutto da soli», prosegue Scazziota con un pizzico d’orgoglio.
Detto altrimenti, l’Arca si autofinanzia attraverso le donazioni delle famiglie degli ospiti e, soprattutto. attraverso la propria produzione: gli ortaggi e le verdure che provengono dalle serre.
Chi passa da Vadue ogni tanto nota i banchetti dove gli ospiti e gli operatori fanno i fruttivendoli. «Ma distribuiamo anche porta a porta», continua Alessandro.
Come se non bastasse, l’Arca ha anche alcune pecore e degli asinelli per consentire un po’ di pet therapy.
Il tutto, cosa assai importante, senza contributi pubblici. Segno che la solidarietà orizzontale e dal basso funziona anche da noi, dove generalmente si fa poco senza il gettone della Sanità o dell’ente locale.
Scazziota tra agli ospiti dell’Arca
Gli affezionati, operatori e disabili
C’è chi, grazie all’Arca, ha cambiato vita. È il caso di Gabriella che, prima di scommettere sull’avventura di Scazziota, era assicuratrice e opera in questa realtà piccola e solida dal ’97.
Oppure di Giovanni, che dal 2001 gestisce la parte amministrativa. O di Katia, ex docente. Anche alcuni ospiti sono storici: come Francesco, che frequenta la struttura da 15 anni, o Giuseppe, che da 5 partecipa al laboratorio di ceramica. O come Giacomo, legato da sempre all’Arca («Sono un fondatore», dice con un sorriso).
Gli ospiti e gli operatori dell’Arca
Le serre
Chi conosce la storia di Vadue, ricorderà senz’altro le vecchie serre, finite quasi in abbandono negli anni ’90.
Alessandro e i suoi le hanno ripulite e ammodernate, con l’aiuto di alcune macchine agricole. E con qualche innovazione: ad esempio, le strutture pensili che consentono di coltivare ortaggi su più livelli.
Fuori, poco dopo il vialetto sterrato a fianco dell’ex Pastificio, ci sono giostre e scivoli per bambini. Un segno di come le attività solidali possono contribuire a riqualificare il territorio.
Nessuno dei volontari, a quel che risulta, ha bussato alle istituzioni, se non per un riconoscimento. Ma nulla vieta alle istituzioni di valorizzare come si deve l’Arca di Noè, una realtà piccola, solida e indipendente. E sì, anche bella.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. Cosenza sarà per tutto il 2023 Capitale italiana del volontariato. Attraverso I Calabresi la Fondazione intende promuovere e far conoscere una serie di realtà che hanno reso possibile questo importante riconoscimento.
Le associazioni contano, le associazioni pesano, occorre ascoltare le associazioni.
Non è retorica. Nei momenti di crisi, i gruppi organizzati di cittadini devono svolgere una preziosa supplenza alle istituzioni, oberate di problemi e non sempre pronte a rispondere.
Ciò vale soprattutto per Cosenza, che vive tuttora forti difficoltà.
Proprio in quest’ottica, laFondazione “Attilio e Elena Giuliani”ha organizzato un incontro-dibattito tra i rappresentanti dell’associazionismo cittadino, svoltosi a Villa Rendano lo scorso tre febbraio.
La Fondazione chiama, le associazioni rispondono
La Fondazione chiama, le associazioni aderiscono (più di trenta) e partecipano (circa venticinque).
Un successo? Sì, date le attuali difficoltà. Ma la risposta positiva dell’associazionismo rivela anche la voglia di ragionare su possibili ipotesi di lavoro in vista della cittadinanza attiva. Questa voglia è emersa anche durante il dibattito coordinato dalla terna della Fondazione Giuliani: il presidente Walter Pellegrini, il giornalista Francesco Kostner, addetto stampa della fondazione, e il giornalista Antonlivio Perfetti, direttore di Cam-Teletre e organizzatore di eventi di Villa Rendano.
Villa Rendano
Le associazioni cosentine
Alcune sono storiche e di peso istituzionale: ad esempio, la Società Dante Alighieri, rappresentata dalla professoressa Maria Cristina Parise Martirano, altre più recenti, come la Fondazione Lanzino.
Alcune con missioni specifiche, come l’Orchestra sinfonica “Brutia”, altre concentrate sul sociale, come Lav-Romanò.
Ancora: c’è chi ambisce a rievocare pezzi di storia patria, come l’associazione Maria Cristina di Savoia e chi, invece, si sofferma sulle tradizioni del territorio, come “I tridici canali”, specializzata nel vernacolo cosentino. E ancora: come non ricordare il “Teatro dell’Acquario”, che si propone di far sopravvivere un’esperienza artistica importantissima per la città? E, visto che siamo in tema, che dire dell’associazione “Alfonso Rendano”?
Allarme centro storico
Nel caso dell’iniziativa di Villa Rendano, c’è uno scopo comune: far leva sulle proposte della Fondazione Giuliani per risvegliare la città, magari integrandosi col ricco calendario di iniziative cantierato dalla Fondazione per l’anno in corso.
