“Mi è scomparsa la sinistra”. Recitava così una vignetta di Vauro di qualche anno fa sul Manifesto. Il tempo passa, il problema resta. Nel frattempo al governo del Paese, e non solo, le destre avanzano inesorabili. Di fronte a uno scenario così c’è chi pensa di interrogarsi sulla crisi della gauche. Sinistra! (Einaudi 2023) di Aldo Schiavone prova a intravedere delle traiettorie. Non fornisce spiegazioni prêt-à-porter, non è una cassetta degli attrezzi. Ma offre spunti, riflessioni, domande.
Ieri lo storico napoletano ha presentato il suo libro a Cosenza nella sala conferenze di Villa Rendano nell’ambito di “Libri in villa”, il ciclo di incontri organizzato dalla Fondazione Attilio ed Elena Giuliani. Era presente il presidente Walter Pellegrini e il membro del CdA, Francesco Kostner.
Il dibattito è stato moderato dal giornalista Antonlivio Perfetti, direttore di Camtele3tv.it.
Oltre all’autore de libro, sono intervenuti: l’economista e docente dell’Unical, Mimmo Cersosimo; Gianluca Passarelli, docente di Scienze Politiche alla Sapienza di Roma; l’ex senatore e docente dell’Unical, Massimo Veltri.
Massimo Veltri (foto Alfonso Bombini)
Domenico Cersosimo (foto Alfonso Bombini)
Gabriele Passarelli (foto Alfonso Bombini)
Dalla coppia potenza/atto di Aristotele fino alla dialettica servo-padrone di Hegel, Schiavone tira fuori molti arnesi del pensiero occidentale per generare una diagnosi impietosa: «La sinistra ha smesso di pensare, perché la realtà ha superato il suo pensiero, le categorie di Marx non possono più spiegare il reale, le sinistre perdono la base sociale di riferimento». L’intellettuale napoletano intravede nella tecnica la possibilità di riannodare «l’inclusività dell’umano», tipica delle sinistre. Quella stessa tecnica troppo spesso «demonizzata».
Per il prof Mimmo Cersosimo quello di Schiavone è «un libro denso, profondo, eretico». Un testo su una sinistra che «ha perso la testa ma non il cuore».
Il prof Passarelli è perentorio: «Un libro che fa domande, non dà risposte. Schiavone propone un nuovo umanesimo politico. E si rivolge sostanzialmente al Partito democratico».
Per l’ex senatore Veltri «la crisi degli intellettuali» è uno dei fenomeni tipici della crisi della sinistra. Proprio loro così in grado di «leggere il passato per affrontare il futuro come dice Schiavone».
Cosenza città della poesia. E non temete: non c’è alcun rischio che i cosentini si mettano a parlare di punto in bianco in versi sciolti.
Più semplicemente, è la parola chiave dell’iniziativa I padri della parola-Primo festival nazionale della Poesia, promosso dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani in partnership col Comune di Cosenza e la Regione Calabria.
Il Festival è una delle iniziative cantierate dalla Fondazione Giuliani per celebrare il proprio decennale con un ruolo attivo per la crescita culturale della città.
È una tre giorni (dal 27 al 29 aprile) di incontri, recital, dibattiti e reading organizzata da Walter Pellegrini, il presidente della Fondazione, e da Franz Caruso, il sindaco di Cosenza, che si svolgerà in tre location principali.
Il Festival della poesia si svolge in tre location di Cosenza per tre giorni e tre tipi di contenuti, diversi ma coerenti tra loro.
Ecco di seguito il calendario.
Villa Rendano
I poeti e gli studenti
Versi da per tutte le età, da raccontare e divulgare da zero a cento anni. Per i giovanissimi c’è la serie di eventi La poesia incontra gli studenti.
• La mattina del 27 aprile, a partire dalle 8,30, è previsto l’incontro di Elisabetta Pigliapoco e Loretto Rafanelli con gli allievi del Liceo classico “B. Telesio”.
A partire dalle 11,30 è previsto un cambio di poeti e studenti. Per la precisione, Tiziano Broggiato e Claudio Damiani, che dialogano con gli allievi del Polo tecnico-scientifico “Brutium”.
• Il 28 aprile, a partire dalle 10, i poeti Elisabetta Pigliapoco, Loretto Rafanelli, Tiziano Broggiato e Claudio Damiani incontrano gli studenti del Liceo scientifico “G. B. Scorza”.
• Il 29 aprile, a partire dalle 8,30, è previsto l’incontro tra Giancarlo Pontiggia ed Elisabetta Pigliapoco e gli studenti del Liceo scientifico “Fermi”.
Questi incontri non sono riservati solo ai giovanissimi, visto che non c’è età per apprezzare la poesia.
Infatti, sempre il 29 aprile, a Villa Rendano, a partire dalle 17,30, è previsto L’Università della Terza Età incontra i poeti, un evento a cui partecipano gli autori finora menzionati assieme a Daniel Cundari.
Il meeting al Chiostro di San Domenico
Un reading fiume come se ne facevano nei tardi ’60 e nei ’70, in cui i professionisti del verso dialogano e duettano con gli appassionati.
L’evento si intitola La poesia incontra la città ed è previsto il 27 aprile, a partire dalle 16, al Chiostro di San Domenico.
Il Chiostro di San Domenico
I padri della parola
Ultima ma non per ultima (anzi, si dovrebbe parlare di finale col botto), I padri della parola, prevista il 29 aprile a partire dalle 18,30 al Teatro “Rendano”. L’incontro è strutturato in due parti.
La prima è un reading poetico di Tiziano Broggiato, Daniel Cundari, Claudio Damiani, Elisabetta Pigliapoco, Giancarlo Pontiggia e Loretto Rafanelli. La seconda parte è un ricordo di tre importanti poeti calabresi: Enzo Costabile, Franco Dionesalvi e Angelo Fasano, a cura di Mariasilvia Greco ed Ernesto Orrico.
Il tutto con l’accompagnamento musicale dell’Acoustic Music Ensemble, un trio composto da Enzo Campagna, Salvatore Cauteruccio e Pietro Perrone.
La supervisione artistica è a cura di Dario De Luca.
Nei sotterranei della Oglethorpe University in Georgia (USA) c’è una camera a tenuta stagna. Sulla porta c’è scritto «Non aprire prima del 28 maggio 8113». È la prima – e più grande finora – capsula del tempo mai realizzata e custodisce per i posteri testimonianze significative di ciò che l’umanità ha prodotto (ed è stata) fino agli anni ’40 del secolo scorso.
Quando, tra circa sei millenni, la porta si aprirà, gli uomini del futuro – o chi per loro – si troveranno di fronte un po’ di tutto. Dalle voci registrate di Hitler, Stalin, Mussolini alla sceneggiatura di Via col vento, passando per microfilm con dentro la Bibbia e la Divina Commedia, un portasigarette, un rasoio elettrico e dei bigodini.
Nella stanza ci sono pure la statuetta di un uomo e un foglio. La prima raffigura in scala 1:8 Angelo Siciliano, calabrese di Acri emigrato negli States ai primi del ‘900. Il secondo riporta le misure del paisà: altezza, peso, circonferenza del torace e dei suoi muscoli. Sul foglio c’è anche la foto di Angelo, ma il nome che si legge sotto è un altro: Charles Atlas.
L’interno della Crypt of Civilization della Oglethorpe University. La foto risale a poco prima della sua chiusura nel 1940
Bokonon e la tensione dinamica
Ma chi era Angelo “Charles Atlas” Siciliano e perché custodirne il ricordo per i prossimi 6.000 anni? Non pensate a roba à la Lombroso (o chi per lui). Un primo indizio si può trovare in quel gioiello della letteratura americana che è Ghiaccio-nove (in originale, Cat’s Cradle) di Kurt Vonnegut.
Josh, il protagonista, è un giornalista che sta leggendo l’agiografia di Bokonon, immaginario santone venerato sull’altrettanto immaginaria isola caraibica di San Lorenzo su cui si trova in quel momento. È lì ospite di “Papa” Monzano, lo spietato dittatore dell’atollo, e dei figli di uno degli inventori dell’atomica, sul quale vorrebbe scrivere un libro.
Quando vidi per la prima volta l’espressione “Tensione dinamica” nel libro di Philip Castle, feci quella che ritenevo una risata di superiorità. Era una delle espressioni preferite di Bokonon, stando al libro del giovane Castle, e io credevo di sapere una cosa che Bokonon ignorava: che quell’espressione era stata divulgata da Charles Atlas, un insegnante di culturismo per corrispondenza. Poco dopo, proseguendo nella lettura, appresi che Bokonon sapeva esattamente chi era Charles Atlas. Infatti Bokonon era un ex allievo della scuola di culturismo. Era ferma convinzione di Charles Atlas che i muscoli si possano costruire senza l’aiuto di pesi o attrezzi a molle, che si possano costruire semplicemente mettendo in competizione una fascia muscolare con l’altra.
Era ferma convinzione di Bokonon che una società sana possa essere costruita solo mettendo in competizione il bene con il male, e mantenendo sempre elevata la tensione tra le due forze.
E sempre nel libro di Castle, lessi la mia prima poesia, o Calipso, bokononista. Faceva così:
“Papa” Monzano è veramente pessimo Senza di lui, però, sarei tristissimo Senza il “Papa” cattivo con la sua iniquità
Funzionerebbe Bokonon
A esempio di bontà?
