Roberto Fico a Cosenza va subito al dunque: «Il governatore Occhiuto indebolisce la Calabria e i calabresi» con il parere favorevole all’Autonomia differenziata. Quella di Calderoli, l’autore del ddl in questione. Ecco pronto l’altro affondo confezionato dall’ex presidente della Camera: «La Lega ha fallito al Sud e per questo li hanno ricacciati al Nord». Poi arriva il bersaglio grosso per il presidente del comitato di garanzia del Movimento 5 Stelle: «Dobbiamo attaccare FdI e il presidente del Consiglio». Perché in merito alla riforma che rischia di dividere l’Italia in due non avrebbe arginato il Carroccio.
E adesso che il Pd ha cambiato segretario con una (per ora solo annunciata) svolta a sinistra tutto sembra più facile? Fico sottolinea: «So che la Schlein ha delle sensibilità comuni su molti temi quindi vedremo come verranno declinati all’interno del partito democratico. Penso alla transizione ecologica, al salario minimo. Siamo all’inizio di un percorso e dobbiamo valutare».
La parlamentare del M5S, Anna Laura Orrico con l’ex presidente della Camera, Roberto Fico (foto Alfonso Bombini)
Il tour di Fico contro l’Autonomia differenziata
“Verso Sud. La strada per crescere non è l’autonomia differenziata”. È questo il titolo dell’incontro di ieri a Villa Rendano, organizzato dal Movimento 5 stelle. Prima tappa del tour calabrese di uno degli esponenti di punta dei pentastellati.
A coordinare i lavori e intervenire per prima è stata la parlamentare Anna Laura Orrico: «Il centrodestra vuole un’Italietta di interessi particolari e regionalismo». Ribadisce i problemi dei piccoli comuni calabresi alle prese con le difficoltà tecniche del Pnrr: «Saranno costretti a rinunciare a 10 milioni di euro». Il Disegno di legge Calderoli «ingigantisce le disuguaglianze». Il rischio è pure la «differenziazione degli stipendi degli insegnanti».
Veronica Buffone, assessore al Welfare del Comune di Cosenza
Senza mezzi termini l’assessore al Welfare del Comune di Cosenza in quota 5 stelle, Veronica Buffone: «Avremo cittadini di serie A e serie B con la riforma Calderoli, che attacca le fasce più deboli e si basa sulla spesa storica». Giuseppe Giorno, consigliere comunale di Luzzi, tuona: «La Regione Calabria è disastrosa in merito a questa vicenda».
Per il consigliere regionale del M5S, Davide Tavernise «la chiamano autonomia differenziata ma in realtà è secessione» e intanto «Occhiuto segue i comandi del suo partito».
Tra gli interventi spicca quello di Umberto Calabrone, segretario regionale della Fiom Cgil. Che sottolinea l’inadeguatezza e la poca lungimiranza della classe politica rispetto al Ddl Calderoli. Hanno preso la parola anche i parlamentari grillini Antonio Caso e Carmela Auriemma. Fino alla chiosa di Roberto Fico: «Nessuno vuole l’autonomia differenziata se gliela spighi bene».
Le sette vite di Majorana. Sono quelle che lo scrittore Mimmo Gangemi fa vivere al fisico siciliano misteriosamente scomparso nella notte tra il 26 e 27 marzo 1938. Uno dei cold case italiani più noti, oppure semplicemente un uomo desideroso di far perdere le sue tracce? Lo scopriremo solo leggendo L’atomo inquieto, ultima fatica letteraria del narratore di origini aspromontane. Che ieri ha presentato il suo ultimo libro a Villa Rendano in occasione di “Libri in Villa”, l’iniziativa promossa di concerto con il Comune di Cosenza e le associazioni che lo scorso 24 febbraio hanno sottoscritto, con la Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” e lo stesso ente cittadino, il Patto per lo sviluppo culturale del territorio. Walter Pellegrini, presidente della Fondazione “Attilio ed Elena Giuliani” ha aperto i lavori: «Sentimenti di amicizia e stima mi legano a Mimmo Gangemi, intellettuale capace di costruire una narrazione stupenda». E poi «Mimmo è stato pure autore della Luigi Pellegrini editore».
Da sinistra: Antonietta Cozza, consigliere comunale di Cosenza; Walter Pellegrini, presidente della Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”; Mimmo Gangemi, scrittore di Santa Cristina d’Aspromonte
A stimolare il dibattito e dialogare con lo scrittore aspromontano è stata Antonietta Cozza, consigliere comunale di Cosenza con delega alla Cultura. Secondo lei il libro è un po’ «una via di mezzo tra la spy story e il romanzo psicologico».
La Calabria compare in questa storia. In primis per la ventilata presenza del fisico catanese nella Certosa di Serra San Bruno. Gangemi chiarisce il senso: «È un omaggio alla “Scomparsa di Majorana” di Leonardo Sciascia». Anche «Sharo Gambino» fece lo stesso.
A Villa Rendano Mimmo Gangemi sottolinea la stranezza di una lettera. Quella inviata da Majorana a un suo amico dove annunciava il suo suicidio in mare, sul traghetto che lo avrebbe dovuto portare in Sicilia: «Uno che sa nuotare non si toglie la vita in mare e, soprattutto, non porta con sé cinque stipendi e la sua quota di eredità paterna».
Suggestioni, spunti, riflessioni e indizi disseminati nel ragionamento e nel romanzo. A partire da quella foto che ritrae il criminale nazista Adolf Eichmann sul piroscafo nel porto di Buenos Aires. Insieme a lui un capitano della Wermacht e un tipo che somiglia tanto, troppo, allo scienziato italiano. Gangemi chiarisce: «Non è mai stato filonazista, ma filogermanico».
“L’atomo inquieto” aggiunge un altro capitolo alla carriera letteraria di Gangemi. Autore di libri come “La signora di Ellis Island”, “Il giudice meschino” e “Marzo per agnelli”.
Il presidente del Comitato di Garanzia del M5S ed ex presidente della Camera Roberto Fico domani, venerdì 3 marzo, sarà a Cosenza, a partire dalle 17:30 a Villa Rendano. Dove interverrà in occasione dell’incontro pubblico organizzato dal Movimento 5 Stelle: “Verso Sud. La strada per crescere non è l’autonomia differenziata”. A stimolare la discussione e moderare il dibattito sarà la parlamentare del M5S, Anna Laura Orrico. Interverranno: Veronica Buffone, assessore al Welfare del Comune di Cosenza; Giuseppe Giorno, consigliere comunale di Luzzi.