Già: come è emerso dal dibattito, l’azione dei cittadini è fondamentale in una fase in cui è difficilissimo ricorrere al gettone pubblico per valorizzare il territorio.
Che a tratti rischia la desertificazione, come il centro storico di Cosenza.
Un momento del dibattito tra associazioni a Villa Rendano
Lotta per la salvezza
Già: tutti i presidi della parte antica di Cosenza, come le due Biblioteche (la Civica e la Nazionale) e l’Archivio di Stato, sono smobilitati o in smantellamento.
Vuoi per la crisi finanziaria, vuoi per le varie spending review, che hanno imposto tagli e blocchi al turnover, vuoi per i cambiamenti istituzionali. Se si pensa alle attività private, la situazione rischia di rivelarsi ancora peggiore.
Ripartire da Villa Rendano
In quest’ottica, il rimedio prospettato dalla Fondazione Giuliani, e già in parte programmato, rivela più di un motivo d’interesse. Infatti, trasformare Villa Rendano in un catalizzatore di energie civiche attraverso la cultura significa mantenere viva l’attenzione su un’area della città in pieno riflusso, dove i guizzi degli anni ’90 suscitano solo nostalgie, più o meno struggenti.
Ma significa anche riaccendere le discussioni al di fuori del mantello della politica. Intendiamoci: le istituzioni pubbliche non sono escluse, ma partecipano come interlocutori preziosi e non con ruoli “padronali”. Le risposte proverranno dalla rete di associazioni che la Fondazione Giuliani mira ad annodare.
Un programma ambizioso? Senz’altro. Ma sono ambizioni che partono dal basso e si sviluppano in piena orizzontalità. Anche questa è democrazia,
Durante il fascismo la Calabria è nel destino di chi subisce il confino di polizia. Si stima che tra il 1926 e il 1943 i confinati in Italia siano 18.000 e di questi il 15% si ritrovi lì.
La propaganda antifascista in quegli anni è tra i peggiori crimini da prevenire: bisogna domare ogni istinto ribelle. Non importa aver commesso un reato per finire al confino, basta un semplice sospetto di pericolosità. È una misura di prevenzione che si applica con un mero allontanamento, ma di fatto priva della propria autodeterminazione chi se la vede infliggere. Il regime preferisce luoghi dell’entroterra, isolati durante i mesi invernali, difficilmente raggiungibili, scarsamente politicizzati. Ed è così che a Longobucco, paesino di poche anime sulla Sila cosentina, si scrive un’inaspettata favola da Mille e una notte.
Ma senza lieto fine.
Abis… Sila
L’Italia è appena uscita vittoriosa dalla campagna d’Africa, ma nella nuova colonia non mancano i malumori verso l’invasore. Un esempio? L’attentato a Rodolfo Graziani, figura di spicco del fascismo italiano, accusato di crimini di guerra e viceré d’Etiopia. Graziani rimane ferito nell’agguato, la dura repressione alla resistenza anticoloniale non si fa attendere e provoca migliaia di vittime.
I fascisti decidono di allontanare figure della classe dirigente etiope per scongiurare il rischio che animino nuove insurrezioni contro il regime.
E così una parte degli etiopi finisce al confino in Sila, a Longobucco. Sebbene l’isolamento del paese si presti ad aspre detenzioni, la permanenza si rivela migliore del previsto.
Nell’elenco degli etiopi al confino a Longobucco figuravano anche ex ministri e ambasciatori
Monsignor Montini scrive al nunzio apostolico
I deportati etiopi al confino a Longobucco sono infatti personalità vicinissime a Hailé Selassié, l’imperatore che dopo l’occupazione fascista aveva scelto l’esilio volontario. Hanno un livello socioculturale elevato e intrattengono contatti epistolari con Mussolini e alti prelati nel tentativo di cambiare la propria sorte.
È in effetti la Santa Sede a muoversi per garantire loro un soggiorno meno duro. A testimoniarlo, una lettera di monsignor Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, al nunzio apostolico monsignor Francesco Borgongini Duca. Montini evidenzia le difficoltà economiche del figlio dell’ex ministro di Etiopia e chiede una soluzione al problema.
Al confino a Longobucco: «Purché non siano serviti da bianchi»
Data l’attenzione che i confinati etiopi riscuotono, le autorità fasciste assumono nei loro confronti un atteggiamento moderato. I nuovi arrivati non tardano ad accorgersene e si uniscono ai longobucchesi per ottenere maggiori compensi dalle casse del regime.
Gli italiani chiedono i pagamenti per i servizi offerti ai confinati e gli etiopi avanzano richieste per abiti, cibo e integrazioni degli assegni. Anche in virtù di questo scambio reciproco, le autorità trasgrediscono all’obbligo di non far incontrare i confinati con la popolazione locale.
Telegramma del prefetto Palma col permesso di uscita per i confinati. A sinistra, scritto a penna e sottolineato, si legge: «Il Duce consente purché non siano serviti da bianchi. Prego assicurarsi».
