Dalla curva del San Vito-Marulla fino ai paesi più poveri dell’Africa. La storia della Terra di Piero comincia sugli spalti di un campo di calcio, dentro una moltitudine di persone che si sentono comunità. Ragazzi uniti non solo dalla fede per la squadra della propria città, ma probabilmente legati anche da un insopprimibile insofferenza verso le ingiustizie. E se hai questo fuoco dentro, allora il tuo posto è accanto agli ultimi.
Piero Romeo in Africa
Il loro leader era Piero Romeo e oggi Sergio Crocco spiega che senza quel ragazzo generoso e sfortunato, la Terra di Piero non ci sarebbe. Non ci sarebbero i pozzi realizzati in centro Africa, le scuole per i bambini e le bambine della Tanzania o del Madagascar, né il parchi solidali costruiti a Cosenza, e nemmeno il sostegno alle vecchie e nuove povertà di casa nostra.
La Terra di Piero oggi rappresenta una delle realtà più vivaci nella galassia del Terzo settore, intervenendo capillarmente sui numerosi aspetti attraverso cui si disvela il disagio, la fatica del vivere, la sofferenza sociale, dai progetti in Africa, fino alla distribuzione di pasti alle famiglie in difficoltà nel corso del lockdown (ma anche successivamente).
Il viaggio in Africa con Padre Fedele
«L’Associazione nasce pochi giorni dopo la morte di Piero – racconta Crocco – all’inizio in modo spontaneo, quasi naturale, per dare corso e continuità agli ideali e ai progetti che avevano animato la sua vita: la mensa dei poveri e l’aiuto alle popolazioni della Repubblica Centrafricana». Forse è proprio quel viaggio nel buco nero della miseria africana, fatto da Piero Romeo assieme a Sergio Crocco, Paride Leporace e Padre Fedele ad essere una sorta di seme. L’associazione si struttura, si spoglia piano dello spontaneismo iniziale, diventa organizzazione che attrae volontari, chiama donne e uomini generosi, individua i campi di intervento e mobilita risorse e intelligenze per costruire solidarietà.
Sergio Crocco in Africa nella mensa con i bambini
I primi passi della Terra di Piero
I primi passi furono rappresentati dalla realizzazione di pozzi nella Repubblica Centrafricana. Il progetto prendeva il nome di “Pozzo farcela”, coniugando l’ironia e la leggerezza con l’impegno solidale. Ma quello fu solo l’inizio.
Il “mal d’Africa” aveva contagiato quelli della Terra di Piero e i volontari tornarono per costruire scuole, dormitori, mense in Madagascar, Namibia, Senegal e Tanzania. Si tratta di progetti ed interventi che hanno visto i volontari impegnati nel bonificare lebbrosari, edificare luoghi per imparare e giocare, superando le barriere architettoniche. Infatti da un certo momento in poi la Terra di Piero si concentra sulla tematica della disabilità. E lo fa a suo modo: rimboccandosi le maniche e costruendo luoghi praticabili da tutti i bambini, anche quelli meno fortunati.
Il Parco Piero Romeo nel centro di Cosenza
Nasce il Parco Piero Romeo, nel cuore della città, il primo luogo di gioco interamente fruibile da tutti. Oggi quel parco, soprattutto nel corso della bella stagione, è animato dall’allegria giocosa dei bambini. Ma Crocco sul terreno dell’impegno a favore dei disabili, ci tiene a sottolineare un progetto passato forse sotto silenzio, quello della realizzazione presso dieci lidi balneari, sei sul Tirreno e quattro sullo Ionio, di pedane e carrozzine che consentono ai disabili di raggiungere il mare. A tale scopo si è anche provveduto a formare i bagnini.
Non solo Parco dei nonni
E proprio di fronte al Parco Piero Romeo, presto potrebbe sorgere il Parco dei Nonni, attorno alla struttura, proprietà del Comune, che in passato ospitava un bar e che adesso diventerà una trattoria inclusiva, dove lavoreranno come cuochi anche ragazzi down.
La Terra di Piero è una fabbrica di idee, dalla quale escono produzioni teatrali, progetti, impegno concreto. Come la “spasera di coperte” che Maria, calabrese d’adozione e volontaria, sta preparando assieme a molte altre persone. Si tratta di realizzare coperte fatte a mano, da vendere per farle «diventare mattoni per costruire scuole in Tanzania e provare a salvare le bambine dall’infibulazione grazie allo studio».
Una scuola in Tanzania che nasce grazie all’impegno della Terra di Piero
Maria ha conosciuto la Terra di Piero per vicende personali ed è rimasta sedotta dal coraggio e dalla generosità di quel mondo fino a scegliere di restare e impegnarsi anche lei. «Sergio mi ha affidato la cura del progetto contro l’infibulazione ed è nata l’idea di realizzare così tante coperte da riempire piazza Fera. Abbiamo coinvolto in questo progetto diverse altre realtà solidali e quando saremo pronti esporremo i nostri prodotti che diventeranno banchi e scuole per le bambine africane, perché il sapere può cambiare le cose». Ci sarà presto una “spasera di coperte”, annuncia Maria, che non è calabrese ma il dialetto l’ha imparato bene. E che ha imparato pure che la solidarietà può avere le sembianze di una coperta.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. Cosenza sarà per tutto il 2023 Capitale italiana del volontariato. Attraverso I Calabresi la Fondazione intende promuovere e far conoscere una serie di realtà che hanno reso possibile questo importante riconoscimento.
Centoquaranta anni dopo la sua morte per vedere un Manet tocca andare al Musée d’Orsay o in altri templi della cultura mondiale, quelli che un secolo e mezzo prima lo respinsero. Oppure, più semplicemente, fare un salto alla Galleria Nazionale di Cosenza. A partire dal 24 marzo e fino al 25 aprile, infatti, tra i corridoi di Palazzo Arnone sarà possibile ammirare le creazioni del genio francese. Si tratta di trenta capolavori incisi, della prestigiosa edizione Strölin, per scoprire come la Parigi di metà ‘800 entrò nella modernità. La mostra di Cosenza si chiama Manet. Noir et Blanc. A idearla e produrla è l’Associazione N. 9, mentre la curatela è affidata ai fratelli Mario e Marco Toscano.
Palazzo Arnone, antica sede del carcere cittadino, ospita oggi la Galleria Nazionale di Cosenza
Per un mese, dunque, non ci sarà bisogno di arrivare fino al Metropolitan Museum di New York per godersi Il chitarrista spagnolo (1860) o a Parigi per quell’Olympia (1863) che tanto scandalo destò alla sua prima apparizione pubblica. Basterà salire a colle Triglio, nel centro storico di Cosenza, e lasciarsi catapultare nel bianco e nero di Manet. Il pittore che Baudelaire e Zola adoravano perché voleva «essere del proprio tempo e dipingere ciò che si vede, senza lasciarsi turbare dalla moda».
Realismo e impressionismo
Esistono un prima e un dopo Édouard Manet nella pittura degli ultimi due secoli. Rivoluzionario suo malgrado, controcorrente per indole, il pittore francese ha rappresentato con la sua opera un punto di svolta per l’arte. L’Accademia però, salvo rari casi, non gli riconobbe a lungo la grandezza che avrebbe meritato (e desiderato). Manet cercava di portare sulla tela la realtà, amava dipingere all’aria aperta, venerava artisti del passato come Velasquez. Ma, al contempo, stravolgeva le aspettative di quanti si erano nutriti fino a quel momento con l’arte classica. Un amore per la vita reale, il suo, che fece innamorare del suo pennello scrittori come Baudelaire e Zola, ma faticò a incontrare i favori del grande pubblico e della critica.