Acri-New York, solo andata
Se la venerazione per Bokonon si limita all’atollo del romanzo di Vonnegut, quella per «l’insegnante di culturismo per corrispondenza» nella realtà si diffonde invece a macchia d’olio. Per comprenderne la ragione, però, bisogna andare a ritroso nel tempo fino a quando Angelo Siciliano non era ancora Charles Atlas.
Tutto comincia il 30 ottobre del 1892. Ad Acri, paesone alle pendici della Sila cosentina, nasce il figlio di Nunziato Siciliano e Francesca Fiorelli, giovani contadini del posto. È il giorno della festa del Beato locale e il piccolo si chiamerà in suo onore Angelo. Qui le versioni della storia divergono.
Secondo alcune, Nunziato undici anni dopo parte per l’America in cerca di fortuna, portando con sé Angelo e un’altra donna. Altre raccontano che Siciliano senior sia fuggito oltreoceano dopo aver ucciso un uomo, abbia trovato una seconda moglie lì e che a New York nel 1904 poi si siano trasferiti anche Francesca ed Angelo, ma a vivere a casa di uno zio.
Il bullo in spiaggia: da Angelo Siciliano a Charles Atlas
Un giovanissimo Angelo Siciliano prima della “trasformazione” in Charles Atlas
Comunque sia andata, nella Grande Mela Angelo diventa presto per tutti Charlie. È un ragazzo mingherlino che deve fare i conti con la povertà e le angherie come tanti altri emigrati dell’epoca.
Nell’estate del 1909 convince una ragazza ad andare sulla spiaggia di Coney Island insieme a lui. L’appuntamento, però, va a rotoli.
Un bagnino, vedendolo magro come uno spillo, inizia a prenderlo in giro e buttargli sabbia in faccia coi piedi (kick sand). Angelo è incapace di replicare al bullo e la ragazza lo molla lì, da solo a piagnucolare.
Poco tempo dopo visita con la scuola un museo, in una sala c’è una statua di Ercole: il suo fisico è perfetto, a nessun bagnino verrebbe in mente di dar fastidio a uno con muscoli del genere. Angelo decide che si allenerà finché non avrà anche lui un corpo così. A casa Siciliano, però, soldi ne girano pochi, così deve arrangiarsi. Costruisce un bilanciere con un bastone e delle pietre, studia gli esercizi sulle riviste di ginnastica e prova a replicarli. Trova lavoro in una conceria. Ma il fisico di Ercole resta un sogno.
Per realizzarlo servirà una nuova illuminazione, questa volta allo zoo di Brooklyn.
Angelo osserva i leoni in gabbia mentre si stiracchiano. Sono così forti – pensa – eppure non hanno avuto bisogno di pesi o panche per diventarlo, com’è possibile? Intuisce che la risposta è proprio in quello stretching dove i muscoli, contrapponendosi l’un l’altro, si allenano a vicenda. Anche se ancora non lo sa, Angelo Siciliano ha appena inventato la Dynamic Tension che farà di Charles Atlas un mito mondiale del fitness e lo renderà milionario.
Fachiro e modello
Il ragazzo mette a punto un programma di esercizi che chiunque può svolgere a casa propria senza attrezzature particolari, bastano al massimo un paio di sedie. Oggi la definiremmo un mix tra ginnastica isotonica e isometrica. Si allena in continuazione e quando ritorna in spiaggia per i suoi amici è uno shock. Il Charlie di nemmeno 45 kg bullizzato poco tempo prima adesso sembra la statua di Atlante (Atlas in inglese) che sormonta un palazzo lì vicino. Tutti iniziano a chiamarlo così. E col nuovo fisico arriva anche qualche quattrino in più, che non guasta mai.
Il giovane Angelo Siciliano e il suo nuovo fisico
Angelo “Charles Atlas” Siciliano molla la conceria ed inizia ad esibirsi come fachiro in un circo. Guadagna 5 dollari per stare coi muscoli in tensione sdraiato sopra un letto di chiodi mentre dei volontari tra il pubblico camminano su di lui.
Gli introiti aumentano quando comincia a posare per gli artisti. La celebre scultrice Gertrude Vanderbilt Whitney, animatrice dei salotti newyorkesi, lo elegge suo modello preferito, adora la sua capacità di restare immobile anche per 30 minuti di fila.
Ora guadagna anche 100 dollari a settimana.
Angelo in posa nello studio di Pietro Montana
Angelo Siciliano sta per lasciare per sempre spazio a Charles Atlas, ma da modello “assume molte altre identità” nei monumenti. Posa per Pietro Montana e la sua Dawn of Glory dell’Highland Park di Brooklyn, è Alexander Hamilton di fronte al Palazzo del Tesoro, George Washington in Washington Square Park.
Addio Angelo Siciliano, è arrivato Charles Atlas
L’ulteriore svolta arriva nel 1921, quando invia una sua foto per partecipare a un concorso organizzato dalla rivista Physical Culture che eleggerà “L’uomo più bello del mondo”. Trionfa. E l’anno dopo concede il bis aggiudicandosi nel Madison Square Garden gremito da migliaia di persone anche il titolo di “Uomo col fisico più perfetto del mondo”.
Sarà l’ultima edizione del concorso: gli organizzatori decidono che con Charles Atlas in gara per gli avversari non c’è speranza di vincere.
Il premio in palio nel 1922 è la parte da protagonista nel film The Adventures of Tarzan o, in alternativa, mille dollari. Angelo Siciliano opta per il denaro e cambia definitivamente nome. Ora è Charles Atlas anche per l’anagrafe e col premio apre una palestra per insegnare il suo metodo, che propone anche per corrispondenza in società con lo scrittore Frederick Tinley. Gli affari però non ingranano fino al 1929, quando incontra un altro Charles che cambierà definitivamente la sua vita.
Il premio grazie a cui iniziò la carriera imprenditoriale di Charles Atlas
Quel gran genio di Roman
Charles Roman è un giovane pubblicitario fresco di laurea, assunto da poco nell’agenzia che in quel momento si occupa di promuovere le attività dell’italoamericano e Tinley con scarsi risultati. Ed è un genio nel suo campo. Un giorno prende coraggio e si rivolge direttamente ad Atlas. Gli dice che se vuole vendere il suo programma di esercizi deve degli un nome più intrigante e conia Dynamic Tension. Poi si fa raccontare la storia del culturista.
Capisce che la migliore pubblicità per la Dynamic Tension è Atlas stesso. Il ragazzo qualunque che con la sola forza di volontà ha cambiato il suo destino partendo dal nulla; l’emblema di quel sogno americano di cui gli Usa, nel pieno della Grande Depressione, hanno più bisogno che mai per risollevarsi; l’emigrato che si è trasformato in dio greco, sempre in forma e sicuro di sé, bello come un Apollo e le stelle di Hollywood sempre più idolatrate dalle masse.
Se salutismo, forma fisica e culto dell’estetica diventeranno le nuove religioni, Roman ha già in mente chi sarà il loro profeta. Compra le quote di Tinley, lascia l’agenzia e insieme al paisà fonda la Charles Atlas Ltd.
Roman e Atlas nel loro ufficio a New York
Roman, poi, disegna una striscia a fumetti: The insult that made a Man out of Mac, “L’affronto che ha fatto di Mac (alter ego di Angelo, nda) un Uomo”. Farà la storia della pubblicità americana. Sono poche vignette che ripercorrono l’appuntamento di Coney Island andato male anni prima: il bagnino che riempie di sabbia Mac, la ragazza delusa che se ne va, il mingherlino di 45 kg che torna a casa e decide di mettere su muscoli, il ritorno a Coney Island con annessa rivincita sul bullo, le altre ragazze ad acclamare il nuovo «eroe della spiaggia». Sotto i disegni, una foto dell’erculeo Charles Atlas che promette: «In soli sette giorni posso fare di te un vero uomo» e cose simili.
Il fumetto che ha fatto di Atlas un personaggio di culto
Muscoli e cervello
Le pubblicità invadono i giornali sportivi e la stampa per ragazzi. Diventano virali decenni prima che internet ci abitui ad usare questo termine. Dynamic Tension va a ruba, il culto del fisico arriva a oltre un milione di fedeli pronti a spendere 35 dollari per fare come Mac. La Charles Atlas Ltd assume decine di impiegati solo per leggere le loro lettere in cui raccontano i progressi fisici ottenuti grazie alle lezioni. L’azienda è ormai un impero internazionale.
1969, Charles Atlas, alle soglie degli 80 anni, in uno scatto di Diane Arbus
I due Charles si dividono i compiti: Atlas ci mette i muscoli, che continuerà a curare ogni giorno finché campa; Roman il cervello, ideando sempre nuove dimostrazioni di forza del suo socio per accrescerne la fama. Se il primo ha “inventato” il fitness per tutti, il secondo è il padre del marketing applicato.
Atlas in pubblico trascina locomotive per decine di metri, solleva auto e gruppi di ballerine, strappa elenchi telefonici a mani nude. Una volta si esibisce in uno dei penitenziari più famosi d’America. Roman detta il titolo ai cinegiornali: «Un uomo piega una sbarra di ferro a Sing-Sing: i prigionieri esultano, nessuno scappa».
1939, Charles Atlas solleva le Rockettes sul tetto del Radio City Hall
E chi sei, Charles Atlas?
Ormai negli States quando qualcuno compie o dice di aver compiuto qualcosa di eccezionale è facile che gli rispondano: «E chi sei, Charles Atlas?». L’emigrato di Acri che le prendeva dai bagnini adesso partecipa al compleanno del presidente Roosevelt.