Gli etiopi arrivano lassù con l’etichetta di irriducibili e pericolosi, ma l’interesse e la propensione a creare un clima cordiale per il quieto vivere rendono possibile l’incontro tra le due culture. Un certo peso pare averlo anche il fatto che, sebbene privati della libertà di lasciare Longobucco, siano prigionieri molto particolari rispetto ad altri al confino: vestono in doppio petto, nella villa che gli ha assegnato la Prefettura ci sono molti libri e si organizzano concerti. E poi, si racconta, ricevono un assegno di mille lire al mese, la somma che gran parte degli italiani dell’epoca sogna ascoltando l’omonima canzone alla radio.
Se, da principio, c’è chi li guarda circospetto, presto gli etiopi al confino diventano parte della comunità di Longobucco. Notabili africani e contadini silani vanno d’amore e d’accordo, al palazzo e rinivuri (dei neri, ndr) le donne del paese portano minestre e verdure, le sarte cuciono per loro degli abiti in occasione delle festività. Colori, lingue, profumi per sette anni si incrociano nei vicoli.
È nato nu criaturo, è nato niro
Di quella convivenza la traccia più nitida resta Michele Antonio Scigliano, figlio della relazione illegittima tra Giuseppina Blaconà, una contadina di Longobucco, e il ras Ubie Mangascià al confino in Sila. Lui ha bisogno di una brava cuoca; lei ha il marito Vincenzo Scigliano al fronte, proprio in Etiopia, e bisogno di un lavoro. S’incontrano, si piacciono. E il 19 febbraio del 1939 a Longobucco nasce un bambino. Con la pelle scura come suo padre, povero come sua madre.
1953, l’ambasciatore etiope (di spalle) a Roma torna in visita a Longobucco, dove era stato confinato
Per il paese e il regime è uno scandalo. Il ras Mangascià viene trasferito da Longobucco a Bocchigliero e lì rimane fino al 1943, quando gli alleati riportano gli etiopi al confino nella loro terra. Tornato in Africa, Mangascià diventa ministro delle Poste e consigliere della Corona, sposa una principessa del luogo molto vicina all’Imperatore.
Non dimentica però – e come lui altri confinati, che torneranno in Sila negli anni successivi – gli affetti lasciati sulle montagne calabresi, almeno non del tutto. Invia un po’ di denaro per contribuire alla crescita del figlio, chiede a Giuseppina di trasferirsi col bambino ad Addis Abeba, ma lei rifiuta.
‘U nivureddu, da boscaiolo a miliardario
Michele Antonio, nel frattempo, cresce con la sola madre. Per tutti è u nivureddu. Conduce una vita di stenti, cerca di racimolare qualche quattrino con i lavori più umili, tra qualche gesto di inclusione e le chiacchiere di paese che lo dipingono come figlio del peccato.
Appena maggiorenne si sposa con Filomena, povera come lui. Poi la sua vita cambia all’improvviso.
Nel municipio di Longobucco arriva una lettera, è dell’ambasciata d’Etiopia. Informa i cittadini che si andava cercando il figlio del ras. Qui le versioni della storia arrivate fino ad oggi divergono: secondo alcuni nella missiva si parla della morte del principe e della concessione dell’eredità al figlio Michele Antonio Scigliano; secondo altri di riferimenti a eventuali lasciti non ci sarebbe ombra. Fatto sta che u nivureddu per tutti è diventato miliardario.
Deportate etiopi insieme a donne di Longobucco
La notizia della chiamata di Michele Antonio in Etiopia elettrizza i longobucchesi che risfoderano la loro arma migliore: la solidarietà. Preparano (a loro spese) feste e banchetti, gli comprano vestiti nuovi. Nasce addirittura un comitato – ne fanno parte, tra gli altri, il sindaco Giacinto Muraca e il vicesindaco Antonio Celestino – per chiedere un mutuo in banca allo scopo di gestire le spese di viaggio.
Il neo miliardario – secondo chi sostiene che il comunicato parli dell’eredità – va in giro promettendo, oltre alla restituzione dei soldi spesi in suo onore e per la sua partenza, anche gloria e splendore per Longobucco, il paese che aveva accolto il padre e cresciuto lui.
1961, i genitori di Antonio sulle pagine di Ebony
Una rivista americana per nei del ’62 riporta la notizia di quanto accaduto in Sila
U nivureddu quando faceva il taglialegna
Michele Antonio nei giorni in cui doveva ancora guadagnarsi da vivere
U nivureddu sfoggia il suo nuovo look tra le strade di Longobucco
La nuova casa di Michele Antonio Scigliano in Etiopia
Giacinto Muraca in Etiopia con Michele Antonio
Michele Antonio e il suo fratellastro etiope Kembede Mangasha Wubie
Foto ricordo con la sorellastra etiope Tigest Bezabbe
Etiopia, Michele Antonio incontro i giornalisti dopo il suo arrivo ad Addis Abeba
U nivureddu, vestito di tutto punto, discute con un’anziana a Logobucco
Michele Antonio e sua madre Giuseppina a Longobucco dopo la notizia
Il principe non cerca moglie
Giunto in Etiopia, però, l’unico pensiero è la sua nuova vita da principe. Di lui – tantomeno del denaro da restituire – in paese non si saprà più nulla. Qualcuno ancora oggi dice che lo abbiano ammazzato dei sicari assoldati da ulteriori eredi che non volevano dividere con lui il malloppo. Altri che la sorella di Ubie Mangascià abbia fatto cancellare dal testamento quel nipote mezzosangue.
