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  • Mario Occhiuto condannato per bancarotta fraudolenta

    Mario Occhiuto condannato per bancarotta fraudolenta

    Mario Occhiuto condannato, in primo grado, a tre anni e sei mesi per bancarotta fraudolenta. Per il senatore di Forza Italia ed ex sindaco di Cosenza anche il divieto di esercizio dell’attività d’impresa per 3 anni e l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Il pubblico ministero aveva chiesto la condanna di Occhiuto a 4 anni.

    La vicenda giudiziaria che ha portato alla condanna di Occhiuto lo vedeva coinvolto nella qualità di ex amministratore della società di progettazione di edifici “Ofin”, fallita nel 2014, della quale il forzista era stato amministratore fino al 2011. A condurre le indagini era stata la Guardia di Finanza. Secondo le accuse della Procura della Repubblica di Cosenza, prima del fallimento dalla “Ofin” sarebbero venute a mancare somme di denaro per un ammontare complessivo di tre milioni di euro.

    In precedenza, per la stessa vicenda, i giudici avevano inflitto per bancarotta fraudolenta alla sorella di Mario e Roberto Occhiuto, Annunziata, una condanna a un anno e quattro mesi. In questo caso, l’imputata aveva optato per il rito abbreviato.

  • Dal fango del Morrone alla serie B del Rende: l’epopea del rugby cosentino

    Dal fango del Morrone alla serie B del Rende: l’epopea del rugby cosentino

    È un gioco strano, in cui sembra che la palla voglia andare dalla parte contraria a quella dove corrono gli uomini. I giocatori si lanciano, carichi di fatica e sudore e lei, la palla – sbagliata perché ovale – passa di mano in mano. Ma resta sempre indietro. Però alla fine giunge dove gli uomini volevano portarla: oltre la linea di meta.
    È il rugby, bellezza.
    Alcune decine di anni fa da queste parti, tutti gli altri davano calci a un pallone o al più tentavano di centrare un canestro. Ma qualcuno si incantava a guardare gruppi di omaccioni che sembrano azzuffarsi allegramente. E decideva che quello sarebbe stato il suo gioco, per sempre.

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    Giovani atleti in azione

    Tonino Mazzuca: il pioniere del rugby a Cosenza

    L’avventura comincia agli inizi degli anni Settanta, quando il compianto Tonino Mazzuca, che studiava a Perugia (dove il rugby era già di casa) porta la passione per il  rugby a Cosenza.
    Attorno a lui, lentamente si aggregano ragazzi, richiamati dalla novità, forse anche dalla diversità di questo sport. Per loro anche un modo per andare contro corrente.
    Tra i primissimi, Enzo Paolini, avvocato con un passato di militante radicale, vicino a Giacomo Mancini e oggi tra le altre cose anima del Premio Sila. Tutte vite, le sue, attraversate senza levarsi la maglietta sporca del fango di chissà quanti pacchetti di mischia. Già: se sei stato in una partita di rugby a Cosenza come altrove, se correndo in avanti hai passato la palla all’indietro, quel modo di vivere te lo porti dentro in ogni cosa.

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    Una mischia spettacolare degli atleti cosentini

    Gli esordi al Morrone del rugby cosentino

    Appena dopo arrivano gli altri, fino a che si forma una squadra in grado di partecipare ai tornei.
    Ma niente è facile in quegli anni: il campo dove ci si allena è il vecchio stadio Morrone, sede del Cosenza nel cuore della città, a via Roma.
    I ragazzi della palla ovale sono paria. I calciatori, che gli cedono il campo solo a tarda sera, li guardano con stupore e una certa ironia.
    Tutto questo significa partite quasi al buio e docce fredde negli spogliatoi. Ma a vent’anni a queste cose si bada poco. Magari le si ricorda dopo, in una serata alla Club house della squadra di rugby, dedicato allo storico pilone Ciccio Macrì, «amico straordinario, atleta dalla grande forza fisica molto temuto dagli avversari», racconta Massimo Ferraro.

    Club house: il luogo della memoria

    La Club house è il luogo dell’incontro e della memoria. È un piccolo angolo d’Inghilterra nel cuore del sud Europa, un pub molto british vicino al Marulla. Alle pareti i trofei, le magliette storiche, le foto con le facce da ragazzi di quelli che oggi sorridono in quel luogo, con i capelli e le barbe ingrigite.
    L’occasione dell’incontro è una partita di calcio, ma ogni scusa va bene per stare assieme e mantenere il fuoco della passione. Oggi sono professionisti, ma il fango dei campetti e il furore delle mischie non si scordano. Anzi, si celebrano tutti i giorni come un impegno quasi cavalleresco.
    Non si vedrà mai un rugbista fare quel che accade normalmente nei campi di calcio, dove i giocatori si rotolano per terra dopo un blando scontro e simulano gravi infortuni, salvo riprendere baldanzosamente la partita poco dopo. È, per dirla senza esagerazioni, una questione d’onore più ancora che di correttezza sportiva.