Anche i “giornaloni” sono pazzi di lui: Forbes lo mette tra i venti migliori venditori della storia; Life gli dedica un servizio fotografico; il New Yorker lo fa intervistare da Robert Lewis Taylor, un Pulitzer. Lui gli racconta di aver perfino dato dei consigli gratuiti a Gandhi: «L’ho visto tutto pelle e ossa».
Pazienza se il Mahatma, dopo averlo saputo, liquiderà la storia con un sorriso e una battuta sulla tendenza degli americani, «Mr Atlas in particolare», a spararle grosse per farsi belli. Il programma di esercizi funziona lo stesso se hai costanza – ancora di più se il Dna ti dà una mano – ed è quello che conta. E se poi l’ex ragazzino di 45 kg trasformatosi in Atlante non bastasse come testimonial di se stesso, non mancano altri esempi di successo tra i suoi allievi.
Il grande Joe Louis, The Brown Bomber, dà una controllata ai bicipiti di Charles Atlas
Sei fissato col body building? Thomas Manfre è diventato Mister Mondo nel 1953 dando retta a Charles. Sogni di poter stendere con un pugno qualcuno che ti ha maltrattato? Grazie a Dynamic Tension pugili come Max Baer e l’immenso Joe Louissono saliti sul ring per il titolo mondiale dei pesi massimi. Vuoi conquistare la donna dei tuoi sogni? Anche il mito Joe DiMaggio ha forgiato i suoi muscoli seguendo Atlas. E chi ha sposato poi? Marilyn Monroe. Se poi vuoi far paura a qualcuno… beh, dietro la maschera di quel cattivone di Darth Vader nella trilogia originale di Guerre Stellari c’è un altro atlasiano doc come David Prowse.
Culturisti di culto
Angelo “Charles Atlas” Siciliano, insomma, non è stato solo un culturista. È parte della cultura popolare americana(e non solo). La sabbia in faccia, per esempio, è un’espressione entrata nel vocabolario comune. La trovi in We are the Champions dei Queen come nei testi di Roger Waters (Sunset Strip) e Bob Dylan (She’s Your Lover Now).
Gli Who hanno inserito una pubblicità di Charles all’inizio di I can’t reach you, nel disco The Who Sell Out in cui il bassista John Entwistle appare in copertina travestito proprio da Atlas in versione Tarzan.
John Entwistle prende in giro Atlas sul retro di The Who Sell Out
Robin Williams ne L’attimo fuggente si paragona al Mac/Angelo indifeso della spiaggia quando racconta agli studenti i suoi primi approcci alla poesia. Tim Burton lo cita nel suo film d’esordio Pee-wee’s Big Adventure, Terry Gilliam nel Monty Python’s Flying Circus. La parodia del fumetto su Mac è finita in una puntata di Futurama e su National Lampoon: qui un topolino bullizzato in spiaggia da un carnivoro più grosso di lui manda una lettera a Charles Darwin, Isole Galapagos, «e dopo pochi milioni di anni di esercizi evolutivi» si ripresenta con ali e artigli per vendicarsi azzannando il rivale mentre tutte le femmine intorno inneggiano al nuovo «eroe dell’habitat».
Tensione dinamica
L’elenco (parziale) dei riferimenti al culturista calabrese comprende anche i videogame: il Little Mac del classico della giapponese NintendoMike Tyson’s Punch-Out è un chiaro omaggio al mingherlino di 97 libbre (97-pound weakling) del fumetto di Roman. E nella prima versione del cult The Secret of Monkey Island c’era una statua che secondo il protagonista «sembrava la versione deperita di Charles Atlas».
Il principale (e più irriverente) omaggio al bambino arrivato a Ellis Island dalle montagne di Acri, però, resta quello delRocky Horror Picture Show. Nel musical più libertino della storia lo scienziato pazzo alieno Frank’N’Furter dà vita alla sua creatura, l’amante perfetto dal corpo scolpito, intonando la Charles Atlas’ Song/I can make you a man. E se la porta a letto poco dopo, spiegando in I can make you a man (Reprise) che quei muscoli gli fanno venire voglia di prendere per mano Charles Atlas e di “tensione dinamica”.
Nemo propheta in patria
Angelo Siciliano non ha mai ascoltato le due canzoni. Il RHPS è uscito a teatro nel 1973 e al cinema nel ’75, lui è morto di infarto la vigilia di Natale del ’72. Nei successivi 50 anni e mezzo ad Acri pare non gli abbiano ancora dedicato una piazza, una strada, un vicoletto. Nemmeno una targa o una palestra qualsiasi.
Sarà perché non ci è mai tornato. Sarà perché in Calabria dimenticano i campioni olimpici, figuriamoci un culturista. O, forse, aspettano anche lì il 28 maggio 8113.
E anche quest’anno ci si avvicina al 25 aprile, sacrosanto, e alla molto meno sacrosanta fiera dei luoghi comuni. Li hanno preceduti a Cosenza – com’è d’uopo – le commemorazioni per il bombardamento statunitense subìto nella giornata del 12 aprile 1943 e non più grave degli altri alleatissimi bombardamenti su Cosenza – che chissà perché nessuno menziona mai – del 6, del 28 e del 31 agosto, del 3, del 4, del 7 e dell’8 settembre dello stesso anno. Forse quella ricorrenza andrebbe spostata a fine estate, se non stessero tornando tutti dalle vacanze…
Bombe alleate su Cosenza durante la Seconda guerra mondiale
Il 25 aprile parte da molto lontano
Se di 25 aprile bisogna parlare, si deve cominciare da molto lontano e fare di tutta l’erba una fascina, senza fare due fasci e due misure. Possibilmente, senza scadere nella ingenua e nefasta distinzione tra belli e brutti: non soltanto commemorazione della Liberazione (variamente attribuita più o meno candidamente a questo o a quel motivo), ma celebrazione di uno spartiacque tra un intero periodo da chiudere e uno da aprire, possibilmente con piede diverso e non col piede di porco come fu vent’anni prima. E questo periodo da chiudere viene da lontano. Viene dalla Marcia su Roma e da ancor prima.
Paolo Cappello, martire socialista ucciso dai fascisti
Paolo Cappello, martire socialista
Uno dei primi e più crudi episodi fu, a Cosenza, senz’altro quello legato all’aggressione di Paolo Cappello. Pochissimi giorni fa è deceduta, in Romagna, la vedova senza figli dell’ultimo dei testimoni dell’affaire Cappello. La storia si fa con i documenti, quantomeno con quelli, soprattutto con quelli. Ci mancherebbe altro. Vi sono quelli scomparsi, quelli “alleggeriti”, quelli artefatti, falsificati etc. Poi per fortuna vi sono, talvolta, anche quelle fonti dirette che restano sempre un po’ in penombra, ritenute ancillari e di minor conto. Tutto ciò per dire che il testimone in questione, il cosentino Franz Coppola, raccontò in punto di morte – novantaseienne – la sua versione dei fatti, in fondo poco discordante da quella delle fonti ufficiali.
Franz Coppola (1910-2006)
Era il 14 settembre del 1924 quando venne strappato il garofano rosso dal bavero del socialista Francesco Mauro, col parapiglia che ne seguì e le tragiche conseguenze ai danni del socialista Cappello. Cappelli e coppole: Franz Coppola aveva all’epoca quattordici anni e meno di un anno prima aveva perso la mamma di sangue blu, la nobile Regina Monaco – dei Monaco dello Spirito Santo – che era andata in sposa al non meno nobile Gustavo Coppola, di Francesco.
Alcuni agenti provocatori fascisti aizzarono Franz e altri ragazzini del centro storico affinché infastidissero Mauro e ne strappassero il garofano. Accadde all’altezza della Piazza Piccola e forse, dunque, non esattamente per mano del milite fascista Francesco Bartoli, come le fonti riportano.
Un garofano nel destino
Ignari della valenza politica del gesto, i ragazzi cominciarono a rendersene conto ai primi spari. Se avessero parlato, i mandanti si sarebbero accaniti anche contro di loro e contro le loro famiglie, con esiti probabilmente spaventosi.
Una dinamica non molto dissimile fu, due anni dopo, quella dell’attentato bolognese a Mussolini, laddove fu armata la mano innocente del piccolo Anteo Zamboni, poi fermato dal tenente Pasolini (padre di PPP, per la cronaca) e letteralmente linciato per strada da squadristi e arditi, fino alla morte. Come dei piccoli Anteo fortunatamente mancati, i ragazzi cosentini minacciati di ritorsioni riuscirono a ripiegare con la fuga delle proprie famiglie in altre città, se non addirittura all’estero.
E Franz Coppola? Dopo una lunga militanza comunista e partigiana, segnalata a “dovere”, e poi un barcamenarsi in comparse per Cinecittà (lo si veda, in veste di usciere, con Alberto Sordi ne Il Moralista del 1959), tornò a risiedere a Cosenza ormai vecchio. Morì nello stesso Palazzo Monaco in cui era nato e lì lo ricordo tremolante, sveglissimo e brontolone impenitente. Ironia della sorte, una foto lo ritrae bambino, intorno al ’18, proprio con un garofano appuntato sull’abito. Segni del destino.
Tommaso Arnoni e Michele Bianchi
Sarebbe stata la Calabria in cui durante il fascismo avrebbero spiccato, su tutte, due figure: Michele Bianchi e Tommaso Arnoni (qui in un raro filmato cosentino dell’Istituto Luce).