Michele Antonio con sua moglie Filomena e loro figlia Giuseppina
Filomena, intanto, per la vergogna è tornata da sua madre a Rossano portando con sé i due figli. Al Corriere della Sera, che va a intervistarla nel 1963, racconta di essere andata a trovarlo in Africa pochi mesi prima. Michele Antonio – riferisce al cronista – pare avere problemi col testamento che gli ha cambiato la vita, ma va in giro su macchinoni in dolce e numerosa compagnia. Promette anche a Filomena denaro che non invierà mai. Si mostra freddo, ma non troppo. «I fimmini tutti l’ommini ce l’hanno… però Antonio non si è scordato di me e l’ha dimostrato!», spiega al giornalista la donna accarezzando nel pancione il loro terzo bambino che dovrà presto sfamare in qualche modo. Il marito le ha chiesto di chiamarlo Mangascià.
Longobucco e il confino
Gli etiopi non sono i primi dissidenti a essere finiti al confino a Longobucco, né gli ultimi. Passano da lì in quegli anni i personaggi più disparati, da Lea Giaccaglia ad Amerigo Dumini. E il paese fa da cornice anche alla tragica morte di tre confinati, due uomini e una donna. Le autorità archiviano il caso in tutta fretta, derubricandolo a omicidio-suicidio frutto della gelosia. Si tratterebbe, al contrario, di un delitto politico legato al mondo del nazionalismo croato di estrema destra, all’epoca alleato dei nazifascisti.
Il “Palazzo e ri nivuri” oggi
In Sila, però, il passaggio di queste genti ha lasciato ben poco di tangibile, solo racconti. Rimangono in filigrana nella storia di un paese, che per poco tempo, vide l’Africa a spasso nei suoi vicoli.
I longobucchesi di quegli anni non ebbero la sensibilità intellettuale di comprendere la portata del fenomeno, non conservarono abiti, ricetti, oggetti o lettere. Ma, in tempi non sospetti, custodirono, per tramandarcelo, il bene più prezioso: l’umanità.
Galeotto fu… il garante dei diritti dei detenuti. Che la memoria a volte giochi brutti scherzi a Franz Caruso e l’amministrazione comunale di Cosenza lo avevamo già appurato in campagna elettorale quando avevamo chiesto al futuro sindaco (e i suoi sfidanti) i nomi dei sette colli raffigurati nello stemma municipale. Questa volta il vuoto dei ricordi pare aver colpito invece la consigliera comunale Chiara Penna, per poi contagiare anche il primo cittadino e il presidente dell’assise, Giuseppe Mazzuca.
Da Palazzo dei Bruzi, infatti, è arrivato l’annuncio dell’imminente istituzione di una cosa già istituita da quasi due anni: il Garante comunale per i diritti delle persone private della libertà, appunto.
Il carcere di Cosenza
Penna firma la mozione
La nota partita dal municipio è inequivocabile a riguardo. «Il consigliere e presidente della commissione legalità, Chiara Penna» è la prima firmataria di una mozione depositata affinché Cosenza si doti di questa importante figura. Caruso ha accolto «con entusiasmo» la cosa e si è subito attivato con Mazzuca perché se ne parli al più presto in sala Catera. L’idea, si apprende, arriverebbe dagli avvocati bruzi. «Lo stimolo proveniente dalla Camera Penale di Cosenza non poteva, per quanto ci riguarda – le parole di Caruso e Penna – che essere condiviso pienamente. L’iniziativa della Camera penale “Fausto Gullo” sarà immediatamente sottoposta ai diversi passaggi amministrativi-istituzionali necessari, onde procedere alla istituzione, mediante Regolamento, del Garante».
Paganini non concede il bis, Palazzo dei Bruzi sì
Tutto molto bello, anche perché – precisano ancora i due – «non bisogna dimenticare mai la reale scala dei valori di un ordinamento democratico e, soprattutto, bisogna vigilare affinché gli istituti penitenziari non siano luoghi di violenza e di sofferenza, ma di rieducazione.»
Forse, però, non bisognerebbe dimenticare neanche che il municipio che si amministra si è già dotato, almeno sulla carta, del Garante comunale per i diritti delle persone private della libertà.
L’articolo dello Statuto approvato nel 2021
È successo, riportano le cronache e il sito istituzionale di Palazzo dei Bruzi, nell’ormai lontano (ma nemmeno troppo) 28 giugno del 2021. Il nuovo Statuto approvato in quella data, infatti, contiene un articolo, il numero 11, che lascia poco spazio ai dubbi. Si intitola, per l’appunto, “Garante dei diritti delle persone private della libertà personale». E il primo comma recita: «Il comune di Cosenza istituisce il garante dei diritti delle persone private della libertà personale».