Jeanne (o La primavera),1882
Il chitarrista spagnolo
Olympia
E così, a lungo, nei grandi Saloni e musei per i suoi quadri non si trovò posto per colui che molti oggi considerano il padre dell’impressionismo. In realtà Manet impressionista non fu mai o, almeno, non fino in fondo. Già il fatto che usasse il nero nei suoi dipinti – colore tabù per i colleghi Renoir, Monet, Degas – rende complesso considerarlo tale. L’ammirazione nei suoi confronti da parte dei tre appena citati, però, basterebbe a quantificare il ruolo della sua arte nella nascita della celeberrima corrente pittorica. «Manet era per noi tanto importante quanto Cimabue o Giotto per gli italiani del Rinascimento», disse di lui il padre del celebre regista. E pazienza se il diretto interessato riteneva, al contrario, Pierre-Auguste «un ragazzo senza alcun talento».
I Manet alla Galleria Nazionale di Cosenza
Pur non trattandosi di tele – l’unico quadro del francese in Italia, salvo sporadici prestiti, è il Ritratto del Signor Arnaud a cavallo, conservato alla GAM di Milano – le opere che per un mese saranno a Cosenza non sono certo di poco conto. Come si legge nel comunicato che annuncia l’apertura dell’esposizione, infatti, «la produzione grafica di Manet, sperimentale ed innovativa, è considerata fondamentale nello sviluppo delle tecniche di stampa. Le incisioni esposte, edite nel 1905, furono stampate postume dalle tavole originali di Manet, da Alfred Strölin, importante collezionista e commerciante tedesco. Le 30 lastre pubblicate nel 1894 da Dumont (che comprendevano le 23 del portfolio curato da Suzanne Manet per Gennevilliers nel 1890) rappresentano una raccolta esaustiva della produzione dell’artista. Vennero infine biffate dallo stesso Strölin per evitare ulteriori impressioni».
In una sfera immaginaria, in cui le vite degli altri diventano ricordi ed energia e l’umanità non ricorda più il Sole, si riflette la storia scritta da Alessia Principe nel suo nuovo romanzo Stelle meccaniche (Moscabianca edizioni), di recente pubblicazione.
Aprendo uno squarcio nel tempo e nello spazio la giornalista e autrice porta il lettore in un futuro distopico in cui la Terra ferita da un disastro nucleare crede di riuscire a ripartire dai talenti e dai ricordi. La scrittrice dopo Tre volte (Bookabook, 2017) sceglie di spostare l’immaginazione narrativa lontana dal presente per proiettare il lettore in un futuro cupo, sospeso tra i ricordi del passato e l’ipertecnologia.
Il romanzo sarà presentato in anteprima giovedì 23 marzo alle ore 18 alla libreria Feltrinelli di Cosenza. A dialogare con l’autrice ci saranno la scrittrice Elena Giorgiana Mirabelli e la critica d’arte Gemma Anais Principe. Il giorno dopo, venerdì 24 marzo, sempre alle ore 18, Alessia Principe dialogherà con Nunzio Belcaro alla libreria Ubik di Catanzaro.
Alessia Principe
Stelle meccaniche: Alessia Principe e il suo futuro distopico
In Stelle meccaniche tutto ha inizio alla fine degli anni Novanta del XX secolo: il sogno di una fonte di energia pulita, eterna e sicura sembra potersi realizzare grazie alla stella artificiale Meti. Il lavoro del team scientifico a capo della ricerca porta però a una catastrofe di dimensioni inimmaginabili: il 3 aprile del 2013 Meti, creata nella centrale a fusione nucleare Tokamak, implode e crea un buco nero che risucchia al suo interno gran parte del mondo per come lo conosciamo oggi.
Secoli dopo, il volto della Terra è ancora profondamente segnato dall’incidente e fulcro della vita è ormai il continente Mediana, formatosi dopo l’implosione. E per mandarlo avanti occorre energia: la soluzione sono i Resti, sfere di ricordi cristallizzati, attimi del passato che salgono verso l’atmosfera, invisibili e impalpabili finché lampi elettrici non li mostrano e solidificano.
Gli esseri umani sono divisi tra chi possiede il talento, e vive un’esistenza tranquilla, e chi ne è sprovvisto ed è destinato a trascorrere i suoi giorni nel terrore di essere usato come pezzo di ricambio organico. In tal modo il sogno di una società utopica in cui i migliori hanno il posto che meritano, diventa una distopia che vede il talento ridotto da dono a forma di discriminazione.
Anime, classica e steampunk
Nel romanzo seguiamo le vicende di due bambini di undici anni: Giosuè, talento del pianoforte e Tito scugnizzo delle periferie, luogo ai margini del grande Continente della Mediana, dove le scorie rendono l’aria irrespirabile. I due si conoscono nella sala d’attesa di un ospedale dove si effettuano trapianti. Giosuè sta per avere delle mani nuove, Tito un cuore migliore. Tra loro si allaccerà un rapporto fraterno e, grazie a quel legame, capiranno cosa è successo al mondo e cosa riserva il futuro.
In Stelle meccaniche si ritrovano le atmosfere cupe e steampunk che rievocano alcuni anime giapponesi degli anni ’70 e ’80 come Galaxy Express999, mentre tra le pagine risuonano le note di Satie, Mozart e Rachmaninov. Stelle meccaniche dal 23 febbraio è disponibile in libreria e nei maggiori store online.
Senatore, calabrese e cosmopolita.
Potrei fermarmi qui, data l’attuale incompatibilità tra “senatore calabrese” e “cosmopolita”.
E invece: Fedele Giuseppe De Novellis apparteneva nientemeno alla leva del 1854, e brillò parecchio in cosmopolitismo. Al contrario, i suoi emuli e umili colleghi, nati magari un centinaio d’anni dopo e con molte più possibilità, al massimo sono andati all’estero con la moglie. Magari in qualche banalissima meta creduta intellettualmente originalissima, o a visitare la figlia in quasi-Erasmus. Ma le loro mete preferite restano i lidi estivi assai più vicini. Ad esempio – ironia della sorte – proprio il luogo di nascita di De Novellis: Belvedere Marittimo.
Villa De Novellis, a picco su Capo Tirone
Il Belvedere antico di Fedele De Novellis
Cosa poteva essere Belvedere nel 1854? Un piccolo paradiso appollaiato sulla rocca tra monti e mare, tra le quinte del Monte La Caccia e la buca del suggeritore – o forse è il caso di dire il golfo mistico – della scogliera di Capo Tirone, in cima alla quale sorge ancora la villa estiva che appartenne alla famiglia del senatore.
Non è qui però che la nobildonna Adelaide Leo dà alla luce il figlio del galantuomo Gennaro De Novellis, dieci giorni prima di Natale: Fedelenasce nel principale palazzo di famiglia – l’attuale municipio – nel rione Santa Maria del Popolo, dove sorge la chiesa omonima in cui il piccolo viene battezzato appena apre gli occhi.
De Novellis deputato a vita
Dopo i classicissimi studi in Giurisprudenza a Napoli – a quel tempo obbligatori per chi poteva – il giovane De Novellis intraprende una carriera lunga e brillante.
Per cominciare, ricopre ininterrottamente un seggio alla Camera dal 1892 al 1913, grazie ai voti del collegio di Verbicaro per il gruppo parlamentare di Sinistra guidato da Giuseppe Marcora.
Parlamentare d’assalto
Fedele De Novellis
Da deputato riveste anche la carica di Segretario dell’Ufficio di Presidenza della Camera dal 1906 al 1909. La sua attività legislativa non è proprio frenetica: presenta solo un progetto di legge, nella XXIII legislatura, per costituire in Comune autonomo San Nicola Arcella, All’epoca tempo frazione di Scalea.