Il sindacalista Michele Bianchi aveva avuto dapprima un maestro di socialismo come Pasquale Rossi. Si sarebbe poi indirizzato verso un profondo radicalismo attuato in modi anche violenti nell’agitazione delle folle contadine del ferrarese quando lì dirigeva la Camera del Lavoro. Sfuggì alla galera, e seguì nel ’19 Mussolini, ponendosi – con l’83,8% dei voti – alla guida del fascismo in Calabria. Qui riuscì a fare realizzare notevoli opere di bonifica e lavori pubblici, non senza i buoni uffici della sua amante, la marchesa De Seta.
Maria Elia de Seta Pignatelli e Michele Bianchi (foto Wikipedia)
La stessa – mentre il marito partecipava alla costituzione dell’MSI – avrebbe in futuro proposto e ottenuto che il pio don Luigi Maletta diventasse tra il ’48 e il ’51 “assistente ecclesiastico” del MIF, il Movimento italiano femminile «Fede e Famiglia». Lo aveva fondato lei assieme al piucchenero Ezio Maria Gray. Fu il primo e dichiaratissimo movimento neofascista organizzato (con sede furbamente extraterritoriale, in Vaticano), diretto a sostenere anzitutto i fascisti carcerati. E chi l’avrebbe detto?
Don Luigi Maletta
Il tempo cancella
Ma torniamo a Bianchi. Quadrumviro nei giorni della Marcia, Segretario Nazionale del Partito Fascista, Ministro dei Lavori Pubblici, morì prematuramente e all’apice della carriera. Camigliatello – da ora Camigliatello Bianchi – gli erigeva un monumento. Cosenza gli dedicava un intero rione, quello più bello. Il tempo, chiamiamolo così, cancellò poi entrambe le denominazioni. Così come sempre a Cosenza sarebbero sparite – qualcuna subito, qualche altra dopo molto tempo – le varie
piazza Italo Balbo (già delle Colonie, poi Eritrea, e soltanto alla fine piazza Amendola),
piazza Littorio (Villa Nuova),
via Arnaldo Mussolini (via A. Arabia),
via Rosa Maltoni Mussolini (via G. Tocci),
viale Benito Mussolini (viale degli Alimena),
piazza Predappio (piazza P. Scura),
via Axum (via C. Marini),
via Cirene (via A. Sensi),
via Bengasi (via R. Caruso),
lungobusento Tripoli (via A. von Platen),
via Massaua (via P. Perugini),
via Asmara (via F. Principe),
via Rodi (via G. Nucci),
via Somalia (via L. Picciotto),
via Neghelli (via E. Loizzo),
via San Sepolcro (via C. Cattaneo).
Un omaggio inatteso
Eppure pare che a Michele Bianchi sia stata reintitolato qualcosa: la piazza dell’acquedotto cosentino Merone, finanziato proprio grazie al suo interessamento e laddove fu commemorato nel 1934.
Una vecchia foto dell’acquedotto Merone con ancora i simboli fascisti sulle mura
Matteo Dalena, nelle vesti di presidente provinciale dell’ANPI fa notare quanto segue: «Per le opere pubbliche realizzate in città e in provincia il fascista Michele Bianchi gode, a mio avviso purtroppo, di buona reputazione in città. Ma è quantomeno inopportuno che prima nel 1993 e poi nel 2009 due amministrazioni comunali, tra l’altro di centro-sinistra, abbiano deliberato e poi dato attuazione all’intitolazione di una piazza a Michele Bianchi al Merone con l’apposizione della relativa targa segnaletica. Bianchi fu tra i fondatori del fascismo, orchestrò la marcia su Roma, e fu tra gli esponenti più radicali, espressione di quello squadrismo intransigente che si macchiò di atroci delitti in tutta Italia: Camere del Lavoro date alle fiamme, giornali bruciati sulla pubblica piazza, arti spezzati, vere e proprie spedizioni punitive. Oggi il suo nome sulla targa segnaletica è coperto da vernice bianca: sono gli stessi cittadini a non gradire evidentemente questa intitolazione. È l’attuale amministrazione comunale a dover decidere se ripristinarla, e dunque rivendicarla, oppure toglierla, intitolandola magari a qualche povera vittima della dittatura fascista».
Uno sì e l’altro no?
Accolgo la segnalazione dell’amico Matteo e però aggiungo: ma che strada si fa per andare all’acquedotto? Via Tommaso Arnoni. E allora perché Arnoni sì e Bianchi no?
In fondo, Bianchi se ne andò tubercolotico dopo soli otto anni di regime. Arnoni, invece – dopo aver bruciato le tappe massoniche passando dal primo al terzo grado in meno di un anno, con l’evidente benestare di Nicola Spada, deus ex machina di quella precisa loggia in cui militava anche Luigi Fera – nel ’24 risultò secondo eletto del ‘listone’ fascista in Calabria, appunto dopo Bianchi. Ottenne 43.000 voti, quasi tutti in provincia di Cosenza. Nella città fu addirittura primo, con 703 preferenze, contro le 608 di Mancini e le 602 di Bianchi.
Tommaso Arnoni e Benito Mussolini
Davanti alle insistenze del duce, la carica podestarile a Cosenza sarebbe passata nelle sue mani e fu perciò che Arnoni si interessò alla costruzione di scuole e ospedali. Tra il ’31 e il ’41 raccolse non a caso onori e riconoscimenti: Grande ufficiale e poi Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia, Cavaliere e poi Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, intanto nominato nel ’39 senatore del Regno (mica bruscolini) poiché già deputato per tempo sufficiente (non per una delle altre venti e più nobili categorie dell’epoca), presentato da Pietro Tacchi Venturi (quel gesuita pochissimo delicato in fatto di leggi razziali), e infine – dal ’39 al ’43 – membro della Commissione dell’Economia Corporativa e dell’Autarchia.
Targa nell’Ospedale dell’Annunziata a Cosenza
L’Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il Fascismo sancì in capo ad Arnoni la decadenza dalla carica di senatore. Tuttavia, con sentenza dell’8 luglio 1948, la Suprema Corte di Cassazione la dichiarò nulla. Pare che «l’analisi dell’attività pubblica, delle opere realizzate sotto la sua supervisione, lo spirito democratico e la testimonianza di esponenti comunisti e socialisti sulla sua condotta irreprensibile», avessero fatto sì che egli venisse reintegrato nella carica di senatore alla quale, «per sensibilità», poi rinunciò.
Epurazioni e ragion di Stato
In realtà gli valsero molto di più le aderenze nella Democrazia Cristiana. All’epoca la chiamavano “continuità”. La stessa che fece sì che il primo Presidente della Repubblica (la Repubblica Italiana, quella democratica, fondata sul lavoro, che ripudia la guerra e vieta la riorganizzazione del partito fascista) sarebbe stato Enrico De Nicola, già presidente della Camera all’inizio del governo Mussolini, già sostenitore della fascistissima Legge Acerbo, già eletto deputato con i liberali nel listone fascista del ‘24, e già nominato senatore nel pieno del 1929… Si sa, tra le epurazioni e la ragion di Stato c’è di mezzo un mare…
E poi che dire di quegli altri relitti cosentini di toponomastica imperialista (sia fascista che prefascista) che a Cosenza ancora sembrerebbero resistere, come via del Tembien, via del Tigrai, via Capoderose, piazza Ogaden, via Macallè, via Adua, o via Daua Parma? O tutti (si fa per dire) o nessuno. E, dopotutto, scempi toponomastici a Cosenza ne sono stati fatti di ben peggiori (vedi centro storico, e non soltanto).
Almeno il 25 aprile, “pensiamoci liberi”…
Il garum o gáron, intingolo dal sapore particolarmente aspro, era ottenuto dalla lavorazione di alcuni pesci e utilizzato come condimento in diverse pietanze.
Lungo le coste del Mediterraneo, soprattutto in Libia e Tunisia, esistevano numerose industrie per la preparazione del garum. In genere erano situate vicino al mare. Avevano ampie vasche per l’essiccazione e la putrefazione, ambienti per lo stoccaggio e depositi per la conservazione. Ateneo ci informa che vicino alle isole di Eracle, presso Nuova Cartagine, si trovava la città chiamata Sgombroaria dal nome dei pesci che si pescavano e con i quali si preparava il garón più pregiato.
Garum: una salsa, tante ricette
Plinio scriveva che il garum si produceva facendo macerare nel sale intestini e scarti di alcune specie ittiche. Il più gustoso si otteneva utilizzando lo sgombro. Alcuni, però, lo preparavano anche con un pesciolino poco pregiato che i romani chiamavano acciuga e i greci aphye. Marziale raccontava che per fare il garum si usava un vaso della capienza di tre o quattro moggi e sui pesci si spargeva aneto, coliandro, finocchio, appio, santoreggia, sclareia, ruta, menta, sisimbro, levistico, puleggio, serpillo, origano, betonica e argemonia. I pesci si coprivano con uno strato di sale alto due dita, per venti giorni si rimuoveva l’impasto con un palo di legno a forma di remo. Il liquido che colava, l’oenogarum, era conservato in recipienti di terracotta.
Garum sul fondo di un’anfora ripescata di fronte all’isola dell’Asinara
Un testo greco ci informa che il gáron (chiamato anche liculme) era preparato con interiora di pesci («massimamente atherine, o piccioli muli, o menule, o licostomi, o altri piccioli pesci»). Dopo averle salate abbondantemente, si tenevano a lungo al sole rivoltandole continuamente. “Invecchiato” dal caldo, l’impasto era posto in un cophino dal quale colava il gáron.