Scherzi della memoria
Il Garante, insomma, lo avevano già istituito i consiglieri verso la fine della scorsa sindacatura, giusto pochi mesi prima che cominciasse quella attuale. Al massimo, quindi, mancherebbe il regolamento. Fondamentale, certo, ma il vuoto di memoria – chissà se il relativo imbarazzo – resta.
A confermarlo, il fatto che dal Comune siano arrivate ai giornali due versioni del comunicato di giubilo a distanza di un paio d’ore. Nella prima si parlava a chiare lettere di «modifica dello Statuto». Nella seconda una mano provvidenziale gli ha fatto cedere il posto alla «adozione di un apposito regolamento che dovrà essere deliberato dall’assise cittadina».
Meglio così, commentano i più maliziosi nei corridoi del municipio, altrimenti come si istituisce una cosa che ci sarebbe già?
Uno show di luci ha concluso il 2022 a Corigliano-Rossano (o, per gli amanti dei campanili a Corigliano e Rossano).
Tuttavia, «ho voluto celebrare anche questa unione tra due comunità, che hanno accantonato i loro campanilismi», spiega l’autore delle installazioni spettacolari che hanno abbellito la città jonica.
È Franz Cerami, classe ’63, napoletano doc, artista specializzato nel mescolare tecniche classiche e hi tech e docente di Digital Storytelling presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Spettacolo multimediale e nuove tecnologie per celebrare monumenti antichi e persone comuni. Oppure per dare una bellezza inedita agli orrori urbanistici, come la centrale elettrica.
Tanti modi per dire una cosa sola: l’arte è anche racconto…
Lighting Flowers: la centrale idroelettrica trasfigurata dai laser
Partiamo dall’installazione più legata al territorio che hai celebrato: Denzolu.
Mi ha colpito molto, al riguardo, un’antica leggenda, che esprime le rivalità tra i campanili. Si racconta che i rossanesi mettevano le lenzuola davanti al sole per oscurare Corigliano. E poi mi ha colpito il suono di questo termine dialettale: “denzolu” vuol dire senz’altro lenzuolo, però evoca anche suggestioni arcane, se si vuole un po’ esotiche.
Cosa hai voluto rappresentare con l’uso del lenzuolo?
Ho voluto trasformare un elemento divisivo, che ricorda troppo le rivalità tra comunità, che a volte hanno avuto esiti tragici, in un simbolo d’unione.
Quel che colpisce è la tecnica utilizzata. Vogliamo approfondire un po’?
Ho fatto una serie di riprese con due videocamere a varie persone, cittadini comuni, artigiani, pescatori, professionisti e autorità. E ne ho fatto un doppio uso. Il primo è multimediale: ho mescolato queste riprese “ritratto” a riprese dell’ambiente e le ho proiettate sulla Torre del Cupo a Schiavonea.
Denzolu: ritratti di cittadini sulla Torre del Cupo
Ma c’è anche uno sviluppo più tradizionale, che poi dà il nome all’opera. O no?
Esatto: ho estratto dei frame da queste riprese e ne ho ricavato varie serigrafie sviluppate su delle tele che ho appeso sulle facciate dei due palazzi municipali di Corigliano e Rossano. Ed ecco: le lenzuola non offuscano più il sole, ma vivono attraverso la luce e raccontano la fusione coraggiosa.
Quest’installazione fa parte di una serie di opere che ho sviluppato in diverse zone del mondo: San Paolo del Brasile, Napoli, San Pietroburgo e via discorrendo. A Corigliano-Rossano ho deciso di valorizzare a modo mio la centrale elettrica.
Un compito non facile…
In questo caso, ho deciso di trasformare il classico ecomostro in un’opera d’arte attraverso la proiezione di motivi colorati con potenti fasci di luce. Ho giocato un po’ sul doppio senso della parola “mostro”: in latino “monstrum” vuol dire sia “brutto” (e la centrale indiscutibilmente lo è) sia “appariscente”. Io ho tentato di estrarre l’aspetto meraviglioso da una cosa brutta.
Un primo piano di Franz Cerami
A giudicare dal risultato, ci sei riuscito.
Anche De Andrè diceva: «Dal letame può nascere un fiore. O no?».
Infine c’è Lumina, che si ispira a una poetica diversa: portare un elemento futuribile su una struttura antica…
In questo caso, ho proiettato dei fasci di luce sulla facciata dell’Abbazia del Patire. Il risultato è stato molto forte, a livello visivo.
Notevole anche l’uso delle colonne sonore.
Merito, in questo caso, di Claudio Del Proposto, che le ha composte per l’occasione. E sono debitore anche al mio assistente Flavio Urbinati, il cui aiuto è stato fondamentale per la riuscita.
Com’è nata quest’iniziativa?