Interviene però, e molto, sul bilancio sugli esteri, sugli affari interni, sui lavori pubblici e sulla giustizia. Ovviamente, non si scorda del suo collegio e lavora tanto sulle comunicazioni stradali e ferroviarie con “le Calabrie”. Inoltre, si interessa dell’amministrazione della provincia di Cosenza, della fillossera nel circondario di Paola e dell’alluvione di Cosenza. Mica acqua fresca, rispetto alla poco frenetica e poco memorabile attività degli imbarazzanti epigoni.
Un diplomatico col grembiule
Affiliato alla massoneria, diventa anche Grande Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, decorato del Gran Cordone.
Ma la nota più sorprendente è appunto il cosmopolitismo conferitogli, se non altro, dalla sua successiva veste professionale. Ovvero la prestigiosa sequenza di cariche diplomatiche ricoperte.
Già funzionario della Prefettura di Roma, De Novellis diventa addetto di legazione al Ministero degli affari esteri. Appena trentenne è a Belgrado (1884), poi a Lisbona (1886), a Costantinopoli (1888) e a Berlino (1891).
Infine viene nominato Segretario onorario di legazione (1892) e poi Inviato straordinario e ministro plenipotenziario di II classe a Christiania (oggi Oslo) nel biennio 1912-1914.
Palazzo De Novellis, oggi sede del municipio di Belvedere Marittimo
De Novellis scrittore geoplitico
Non posso né voglio dilungarmi sula produzione letteraria di De Novellis. Tuttavia, segnalo qualche titolo per farne capirne lo spessore: Leggi e condizioni economiche della Serbia (1886), Sulla questione cinese (1899), La convenzione anglo-francese. Marocco e Tripolitania (1905), Il Pacifico e le sue lotte (1909), L’Asia centrale e le sue lotte (1910), L’Europa in Africa (1911), Il commercio italiano di esportazione in Norvegia (1914).
Insomma, quanto di più distante – parrebbe – dall’ombelicale bruzio e dalla fuffa degli scaldapoltrone.
De Novellis a Palazzo Madama
Collocato a riposo, De Novellis diventa a cinquant’anni senatore di terza categoria (quella composta dai deputati con sei anni di esercizio o dopo tre legislature) nel gruppo liberale democratico (poi Unione democratica).
In questa veste si prodiga essenzialmente in questioni finanziarie ed è membro di tre commissioni parlamentari. Cioè la Commissione per il regolamento interno, la Commissione d’inchiesta sulle gestioni per l’assistenza alle popolazioni e per la ricostituzione delle terre liberate (1920-1922) e, infine, la Commissione d’inchiesta sull’ordinamento e funzionamento delle amministrazioni centrali, sui servizi da esse dipendenti e sulle condizioni del relativo personale (1921).
Un’immagine antica di Palazzo Madama
Gli ultimi anni
Nonostante la nomina senatoria fosse all’epoca sempre ad vitam, De Novellis smise di intervenire in Senato già prima dell’avvento del fascismo. Ben sette anni prima di spegnersi, a Roma, nel maggio del 1929, presso la sua residenza nel quattrocentesco Palazzo Orsini, poi Taverna, al prestigioso civico 36 di via Monte Giordano (dove vissero Torquato Tasso e, molto tempo dopo, nomi enormi dello spettacolo e dello sport internazionale).
De Novellis: una meteora. Di cui la Calabria ha perso lo stampo, senza neppure dolersene.
C’è un bambino di neanche sei anni che scrive la letterina a Babbo Natale e non gli chiede un fucile o i soldatini. Tutt’altro, anzi proprio il contrario: «Fai finire la guerra tra Russia e America». Alessandro Bozzo, così piccolo, aveva intercettato e assorbito i temi della guerra fredda: è stato da subito un giornalista-giornalista, come da espressione – forse abusata – mutuata dalla narrazione su Giancarlo Siani. Ha avuto il «sacro fuoco» dentro, da sempre, ha letto tutto il leggibile, giornali e libri, e con una cazzimma e un candore disarmante si proponeva alle testate locali appena aprivano: «Voglio lavorare qui», risposta: «Ma stai ancora studiando!».
Questo è Alessandro raccontato dalla sorella Marianna agli studenti che il 15 marzo (lo stesso giorno in cui dieci anni fa il giornalista di Donnici, appena quarantenne, ha deciso di lasciare questo mondo di ingiustizie e insoddisfazioni) riempivano Villa Rendano per il secondo dei momenti dedicati a lui e più in generale a una più ampia riflessione sul precariato. Non solo nel giornalismo. Non solo in Calabria.
«In dieci anni la situazione nei giornali e in generale nel mondo del lavoro non è migliorata e l’esempio di Alessandro Bozzo dimostra che lo sfruttamento intellettuale e la libertà di stampa sono temi, purtroppo, ancora attualissimi»: questo il refrain negli interventi incentrati sulle difficoltà di fare il cronista e sul precariato imperante non soltanto nelle redazioni.
Dieci anni in due giorni e tre tappe
L’anniversario della morte di Bozzo è stato un lungo e partecipato momento in tre tappe per analizzare il mondo del lavoro: il momento forse più sentito è stato proprio quello con le scuole superiori, il dialogo moderato dalla consigliera comunale di Cosenza con delega alla Cultura, Antonietta Cozza, alla presenza dell’assessore alla Cultura di Marano Principato, Lia Molinaro, e di Lucio Luca, autore del libro Quattro centesimi a riga. Morire di giornalismo (ed. Zolfo, 2022) e giornalista de La Repubblica che da anni segue il caso Bozzo, al quale aveva già dedicato un primo libro, L’altro giorno ho fatto quarant’anni (Laurana editore, 2018).
«Sento Alessandro come un amico – ha detto Luca – anche se non l’ho mai conosciuto, ed è difficile trovare una spiegazione a tutto questo. Probabilmente in lui mi rivedo in tante cose e, anche se non ci ho mai parlato, sono sicuro che mi ha insegnato molto anche professionalmente».
Con Marianna Bozzo c’erano i giornalisti Rosamaria Aquino ed Eugenio Furia, ex colleghi che hanno ripercorso le tappe della sua carriera arricchendola di aneddoti e insegnamenti sulla professione.
Chi era Alessandro Bozzo
Un ragazzo che piaceva a tutti, un leader già dai tempi del liceo scientifico in via Molinella: l’amore per la musica e gli U2 prima che diventassero famosi (essere sulla notizia è anche questo…), per il tennis e il Canada, per Gianni Clerici “lo scriba” e Irvin Welsh, per gli animali fossero un orso o un cardellino.
Il gusto di condensare una notizia nelle prime righe sarà il più grande lascito per una generazione di aspiranti cronisti che ancora lo ricordano e lo rimpiangono.
Alessandro Bozzo in redazione
Alessandro era un finto burbero che dava fastidio a quelli che per semplificare chiamiamo «poteri forti»: spesso dalla sua parte politica ricevette minacce più o meno velate e querele. Nell’agone partitico e giudiziario si fortificava come il gladiatore che affrontava il “nemico” a viso aperto e muso duro. E in conferenze stampa non facili si permetteva il lusso della seconda domanda mentre attorno la claque lo indicava come il rompipalle di turno: «Ma quindi è l’ennesima congiura dei giudici?», e dall’altra parte magari c’erano amici del suo editore.
Presenti e assenti illustri
In platea, ad ascoltare questi aneddoti, gli studenti del liceo scientifico “Enrico Fermi” di Cosenza – lo stesso che lui frequentò negli anni 90 –, del Polo scientifico Brutium, delle scuole secondarie di Marano Principato e dell’istituto comprensivo di Cerisano.
«Mai più quattro centesimi a riga»: questo il messaggio rilanciato da Lucio Luca e dai relatori e già fatto proprio, peraltro, dal sindacato nazionale come battaglia comune.