Il primo ciclo di appuntamenti, cui parteciperanno anche tutti gli eletti del Movimento 5 stelle in Calabria e gli attivisti, è in programma il 3 e 4 marzo, non solo a Cosenza, ma anche a Vibo Valentia e Roccella Jonica; il secondo, invece, arriverà a Corigliano Rossano, Crotone e Catanzaro il 14 ed il 15 aprile.
«Riteniamo che il percorso intrapreso dal governo Meloni con la forzatura di una riforma così complessa e così poco condivisa possa condurre verso condizioni di svantaggio per il meridione e non sia positiva per la coesione del Paese». È quanto si legge in una nota stampa a firma dei portavoce eletti del Movimento 5 stelle in Calabria.
«Ci confronteremo – continuano i parlamentari pentastellati – con cittadini, associazioni, sindacati, forze produttive e amministratori che vogliano dare un contributo di idee per rilanciare una controproposta rispetto al disegno di legge voluto dal ministro Calderoli e dalla sua maggioranza».
La crisi da Covid-19 ha accelerato il processo di digitalizzazione delle imprese femminili. Nel triennio 2017-2019, infatti, le imprese femminili che operano nel terziario che hanno investito nel digitale sono l’8,5% (percentuale simile nelle imprese maschili), ma salgono al 13,7% nel periodo del Covid-19 (contro 14,0% delle maschili) per poi diminuire leggermente al 13% nel triennio 2022-24 (contro 18,3% maschili).
Solo l’8% delle imprese femminili del terziario prevede di investire nel triennio 2022-24 nella duplice transizione (sia tecnologie digitali sia green) e un ulteriore 5% delle imprese investirà solo nelle tecnologie digitali. Ma c’è anche chi non effettuerà transizioni: il 48% delle imprese non investirà nel 2022-24 né in tecnologie digitali né in sostenibilità ambientale.
Per quasi la metà delle imprese femminili intervistate, la crisi da Covid-19 ha avuto effetti sulla decisione di investire in soluzioni digitali e sull’ammontare degli investimenti ad esse dedicate (contro il 38% delle maschili). Di contro, per poco più di un terzo delle imprese le decisioni in tema di investimenti digitali sono state prese a prescindere dalla crisi. Il 69% circa delle imprese femminili ha potenziato l’utilizzo dei social media e il 43% circa ha migliorato la propria “vetrina” digitale. Le imprese femminili rispetto a quelle maschili investono meno nel cloud per la gestione dei dati aziendali (20,4% vs 22,8%), nell’e-commerce (20,2% vs 20,8%) e in sicurezza informatica (15,3% vs 18,3%).
L’adozione di nuovi strumenti digitali comporta spesso la necessità di avviare specifiche iniziative di formazione all’interno dell’impresa. L’acquisizione di competenze digitali può riguardare la figura dell’imprenditore/imprenditrice (poco meno del 50% sia nelle imprese femminili che in quelle maschili) oppure i dipendenti rispetto ai quali le percentuali scendono considerevolmente (rispettivamente al 12,4% e al 14,2%).
Per più della metà delle imprenditrici sarebbe auspicabile semplificare le procedure amministrative per ottenere incentivi e agevolazioni a supporto degli investimenti in sostenibilità ambientale e tecnologie digitali. Elevata anche la percentuale delle imprenditrici che preferirebbero avere maggiori incentivi fiscali. Circa una imprenditrice su tre punterebbe alla formazione sia scolastica/universitaria che finalizzata ad incrementare le competenze in materia (green&digitale) all’interno delle imprese. L’accesso al credito rimane comunque una delle principali problematiche da risolvere (nel 31,8% dei casi).
Questi i dati principali di una ricerca, condotta da Terziario Donna Confcommercio in collaborazione all’Istituto Tagliacarne, presentata ieri a Cosenza nella sala Petraglia della Camera di Commercio, in occasione del convegno “Digitalizzate e connesse con il futuro”.
«In Italia il digitale è donna, o potrebbe esserlo se ci fossero condizioni di contesto migliori, perché anche nel digitale esiste un gender gap, che può essere colmato con la formazione, i finanziamenti, la semplificazione, il superamento di stereotipi». È quanto ha detto Anna Lapini, presidente di Terziario Donna Confcommercio. Che ha aggiunto: «Il nostro progetto “Imprenditrici digitali” promosso da Terziario Donna ed EDI – Confcommercio, mira a supportare le imprenditrici nel cammino della transizione digitale fornendo loro ascolto e soluzioni mirate. Nel giro di pochissimo abbiamo realizzato già 250 check up di posizionamento digitale gratuiti, dal Trentino alla Sicilia, a dimostrazione che le imprenditrici anche su questo sono in prima linea».
Per Klaus Algieri, presidente di Confcommercio Cosenza l’evento è una grande occasione per mostrare come l’imprenditoria femminile della provincia sia una realtà consolidata: «La provincia di Cosenza – ha detto il presidente Algieri – mostra una vocazione all’imprenditoria femminile più alta rispetto alla media nazionale. Un dato che restituisce il valore e la capacità delle nostre imprenditrici di conquistare spazio e mercato. Avere qui tra noi l’evento Impresa è Donna mostra come continuiamo ad essere centro propulsore di analisi, studi e condivisione di idee anche nell’ambito della digitalizzazione».
Sulla base dei dati Unioncamere-Infocamere, in Calabria operano nel 2022 quasi 45mila imprese femminili, pari a circa un quarto della base produttiva regionale (23,6%, settimo valore tra le regioni italiane). Di queste, oltre 16mila (più di un terzo del totale, il 36,6%) si concentrano nel territorio di Cosenza, seguita in valore assoluto da Reggio Calabria che ne conta poco più di 13mila e, a distanza, da Catanzaro con quasi 8mila unità. Se si guarda al tasso di femminilizzazione dell’imprenditoria è Reggio Calabria a registrare la quota più elevata (24,0%, 30-esima posizione in Italia), seguita a una certa distanza nella classifica regionale da Crotone (23,8%) e Cosenza (23,6%), Catanzaro (23,3%) e Vibo Valentia a chiudere la lista con 22,4% (superiore anch’essa, anche se di poco, alla media nazionale).