Sono stato contattato direttamente dall’Amministrazione comunale, per sviluppare un progetto celebrativo di questo municipio unico che fonde due comunità calabresi affini anche quando erano divise. I contatti sono iniziati nella tarda primavera del 2022. Ho iniziato i lavori a luglio e li ho terminati poco prima dell’autunno.
Il Patire vola nel futuro
Come ti sei trovato?
Direi benissimo. I cittadini sono stati collaborativi e ospitali. Ottima l’accoglienza, bellissimo il paesaggio e molto suggestive parecchie zone. In particolare, mi ha colpito Schiavonea. Ma in una realtà così ricca come quella in cui ho lavorato c’è l’imbarazzo della scelta.
Ma cosa può trovare di tanto importante un napoletano in Calabria?
Tante cose. Ma soprattutto quell’apertura e quella socialità tipica delle zone di mare. Forse la magia di queste zone è tutta in quest’orizzonte sconfinato e bello. A Napoli come sulle vostre coste. Un punto di partenza per sognare un futuro migliore.
La Storia, il classico controverso di Elsa Morante, parte da Paola.
Infatti, Nora Almagià, la madre di Ida Ramundo, la protagonista, si lascia annegare in un tratto di Tirreno compreso tra Paola e Fuscaldo. La Storia divenne all’epoca (1974) un avvenimento letterario e suscitò enorme scalpore: divise la critica, tra chi gridava al capolavoro e chi invece riteneva si trattasse soltanto di un lungo feulleiton.
Comunque sia, il libro resta un long seller: non a caso, ne vengono riproposte tuttora nuove edizioni.
La scrittrice Elsa Morante
Una storia calabrese di Elsa Morante
La protagonista è Ida Ramundo, attraverso le cui vicende la Morante racconta un dramma collettivo tra Seconda Guerra mondiale fino alla liberazione e oltre.
Attorno a Ida, una donna spaurita e perseguitata dal destino, e ai suoi due figli, Ninuzzu e il piccolo Useppe, si muove un microcosmo di piccoli personaggi, nel contesto di una storia più grande, piena di violenza devastatrice, di orrori e miserie. Le vicissitudini di Ida iniziano dalla Calabria. Così scrive Elsa Morante sulla famiglia della protagonista: «Il padre Giuseppe Ramundo era di famiglia contadina dell’estremo sud calabrese. E la madre di nome Nora, una padovana di famiglia piccolo-borghese bottegaia, era approdata a Cosenza, ragazza di trent’anni e sola in seguito ad un concorso magistrale». Nora è di origine ebraica, ma non vuole rivelarlo per paura delle conseguenze delle leggi razziali. Insieme al marito, anche lui maestro elementare, si stabilisce a Cosenza per motivi di lavoro.
Una edizione recente de “La Storia”
Elsa Morante racconta un anarchico cosentino
Proprio in questa città nel 1903 nasce Ida. Suo padre ha letto Fauré, Tolstoj Proudhon, Bakunin e Malatesta e questo fa star male Nora, che oltre a dover custodire il suo “segreto” si ritrova per casa un marito anarchico.
«Aveva preso a frequentare un piccolo ambiente appartato – scrive di Giuseppe, la Morante – dove finalmente poteva dare sfogo ai suoi pensieri. Non ho potuto controllare l’ubicazione precisa di quella osteria. Però qualcuno in passato, m’accennava che per arrivarci bisognava prendere una tranvia suburbana, se non forse la cremagliera, su per il fianco della montagna».
Sicuramente la scrittrice non conosceva per davvero quei luoghi, però da come li descrive, si comprende benissimo che deve essere rimasta affascinata dai racconti che dei suoi amici calabresi a Roma. Forse degli artisti, oppure politici.
La follia di Nora
Sta di fatto che la scrittrice sembra scusarsi per non essere più precisa nei dettagli.
E comunque rende omaggio a Cosenza, e proseguendo nel libro, anche a Paola.
Dopo la morte del marito, Nora è sopraffatta dalle sue paure ed esce di senno. Decide di recarsi in Palestina, dove secondo le sue congetture si ritroverebbero tutti gli ebrei del mondo per sfuggire agli orrori delle persecuzioni razziali. Prende il treno dalla stazione di Cosenza per Paola e, una volta lì, imbarcarsi su una nave per la Terra promessa.
Il treno che da Paola portava a Cosenza
La tragica fine di Nora
«Qualcuno ricorda di averla vista, nel suo vestituccio estivo di seta artificiale nera a disegni cilestrini, sull’ultima cremagliera serale diretta al lido di Paola. Forse, sarà andata girovagando per un pezzo lungo quella spiaggia senza porti. Difatti il punto preciso dove l’hanno ritrovata, è a vari chilometri di distanza dal lido di Paola, in direzione Fuscaldo. Era una bellissima notte illune, quieta e stellata». Così finisce la storia di Nora Almagià. Così da Paola inizia “La Storia”.