Altri preparavano la salsa mescolando alici (in alternativa lacerti e sgombri) in un vaso in modo da farne un pane e aggiungevano due «sestari italiani» di sale per ogni mozzo di pesce. Lasciavano per una notte il miscuglio nel recipiente, lo esponevano al sole e lo rimuovevano con un mestolo. Una volta fermentato, ad ogni «mozzo» di pesce aggiungevano due «sestari» di vino vecchio.
Nel Geoponica si legge invece che il gáron era prodotto con intestini di piccoli pesci e soprattutto triglie, sardelle e acciughe. Raccolti e messi in vasche, venivano salati ed esposti al sole. Quindi, una volta pronta la salamoia, si filtrava il prezioso liquido con un setaccio e si conservava in appositi contenitori di creta sigillati col coperchio.
Sibari e l’invenzione del garum
Alcuni storici come Lampridio sostenevano che erano stati i corrotti Sibariti a inventare il gáron, salsa schifosa e vomitevole. Ateneo confermava che il liquido, fatto di pesci salati e aceto, era un alimento particolarmente putrido e puzzolente. Per Plinio era una salsa pestilenziale e non poteva essere altrimenti, considerato che era il marcio di materie in decomposizione. Seneca ne condannava l’uso, definendolo preziosa distillazione di pesci corrotti, «salsa melma» che bruciava i ventricoli.
Marziale sosteneva che odore e sapore erano nauseabondi. E, per diffamare un certo Papilo, scriveva che questi, odorando un unguento profumato contenuto in un vasetto, diventava puzzolente come il garum. Apicio, autore del noto ricettario, annotava che la salsa di pesce mandava un «cattivo odore». Tant’è che indicava una serie di accorgimenti per «correggerla» (aggiungere soprattutto miele e gambi di lavanda).
Un cibo per ricchi
Non siamo in grado di stabilire se il garum fosse un intingolo schifoso o se, come sostenevano alcuni, particolarmente dannoso per la salute. Sappiamo, però, che la salsa di pesce era rara e costosa. Isidoro precisava che il liquamen, prodotto da piccoli pesci messi sotto sale, dal gusto simile a quello dell’acqua marina, era utilizzato dal popolino. Il garum, invece, che richiedeva pesci pregiati e una complessa lavorazione, era accessibile solo ai ricchi. Non a caso, Plinio scriveva che, a parte i profumi, era il liquido più costoso del mondo.
Quel che resta dell’antica Sibari
Il prezioso gáron dei nobili sibariti probabilmente affermava la diversità nei confronti delle altre classi sociali. La loro egemonia e superiorità si manifestava anche attraverso mode culturali che apparivano bizzarre e insensate. Il gáron a molti appariva una salsa vomitevole e contraria al buon senso comune, ma per gli aristocratici era l’autorità indiscussa della loro classe a sancire che era gustosa e amabile. Seneca scriveva che il palato dei romani si svegliava soltanto davanti a cibi costosi e li faceva costare cari non un sapore straordinario o una qualche dolcezza del gusto, ma la rarità e la difficoltà di procurarli.
Pitagora contro
La dieta dei nobili sibariti, basata su dismisura e stravaganza, era duramente criticata dai pitagorici che predicavano il limite e la semplicità. Il filosofo di Crotone condannava qualsiasi eccesso e raccomandava di non «passare la misura» nel bere e nel mangiare. Porfirio racconta che il filosofo metteva in guardia dall’eccesso del piacere più di ogni altra cosa, perché nessuna passione portava alla rovina e induceva a peccare come la «smoderatezza dal ventre». Incoraggiava i genitori ad alimentare correttamente i figli e spiegare loro che ordine e misura erano nobili, mentre disordine e smoderatezza, turpi. Pitagora ricordava sempre ai discepoli che la terra offriva ogni ben di dio e li invitava a non contaminare il corpo «con pietanze empie». Giambico ci informa che rimproverava duramente quei ricchi proprietari insaziabili che spingevano i cuochi ad inventare «preparazioni culinarie» ricche di «combinazioni di salse» che rendevano l’animo debole e voluttuoso.
I pitagorici rifiutavano nella loro mensa i cibi elaborati o grossolani. Legavano il buono da mangiare non solo al gusto ma anche alle proprietà degli alimenti per conservare il corpo sano. Ripudiavano soprattutto quelle pietanze che favorivano la fermentazione e compromettevano l’armonia del corpo, quei cibi che generavano flatulenza e provocavano disordine all’organismo. Predicavano che non bisognava eccedere nei desideri e soprattutto quelli per i cibi ricercati, vesti e panni lavorati, abitazioni eleganti e sontuose, arredi preziosi e schiere di servi e schiavi. L’uomo aveva due tipi di piacere: quello che si compiaceva del ventre e i sensi, paragonabile al canto omicida delle Sirene, e quello che si provava per ciò che era nobile, giusto e necessario, assimilabile all’armonia delle Muse.
Garum, la rovina delle poleis
Una vita sobria e sana e una cucina naturale e ordinata avrebbero sconfitto la tryphé (mollezza) che, insieme alla hybris (tracotanza), stavano portando le poleis alla rovina. I pitagorici attaccavano duramente la perversa cucina sibaritica, di cui il gáron era la massima espressione, per richiamarsi a modelli alimentari che avevano da sempre costituito l’identità greca. Plutarco raccontava che i giovani ateniesi condotti al santuario di Agraulo, nella formula di giuramento di fedeltà, alla domanda a quale patria appartenessero, rispondevano: «La terra in cui crescono il grano, la vite e l’olio».
Nell’antichità il Crati era uno dei corsi d’acqua più citati da poeti, filosofi e storici antichi. Aristotele, Ovidio, Strabone, Vitruvio, Agatostene, Licofrone, Teofrasto, Diodoro, Leonico, Isacio, Plinio, Esigono, Sotione, Timeo, Euripide e altri raccontavano delle sue acque prodigiose che davano ogni ben di dio agli uomini.
I miracoli del Crati
Metagene scriveva che il Crati trasportava a valle enormi focacce d’orzo che s’impastavano da sole e il Sibari trascinava carni e razze bollite che si rotolavano nelle acque. Nell’uno scorrevano rivoli di calamaretti arrostiti, pagri e aragoste, nell’altro salsicce e carni tritate. Nell’uno bianchetti con frittelle, nell’altro tranci di pesce che già cotti si lanciavano in boccao finivano davanti ai piedi mentre focacce di farina nuotavano intorno.
In un idillio di Teocrito, Comata, che pascolava le capre di Eumara sibarita, e Lacone, pastore di pecore, dopo un vivace battibecco fitto di accuse, provocazioni e ripicche, si sfidarono in una gara canora. Il primo immaginava che il Crati rosseggiasse di vino e i giunchi mettessero frutti. Il secondo che nel Sibari scorresse del buon miele per la gioia delle fanciulle.
Il Crati nella pianura di Sibari
Da Troia alla Calabria
Nelle Troiane, le prigioniere che formavano il coro alleviavano l’angoscia con la visione di lontani paesi felici e, fra gli altri, vagheggiavano la regione «vulcanica etnea» che stava di fronte a Cartagine e la terra vicina allo Jonio, irrigata dal Crati che imbiondiva le chiome e rendeva con le sue mirabili acque i campi rigogliosi. Ovidio scrive che, in seguito al dolore per la morte di Didone dopo la partenza di Enea da Cartagine, la sorella Anna fuggì dalla Libia. Al termine di un estenuante peregrinare, alla vista delle splendide terre del Crati, ordinò al nocchiere di approdare su quel lido. Già le vele erano ammainate quando una tempesta respinse la nave nell’ampio mare. Licofrone narra che, allorché i Greci sbarcarono alla foce del Crati per rifornirsi d’acqua, le prigioniere troiane, istigate da Setea, bruciarono le imbarcazioni per costringere i guerrieri a fermarsi in quel luogo meraviglioso dove poi sorse la potente Sibari.
La foce del Crati oggi
Crati vs Sibari
Alcuni scrittori sostenevano che le acque del Crati erano piene di frammenti d’oro e di pesci. Per questo motivo era chiamato auriferuset piscolentus. Per altri, come Aristotele, aveva la proprietà di imbiondire i capelli di chi si lavava nelle sue acque, mentre il Sibari atterriva i cavalli che vi si abbeveravano. Ovidio riferiva che anche le acque del Sibari, come quelle del Crati, mutavano i capelli simili all’elettro e all’oro. Euripide confermava che il prodigioso Crati accendeva le bionde chiome e nutriva beneficamente col suo corso divino la regione di gente forte.
Plinio, citando Teofrasto, affermava che Crati e Sibari avessero contrarie virtù. Se il primo conferiva biancore a buoi e pecore che vi si abbeveravano, il secondo generava colore nero. Anche gli uomini risentivano della differenza di effetti provocati dalle acque. Quelli che si dissetavano al Sibari diventavano scuri di carnagione, duri nel carattere e con i capelli ricci. Quelli che si dissetavano al Crati erano chiari, deboli e con la chioma fluente. Strabone assicurava che l’acqua del Sibari rendeva ombrosi i cavalli e i pastori, per proteggerle, tenevano le pecore lontane dal fiume. Il Crati, invece, aveva acque capaci di curare diverse malattie e le persone che vi si bagnavano s’imbiondivano.