Ci sono appuntamenti sul calendario che sembrano somigliare al titolo di uno di quei film apocalittici di fantascienza, per esempio “31/12/9999”. Invece questa data che non esiste, è scritta nero su bianco sul documento penitenziario che accompagna la detenzione di F. e indica il termine della sua carcerazione, cioè mai.
F. sconta la sua pena in un carcere della Sardegna e sarebbe dovuto giungere lunedì 13 febbraio all’Unical per conseguire la laurea Magistrale in Sociologia e Ricerca sociale. Per ragioni che ancora non sono note, però, dalla sua cella non è mai uscito.
L’Università della Calabria
Laurea e dottorato al 41 bis
Sono i misteri dell’ergastolo ostativo, la forma di pena che esclude il detenuto che si è macchiato di particolari reati dal poter usufruire dei benefici penitenziari come permessi o forme di riduzione della pena stessa. Eppure F. aveva ottenuto un permesso «per necessità» e la sensibilità del magistrato di sorveglianza aveva autorizzato anche la scorta a viaggiare in borghese e senza utilizzare le manette.
C. invece è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza del nord e anche per lui le porte del penitenziario non si apriranno più. Alcuni anni fa C. si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Catanzaro. Poi ha conseguito un dottorato di ricerca presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Unical.
I due sono studenti del Polo universitario penitenziario e rappresentano gli esempi di come, pure nell’abisso della reclusione più severa, le cose possano cambiare. I mille chiavistelli che separano le loro celle dal mondo di fuori sono rimasti serrati, ma gli orizzonti si sono allargati portando nelle anguste mura del carcere saperi, conoscenze e consapevolezze che prima mancavano.
Il diritto allo studio per tutti
«L’esperienza del Polo universitario penitenziario dell’Unical nasce formalmente nel 2018», spiega Franca Garreffa, sociologa del Dipartimento di Scienze politiche e responsabile del Pup. Si tratta di un protocollo d’intesa attraverso cui l’Ateneo e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria si impegnano a favorire il diritto allo studio delle persone detenute. In realtà le radici del rapporto tra l’Università e i luoghi di pena sono più antiche di almeno un decennio e risalgono a quando nel carcere di Rossano proprio F. e il suo compagno di cella G. espressero a una volontaria il desiderio di seguire gli studi universitari.
L’allora direttore del carcere, Giuseppe Carrà, contattò il sociologo Piero Fantozzi, che al tempo dirigeva il dipartimento di Sociologia e subito si avviò il percorso didattico. In quel cammino venne coinvolta Franca Garreffa, appena laureata con Renate Siebert discutendo una tesi sul carcere. I due detenuti conseguirono la laurea triennale nel giugno del 2015 sostenendo le loro tesi nell’aula dell’ateneo.
L’unica via di fuga
Proprio in quel periodo C. che intanto era recluso nel carcere di Catanzaro, chiese di potersi laureare anche lui recandosi in università e al diniego delle autorità decise di protestare iniziando uno sciopero della fame. Sarà a causa di questa protesta che dovrà rassegnarsi a discutere la tesi in carcere e poi al trasferimento al nord. Successivamente, a causa di imperscrutabili percorsi umani, l’estratto della tesi di laurea di C. che aveva come argomento l’ergastolo ostativo apparirà su una rivista il cui direttore era il figlio del giudice che gli aveva comminato proprio quella pena.
Ma se i libri diventano la sola via di fuga, allora tanto vale continuare a studiare ancora, fino al dottorato di ricerca, il più alto titolo di studio riconosciuto nel nostro Paese, traguardo che C. raggiunge proprio con Franca Garreffa.
«Ho incontrato C. quando era già al nord – racconta la sociologa del Dispes – e mi sono messa in contatto con lui tramite alcune redattrici della rivista Ristretti orizzonti». Da lì comincia un percorso umano e didattico che ancora è in corso.
Una laurea al 41 Bis per riscattarsi
Le storie di F. e C. sono per molti versi drammaticamente simili. Da giovanissimi, entrambi poco più che ventenni, vengono arrestati e accusati di reati molto gravi e per questo condannati all’ergastolo ostativo e al regime del 41 Bis. Viene da domandarsi come si possa consegnare due persone, praticamente ancora ragazzi, a una pena così priva di senso e ampiamente considerata anche incostituzionale. A quell’abisso infernale F. e C. hanno dato uno scopo attraverso lo studio.
Una scritta contro il 41-bis in un quartiere popolare
«Tramite l’impegno universitario F. e C. e tutti i detenuti impegnati nei vari Poli universitari penitenziari non hanno solo riempito di senso il loro tempo, ma hanno cercato un riscatto per se stessi e per le loro famiglie», spiega la professoressa Garreffa, che intanto resta in attesa che a F. venga consentito, come annunciato, di tornare nell’aula di Arcavacata per la sua laurea magistrale. Perché il sapere non fa svanire le sbarre, né apre le serrature, ma rende gli uomini migliori.
Un intero castello svevo in affitto a meno di 500 euro al mese può sembrare roba da Totò Truffa ’62, eppure a Cosenza potrebbe andare davvero così. A Palazzo dei Bruzi, infatti, hanno deciso di cercare nuovi inquilini per il maniero ultrasecolare che domina la città dall’alto di colle Pancrazio. E il prezzo richiesto pare proprio di quelli da non lasciarsi sfuggire.
Castello Svevo: quante polemiche a Cosenza
La storia recente del Castello Svevo di Cosenza è costellata di polemiche. Dopo un periodo – erano gli anni ’90 del secolo scorso – in cui si alternano matrimoni a iniziative pubbliche, la struttura resta a lungo abbandonata a se stessa. I ragazzini si intrufolano arrampicandosi lungo una delle torri, a proprio rischio e pericolo, alla ricerca tra le cadenti mura secolari di un riparo da occhi indiscreti. Si va avanti così a lungo, finché – sindaco Salvatore Perugini – il Comune decide di restaurare quello che resta il più importante monumento cittadino insieme al Duomo.
Una delle sale del Castello dopo ill restauro
I lavori cominciano poco prima della fine del mandato del primo cittadino, nel 2008, ma per vederli completati tocca attendere parecchio. L’inaugurazione risale infatti al 2015, col nuovo sindaco Mario Occhiuto. A caratterizzarla, tanto entusiasmo e le immancabili lamentele. Fanno discutere gli infissi metallici utilizzati per le finestre del castello, ultramoderni rispetto alle mura circostanti. Poi, al ricordo degli osceni innesti in cemento armato realizzati negli anni ’80, di infissi non si parla quasi più.