La mamma di Alessandro (in primo piano) e parte degli studenti delle scuole durante l’incontro a Villa Rendano
C’è stato chi ha considerato l’iniziativa una passerella, oppure ha deviato il dibattito sul fatto che lo stesso Bozzo si era affrancato dalla schiavitù dei “4 centesimi a riga”, come se il demansionamento e un contratto peggiorativo offertogli dall’editore per cui lavorava non rappresentassero una umiliazione dopo vent’anni di lavoro in quel settore.
L’omaggio di Cosenza
Nel pomeriggio del 15, intanto, il Museo dei Brettii e degli Enotriha ospitato un dibattito a più voci proprio su libertà di stampa e ingerenze della politica nel lavoro delle redazioni, sulle querele temerarie e sul futuro dell’informazione. Il sindaco di Marano Principato, Pino Salerno, e l’assessora Molinaro hanno ricevuto i saluti dell’amministrazione del capoluogo (il sindaco non ha potuto partecipare per il concomitante consiglio comunale sull’autonomia differenziata) mentre Raffaele Zunino con un accorato intervento ha aperto i lavori in rappresentanza del Circolo della Stampa “Maria Rosaria Sessa”.
Lucio Luca firma una copia del suo libro
Moderati da Antonietta Cozza, accanto a Lucio Luca, Marianna Bozzo e Rosamaria Aquino sono intervenuti Francesco Graziadio, consigliere comunale e giornalista nonché ex collega di Bozzo, l’assessore comunale Veronica Buffone e la vice-sindaco Maria Pia Funaro. Hanno preso la parola anche i genitori di Alessandro, Franco Bozzo e Venere Ricca, e la zia Dora Ricca, mentre Roberto Grandinetti ha raccontato i suoi oltre vent’anni di professione facendo luce su soddisfazioni e delusioni vissute all’interno dei quotidiani locali a cavallo del nuovo millennio.
Toccanti le parole di Graziadio, che ha raccontato di come quegli anni abbiano lasciato anche molte macerie tra i rapporti umani prima che professionali di chi ha condiviso la vita di redazione in maniera totalizzante.
Un cunto per le scuole
La doppia iniziativa cosentina aveva avuto una sorta di “anteprima” domenica 12 marzo a Marano Principato, luogo in cui il giornalista di Donnici si tolse la vita: alle 18 nell’auditorium del centro di aggregazione giovanile “Cesare Baccelli”, l’attore Salvo Piparo e il musicista Michele Piccione hanno messo in scena la pièce Volevo solo fare il giornalista – La storia di Alessandro Bozzo tratta da Quattro centesimi a riga.
Il reading, che ricalca la forma del “cunto” siciliano aggiornandolo con i più riusciti esperimenti di teatro civile, era stato presentato in una versione embrionale al festival Trame di Lamezia Terme nel 2019.
Ora il monologo – nella versione arricchita dall’apporto di un polistrumentista – assume una forma più strutturata, e vanta già repliche in tutta Italia, dal festival delle Idee di Venezia al congresso nazionale della Fnsi, la Federazione nazionale della stampa, a Riccione. Qui il monologo dedicato ad Alessandro Bozzo è stato scelto come storia paradigmatica, nella speranza che il suo esempio «non rimanga confinato in Calabria ma diventi il simbolo del futuro sempre più a rischio dell’informazione».
A inizio 2023 lo spettacolo è stato replicato alla Camera del Lavoro di Milano, mentre al termine della replica di domenica scorsa l’amministrazione comunale di Cosenza ha preso l’impegno di riproporlo appena possibile in uno dei teatri della città, con il coinvolgimento delle scuole che si sono già mostrate molto sensibili all’argomento.
Alessandro Bozzo e mezzo secolo da celebrare
Con il sostegno dell’Istituto per gli Studi Storici, del Centro turistico Giovanile di Marano Principato, del Circolo della Stampa “Maria Rosaria Sessa” e della Fondazione Attilio e Elena Giuliani oltre che della libreria Raccontami, l’iniziativa ha segnato anche un’importante sinergia istituzionale tra l’amministrazione comunale bruzia e il centro appena alle porte del capoluogo, interessato da una rinascita culturale nella quale si iscrive la recente inaugurazione della biblioteca intitolata al geo-archeologo Gioacchino Lena.
Alessandro Bozzo e il suo taccuino
Marano Principato è stato, peraltro, il primo soggetto a entrare nel patto intercomunale “Città che legge” approvato l’estate scorsa dalla giunta di Cosenza.
Le due giornate ospitate tra Cosenza e Marano Principato sono state un modo per celebrare i cinquant’anni di Alessandro Bozzo e ribadire che il suo esempio non deve essere dimenticato.
Mettiamo il caso tu abitassi in un paese montano della Calabria e sia in emergenza. Chiami il 118. L’ambulanza si ferma a metà strada per dei guasti al motore. Devi aspettare l’arrivo di un’altra macchina. Rifai il percorso all’indietro. Altri 50 minuti. Poi ti dicono: «Signora, è arrivata troppo tardi».
È il 5 novembre 2021. Melissa, una bambina di Parenti (CS) con una paralisi cerebrale infantile, ha una crisi epilettica fortissima. Il medico di paese corre nell’immediato a prestare soccorso. Testa prima una bombola di ossigeno presente in casa, poi la utilizza sulla bambina per tamponare precariamente la crisi respiratoria che le ha causato l’ingurgito del vomito.
Si attende l’arrivo dell’ambulanza, ma la situazione è instabile e problematica. Solo dopo 1 ora e 40 minuti dalla chiamata al 118, Melissa arriva in ospedale. Troppo tardi però. La bambina finisce in rianimazione e lì rimane per 10 giorni prima di ritornare a casa.
Ad aprile del 2022 Melissa ha un’altra crisi epilettica. Il 118 viene chiamato alle 5, ma l’ambulanza si rompe a metà strada. Si deve attendere l’ambulanza privata, che riesce ad arrivare in Pronto soccorso alle 08.30.
«Ho paura di dormire in pigiama»
Quelle crisi Melissa le ha superate, non certo per la tempestività dei soccorsi. Quelle ore, però, pesano come un macigno.
Dalla prima crisi i genitori di Melissa hanno paura di dormire in pigiama. Meglio farlo vestiti: «Riusciamo in questo modo a non perdere tempo, mettere la bambina in macchina e raggiungere l’ambulanza». La paura è che arrivare in ritardo stavolta possa rivelarsi fatale. Ma la lotta non è solo quella per la vita. È anche battaglia ad un sistema che guarda a questi luoghi con indifferenza.
Strade che franano e malasanità in Presila
Le corse di Melissa in ospedale hanno riportato all’attenzione i disagi propri di territori come la Presila, loro malgrado simbolo di malasanità e viabilità precaria. La distanza che divide Parenti, il paese dove vive Melissa, dal Pronto soccorso più vicino è di 33 km. Servono 50 minuti per percorrerli. In caso di emergenza si impiega il doppio: dalla chiamata al 118 all’arrivo in ospedale trascorrono, solo se si è in buoni rapporti con la Fortuna, ben due ore.
A far dilatare il tempo è in primis l’attesa dell’ambulanza, che impiega circa un’ora e 40 minuti per raggiungere il paese e ritornare in ospedale. Conteggio non proprio realistico perché ad aggravare la situazione si ci mettono le condizioni disastrate in cui versa un tratto di strada da cui è obbligatorio passare.
Il tratto di strada in questione è soggetto a periodiche frane. Le soluzioni finora? Chiusura temporanea nei periodi più critici o riduzione ad una sola corsia, con tanto di semaforo per gestire il senso alternato. In queste condizioni, nei casi di emergenza, si deve percorre una strada alternativa che raddoppia il tempo di arrivo. Questo con la bella stagione: nei mesi invernali le temperature possono scendere parecchio sotto lo zero e le strade si trasformano in piste di ghiaccio. Con tutto quello che ne consegue.