Ponte di legno a Sibari (Saint-Non, 1778)
Per Licofrone gli animali feriti guarivano se si lavavano nelle acque del Crati, mentre bevendo quelle del Sibari erano scossi da starnuti, costringendo i pastori a tenere mandrie e greggi distanti dalle sponde. Riguardo al Sibari, Leonico scriveva che bastava spruzzare la sua acqua su una persona per farla diventare casta. Galeno sosteneva che diminuiva gli ardori della carne e rendeva i maschi puri e incapaci di generare.
Vitruvio asseriva che i pastori portavano le pecore che si preparavano a partorire a bere ogni giorno le acque del Crati. Per questo motivo, sebbene fossero bianche, procreavano figli di colore grigio o nero corvino.
Paese che vai, leggenda che trovi
Il viaggiatore Bartels, che arrivò a Cosenza nel 1787, era propenso a pensare che tali leggende non avessero alcun fondamento. Probabilmente, quella del fiume d’oro aveva origine dalla tinta giallognola che le acque assumevano nei pressi della città. Il tempo e la fantasia dei poeti avevano fatto il resto. In realtà, molti racconti mitici sul Crati erano presi in prestito da altre narrazioni.
Veduta di Cosenza (Saint-Non, 1778)
Plinio scriveva che in Estiotide scorrevano le fonti Cerona e Neleo: le pecore che si abbeveravano alla prima diventavano nere, quelle alla seconda bianche, quelle a entrambe chiazzate. In Macedonia, invece, i pastori che desideravano pecore chiare conducevano le mandrie all’Aliacmone e quelli che le volevano scure all’Assio. Sempre Plinio ci informa di fontane e ruscelli che davano memoria o oblio, sensi fini o ottusi, fecondità o sterilità, canto o mutismo, sanità mentale o follia, dolcezza o ferocia, ubriachezza o lucidità, salute o malattie. Fornendo queste notizie, precisava che non si trattava di assurdità ma di fatti veri, poiché il mondo della natura era pieno di cose che suscitavano meraviglia.
Fantomatiche virtù
Nel 1599, descrivendo le proprietà miracolose di Crati e Sibari, il medico Tufarello di Morano raccontava di avere constatato che il primo rendeva le trote color oro. Il secondo, invece, convertiva in pietre le foglie e i rami che cadevano nelle sue acque. Negli stessi anni, alcuni eruditi scrivevano corposi saggi in cui elencavano decine di fiumi le cui acque avevano virtù di cui non si poteva «render ragione alcuna».
In un trattato su venticinque grandi fiumi, Plutarco assicurava che lungo i loro argini crescevano erbe il cui succo proteggeva dalle fiamme, neutralizzava i freddi intensi, faceva cadere in un sonno profondo, impediva alle tigri di uscire dalle grotte e proteggeva la verginità delle donne; piante che mosse dal vento creavano stupende melodie, tenevano lontani fantasmi e divinità malvage, curavano la follia, trasformavano il vino in acqua e sanguinavano se toccate dalle vergini.
Il biografo greco scriveva inoltre che alcune pietre di notte brillavano come il fuoco, suonavano se si avvicinava un ladro, facevano vaneggiare gli uomini, liberavano le persone dalla sfortuna, lenivano le sofferenze di chi si sottoponeva all’evirazione, guarivano gli indemoniati, si muovevano al suono di tromba, divenivano nere o bianche a seconda se si diceva il vero o il falso, evitavano i dolori del parto, saltavano sui campi come locuste, proteggevano dalle bestie feroci e sanguinavano se intaccate dal ferro sacrificale del sacerdote.
Amori proibiti
Anche la storia che il Crati prenda il nome dal pastore omonimo, spinto nelle acque del fiume da un caprone geloso perché l’uomo amoreggiava con la capra più bella del gregge, non era originale. Molti fiumi del mondo antico, come scrive Plutarco, avevano il nome di persone che si erano gettate nelle acque per la vergogna di avere avuto rapporti contrari alla natura.
Un busto di Plutarco
Nel citato saggio, narra di giovani che si erano suicidati nel fiume per avere consumato, senza saperlo, rapporti sessuali con la madre o con la sorella, di padri che avevano amoreggiato con le figlie e madri con i figli, di persone che violentarono fanciulle, di giovani che avevano voluto conservare la purezza, di gente impazzita per avere inveito contro qualche divinità che aveva violentato le loro donne. Altri corsi d’acqua avevano preso il nome da persone affrante dal dolore per la morte di qualche congiunto, per avere ucciso persone innocenti, per avere perso disonorevolmente in battaglia e per avere sacrificato parenti in cambio della vittoria in guerra.
Il Crati che non c’è più
Conosco bene il Crati e la pianura di Sibari. Da ragazzo andavo con mio padre e mio fratello a caccia di beccacce, beccaccini e anitre e a pesca di trote, cavedani e anguille. Ricordo che il fiume aveva rive coperte da una folta vegetazione. In inverno s’ingrossava paurosamente travolgendo ogni cosa e in estate diventava un fiumiciattolo che a fatica riusciva a sfociare nel mare. Quella zona coperta da pantani, canne grigie e alti giunchi di giorno era insopportabile per il caldo torrido e i nugoli di moscerini e al tramonto era avvolta da un inquietante silenzio interrotto solo dal rumore delle acque.
Celebrato da tanti scrittori antichi come il fiume dell’oro e dalle acque irruenti, il Crathis è stato domato e il mondo fantastico che stava intorno a esso è scomparso.
Ponte sul Crati a Cosenza (Rilliet 1852), le donne lavano i panni lungo il fiume
Nessuno immagina di intravedere satiri nascosti tra le canne che insidiano ninfe con capelli color argento o verde sparsi sugli omeri. Nessuno ha paura d’incrociare basilischi neri come la pece, con una corona in testa e fiato e sguardo letali. E nessuno sente più storie di santi che combattono con i diavoli.
Non si vedono più lungo gli argini lupi, lontre, orsi, cervi, gatti selvaggi e grandi mandrie di capre, pecore e buoi portate dai pastori in inverno dalle montagne. Non s’incontrano lungo le rive donne battere i panni sulle pietre, passatori portare sulle spalle viandanti, contadini pescare col tasso, sanpaolari frugare con i bastoni il terreno per catturare vipere, gente scuotere alberi per raccogliere cantaridi e cacciatori inseguire a cavallo tori selvatici.
Cosenza e il Crati
Gli uomini e la Natura
Il Crati, fiume che i contadini chiamavano scorzone poiché strisciando lentamente a forma di esse al momento di aggredire era rapido e velenoso, sembra essere stato finalmente reso innocuo. I terreni coperti un tempo da putride acque infestate dalla malaria oggi sono diventati campi di grano e giardini di agrumi. Sotto Tarsia hanno costruito una diga per l’energia elettrica. Lungo le sponde sono sorti decine di cantieri per il calcestruzzo. Il corso d’acqua è sovrastato da numerosi punti, stade e stradelle costeggiano il fiume e nei pressi della foce c’è un attrezzato porto turistico. Grazie alla sua forza e perseveranza il Crati continua a scorrere zigzagando verso il mare, ora rapido ora tranquillo, ora limpido ora torbido. Ma gli uomini non hanno più il tempo di sentire la voce della sua corrente in piena o il dolce mormorio del suo scorrere.
La diga di Tarsia
Il paesaggio descritto da tanti viaggiatori e studiosi non c’è più, ci sono però tratti e colori che ancora resistono e provocano una stretta al cuore. L’uomo si sente il padrone del mondo e come tale non deve difendersi dalla natura ostile ma è la Natura che deve difendersi dall’uomo ostile.
L’antico paesaggio del Crati sembra essersi estinto per sempre, ma la natura che appare sopraffatta e mortificata si è solo nascosta. Aspetta pazientemente di ritornare e, a volte, mostra la sua rabbia.
Forse fu un equivoco della storia. O forse l’effetto di un limite trasformato in forza artistica.
In ogni caso, Girolamo De Rada resta l’intellettuale italo-albanese di maggiore impatto a livello internazionale. Forse senza volerlo (o senza volerlo del tutto), De Rada è diventato il padre di due patrie, a cui ha fornito un immaginario e una lingua: l’Albania, che nell’Ottocento lottava per l’indipendenza dall’Impero Ottomano, e l’Arbëria, la comunità degli immigrati albanesi, stanziatisi nel Sud Italia a partire dalla metà del Quattrocento.
Ma perché tanta influenza? E, soprattutto, quali sono questi limiti?
Il Kossovo anni ’90
Tre nomi per una terra: i serbi, che l’hanno governata (e dominata) a lungo, la chiamano Kosovo, gli albanesi Kosova e, per non scontentare nessuno, la comunità internazionale la chiama Kossovo, che in tutti i casi significa merlo. Questo fazzoletto di terra, a cavallo tra Albania, Serbia e Montenegro, è tuttora l’oggetto di una contesa fortissima tra gli albanesi, che la sentono loro, e i serbi, che la considerano la culla della loro civiltà.
Il Kossovo è stato il teatro iniziale della crisi che, a partire dagli anni ’90, ha travolto nel sangue la Jugoslavia di Tito ed è stato il territorio in cui si è consumata la fine della Federazione di Jugoslavia di Slobodan Milosevic, sotto le bombe della Nato.
Hashim Thaçi, presidente del Kossovo, in visita a Macchia
La Grande Albania
In quel frangente tragico di fine millennio, quasi tutta la comunità internazionale ha criminalizzato l’etnonazionalismo serbo. Solo in pochi si sono accorti delle aquile bicipiti nere su sfondo rosso dell’Uck (il movimento di liberazione kossovaro), che riflettono tuttora un orientamento ideologico ben preciso: la Grande Albania, che dovrebbe includere, oltre al Kossovo, un pezzo di Montenegro e un po’ di Macedonia.