Il mostro sulla collina
A tenere banco resta l’abominevole ascensore giallo paglierino realizzato su uno dei lati del cortile interno. Difficile immaginare qualcosa di più antiestetico in un contesto simile, tanto più alla luce delle giustificazioni date all’esplodere delle polemiche sull’impianto elevatore. Secondo il Comune, l’ascensore garantirebbe alle persone con disabilità motorie l’accesso ai piani superiori dell’edificio. Peccato che il tragitto da percorrere per raggiungere l’impianto sia impraticabile per qualcuno in sedia a rotelle. Hanno promesso di modificarlo, ipotizzato di abbatterlo, ma l’ascensore resta lì, come un esame proctologico a storia e panorama.
L’ascensore del Castello Svevo visto dall’esterno
Neanche mille euro al mese
Alle diatribe architettoniche i giornali di Cosenza aggiungono presto quelle sulla concessione del Castello Svevo. A occuparsi di valorizzare l’immobile dopo il restauro saranno, infatti, tre privati, dopo che la Regione ha messo a gara, cofinanziandola, la gestione della struttura. La Cittadella mette il 60%, circa 175mila euro; altri 155mila li sborsa la Svevo Srl, la società creata dagli imprenditori Sergio Aiello, Pietro Pietramala e Gianpaolo Calabreseper partecipare al bando regionale.
Per i tre, poi, c’è il canone da versare al Comune di Cosenza, proprietario del Castello Svevo da fine ‘800, per i successivi cinque anni (e ulteriori, eventuali, due in caso di proroghe). Ammonta a circa 960 euro al mese.
Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza
Un intero castello normanno svevo, già dimora dello stupor mundi Federico II, “in affitto” al prezzo di un magazzino in un quartiere popolare di Cosenza non può passare sotto silenzio. Tanto più se a riscuotere l’affitto è un ente indebitato fino al collo. L’accordo sembra a molti fin troppo vantaggioso per la Svevo. Questa, in pratica, versa il canone (e paga le bollette) solo per «l’utilizzo degli spazi posti al piano terra ed al primo piano dell’immobile denominato “Castello Normanno Svevo”, per mq 227,22».
Castello: gli obblighi della Svevo e quelli del Comune di Cosenza
Il resto (enorme) resta a carico dello stesso municipio che lo ha fatto andare in malora nei decenni precedenti. E che ora, da contratto, dovrebbe pure scontare dal canone i costi per sorveglianza e pulizia degli altri spazi, apertura e chiusura, guardaroba, personale, attività promozionale in occasione di eventuali iniziative organizzate o autorizzate dal Comune stesso. Gli incassi, invece, vanno tutti alla Svevo, che gestisce le visite e organizza parecchie iniziative con biglietti che vanno dai 2 euro del ridotto per minorenni ai 20 per gli spettacoli teatrali o i concerti. E per i soliti 960 euro ha diritto, sulla carta, ad avere gratis anche la Villa Vecchia e il Cinema Italia qualora voglia organizzare qualcosa anche lì.
Il cinema Italia-Tieri
Sembra un affare, eppure si scopre che di quattrini in municipio ne arrivano ben pochi. Se ne accorge… Gianpaolo Calabrese, che nel frattempo ha lasciato la società con Aiello e Pietramala per accomodarsi sulla poltrona da dirigente del Settore Cultura proprio a Palazzo dei Bruzi. Anche la (si suppone, non troppo difficile) scoperta di Calabrese interessa i cosentini per poco però. Il chiacchiericcio si concentra sulle sue illustri parentele – è nipote del Procuratore capo della città – e quanto abbiano influito sull’incarico ottenuto, più che altro. Del castello svevo si parla soprattutto per mostre, sfilate, concerti e festival, salvo sporadiche diatribe sui social in occasione di eventi con degustazioni enogastronomiche che gli accordi col Comune di Cosenza parrebbero invece vietare.
Una degustazione all’interno del Castello
Un accordo per estinguere il debito
Nonostante la Svevo presenti un malloppo di fatture da scomputare dal canone che supera di poco i 160mila euro, l’equivalente di 14 anni e mezzo di canone, Palazzo dei Bruzi batte ancora cassa agli “inquilini morosi” però. Si arriva così, con l’attuale amministrazione, a un nuovo accordo: la Svevo, che avrebbe dovuto lasciare a giugno 2022, gestirà ancora il castello fino a marzo 2023; in cambio verserà al municipio 14.400 euro di arretrati, l’equivalente di una quindicina di mensilità.
Con marzo ormai alle porte, però, è tempo di trovare un nuovo gestore per il maniero tornato a nuova vita dopo il restauro. Così il Comune si è messo ufficialmente alla ricerca di un nuovo concessionario. Sebbene il municipio continui a non navigare nell’oro, questa volta rischia di incassare ogni mese ancora meno di quello che si prevedeva pagasse il vecchio gestore. La base (al rialzo) da cui si partirà per le offerte è meno della metà della cifra stabilita all’epoca per la Svevo. Se prima il canone annuo era di 11.523,60 adesso «l’importo a base di rialzo è il seguente: euro 5.000,00 (tremila,00)» (sic). La concessione, invece, dura sei anni.
I Bocs Art all’epoca in cui venivano ancora utilizzati come residenze artistiche temporanee
Cosenza, punto e a capo: il castello svevo a metà prezzo
C’è di nuovo che stavolta bollette e pulizie (anche degli spazi esterni) toccherà pagarle a chi si aggiudicherà la gestione della struttura. E niente Villa Vecchia o Cinema Italia per il vincitore: in compenso, potrà realizzare «almeno due eventi annuali, dalla durata di due giorni l’uno» ai Bocs Art sul Lungofiume, oggi moribondi a pochi anni dalla loro nascita. Basterà tenere aperto il castello almeno 250 giorni l’anno per un minimo di 6 ore al giorno e blindare l’accordo col Comune, in caso di vittoria, con una fideiussione pari al 10% dell’importo contrattuale. Che, salvo poco probabili rialzi monstre dei contendenti, potrebbe essere pari a poche centinaia di euro al mese. E poi dicono che i prezzi degli immobili sono alle stelle…
Molto prima che ci facessero sognare i vari Giggs, Gerrard e Lampard, Rui Costa, Leonardo, Ronaldinho o in parte Redondo (molto più tecnico, ma col baricentro molto più giù), il centrocampista che va sistematicamente in goal è una invenzione italiana. Tipica di squadre chiuse, dove il fantasista scardina e il 9 puro fa più la boa che il bomberone. Mario Corso Mario, come dice Ligabue. Mazzola che avanza due palloni d’oro, uno di Cruijff e uno dell’altro dieci con la rete e la sigaretta facile, Gianni Rivera.