Riaprire il Pronto soccorso di Rogliano
La riapertura del Pronto soccorso dell’Ospedale Santa Barbara di Rogliano – chiuso nel 2010 – sembra essere per i cittadini la soluzione più ovvia.
Il reparto farebbe da avamposto all’omologo di Cosenza. Risolverebbe così due problemi: da una parte il sovraffollamento del Pronto soccorso dell’Annunziata, dall’altra la gestione momentanea delle emergenze provenienti dai paesi della Presila. Ma questa riapertura non s’ha da fare.
L’ospedale di Rogliano
Il motivo non è ben chiaro, la struttura e le strumentazioni presenti al suo interno si prestano alla richiesta dei cittadini. Eppure, in un recente incontro tenutosi tra commissari e cittadini proprio davanti all’Ospedale Santa Barbara di Rogliano lo scorso 1 marzo, la richiesta dei cittadini di Parenti di riaprire il Pronto intervento sembrerebbe caduta nel nulla.
Presila a rischio spopolamento, non solo malasanità
Risolvere, seppur in parte, uno dei due problemi – sanità e viabilità – potrebbe alleviare le angosce di chi vive in questi territori e non solo. Lo scorso 22 luglio i cittadini sono scesi in strada al grido di «Nessuno tocchi la sanità». Si sono anche mobilitati per acquistare loro un’ambulanza. I costi elevati di gestione e la mancanza di personale specializzato, però, li hanno costretti a rinunciare. L’ambulanza di stanza a Parenti andrebbe a gestire le emergenze di chi vive nelle contrade limitrofe che, tra l’altro, si trovano ad una distanza dall’ospedale ancora superiore. Ma non dovrebbero essere i cittadini a farsene carico.
Lo striscione affisso dai cittadini su un guardrail
E poi c’è sempre il problema delle strade. In queste condizioni il rischio di spopolamento è alto. La viabilità, infatti, ha anche un costo sull’economia di un paese fatto da imprenditori e artigiani che hanno deciso di investire nel territorio che ora sembra tradirli. Restare in condizioni simili preoccupa, ma per molti è obbligatorio.
Cosenza capitale nazionale della solidarietà per il 2023? «Una scommessa un po’ folle», dice Gianni Romeo, figura storica del terzo settore in Calabria e non solo e, da sette anni, presidente del Centro servizi per il volontariato (Csv) della provincia di Cosenza. I numeri sono lusinghieri e a favore dell’iniziativa: 160 associazioni per circa 1.200 volontari sono una base sociale di tutto rispetto. E garantiscono alla città di non sfigurare rispetto agli altri due capoluoghi che l’hanno preceduta nel ruolo: Padova e Bergamo.
Un risultato così non si improvvisa. Anzi, è il frutto di una lunga storia.
Un primo piano di Gianni Romeo
I Csv: cosa sono
Iniziamo dal Csv. Esiste dai primi anni ’90 e, come i suoi omologhi nel resto d’Italia, anche quello di Cosenza si rapporta a una “casa madre”: Csv Net.
Prima della riforma del 2017 esisteva un Centro in ogni provincia, ora ne è previsto uno ogni milione di abitanti.
Con due eccezioni vistose: Reggio Calabria e Cosenza, che a rigore non coprono il dato numerico.
E tuttavia, spiega Romeo, «la particolarità del territorio cosentino e la forte presenza di volontari giustificano l’eccezione e il riconoscimento».
I Csv: come funzionano
Il Centro servizi per il volontariato è un Ente di terzo settore, che fornisce servizi alle associazioni e promuove la cultura del volontariato.
Questi servizi sono di varia natura: «Aiutiamo le associazioni a fare convegni o le dotiamo delle attrezzature di cui hanno bisogno», spiega ancora Romeo a titolo d’esempio.
Quello di Cosenza è piuttosto strutturato: «Abbiamo quattro sportelli: per la precisione, a Fuscaldo, Corigliano, Castrovillari e San Marco Argentano e disponiamo di undici dipendenti part time che, assieme a una coordinatrice, costituiscono la parte tecnica».
Gianni Romeo e i suoi volontari
Servizio civile e lavoro: i nuovi gol del Csv
Servizio civile e inserimento nel mondo del lavoro. Sono gli ultimi step del Csv di Cosenza.
Ecco come li racconta Romeo: «Il servizio civile è un settore che conosco molto bene, perché a suo tempo fui obiettore di coscienza. Col Centro di Cosenza abbiamo deciso di inserirci in questo discorso, tra l’altro già praticato da molte associazioni importanti».
Quest’inserimento è propiziato dalla trasformazione del vecchio Servizio civile in Servizio civile universale. Infatti, prosegue il presidente, «stiamo operando una selezione tra 500 domande di servizio civile».
Per la formazione lavorativa, «abbiamo avviato un dialogo con la Camera di commercio di Cosenza e siamo in contatto con aziende interessate alla nostra proposta: formare, attraverso il volontariato, dei giovani, immigrati ma anche italiani in difficoltà (penso ai ragazzi delle case famiglia) che possano inserirsi nel circuito produttivo». Una partnership che potrebbe dimostrare «come il terzo settore, tradizionalmente no profit, sia in grado di interagire con l’economia reale senza usurparne le funzioni».
Due parole su Gianni Romeo
I Csv non si improvvisano. Ma neppure Gianni Romeo ci si improvvisa, e non è un modo di dire.
Reggino di origine, classe ’60 e cattolico di formazione, Romeo ha trascorso la quasi totalità della propria vita professionale nel terzo settore, a partire da quando non si chiamava ancora così. «Iniziai nel 1979, quando ancora ero studente all’Unical, come volontario in una storica casa-famiglia: La Terra, che si occupava di minori. Ne divenni presidente e, grazie all’impegno dei volontari, siamo riusciti a dare servizi anche ai migranti e a creare un centro polifunzionale».
Poi il passaggio successivo, sicuramente più importante, almeno dal punto di vista quantitativo.
La premiazione del volontario dell’anno
Il Banco alimentare
«Nel 1996 fui tra i promotori del Banco alimentare della Calabria, con cui aiutiamo circa quarantamila persone». Come a dire: il lavoro è tanto, il malessere pure.
Il Banco alimentare, di cui Romeo è diventato direttore generale, si interfaccia sia coi privati, da cui raccoglie le eccedenze, sia con le associazioni e gli enti no profit accreditati. «Che sono oltre seicento di vario tipo: si va dalle Caritas diocesane alle case famiglia e per ragazze madri per finire con le sezioni locali della Croce Rossa».
L’impegno di Romeo è tanto e i problemi non mancano.
Volontari e istituzioni: un dialogo difficile
I volontari del Banco Alimentare
A partire dal dialogo, tutt’altro che facile, con le istituzioni. «A livello regionale, purtroppo, non c’è nulla di organico», lamenta Romeo. Che incalza: «Il Csv e le associazioni sono interpellati solo per attività di “supplenza”, cioè per cose che il personale, amministrativo e non solo, che gravita attorno alla Regione, non riesce a fare».
Con la Provincia, «che è fortemente ridimensionata, anche a livello finanziario», il rapporto è minimo, mentre col Comune di Cosenza «per via della situazione finanziaria tragica» si è prossimi all’assenza.
L’impegno e la speranza
«C’è molto bisogno di volontariato, soprattutto in gravi momenti di crisi come l’attuale. E purtroppo non è una frase fatta», chiosa Romeo.
La ricetta è una: «Strutturarsi a rete col minimo di gerarchia funzionale che serve».
È opportuno chiarire anche questo concetto: «Per gerarchia non intendo rapporti di “potere” ma responsabilità operativa. Significa soprattutto coordinare e, ripeto, dare servizi».