Quasi nessuno, infine, si è accorto che questa ideologia “panalbanese”, altrettanto pericolosa in quel contesto del “panserbismo”, non era autoctona. Ma era un’elaborazione Made in Italy, promossa da Crispi e poi sposata da Mussolini.
Torniamo a De Rada.
De Rada: il papà della patria
Girolamo De Rada non è mai stato in Albania. Ha trascorso tutta la sua vita tra Makj (cioè Macchia di San Demetrio Corone), dove nasce nel 1814, e Napoli, dove si laurea in legge ed è in prima fila nei moti liberali.
A Niccolò Tommaseo, che lo invita a visitare la madrepatria, risponde: lì non conosco nessuno. Ma, in compenso, nelle classi colte albanesi della seconda metà dell’Ottocento De Rada è un poeta di successo. Già: è il primo poeta a scrivere in albanese e non in greco.
Di più: per scrivere in albanese, De Rada inventa un alfabeto, che ricava da grafemi greci e latini. Basta questo per consegnarlo alla storia come il Dante degli albanesi (al di qua e al di là dell’Adriatico).
Ma questo primato è, appunto, il prodotto di un limite: De Rada, come racconta lo studioso Domenico Antonio Cassiano (Risorgimento in Calabria, Marco Editore, Lungro 2003), impara tardi l’italiano e lo userà sempre male.
Cosa ben diversa per l’arbëresh, all’epoca lingua essenzialmente orale (gli albanesi colti usavano il greco) che gli ispira i versi – e il patriottismo – del suo capolavoro: I canti di Milosao.
Il quale non è solo un poema: è il vagito della letteratura albanese moderna.
De Rada: il figlio del prete
Servono quattro “r” per capire Girolamo De Rada: religione, romanticismo, ribellione e retaggio.
Girolamo De Rada è un esponente tipico della media borghesia rurale. È figlio di Michele, il papàs (ovvero il parroco di rito greco-bizantino) di Macchia. La religiosità greco-bizantina di derivazione ortodossa è un dop dell’identità italo-albanese. Attenzione: solo di quella, perché gli albanesi d’oltre Adriatico sono invece islamizzati da secoli. Ma anche negli arbëreshë l’identità greca subisce smottamenti e tende a occidentalizzarsi. La cultura romantica ha una grande influenza non solo su De Rada, ma su tutti gli intellettuali italo-albanesi della sua generazione. Per quel che riguarda la Calabria, questa cultura filtra alla grande, assieme al pensiero liberale, negli insegnamenti del collegio italo-greco di Sant’Adriano, istituito da papa Clemente XII a San Benedetto Ullano e poi trasferito a San Demetrio Corone. Nel caso di De Rada, una delle massime influenze è Byron, almeno secondo alcuni studiosi (Cassiano e Costantino Marco).
La targa commemorativa sulla casa natia di Girolamo De Rada
Il collegio di San Adriano, inoltre, è un focolaio di aspiranti rivoluzionari. Non è un caso che molti arbëreshë formatisi nel collegio italo-greco siano stati in prima fila in tutti i moti risorgimentali. Per formazione e anagrafe, De Rada appartiene alla stessa generazione di Agesilao Milano, l’attentatore di Ferdinando II, e, soprattutto, di Domenico Mauro, elemento di punta di quel microcosmo intellettuale e futuro esponente politico di primo piano.
Girolamo De Rada, infine, pesca a piene mani nella cultura orale e nelle leggende popolari dell’Arbëria, a cui dà per la prima volta dignità letteraria. Soprattutto, elabora un’immagine mitica della terra delle origini, l’Epiro.
I canti di Milosao
C’è sempre un poema alla base di una cultura. Ciò vale anche per gli albanesi moderni, che hanno ne I canti di Milosao una specie di Iliade 2.0.
Come da tradizione balcanica, I canti sono il classico drammone basato sul binomio amore-morte. Per la precisione, l’amore contrastato di Milosao, il figlio del despota di Scutari, per la figlia di un contadino.
E poi la morte del protagonista, nel frattempo rimasto vedovo, che avviene rigorosamente sul campo di battaglia contro gli Ottomani.
De Rada reazionario?
Dopo aver partecipato a più riprese ai moti liberali (e aver rischiato grosso), De Rada ha una conversione religiosa. O meglio, si riavvicina alla tradizione cristiana appresa tra le pareti di casa.
Il suo è, quindi, un patriottismo sui generis, piuttosto diffidente verso le istituzioni rappresentative e più legato alle tradizioni popolari. Alla Kultur, direbbero oggi quelli davvero bravi. Però è un nazionalismo in linea con il filone romantico (quindi i risorgimenti nazionali) e soprattutto, molto adatto alle culture balcaniche. Che proprio a fine Ottocento guardano all’Italia e alla Germania come modelli.
Francobolli albanesi dedicati a Girolamo De Rada
L’Italia fa scuola
Il caso italiano ha fatto scuola due volte. La prima in maniera indiretta con la Serbia, che ottiene l’indipendenza dall’Impero Ottomano nel 1878 e inizia a considerarsi come una specie di Piemonte, capace di unire gli slavi del Sud.
Non è proprio un caso che il quotidiano di riferimento dei nazionalisti serbi tra il 1911 e il 1915 si chiamasse Pijemont. Per l’Albania, invece, il rapporto è diretto e voluto e si basa su due elementi: le opere di De Rada e il collegio di San Adriano, che diventa una specie di Università per stranieri dei rampolli dell’Albania bene. Il mito della Grande Albania è un’idea poetica che diventa propaganda. E su questa propaganda “grandalbanese” farà leva il fascismo per usare l’Albania in chiave antijugoslava, facendo perno proprio sul problema del Kossovo, come sostiene, tra gli altri, Marco Dogo nel suo Kosovo (Marco Editore, Lungro 1992).
Ovviamente De Rada non ha alcuna responsabilità nell’uso politico, diretto e indiretto, della sua poetica. Né queste pratiche sono solo tipiche del fascismo, visto che tutti gli imperialismi le hanno utilizzate ampiamente.
Il nazionalismo altrui, inventato o adeguatamente stimolato, può far sempre comodo alle potenze imperiali o aspiranti tali. Come l’Italia a cavallo tra le due guerre, che posava a maschio alfa nell’Adriatico, o l’Urss e la Cina, che hanno ispirato – e sfruttato – non poco le rivolte anticoloniali del dopoguerra.
Con l’Albania, c’è da dire, il gioco italiano ha funzionato alla grande. Al punto che nessuno si scandalizzò né mosse un dito quando le nostre truppe occuparono il piccolo Paese balcanico. Anzi, ci fu chi commentò: è l’uomo che rapisce la moglie.
Enver Hoxha
La fine
È il 28 febbraio 1903. Il corteo funebre che accompagna De Rada per l’ultimo viaggio fa sosta vicino alla casa dell’amico di sempre, Domenico Mauro.
Al riguardo, c’è una leggenda popolare, mai confermata (me neppure smentita): proprio in quel momento, un mandorlo del giardino dei Mauro perde i petali, che si depositano sul feretro dell’illustre scomparso, il quale ha terminato la propria esistenza povero e solo, dopo aver rinunciato a una cattedra all’Orientale di Napoli.
Ma l’ispirazione dell’opera deradiana continua. Anche oltre il fascismo. Tra quelli che hanno apprezzato di più l’idea della Grande Albania c’è il dittatore Enver Hoxha, che ci ha giocato alla grande per tutelare il suo stato bunker dalle mire jugoslave.
Infatti, tra le poche aperture dell’Albania di Hoxha all’Occidente c’è l’invio di un busto commemorativo a San Demetrio Corone, nel 1986.
E allora nessuna meraviglia che in tutte le città calabresi ci siano quasi più dediche a De Rada che al mitico Skanderberg.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.
Il ministero fa, il ministero disfa. E il Comune rischia.
È il riassunto di un lungo braccio di ferro tra Mendicino, un paesone di 9mila abitanti alle porte di Cosenza, e la Regione Calabria, in cui sono stati coinvolti due sindaci e quattro amministrazioni regionali. Anzi sei, se si considerano gli “interregni” di
Morale della favola: Mendicino dovrebbe restituire alla Regione circa mezzo milione.
Se lo facesse, rischierebbe di compromettere il bilancio, che non è tragico come quello del capoluogo, ma neppure troppo allegro.
L’alternativa è il ricorso, annunciato dal sindaco e ribadito dal responsabile dell’Ufficio tecnico. L’oggetto del contendere è un progetto di edilizia agevolata.
Antonio Palermo, l’attuale sindaco di Mendicino
Il progetto della discordia
Andiamo con ordine. Tutto inizia in piena era Berlusconi. Per la precisione con il decreto 2295 del 26 marzo 2008, attraverso il quale il Ministero delle Infrastrutture attiva un programma di riqualificazione urbana per alloggi a costo sostenibile.
L’idea è notevole, come tante cose italiane: riqualificare catapecchie semiabbandonate, col concorso dei quattrini pubblici, e trasformarle in alloggi per i cittadini più deboli senza espropriare nessuno.
Secondo il ministero, avrebbe dovuto funzionare così: lo Stato mette una parte dei soldi, la Regione un’altra e il Comune, a cui spetta comunque il ruolo di passacarte e controllore, un’altra ancora. Il proprietario mette il resto.