Nella Cosenza Ottanta/Novanta, e nel suo Cosenza, qualche giocatore tecnico che piace alla curva e ogni tanto sciorina in saccoccia delle perle gemmate si vede.Urban, ad esempio, tanta classe ma anche tanti sacrifici sui campi off della pedata minore. Molto più tardi Tatti, che però gioca seconda punta. Nel ‘93/’94, l’anno del primo mondiale tototruffa e tutto marketing, a Cosenza abbiamo Pietro Maiellaro.
Pietro Maiellaro, lo Zar di Bari
Irsuto d’approccio, abulico quando di luna storta, ma dispensatore di gioia quando lo squarcio si accende e rivela. Si era fatto le ossa a Bari, divenendo una sorta di Lider Maximo, idolo di quartiere, tipo da murales, da maglia autografata, da tanti calci e ancora più calcio. Lì, il primo frame dei suoi flash da Messi ante litteram. Lui coi galletti pugliesi, tutti gli altri un Bologna piccolo piccolo.
Pietro Maiellaro affronta Diego Armando Maradona in una sfida tra Bari e Napoli
Era del resto un Bologna un po’ straccione e un po’ decaduto insieme, molto diverso dalla squadra di fine anni Novanta che, grazie ai goal di Beppe Signori alla seconda giovinezza da fantasista, farà nella stessa stagione semifinale in Coppa Italia e UEFA.
La palla è una saponaccia poco oltre i quaranta metri: rimbalzata, strappata, sporca, lercia e anonima. Maiellaro ci vede dietro la sceneggiatura del goal della domenica, la giocata da loop in cineteca. Buona acrobazia per acciuffarla piena e scarica robusta: una sassata balistica che uccella l’estremo difensore felsineo andato a caccia di farfalle.
Dopo quelle quattro stagioni da urlo, si fanno avanti in tante. Una volta è la Fiorentina: la Fiorentina che, come in modo suicida faceva il Cecchi Gori di inizio Duemila, comprava attaccanti su attaccanti. E segnava e prendeva. Maiellaro, in realtà, c’è: ma gioca poco, la continuità non esiste. E Maiellaro a Bari ha insegnato che per prendersi la scena deve avere la piazza, la stagione, la tenacia del tempo contro l’euforia dell’attimo. Altrimenti, quei suoi istanti di cristallo non hanno giusto ambiente di maturazione.
La seconda chance
La seconda chance si chiama Ternana: neopromossa in B che fa una campagna acquisti grandi firme e zero contratti. Sulla carta Pino “Saracinesca” Taglialatela, pararigori nel Napoli che rimpiangeva Maradona e troppo presto aveva dimenticato Giuliani, e Sandro “Cobra” Tovalieri: velenoso bomber bassino che poteva fare anche il tornante. Tanto i suoi golletti stagionali li refertava. Si dissolse presto e le curve di Terni subirono l’ennesimo declassamento sul campo. Alcuni amici e maestri conosciuti tra i Freak Brothers della Est ricordano ancora quella estate di illusioni di oltre trent’anni fa: come un bacio non dato, che non si dimentica per il male che ti ha fatto.
Ho visto Maiellaro
E così Pietro Maiellaro a Cosenza. Annata realizzativa buona. Il Cosenza della B ogni anno, e ogni anno l’aritmia in pieno petto di non sapere se lotterai per la A o dovrai romperti la schiena ad evitar la C (un coro ancora cantato in Bergamini nasce da questa schizofrenia).
La Curva Sud del San Vito negli anni ’90
Cosenza-Fiorentina. Presente stretto, passato prossimo a metà. Maiellaro prende una palla ancora una volta anonima, di risulta, una fesseria sotto il Sole che squarcia in diagonale il rettangolo al San Vito quasi fossero i Campi Elisi di Marassi. Se li beve tutti, indistintamente tutti. Cinque, sei gli vanno dietro. Lui semina e cammina. L’attempato cronista della Rai dirà che Maiellaro si ferma solo quando la palla va in rete: è vero. San Vito in delirio permanente, io lì ragazzetto con lo zio Tonino, fratello di mia nonna, tutta sera ancora a parlare, a una cena di famiglia con nonni e bisnonni, del goal di Maiellaro, del contratto al Milan di Baresi, di quel calcio grande che si sentiva anche in piccola città (non) bastardo posto.
Maiellaro si perderà un po’ negli anni a seguire. Nel ’96 in Messico, quando gli italiani all’estero erano roba occasionale da folklore. Mica oggi, che il Messico ha visto gli ultimi ruggiti della Tigre André Gignac, che avrei voluto a Roma. E infine un solidissimo fine carriera con microparentesi da giocatore-allenatore in campo in quel di Campobasso. Dicono che ci manchi quel calcio perché abbiamo perduto l’innocenza. E invece no: ci manca ché abbiam perduto la bellezza.
«Le Misericordie sono le associazioni di volontariato più antiche nel mondoe sono ottocento in Italia, di cui 25 in Calabria». A raccontarlo è Valentino Pace, che è responsabile area emergenza delle Misericordie della Calabria e vice presidente della Misericordia di Trebisacce. Non solo: è anche a capo della Consulta regionale delle associazioni di volontariato.
Il suo dunque è uno sguardo duplice, in grado di raccontare il volontariato partendo dall’esperienza quotidiana di una delle associazioni, ma anche fare il punto sull’organizzazione e sulla capacità di risposta che è caratterizzano il volontariato impegnato nel soccorso.
Misericordie, dalle fragilità sociali alla Protezione civile
«Noi proveniamo dal mondo cattolico» dice subito Pace, rivendicando una appartenenza e una radice culturale che stanno alla base del loro impegno «e che fornisce a ogni volontario motivazione e forza». I campi d’intervento delle Misericordie sono diversi e attraversano trasversalmente tutte le fragilità sociali, fino all’impegno nella Protezione civile.