Ma ciò non esclude altre forme di organizzazione: «Di recente abbiamo promosso un meeting tra i Csv del Sud, per elaborare progetti comuni su aree più vaste di quelle di stretta competenza dei singoli centri».
Morale della favola: «Soli non si va da nessuna parte. E, a proposito del volontariato e delle sue difficoltà quotidiane, mi si creda: neanche questa è una frase fatta»
Dieci anni senza Alessandro Bozzo. Cosenza ricorda il giornalista scomparso tragicamente il 15 marzo 2013: due giornate e tre momenti di riflessione sulle difficoltà di fare il cronista in Calabria (ma non solo) e, più in generale, sul precariato imperante non soltanto nelle redazioni.
Un reading a Marano Principato
Si parte domenica 12 marzo a Marano Principato, luogo in cui il giornalista si tolse la vita: alle 18 nell’auditorium del centro di aggregazione giovanile “Cesare Baccelli”, l’attore Salvo Piparo e il musicista Michele Piccione metteranno in scena la pièce Volevo solo fare il giornalista – La storia di Alessandro Bozzo tratta dal libro Quattro centesimi a riga (ed. Zolfo, 2022) di Lucio Luca, giornalista deLa Repubblica che da anni segue il caso Bozzo, al quale aveva già dedicato un primo libro, L’altro giorno ho fatto quarant’anni (Laurana editore, 2018).
Il reading era stato presentato in una versione embrionale al festival Trame di Lamezia Terme nel 2019: ora il monologo – nella versione arricchita dall’apporto di un polistrumentista – assume una forma più strutturata, e vanta già repliche in tutta Italia, dal Festival delle Idee di Venezia al congresso nazionale della Fnsi, la Federazione nazionale della stampa, a Riccione: qui il monologo dedicato ad Alessandro Bozzo viene scelto come storia paradigmatica, nella speranza che il suo esempio «non rimanga confinato in Calabria ma diventi il simbolo del futuro sempre più a rischio dell’informazione».
A inizio 2023 lo spettacolo è stato replicato alla Camera del Lavoro di Milano.
Gli appuntamenti di Cosenza
Mercoledì 15 marzo ci si sposterà a Cosenza per un’intera giornata che prenderà il via alle 10 aVilla Rendano con le scuole superiori cittadine, mentre alle 17 il Museo dei Brettii e degli Enotri ospiterà un dibattito a più voci sulla libertà di stampa e su temi che, dopo un decennio, restano ancora attualissimi: dal precariato alle ingerenze della politica nel lavoro delle redazioni, dalle querele temerarie al futuro dell’informazione.
La mattina, dopo i saluti di Walter Pellegrini, presidente della Fondazione Attilio e Elena Giuliani, e di Franco Mollo in rappresentanza del Circolo della Stampa “Maria Rosaria Sessa”, con l’autore Lucio Luca dialogheranno la consigliera comunale di Cosenza con delega alla Cultura, Antonietta Cozza, e l’assessore alla Cultura di Marano Principato, Lia Molinaro: con loro Marianna Bozzo, sorella di Alessandro, e i giornalisti Rosamaria Aquino ed Eugenio Furia. In platea gli studenti del liceo scientifico “E. Fermi” di Cosenza, del Polo scientifico Brutium, delle scuole secondarie di Marano Principato e dell’istituto comprensivo di Cerisano che hanno letto e avviato una riflessione sul libro Quattro centesimi a riga (le copie sono state donate da Paolo Tucci di Gap Life srl).
VIlla Rendano, sede della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani
Nel pomeriggio, invece, il sindaco di Cosenza Franz Caruso aprirà facendo gli onori di casa, seguiranno i saluti del suo omologo principatese, Pino Salerno, e di Raffaele Zunino in rappresentanza del Circolo della Stampa “Maria Rosaria Sessa”. Moderati da Antonietta Cozza, accanto a Lucio Luca, Marianna Bozzo e Rosamaria Aquino interverranno Francesco Graziadio, consigliere comunale e giornalista, e Francesca Lena, presidente dell’Istituto Studi Storici.
Alessandro Bozzo, un esempio da non dimenticare
Con il sostegno dell’Istituto per gli Studi Storici, del Centro turistico Giovanile di Marano Principato, del Circolo della Stampa “Maria Rosaria Sessa” e della Fondazione Attilio e Elena Giuliani oltre che della libreria Raccontami, l’iniziativa segna anche un’importante sinergia istituzionale tra l’amministrazione comunale bruzia e il centro appena alle porte del capoluogo, interessato da una rinascita culturale nella quale si iscrive la recente inaugurazione della biblioteca intitolata al geo-archeologo Gioacchino Lena. Marano Principato è stato, peraltro, il primo soggetto a entrare nel patto intercomunale “Città che legge” approvato l’estate scorsa dalla giunta di Cosenza.
Le due giornate ospitate tra Cosenza e Marano principato saranno un modo per celebrare i cinquant’anni di Alessandro e ribadire che il suo esempio non deve essere dimenticato.
Il carcere spesso è l’anticamera del cimitero. Per chi è condannato alla pena dell’ergastolo significa essere seppellito vivo. Io sono uno di quelli. Sono entrato in carcere all’età di 19 anni e non sono più uscito. Sono trascorsi 33 anni, ma non mi sono arreso. Perché il carcere può essere anche un luogo di riscatto. La mia esperienza personale mi dice che molto dipende dalla propria volontà e dalle opportunità che ti offre la società, e che lo studio può essere un potente dispositivo di integrazione.
Oggi vorrei scrivere proprio delle opportunità offerte dalla società, e sotto questo aspetto, di quale terra straordinaria sia la Calabria, nonostante i tanti problemi che ci sono: povertà, criminalità, mancanza di servizi, lavoro etc. di cui nessuno tace l’esistenza. Tuttavia la Calabria è soprattutto altro, se penso alle persone fuori dal comune che “abitano” esercitando una professione nell’ambito di istituzioni e comunità locali calabresi. Una storia “altra” rispetto alla “narrazione parziale” che si fa di questa bellissima regione.
Bisogna conoscere e vedere prima di parlare, giudicare, se proprio si deve giudicare, come insegnava Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione. Un po’ come accade con chi è in carcere, dove non ci sono “i detenuti” o “i condannati” ma persone, individui con storie diversissime e un passato che non è solo reato, soprattutto persone che nel tempo cambiano. Calabria e carcere in un certo senso subiscono il pregiudizio di chi non sa ma ritiene di sapere, dimenticando la lezione di Socrate.
Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso in via D’Amelio
Vorrei cominciare ringraziando chi mi ha citato in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico del PUP dell’Università della Calabria che ha visto la partecipazione straordinaria della cara Fiammetta Borsellino su invito del rettore, professore Nicola Leone: il professore Raniolo che ho avuto il privilegio di conoscere (anche se da remoto) in occasione della mia presentazione sull’avanzamento della mia ricerca intrapresa nell’ambito del dottorato in “Politica, società e cultura” presso l’Università della Calabria, certamente la più alta forma di condivisione, di inclusione dei detenuti. Il coordinatore del dottorato ha voluto ricordare che ho uno status di dottorando di ricerca, una delle opportunità ed esperienze inclusive più straordinarie nel panorama accademico italiano. “Straordinario” sottolineo, per le vicende che voglio raccontare parlando della Calabria e dei calabresi.
Sono entrato in carcere con il titolo di licenza media inferiore; ho iniziato a studiare mentreero in regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. A tale regime fui sottoposto a 21 anni d’età. Anticipo che sia la pesantissima condanna, sia le moltissime restrizioni detentive (e non solo) subite erano a mio parere giustificate nonostante la mia vicenda criminale è da ascriversi a una breve parentesi tardo adolescenziale. I fatti in cui ero rimasto coinvolto erano gravissimi, reati di cui oggi non mi capacito come proprio io sia riuscito a commettere.