Chiariamo di più: il pubblico (Stato, Regione e Comune) paga gli oneri di urbanizzazione (allacci fognari, strade da fare o rifare ecc) più parte della ristrutturazione (il 35% del costo di tutti i lavori). Il proprietario dell’immobile ristrutturato, in cambio, si impegna a far gestire il bene per vent’anni al Comune perché lo affitti a chi a bisogno a un canone di assoluto favore. Facile no?
I quattrini per Mendicino
Per quel che riguarda la Calabria, a questo progetto non ha aderito solo Mendicino. Lo prova
Ugo Piscitelli, l’ex sindaco di Mendicino
la somma stanziata da Ministero e Regione dal Pollino allo Stretto: 21 milioni, di cui 12.369.217,31 a carico dello Stato e 8.630.782,69 a carico della Regione.
Mendicino, all’epoca amministrata dallo scomparso Ugo Piscitelli, decide di partecipare. E ottiene l’approvazione di un progetto dal valore di 1.500mila, divisi come segue: 852.900,00 a carico di Stato e Regione, 159.600,00, a carico del Comune, il resto (487.500) a carico dei privati.
Fin qui tutto bene: il Comune invia i documenti alle amministrazioni superiori, anche in tempi accettabili, e si parte.
E, nel 2015, Mendicino incassa 481.574,94 euro per le prime due tranche di finanziamento pubblico.
Iniziano i guai per Mendicino
Troppo bello per essere vero: il Comune procura case a costi stracciati ai cittadini più bisognosi e, allo stesso tempo, recupera zone del suo centro storico (tra l’altro molto bello, come tanti borghi antichi della Calabria) aiutando i proprietari a ridar vita a immobili altrimenti trascurati.
Il “ma” è dietro l’angolo: i privati devono anticipare tutto per recuperare il 35% delle somme. Siccome il Ministero tarda (l’approvazione del progetto è del 2012, ma i quattrini arrivano tre anni dopo), alcuni privati si sfilano. E non sono pochi: cinque su undici che avevano aderito.
A questo punto inizia il braccio di ferro. La Regione chiede chiarimenti, il Comune risponde con documenti e richieste di dilazione.
Un dettaglio del centro storico di Mendicino
Il balletto delle cifre
L’inghippo è questione di numeri. Infatti, la Regione sostiene che, visto che il Comune ha speso troppo in urbanizzazione e troppo poco per gli alloggi, ci sono somme da restituire. L’amministrazione di Mendicino, invece, replica che quelle spese di urbanizzazione sono state comunque necessarie (se si rifà una fognatura questa copre tutta la zona, a prescindere se un proprietario si sia o meno tirato indietro).
La botta
La Regione agisce in autotutela e, lo scorso 5 aprile, ordina al Comune di Mendicino di restituire i 481.574,94 euro già finanziati.
In tutto questo, si sono succeduti due sindaci: lo scomparso Piscitelli e l’attuale Antonio Palermo, rimasto col cerino in mano.
Il duello giudiziario, che si terrà con tutta probabilità al Tar, sta per iniziare. E dal suo risultato dipende la salvezza finanziaria di un’amministrazione che ha essenzialmente una responsabilità: aver aderito a un progetto per avere di più e ora, tra una disfunzione e un’altra, rischia di restare nelle classiche braghe di tela.
Tragedia in Toscana ad Orentano, provincia di Pisa: un paracadutista della Folgore ha perso la vita durante una esercitazione. Si tratta di Gianluca Spina, 49 anni di Cosenza. Il maggiore Spina si era lanciato in caduta libera e il paracadute si sarebbe pure aperto, secondo le prime testimonianze raccolte. Poi, però, qualcosa ancora da chiarire è andato storto. E l’uomo ha sbattuto a terra in modo così violento da non lasciargli scampo.
Per cause quindi ancora tutte da accertare, il paracadutista della Folgore di stanza a Siena, che stava effettuando un lancio di addestramento nella zona adibita alle esercitazioni, collocata nel territorio di Altopascio (in provincia di Lucca) è morto precipitando al suolo di là dalla Bientinese, che è già territorio di Castelfranco di Sotto, in provincia di Pisa. Gianluca Spina è finito all’interno del giardino di una casa di Orentano e inutili e vani si sono rivelati i soccorsi.
Sul posto, oltre alle ambulanze, sono arrivati anche i carabinieri a cui spetterà il compito di capire cosa sia accaduto e il motivo di questa tragedia. Tra le ipotesi, anche quella di unmalore che non gli avrebbe consentito di manovrare negli ultimi metri. Questo spiegherebbe anche il perché Gianluca Spina sia atterrato lontano dal punto previsto dalla esercitazione. Nelle prossime ore, dopo l’autopsia e le indagini di forze dell’ordine e magistratura, si saprà di più sulla morte del paracadutista in Toscana.
Già da diverso tempo l’Università della Calabria figura nelle posizioni di vertice della graduatoria mondiale della computer science e dell’intelligenza artificiale.
Un risultato straordinario. Ancora di più se si pensi, solo per un attimo, che in Calabria per avere un’Università abbiamo dovuto attendere sino al 1970. Giusto per avere un’idea: ben 9 secoli di ritardo rispetto a Bologna (1088), più di 7 secoli rispetto a Napoli (1224), più di 5 secoli rispetto a Catania (1434).
Un’eternità sul piano dello sviluppo sociale ed economico.
Un record inaspettato
La domanda è intrigante: com’è stato possibile scalare in soli 50 anni la classifica mondiale in settori così strutturati e trasversali come la computer science e l’intelligenza artificiale?
A dispetto della sempiterna narrazione della Calabria miserabile e dei soldi pubblici sprecati in opere e attività inutili, l’eccellenza calabrese nella computer science e nell’intelligenza artificiale ha invece una storia bellissima di visione strategica e di creazione di capitale umano in aree fortemente svantaggiate.
Intelligenza artificiale e Computer science: i due primati dell’Unical
Sergio De Julio: un pioniere a via Bernini
Tutto iniziò in un luminoso appartamento di via Bernini 5, a Rende. Lì uno scienziato visionario e certamente un po’ folle, date le condizioni di partenza e l’assoluta inconsistenza del tessuto formativo, il prof Sergio De Julio, decise di creare il Crai (Consorzio per la Ricerca e le Applicazioni in Informatica), insieme a partner istituzionali e privati altrettanto visionari.
Fu uno dei primi casi di virtuosa collaborazione pubblico-privato sostenuta da finanziamento pubblico (il famigerato intervento straordinario) che investì sulla formazione di qualità (oggi si dice d’eccellenza, ma la sostanza non cambia) nell’informatica, che stava mostrando già allora i segni della sua implacabile trasversalità nel futuro delle tecnologie di produzione e in quelle della società nella sua più ampia accezione. De Julio ha avuto il merito di intuire 50 anni fa questa transizione digitale(altro che Pnrr) e di investire sulla formazione di giovani calabresi.
Un miracolo calabrese
Io, che ho avuto la fortuna di frequentare (in verità per pochi mesi, prima di partire per gli Stati Uniti) via Bernini e poi la villetta di via Modigliani, sono stato testimone di questo miracolo calabrese.
Se provo oggi con la mente a ripercorrere quegli ambienti e quel clima di serietà, di rigore scientifico ma anche di straordinaria amicizia e umanità, rivedo in quelle stanze piene di computer tanti giovanissimi ricercatori dalle barbe incolte e dagli occhi pieni di entusiasmo e di lucida follia. Tanti ricercatori esteri.
Chi partiva per la California, chi tornava da Vienna, chi pianificava il suo Phd a Berkley: insomma. era un ambiente esplosivo, assolutamente inedito per una Calabria abituata alle sonnolente domeniche in tv con Pippo Baudo e la guantiera di dolci da portare a casa della fidanzata. Ben altri ritmi e rituali.
L’area di ingegneria dell’Unical
I ragazzini terribili di Sergio De Julio
Erano loro, i ragazzini terribili di Sergio De Julio, quelli che avrebbero segnato indelebilmente il successo mondiale dell’Unical nei settori dell’informatica e dell’intelligenza artificiale.
Provate a leggere i curricula di autorità scientifiche mondiali del calibro di Nicola Leone (attuale rettore dell’Università della Calabria), Manlio Gaudioso, Domenico Saccà, Domenico Talia, Pasquale Rullo, Sergio Greco, Giuseppe Paletta e chiedo scusa ai tantissimi altri che, colpevolmente, dimentico in questa sede.
Troverete orgogliosamente citate, nelle righe dei loro esordi professionali, le esperienze maturate nel Crai insieme al professor De Julio, lucido e folle visionario. Un primato da difendere
Perché quest’amarcord, vi chiederete. Domanda legittima. Perché è bene che le nuove generazioni di studenti che affollano le aule di informatica dell’Unical conoscano e apprezzino il capolavoro che è stato realizzato in Calabria. Che difendano il Dna di questo miracolo calabrese. Perché non ci si abitui al titolo di campioni del mondo e che continuino ad onorare la storia di questi, ormai ex, ragazzini terribili che hanno fatto la differenza in un’unità di tempo assolutamente breve e incredibile.
Nella speranza, magari, di creare un nuovo nucleo di ragazzini terribili pronti a cogliere, affrontare e vincere le sfide del prossimo secolo.
In Calabria, sissignore. Proprio dall’Università della Calabria. La nostra Università.
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