Volontari della Misericordia di Trebisacce caricano un paziente su un’ambulanza
«La giornata del volontario è scandita dai compiti cui l’associazione è chiamata, per esempio il trasporto dei dializzati o dei disabili. Operiamo in convenzione con il 118 e con le Asp e mettiamo a disposizione del territorio ambulanze operative 24 ore con personale addestrato al soccorso in emergenza».
Oltre a ciò, le Misericordie si occupano del Banco alimentare e farmaceutico. E in Calabria ci sono tre Empori solidali (Trebisacce, Reggio Calabria e Papanice), dove le famiglie economicamente vulnerabili possono trovare un efficace presidio contro la condizione di povertà.
Un volontario è per sempre
Le risorse umane delle Misericordie sono composte da volontari, ma la lunga storia di queste associazioni ha premesso di precorrere i tempi. In passato accoglievano gli obiettori di coscienza contrari alla leva obbligatoria, adesso l’associazione è aperta ai giovano che vogliono svolgere il Servizio civile.
Qualcuno dopo aver concluso il suo anno di servizio resta come volontario. È il caso di Rachele, che svolge il suo compito sulle ambulanze e che conosce tutti i pazienti che periodicamente porta a fare la dialisi. «Familiarizzo con loro, cerco di rendere meno gravosa l’incombenza, ma mi è successo una volta di non aver riconosciuto un ragazzo con cui avevo condiviso gli anni del liceo. La malattia lo aveva reso irriconoscibile e quando la mamma mi ha spiegato chi fosse, sia pure con fatica abbiamo rievocato gli anni della scuola. In un certo modo l’averlo portato indietro nel tempo ha alleviato la sua sofferenza». Oggi Rachele ha trovato un lavoro che richiede la sua presenza dalle nove del mattino, «ma continuo il mio servizio sulle ambulanze, dalle sei e mezza, per il primo turno giornaliero del trasporto dializzati».
Fatti, non parole
La capacità organizzativa di cui sono in possesso le Misericordie è anche a disposizione della Regione per far fronte con uomini e mezzi ad eventuali emergenze che riguardassero l’ambito della Protezione civile. Proprio in questo contesto, di recente, l’associazione ha partecipato a una vasta esercitazione nell’area dello Stretto, simulando un intervento dopo un sisma, finalizzato al recupero e al trasporto in sicurezza di persone con disabilità.
Ma Pace è anche alla guida della consulta che raccoglie e rappresenta tutte le associazioni che sono riconosciute dalla Protezione civile della Calabria. Essa ha il compito di interagire con le istituzioni regionali deputate agli interventi in emergenza e a tenere aggiornata la mappa delle risorse disponibili e operativamente dispiegabili in caso di necessità sul territorio calabrese.
La Consulta è organo non solo di rappresentanza, ma significativamente operativo. Ha, infatti, il compito di offrire in tempi rapidissimi una efficace risposta a una qualunque emergenza dovesse verificarsi.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. Cosenza sarà per tutto il 2023 Capitale italiana del volontariato. Attraverso I Calabresi la Fondazione intende promuovere e far conoscere una serie di realtà che hanno reso possibile questo importante riconoscimento.
Un pensiero gentile per iniziare, e non perché chi lo ha avuto è stata seguace dei Gentile: la riqualificazione a proprie spese dell’ala del Cimitero di Colle Mussano destinata a bimbi non nati.
È l’ultima notizia, in ordine cronologico, che riguarda Simona Loizzo.
I bambini mai nati
Non buttiamola in politica, perché alla fine dei conti non l’ha fatto Loizzo, la quale si è limitata a una proposta via pec al Comune. Che ha approvato.
Eppure, a prescindere da tante polemiche esplose un po’ dappertutto, resta un dato: il regolamento di polizia mortuaria prevede l’istituzione di aree per la sepoltura dei feti e di sicuro non è bello che quella del Cimitero di Cosenza sia non curata a dovere.
Niente pubblicità né comunicati stampa roboanti, ma solo una testimonianza: la delibera pubblicata sull’albo pretorio del Comune.
La carriera a zig zag di Simona Loizzo
Simona Loizzo ha avuto una parabola politica curiosa: emerge alle cronache come responsabile provinciale del Pdl lo scorso decennio.
E poi sembra inabissarsi con la creatura di Berlusconi. Torna alle cronache a inizio 2021 in seguito alla tragica morte del marito.
Questa visibilità la rimette al centro dell’arena politica. Tant’è che nel totosindaci per le ultime Comunali, che inaugurano il dopo Occhiuto, spunta il nome dell’odontoiatra cosentina. Col relativo corredo di dietrologie.
Simona Loizzo con Matteo Salvini
Loizzo: un cognome che pesa
Dirigente dell’Unità operativa complessa di Odontoiatria presso l’Annunziata di Cosenza, Loizzo ha una lunga storia, anche alle spalle.
Ci si riferisce alla tradizione familiare: Simona è figlia di Bruno Loizzo, storico primario di Pediatria nel medesimo ospedale, e nipote di Ettore, big della massoneria non solo calabrese. Inutile ripercorrere le tappe della militanza massonica dello scomparso gran maestro aggiunto del Goi, tra l’altro rimbalzata abbondantemente su tutte le cronache dell’epoca.
Però il fardello del cognome, che evoca sanità e politica, c’è e pesa. Soprattutto nel caso della Loizzo, che le fa entrambe.
Ettore Loizzo, ex gran maestro aggiunto del Goi
La meteora
Si può comparire e scomparire. E viceversa, come le meteore o le comete che seguono orbite tutte loro.
Quella di Simona Loizzo è tutta particolare e fatta di numeri importanti e inaspettati.
Nel 2021 non si candida a sindaca, forse anche perché nel centrodestra la lotta per Cosenza è considerata non proprio vincente.
Ma performa lo stesso, grazie a scelte intelligenti: aderisce alla Lega di Salvini e ne tampona la perdita di voti con una buona performance elettorale.
Con le sue 5.360 preferenze diventa capogruppo dei salviniani a Palazzo Campanella. In più gestisce direttamente la lista della Lega alle Amministrative di Cosenza, che prende 1.500 voti.
La prova delle urne è forte.
Simona Loizzo alla Camera
In nove mesi si fa un bambino. Nello stesso arco di tempo, Loizzo bissa e si candida alla Camera, dove entra sulla scia del successo del centrodestra.
La permanenza della Loizzo a Palazzo Campanellasi svolge tra qualche polemica ed è segnata da un’iniziativa forte: è suo il disegno di legge regionale per la città unica di Cosenza, su cui si dibatte in questo periodo.