Il passato non si può cambiare ma si può fare qualcosa per riparare e per migliorare il futuro, contribuendo nei modi in cui ci è possibile, anche per non restare imprigionati in quel passato. Questo mi hanno fatto capire le persone a me più vicine, dalla famiglia a quelle che ho avuto la fortuna di incontrare in questo mio “viaggio senza fine” (giudici, avvocati, docenti, operatori penitenziari, volontari), quando hanno inteso che mi ero reso conto del male arrecato e della disperazione provata per l’impossibilità di tornare indietro.
«Indietro non puoi tornare ma puoi ricominciare da dove hai lasciato» – mi dissero i miei familiari, gli unici che potevo vedere per un’ora al mese dietro un vetro. L’abbandono della scuola era stata una scelta che i miei avevano sempre avversato. Da ragazzo avevo fatto mio il detto che «saper fare è meglio che studiare» e così mi ero messo a lavorare nell’attività di famiglia.
La mia condizione detentiva comportava una serie infinita di limitazioni ma non quella di poter leggere (si potevanodetenere al massimo 3 libri, ma sostituibili). Trovai una frase di Aristotele: «Lo studio non ha bisogno d’altro che dell’intelligenza». Fu illuminante, realizzai che avrei potuto riprendere gli studi facendo la felicità dei miei genitori. L’inizio fu durissimo, non c’era nessuno a cui rivolgermi per le materie scientifiche. Ero un autodidatta, incontravo i docenti solo in occasione degli esami di ammissione, del diploma e poi per quelli universitari, sempre da dietro un vetro, fino a quando non mi hanno revocato definitivamente il regime ex art. 41-bis (durato circa 13 anni).
L’Università di Perugia
Quando accadde ero nel carcere di Spoleto e iscritto all’Università di Perugia su “invito” del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP); pensavo alla facoltà di Lettere e Filosofia, «meglio Giurisprudenza» mi disse il mio avvocato dell’epoca, l’indimenticabile professor Fabio Dean: «È una materia umanistica e tecnica che potrà essere utile per aiutare te stesso e gli altri», aggiunse, e con queste parole mi convinse. Con la revoca sopraggiunse il trasferimento al penitenziario di Palmi, in Calabria. Era la prima volta che mettevo piede su questa terra, onestamente ci arrivai con i “pregiudizi” che la fanno conoscere nel mondo. E invece…
Invece scoprii che la civiltà, l’umanità, l’efficienza (anche in carcere) sono in Calabria. La vulgata vuole che il Sud prenda ad esempio il Nord… Forse solo a livello di infrastrutture, perché a livello di umanità, funzionalità ed efficienza le realtà calabresi che ho conosciuto non hanno nulla da imparare da nessuno, anzi possono insegnare ed estendere le loro buone pratiche. Dopo un anno, da Palmi fui trasferito a Catanzaro invitato nuovamente dal DAP a iscrivermi all’università più vicina. Dovetti cedere.
Il mondo accademico è stato molto attento nei miei confronti, i docenti dell’UniPG sempre disponibili, ma gli anni di isolamento mi avevano inibito nei rapporti interpersonali. L’iscrizione all’Università di Catanzaro non cambiò di molto le mie abitudini. I contatti li tenevano gli educatori del carcere (la dottoressa Arianna Mazza e poi il dottor Giuseppe Napoli), efficientissimi anche loro, i quali mi reperivano programmi e testi da studiare. Fissavano la data per gli esami che sostenevo in presenza dei docenti nel carcere di Catanzaro.
L’Università Magna Graecia di Catanzaro
Ebbi modo di conoscere e partecipare ai corsi diretti dal professore Nicola Siciliani de Cumis, un gigante della pedagogia contemporanea, e di incontrare una delle direttrici penitenziarie più capaci che ho avuto modo di conoscere (la dottoressa Angela Paravati), pari solo al direttore del carcere di Spoleto (il dottor Ernesto Padovani) quanto a competenza, capacità organizzative e coraggio nell’assumersi le responsabilità nelle decisioni. Anche qui siamo di fronte allo “straordinario”.
I contatti con l’UniCZ si intensificarono con la preparazione della tesi di laurea e l’esame finale. Seppi che il mio relatore sarebbe stato il professor Luigi Ventura, già preside del dipartimento di Scienze giuridiche, fuori dal comune anche lui come il suo staff di collaboratori. Con lui pensammo a una tesi multidisciplinare tra diritto costituzionale, europeo e penitenziario. Ne uscirà una tesi avanguardista sull’irretroattività dell’interpretazione sfavorevole in materia penitenziaria (in soldoni l’irretroattività dell’interpretazione dell’art. 4-bis OP che aveva creato l’ergastolo “ostativo giurisprudenziale”).
Una tesi di laurea che vedrà la pubblicazione come Manuale sulla pena dell’ergastolo, e verrà premiata come migliore tesi di laurea dell’anno. Basterà dire che dopo 6 anni la Corte costituzionale (nn. 32/2020 e 17/2021) è arrivata ad affermare i principi ivi espressi come diritto applicabile nel nostro ordinamento, anche se non ancora in relazione all’ergastolo ostativo; per questo probabilmente bisognerà aspettare la Corte di Strasburgo, innanzi alla quale pende un ricorso, già dichiarato ammissibile, se lo accoglierà.
Il carcere di Parma
Questo è il prodotto di una ricerca, uno studio realizzato in Calabria. È bene sottolinearlo. Dopo la mia laurea, come tutte le cose belle, la mia permanenza nella vostra straordinaria terra finisce.Vengo trasferito in Emilia Romagna, a Parma, dove in ambito penitenziario trovo ad attendermi il medioevo. Il carcere parmense era (oggi è cambiato) veramente indietro rispetto a quelli calabresi di mia conoscenza, solo che questa arretratezza mi permetterà di entrare in contatto con l’università. Con alcuni studenti detenuti, chiediamo di modernizzare culturalmente chi è detenuto e chi ci lavora.
L’Università di Parma, o meglio una sua docente di punta, la professoressa Vincenza Pellegrino, organizza dei Laboratori di sociologia, e insieme investiamo nella creazione del Polo Universitario Penitenziario (PUP) reclamato dagli studenti detenuti già presenti. Partecipo ai Laboratori con studenti esterni e continuo nei miei studi. Sperimentiamo nuove forme di didattica mista verticale-orizzontale. È lei insieme alla professoressa Franca Garreffa dell’Università della Calabria, anche qui l’aggettivo “straordinarie” è d’obbligo, che mi guidano all’interno di questa nuova e indefinibile avventura del ‘dottorato’.
Mi incontrano per preparare la mia candidatura e studiare nuove materie che mi aprono a nuovi mondi, nuovi modi di comprendere finanche il diritto, che illuminato da queste nuovi luci sociologiche mostra altre dimensioni, si arricchisce. Le professoresse Garreffa e Pellegrino sono le mie tutor del dottorato, insieme alla dottoressa Clizia Cantarelli, tutor del Pup di Parma. Sono loro i miei occhi, le mie orecchie, le mie gambe, le mie braccia: senza di loro non potrei “muovermi”, esisto per interposta persona.
Studenti sul ponte Bucci all’Università della Calabria prima della pandemia
È grazie a loro se posso fare questa esperienza, un sostegno che passa dal reperimento del materiale a quello dei contatti con docenti di altre università e con i membri del Collegio del dottorato dell’UniCal e della CNUPP presieduta dal professore Franco Prina sempre presente alle varie manifestazioni ed eventi che riguardano i Pup in Calabria. L’esperienza del dottorato mi ha regalato, oltre a queste donne eccezionali, anche una “classe”.