La sala d’attesa dell’ambulatorio medico Senza confini dell’Auser inizia ad essere affollata intorno alle 15:30. Qualcuno prega, leggendo, forse recitando a voce meno che bassa le sunne del Corano in attesa del suo turno. Una signora africana con un copricapo multicolore non gradisce l’obiettivo della macchina fotografica e si allontana sorridendo. Intanto arrivano una nonna, la sua nipotina con una forte tosse e la mamma che indica al medico un dente. La tormenta da giorni. Storie dei tanti lunedì, mercoledì e venerdì pomeriggio all’Auser di Cosenza.
Dentisti volontari nell’ambulatorio dell’Auser a Cosenza (foto Alfonso Bombini 2023)
Noi non denunciamo, noi curiamo i migranti in Calabria
«C’è una fascia ampia di migranti in Calabria, come del resto in tutta Italia, esclusa dal diritto di iscrizione al Servizio sanitario nazionale», spiega il presidente dell’Auser territoriale di Cosenza, Luigi Campisani. Qui trovano assistenza di base e specialistica molti degli invisibili presenti nell’area urbana. La Legge Bossi-Fini era entrata in vigore già da alcuni anni quando l’ambulatorio ha iniziato le sue attività nel 2010. «L’invito era quello di denunciare i cosiddetti clandestini – ricorda Campisani -, la missione è stata sempre quella di prendercene cura. Vuole sapere il nostro motto di allora? Eccolo: noi non denunciamo, noi curiamo».
Luigi Campisani, presidente dell’Auser Cosenza (foto Alfonso Bombini 2023)
Dal Gambia all’Ucraina
Ogni anno circa 2000 persone hanno accesso a cure completamente gratuite. Prima erano soprattutto africani, da Gambia e Mali in maggioranza. Oggi la geografia dei conflitti si ferma in queste stanze della solidarietà: curdi, afghani, siriani, iracheni e pure ucraini. Completano l’atlante filippini (vive una nutrita comunità in città), bengalesi, romeni e albanesi. Gli italiani sono in aumento. Le crisi ripetute non risparmiano nessuno. Sofferenza e povertà non hanno passaporto.
L’Auser, finanziato con il cinque per mille, è una diretta emanazione della Cgil e dello Spi Cigl. «Mamma e papà li chiamiamo noi», precisa Campisani. Garantiscono 12mila euro all’anno. Pochi rispetto alle attività svolte. E non sono destinati solo all’ambulatorio, il primo a vedere la luce in Italia. Sono utilizzati, anche se in piccolissima parte, per il centro Auser di Rende (sede della università della terza età) e per gli altri disseminati nella provincia di Cosenza.
Valerio e Raffaella Formisani, fratelli e medici dell’Ambulatorio senza confini dell’Auser (foto Alfonso Bombini 2023)
I medici dell’ambulatorio
La procedura è sempre la stessa, cambia poco o niente negli altri ambulatori di migranti in Calabria e altrove. Si va dal medico generico dell’Auser. Valuta se sono necessarie visite specialistiche e si procede. Il dottore in questione è Valerio Formisani, volto noto della sinistra in città; da anni presta il suo lavoro e le sue competenze al servizio di chi ha bisogno. Mercoledì pomeriggio è impegnato a medicare un bengalese. Subito dopo esce, saluta, sorride e scambia due parole con il dentista in servizio nella stanza accanto. È Raffaella Formisani, sua sorella.
I dottor Auser dell’ambulatorio sono odontoiatri, un cardiologo, un ginecologo, un oculista, un internista e due ecografisti. Una ragazza rumena e un’altra afghana danno una mano. Completano la squadra uno psicologo e due assistenti sociali.
Il mediatore culturale viene dal Mali. Si chiama Ibrahim Conté, da 12 anni è in Italia. Lavora alla San Pancrazio, altra realtà solidale del tessuto urbano. Michele Bochicchio, segretario dell’ambulatorio, accoglie i pazienti. Ha dato pure il suo numero personale ai migranti che lo contattano per prenotare le visite.
I soldi fermi in Regione
Come tante altre associazioni del terzo settore, anche l’ambulatorio – il direttore sanitario è Valerio Formisani – si è fermato con le restrizioni imposte dalla pandemia. Dal 2022 ha ripreso a funzionare. I locali di via Cesare Gabriele sono piccoli. Ecco perché il Comune di Cosenza ha concesso all’Auser l’utilizzo del vecchio centro anziani di via Milelli. Un locale molto grande, circa 400 metri quadrati. Dove Campisani intende aprire pure uno sportello di ascolto. L’involucro c’è. Manca la fruibilità. E servono tanti soldi per trasformarlo in ambulatorio. Denaro che pure ci sarebbe. In teoria. «Il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha finanziato – sostiene Campisani – un progetto per 500mila euro nel 2019. I soldi sono stati trasferiti alla Regione Calabria. Dove sono ancora fermi, in attesa di essere erogati».