Da deputata, invece, si è mossa a tutto campo: ha promosso l’istituzione di un gruppo inteparlamentare per la Sanità digitale e una Commissione d’inchiesta sulla gestione del Covid. In più è autrice di un ddl per inserire la Magna Grecia nel patrimonio dell’Unesco. Difficile dire se sia vera gloria, ma quantomeno è proattiva.
Simona Loizzo durante il dibattito sulla città unica
Il camposanto
Il problema dei bambini mai nati potrebbe non essere il primo né l’unico del Cimitero di Colle Mussano. Il burocratese delle varie regolamentazioni di solito è crudo: non si parla di feti ma di “prodotti abortivi” e, solo nel caso dei parti, di “nati morti”.
Comunque sia, nulla può giustificare la trascuratezza nei confronti di un’area la cui presenza è un atto di pietà che ha uno scopo minimo: dare dignità ai piccoli resti per distinguerli dai rifiuti ospedalieri.
Una donazione privata per la riqualifica di quest’area, tra l’altro effettuata con molta riservatezza, resta meritoria. A prescindere da chi la faccia.
Per concludere una riflessione: Simona Loizzo ha raggiunto la massima visibilità. Ci sarà un riflusso, magari dovuto ai malumori suscitati in Calabria dal ddl sull’autonomia differenziata oppure la Loizzo politica resterà una presenza fissa del panorama calabrese?
Il Festival di Sanremo sta per iniziare, si sa, e interrogarsi su cosa significhi per questo nostro paese la sua puntuale, amplificatissima e superimposta celebrazione, nella disputa canonica tra elitarismo di massa e disprezzo intellettualistico per il pop, nella liturgica lotta tra apocalittici e integrati della canzonetta, è diventato oramai pericoloso come affrontare un dogma di fede, un tabù, un totem da scomunicare o idolatrare senza discussione.
Festival per tutti (e tutto)
Certo è che il Festival per antonomasia, quello di Sanremo, da settant’anni a questa parte è diventato il modello di spettacolo popolare che questo paese si è costruito per significare la categoria di un «evento di spettacolo popolare che ha luogo periodicamente in determinate località, con rappresentazioni di particolare rilievo e con programmi aventi di solito un loro carattere costante» (Treccani). La logica dell’evento, la festivalizzazione, ha colpito nel frattempo in ogni settore. Ormai un festival incombe per ogni cosa, dalla letteratura alla filosofia, dal porno all’edilizia, dalla cucina bio ai materiali high-tech. Un carattere di crescente enfatizzazione spettacolare e di ripetitività che, a partire dall’originale, ha generato sin dalle prime edizioni sanremesi anche curiose imitazioni e stravaganti repliche locali. Anche con sviluppi istituzionali.
La storica sede del Festival di Sanremo
La Regione Calabria, per esempio, alcuni fa nella rincorsa ai “grandi eventi” spettacolar-turistico-culturali da celebrare in regione, si inventò un bando pubblico intitolato non a caso “Calabria Terra di Festival”. Ma anche uno dei primi tentativi di clonazione della rassegna canora sanremese, incredibilmente, prese in passato le mosse proprio in Calabria. E per similitudine con l’evento originario, proprio in un piccolo centro rivierasco del Tirreno cosentino, solo qualche anno dopo la celebrazione dal primo Sanremo canzonettistico.
Il Lucival: San Lucido come Sanremo
Accadeva a San Lucido negli anni ’50 del Novecento. Il festival appena gemmato sulle sponde calabre, magra e provinciale imitazione del primo, non poteva fare a meno di echeggiarne almeno la desinenza. E fu così che si chiamò Lucival. Dato che “sentirsi Sanremo”, sognare le luci della ribalta canora con contorno di personaggi noti ed esibizioni di arti varie, con musiche, balli e luminarie – potenza primordiale dei primi organismi staminali dell’odierna società dello spettacolo – pare sia stata la molla di un’aspirazione agonistica per uscire dal grigio anonimato locale della vita di provincia, quando quella Calabria del secondo dopoguerra ancora neanche intravedeva il boom.
1954, un’esibizione durante la prima edizione del Lucival
La prima edizione del Lucival, «grande evento locale» celebrato nella “perla del Tirreno” calabrese, è datata 1954. Per chi ne divenne artefice «era il momento giusto per inventarsi qualcosa di simile» a Sanremo anche in un paesino di mare della lontana Calabria tirrenica, che dall’altro capo dell’Italia sognava di uscire con la musica, le canzoni e i cantanti dalle ombre lunghe della guerra. Alcuni giovani del luogo «al passo con i tempi capiscono che qualcosa sta cambiando nel mondo dello spettacolo». E così pensano bene di organizzare a casa loro “una kermesse canora-culturale, alla quale danno il nome di Lucival – abbreviazione originale di Festival San Lucidano”.
Nilla Pizzi in Calabria
Il Festival di Sanremo era iniziato appena qualche anno prima, nel 1951, quando le canzoni si potevano ascoltare solo alla radio, dato che la televisione non c’era ancora. Il 1954, l’anno del primo Lucival, fu pure l’anno di un avvenimento che cambio la vita dell’Italia popolare: il 3 gennaio la RAI, radiotelevisione italiana, aveva avviato la trasmissione dei primi programmi televisivi in bianco e nero. Nel 1951 il Festival di Sanremo lo vinse l’allora giovanissima Nilla Pizzi, che aveva spopolato con Grazie dei fiori, considerata all’epoca, con Papaveri e papere una sorta di manifesto in musica dell’Italietta di buoni sentimenti post bellica prudentemente guidata dalla Democrazia Cristiana di De Gasperi.
https://www.youtube.com/watch?v=4fuyGhGZOlA
Proprio la Pizzi, «con la sua voce melodiosa e la sua avvenente presenza», diventata personaggio familiare con il successo radiofonico del primo Sanremo, fu “ospite d’onore negli anni successivi proprio a San Lucido, conquistando tutti con le sue esibizioni canore”.
C’era chi intravedeva anche in Calabria in quelle presenze musicali amplificate dalla crescente risonanza del festival ligure, «l’avvento di un periodo di ottimismo, di incredibili trasformazioni sociali e di crescente entusiasmo culturale». Furono dei sognatori da pro-loco e filodrammatica di paese e far nascere il Lucival nel 1954. Ingenuità culturale e illusioni visionarie fecero il resto.