Per la prima volta faccio parte di una “classe”, i miei colleghi dottorandi mi hanno quasi adottato, seppur più piccoli d’età, con la loro disponibilità e facendomi sentire ben accetto. A farmi sentire parte dell’Università della Calabria ci pensano persone come il professore Paolo Jedlowsky, che scoprirò essere uno dei più grandi sociologi contemporanei, capace di rispondere in maniera convincente anche alle mie domande più assurde. È sempre lui a volermi presente (anche se da remoto) all’inaugurazione del nuovo anno del dottorato, per sostanziarequell’uguaglianza nelle opportunità di cui parla la Costituzione. Piccole grandi cose che trasformano il carcere e danno un’altra dimensione di chi è detenuto e di chi detiene.
Col progetto di dottorato mi trovo a essere, allo stesso tempo, ricercatore e ricercato, immerso nel campo di ricerca che è il mio ambiente, ricercatore che studia sé stesso e i suoi simili, e attraverso sé stesso la società in cui vive. Mi trovo a osservare le interazioni e la produzione di sapere come dispositivi trasformativi individuali e delle “istituzioni totali”, dei “miti”, dei “luoghi comuni”, e svelare quegli “artefatti culturali” che come potenti sovrastrutture impediscono, invece di favorire, i cambiamenti sociali.
Concludo riflettendo sul fatto che ancora una volta la Calabria, in particolare l’Università di Cosenza, mi ha aperto a una possibilità inimmaginabile per me, per chi è in carcere, realizzando qualcosa che va oltre la prima, la seconda e la Terza missione cui è chiamata l’università, ponendola, probabilmente, tra gli atenei con i programmi più avanzati al mondo devo pensare perché in questo modo realizza per i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, come previsto all’art. 34 della nostra Costituzione. La Calabria, appunto, che da Pitagora in poi ha sempre qualcosa da insegnare.
Tre migranti pakistani, sopravvissuti alla tragedia di Cutro, arriveranno tra martedì e mercoledì a San Benedetto Ullano, paese arbëresh in provincia di Cosenza. Sono stati affidati all’associazione don Vincenzo Matrangolo di Acquaformosa. Il presidente è Giovanni Manoccio, sempre in prima linea sul tema dell’accoglienza e della difesa di chi fugge da guerre e povertà. A ICalabresi spiega il senso del suo impegno decennale.
Soccorritori portano a riva i corpi senza vita dei migranti a Steccato di Cutro
Dal 2010 opera l’associazione don Vincenzo Matrangolo…
«Abbiamo iniziato questa avventura di accoglienza nel 2010 ad Acquaformosa. Era come nuotare in mare aperto. Non c’erano figure professionali. Ma c’era la consapevolezza che potevamo farcela. Ragazzi molto motivati e alcuni professionisti disponibili. Erano anni di grande esposizione mediatica del Comune. Tanti giovani lavoravano in questa impresa sociale. L’associazione poi si è allargata in 5-6 comuni poi diventati 10. Con una caratteristica fondamentale: l’accoglienza dei paesi arbëresh. Cinquecento anni prima i nostri avi avevano vissuto la drammaticità di questi momenti. Noi abbiamo ridato ai territori quello che abbiamo avuto dalla Calabria. Siamo stati vecchi ospiti di questa terra. Il progetto ha accolto nel corso degli anni oltre 1600 persone, provenienti da 70 nazioni, 140 etnie. Poi ancora vulnerabili, vittime di tratta. Davvero un campionario incredibile di esperienze. Oggi l’associazione ha 110 dipendenti. Questa economia sociale ha fatto sì che tanti nostri giovani laureati siano rimasti nei loro paesi. E tanti ragazzi che non lo sono hanno avuto una possibilità. Un modello di vita per loro, perché lavorare nell’immigrazione non è facile».
Studenti stranieri per uno stage ad Acquaformosa dialogano con la mediatrice culturale dell’associazione “Matrangolo”
Come inizia la sua storia di accoglienza?
«Il giorno dello sbarco della Vlora io ero a Bari. Ricordo ancora una madre che partoriva nel porto. I cittadini pugliesi che donavano cibo e vestiti. Ero un giovane assessore. Andammo alla prefettura di Cosenza e facemmo in modo che molti di loro restassero nei nostri paesi. Molti hanno messo famiglia e radici qui da noi. Quel giorno del 1991 a Bari non lo dimenticherò mai. Gente in fuga per la libertà. Da lì nasce la mia volontà di accogliere».
Cosa c’è dietro quelle parole di Piantedosi sui migranti a Cutro?
«È la loro cultura. La conseguenza di ciò che avevano fatto poco prima, iniziando la battaglia contro le Ong. Diventano sempre più inumani per dimostrare al loro elettorato razzista e xenofobo che loro non sono come quelli di prima. Una logica conseguenza di un non politico che utilizza un linguaggio meramente burocratico».
Quel che resta di una tutina da neonato sulla spiaggia della tragedia a Cutro
Il centrosinistra ha pure le sue responsabilità
«Molti sindaci del centrosinistra hanno fatto tanto nelle loro comunità accettando la sfida dell’accoglienza. Ma se penso a Minniti e agli scellerati accordi con la Libia… Ha affrontato l’immigrazione con un approccio securitario.
Mi auguro che i nostri politici, destra e sinistra, cancellino la Bossi-Fini. Poi serve diversificare tra progetti di accoglienza pubblici e privati. I secondi sono la negazione dell’accoglienza. Su questo il mio partito, il Pd, ha fatto pochissimo. La sinistra ha perso un’occasione».
Giovanni Manoccio e la neo-segretaria del Pd, Elly Schlein all’Università della Calabria
E adesso con Elly Schlein cosa cambia?
«Credo in un rovesciamento di posizioni. In questi giorni ho parlato con Elly Schlein, la neo-segretaria che, tra l’altro, ho sostenuto al congresso. Da europarlamentare mi invitò a Bruxelles. Si interessava di queste cose. Anche la sua visita a Crotone, privata e senza rilasciare interviste, dimostra un approccio diverso del Pd rispetto a tali problemi.
La Schlein deve sostituire quelli della mia generazione. E muoversi sull’onda di un entusiasmo palpabile tra la gente. La conosco dai tempi di Occupy Pd. Io c’ero quel giorno a Roma, e ho rischiato di essere arrestato (ride ndr). Non volevano farci entrare nella sede del Partito democratico».
Autonomia differenziata o secessione?
«Una condanna a morte per il Sud. Un processo lungo. Quando ero sindaco di Acquaformosa mi sono accorto che ogni anno arrivavano circa 240 euro per ogni cittadino. E in Lombardia ed Emilia c’erano invece punte di quasi 500 euro di trasferimenti statali pro capite. Quindi? Il welfare pubblico funzionava con questi soldi. Consentivano di gestire asili nido, scuole materne, le strutture del dopo di noi.
Come fa il Sud a recuperare questo gap se passa la logica dell’autonomia differenziata? Colpirà il welfare, la salute delle persone, i servizi sociali, la scuola. Così si compie un delitto ai danni delle regioni del Sud».
Roberto Occhiuto alla fine non ha opposto resistenza al ddl Calderoli
«Un presidente calabrese che cerca di stravolgere la realtà non fa bene né a se stesso né alla regione. La classe dirigente locale è arroccata su stessa. Vive dei poteri logorati, che sono quelli regionali. I nostri ragazzi se ne vanno, i nostri ospedali chiudono, i nostri edifici scolastici non sono a norma».
Sono finiti i tempi del Decalogo di Firmoza? Oppure lei vede similitudini con quello che accade oggi?
«Quel decalogo era una provocazione. Ma a rileggerlo si intravede tutto quello che emerge con l’autonomia differenziata. Era anche una trovata mediatica per denunciare l’isolamento istituzionale e politico di paesi dell’Italia interna come Acquaformosa».
Il Decalogo di Firmoza
Gestisci Consenso
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.