Migranti all’ingresso del centro Auser di Cosenza (foto Alfonso Bombini)
Un presidente per il Mali
Un progetto di cui vanno molto fieri all’Auser di Cosenza è “Vengo anch’io” per la mobilità assistita. Un’altra tassello aggiunto grazie a un Fiat Doblò donato all’associazione dalla Fondazione Terzo Pilastro di Roma e dalla Pmg Italia Spa di Bologna. Un mezzo attrezzato che consente anche il trasporto delle persone disabili. L’autoveicolo è stato utilizzato anche per la raccolta e la consegna di coperte e vestiario in collaborazione con il Comune di Belsito.
All’Auser di Cosenza si respira un senso di comunità. Con servizi che non si limitano alle, pur essenziali, prestazioni mediche. Il progetto “Adozione in vicinanza” consente, grazie alle donazioni mensili di alcuni soci, di studiare a una serie di ragazzi stranieri di diverse età. Un giovane del Mali si è diplomato e laureato a Cosenza. Si è specializzato a Parigi in Economia politica. Adesso sogna di tornare nel Paese della mitica Timbuctu per diventare presidente.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. Cosenza sarà per tutto il 2023 Capitale italiana del volontariato. Attraverso I Calabresi la Fondazione intende promuovere e far conoscere una serie di realtà che hanno reso possibile questo importante riconoscimento.
Mario Occhiuto non riesce a separarsi dalla fascia tricolore di sindaco, pur essendo diventato senatore. Sarà per quella fascia che porta nel cuore che si mostra perplesso verso l’idea di una Autonomia differenziata, esattamente come la gran parte dei sindaci meridionali. Molti primi cittadini, infatti, hanno dato vita alla rete Recovery Sud, che vede nel progetto della Lega un grave pericolo.
Il fratello Roberto, invece, che della Calabria è presidente, ne è entusiasta e perfettamente in linea con le indicazioni della destra che governa il Paese.
Occhiuto contro: Mario vs Roberto
La diversa posizione dei fratelli su un tema così centrale nel programma di governo, era sfuggita a queste latitudini. Non al Corriere della Sera, però, che dedica alla questione un articoletto, riportando virgolettati interessanti, proprio poche ore prima che il Consiglio dei Ministri dia il suo via libera alla riforma.
Mario, l’ex sindaco, assai più che perplesso verso il progetto di Calderoli, quasi severo verso il fratello che sarebbe favorevole «perché parla da governatore», come se quel ruolo – cui aveva ambito lui stesso pochi anni fa – fosse distante e distratto rispetto ai reali bisogni dei territori.
Moderata e con l’evidente scopo di stemperare le distanze la replica di Roberto, che spiega: «Mio fratello è critico perché non ha letto il nuovo testo di Calderoli, ha ripreso una mia dichiarazione precedente». Insomma dice cose senza essere del tutto aggiornato.
Roberto Calderoli, principale sostenitore dell’Autonomia differenziata
Pace fatta?
Il duello ha avuto un secondo tempo. Il presidente della Regione ha spiegato che «l’eliminazione della spesa storica è un passo avanti» da considerare in modo rassicurante. Il senatore è rimasto su posizioni critiche, sottolineando che i nodi essenziali «non sono stati risolti, e il progetto rischia di dividere l’Italia».
Insomma separati e distanti, fino a quando l’ex sindaco ora senatore e il fratello governatore devono essersi finalmente parlati, provando ad accorciare le imbarazzanti distanze. «Il passo in avanti di cui parla Roberto c’è, e la riforma è una sfida da cogliere», sembra chiudere la questione in maniera conciliante Mario.
L’articolo apparso sul CorSera
I dubbi restano
Però, secondo il Corriere, il neo senatore non rinuncia a lasciare il campo con un’ultima stoccata che riguarda la vera posta in gioco. «Se non si riduce il gap tra Nord e Sud, se non si garantiscono risorse e non si rendono più efficienti le infrastrutture – spiega preoccupato Mario Occhiuto – i nostri ragazzi continueranno a spostarsi a Nord per lavorare e i nostri ospedali come i nostri asili forniranno un servizio insufficiente». Il duello politico – familiare si chiude qui. Sulla scena restano due Occhiuto: Mario di lotta, Roberto di governo.
Fare rete per il territorio.
La Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”, proprio nell’ottica di un lavoro di squadra per promuovere un’attività culturale ampia, diffusa e variegata, vuole condividere il proprio programma con le associazioni, i circoli e i club che operano in questo settore nella realtà cosentina, recependone istanze e proposte.
Tale iniziativa, in linea con le finalità della Fondazione, punta a fare di Villa Rendano un presidio di cittadinanza attiva, un luogo permanente di intrattenimento, cooperazione e interdisciplinarietà, nonché di formazione attiva dei giovani nel comparto museale e culturale.
Al fine di avviare questo importante e virtuoso processo di collaborazione, Associazioni, Circoli e Club culturali del territorio sono invitati a Villa Rendano, il 3 febbraio alle ore 17,30, per un primo confronto sulle iniziative da realizzare.
Per eventuali comunicazioni, è possibile contattare i seguenti numeri: 329/8379111 (Walter Pellegrini), 333/5037160 (Anna Cipparrone), 339/2923179 (Francesco Kostner)
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