I premi per i bambini
«Il Lucival sanlucidano aveva l’impronta di una manifestazione di arte e di cultura varia che ambiva a valicare i confini locali per raggiungere tutta la Calabria; infatti, scrittori, poeti, giornalisti e artisti di varie specialità potevano concorrere per premi quali Il Giornale d’Italia e La Calabria Letteraria». Un mix popolare di musica, cantanti e buoni sentimenti, dato che «la manifestazione era organizzata a scopo benefico, tant’è che gli stessi vincitori devolvevano i premi in denaro a favore dei bambini poveri della scuola».
1966, un bambino sul palco del Lucival
Il Lucival non era infatti destinato solo ad una platea «di artisti locali e ad un pubblico di adulti», “ma si rivolgeva anche ai più piccini, con concorsi a premi come La Palestra dei Piccoli, L’Ugola d’Oro, Lo Zibaldone». Di fronte a queste auliche e ingenue dichiarazioni artistiche impossibile non provare sfogliando il folto album ingiallito del festivalino sanlucidano, una sorta di Amarcord per un mondo di sentimenti, emozioni e personaggi paesani ormai trapassato.
L’inventore del Lucival e l’inno cittadino
L’idea della manifestazione canora sanlucidana «era maturata grazie alla passione di un insegnante di musica», Giovanni Ciorlia,. Per anni fu animatore e «direttore artistico del festival sanlucidano» (ma anche primo presidente della Pro Loco e a lungo assessore comunale ed esponente della DC locale). Al suo fianco, il «Prof. Dalmazio Chiappetta, il Prof. Antonio Calomino, Sindaco di San Lucido, e il Prof. Giacomoantonio Napolitano (direttore didattico)». L’orchestra Primavera diretta dal maestro Franco Perri e il quartetto Aurora, diretto da Davide Iorio, costituivano, invece, il supporto orchestrale del festival, «il cuore pulsante dell’evento». Dopo aver «trionfato nell’edizione del Lucival del 1955», la canzone A ritmo di beguine, Notte Sanlucidana, «scritta dal maestro Clemente Selvaggio e musicata dal maestro Matteo Puzzello», composta e cantata in quell’occasione, “è divenuta nel tempo l’inno musicale della cittadina”.
Giovanni Ciorlia sul palco del Lucival insieme all’Orchestra Fenati
Il Lucival fu così nel giro di qualche anno un vero happening indigeno, un «evento musicale di grande richiamo» locale che raccolse nelle sue serate al clou del successo «un pubblico pagante» che, sostengono le cronache, giunse «fino a 7.000 persone». Il Lucival fu ripetuto con successo in diverse edizioni, ma senza mai valicare «i confini della provincia».
Si teneva in estate in uno spazio all’aperto, e tutto durò sino allo scoccare del fatidico 1968. Poi, cambiati i tempi, la musica e le mode, solo qualche replica minore e grandi nostalgie attestate da reduci e gruppi facebook locali, che oggi del “mitico Lucival” sanlucidano conservano a futura memoria reliquie e icone del bel tempo che fu.
Magari non come a Sanremo, ma anche gli spettatori del Lucival a San Lucido erano numerosi
San Lucido (quasi) come Sanremo: i big del Lucival
Si ricorda così qualche memorabile comparsata di alcuni volti noti del bel mondo dello spettacolo nazionale. Quella dell’attrice Sandra Milo o, nel 1968, quella di «Nuccio Costa, mattatore dell’ultimo Cantagiro». Persino un memorabile passaggio di Enzo Tortora, che “accolto calorosamente” presentò il Lucival del 1967. Poi una galleria minore di artisti di passo a cui arrise in quel periodo anche una qualche sporadica notorietà. Qualche esempio? La cantante Anna Identici e il più classico Achille Togliani. O, ancora, «Franco Tozzi e il suo complesso», che al Lucival del 1968 cantò I tuoi occhi verdi, unica hit che si ricordi di colui che altri non è che il fratello del più noto e fortunato Umberto Tozzi.
San Lucido, 1965: Achille Togliani al Miramare
Da Sanremo a San Lucido, la giuria del Lucival
Franco Tozzi, fratello meno noto del più celebre Umberto, si esibisce al Lucival
Enzo Tortora, presentatore al Lucival, insieme al “fantasista” Riccardo Vitali
Insieme a questi, una carrellata di dilettanti locali calcarono il palco delle “voci nuove” del Lucival restando per sempre “promesse locali”. Come “il complesso The Seamen”, o «l’orchestrina sanlucidana degli Aurora». Ma resta, forse unica impronta di vite e carriere artistiche avvolte nel buio della dimenticanza, una folta processione di illustri carneade e di figurine appena tangenti quel mondo fatuo e fatato «della Rai-TV». Epifanie forestiere in mezzo a quelle calde estati di fervore paesano di cui non resta altra traccia che queste fugaci apparizioni artistiche sanlucidane da rotonda sul mare. Evocazioni di nome d’arte quasi circensi e di silhouette teneramente fellinane, fantasmi del palcoscenico rimasti malinconicamente ai margini delle luci della grande spettacolo.
Fantasisti, imitatori e ragazzi di strada
Un appello a cui rispondono nomi da leggenda strapaesana come «il cantante Franco Giangallo», «gli illusionisti del duo Naldys», «la cantante Niky», «l’attrice Nuri Neva», «Rino, il ragazzo di strada», «la cantante della Rai-TV Myriam del Mare», seguita in altre edizioni dalle «applaudite apparizioni delle cantanti Rita Monaco, Germana Caroli, Anna Maria Maresca, Valeria Foroni». Con un contorno fiorito di interpreti e artisti di arti varie, come il «celebre Maestro direttore d’orchestra Giovanni Fenati», «il magnifico trombettista Tony Spada», o «il grande fantasista Riccardo Vitali».
Al cast nostrano dei Lucival di quei tempi non poteva mancare una specie di Noschese dei poveri, il mai più rivisto Mario Di Giglio. Era lui «il bravo imitatore» cui spettava l’arduo compito, in mancanza dei più noti e blasonati personaggi originali, di portare al Lucival tutte «le altre voci delle celebrità mancanti».
Erano pur sempre luci del palcoscenico, Lucival della ribalta.
Le immagini a corredo dell’articolo sono state raccolte negli anni dalle pagine FB “Giovanni Ciorlia – Un pezzo della nostra storia”; C’era una volta Santu Lucidu”; “Tavernetta letteraria”
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