    Tanti anni dopo: la Club house Macrì piena zeppa di persone (e ricordi)

    Uno sport politico

    Infatti il rugby ha un’etica che va oltre il gesto atletico: vincere è ovviamente importantissimo, ma di più lo sono il bel gesto, il sacrificio per la squadra, la lealtà.
    È una visione quasi “politica” dello sport che va oltre la banalità decoubertiana del “partecipare” ed esalta invece l’essere parte di un gruppo mettendo da parte le tentazioni di protagonismo.
    Perché il rugby è uno sport di sacrificio. Passare la palla indietro significa condividere una strategia, aver fiducia nel gruppo, valorizzare i talenti di tutti, partecipare alla fatica e alla vittoria, senza eroi, ma tutti uguali combattenti.

    Il rugby a Cosenza nel ricordo di Civas

    Nella Club House intanto sul maxischermo prosegue la partita di calcio e dalle cucine arriva Pino Falbo, detto Civas.
    Nessun riferimento al whisky: il suo soprannome è quel che resta dello storpiamento del nome di un famoso giocatore straniero particolarmente bravo nella touche, cioè nella rimessa in campo laterale della palla, pratica cui Pino eccelleva.
    «Ho iniziato a giocare a rugby perché piaceva a mia madre», dice ridendo Pino Civas mentre ha appena finito di friggere una padella omerica di patate ‘mpacchiuse per il gran numero di commensali. Pino sarà anche stato bravo con la palla ovale, ma in cucina non scherza per niente.

    Una partita di rugby anni ’70 in città

    Per amore di mammà

    Certo, è difficile immaginare una madre che si appassiona a un gioco così ruvido. Eppure «a lei piacevano le mischie», cioè quel mucchio di uomini tra i cui piedi a un certo punto sgusciava una palla strana e qualcuno la prendeva per cominciare a correre. Insomma Pino Civas Falbo ha cominciato per amore della mamma a «mettere la testa dove altri non avrebbero osato mettere nemmeno i piedi», come disse il rugbista francese Jean-Pierre Rives per descrivere una mischia. E ha proseguito fino all’88, quando ha giocato la sua ultima partita.

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    Giovanni Guzzo

    Il regalo di don Giacomo al rugby di Cosenza

    Intanto sullo schermo la partita prosegue e la rievocazione pure. Anche di chi intanto se n’è andato, come Giovani Guzzo, in memoria del quale ogni anno si gioca un torneo che porta il suo nome.
    Quelli raccolti attorno al tavolo imbandito sono stati i pionieri della palla ovale a queste latitudini, hanno vissuto gli inizi al Morrone, la sua demolizione e la fatica di cercare un altro campo. Poi la possibilità di usare il San Vito, concesso da Giacomo Mancini grazie alle richieste di Paolini.
    Hanno visto i trionfi e oltre trent’anni dopo la storica promozione del Rugby Rende in serie B, restano i testimoni di un’epopea che ancora prosegue.

    Che Guevara rugbista

    Hasta la meta

    Intanto la partita di calcio finisce, se fosse stata di rugby avrebbe avuto un terzo tempo, quello della convivialità. Attorno alla palla ovale ogni cosa è differente, anche il tifo, mai aggressivo o violento Lo spiega Bernardino Scarpino, detto Stecca, il quale racconta dei tifosi gallesi che al Flaminio, nel corso di una partita tra Italia e Galles, avvolgono nelle bandiere i bambini delle famiglie italiane per proteggerli dal vento. Un altro mondo, oppure un altro modo di vedere il mondo. Ma se la palla con cui giochi è fuori dalla norma e invece di calciarla in avanti la si deve passare all’indietro, un poco eretici devono essere anche i giocatori. Eretici e forse un poco romantici rivoluzionari, come il mediano di mischia Ernesto Guevara.

  • Manna: l’oro bianco della Calabria tutto per il re e gli stranieri

    Manna: l’oro bianco della Calabria tutto per il re e gli stranieri

    La Calabria era una delle maggiori produttrici di manna. Pregiatissima e purissima, simile alla cera e dolce come il miele, la preziosa manna si esportava all’estero dove si vendeva come dolcificante naturale e regolatore intestinale.
    La raccolta della manna incuriosì i viaggiatori stranieri più di ogni altra attività produttiva della regione. Le loro informazioni sull’industria sono ricche di dettagli: i luoghi e il periodo in cui si raccoglieva, chi erano i proprietari degli alberi, quanti erano e quanto guadagnavano gli operai, le tecniche di estrazione e di produzione, i tipi di manna e le sue proprietà in campo medico, come si commercializzava e quanto profitto si ricavava dalla sua vendita.

    La manna migliore in Calabria? Sullo Jonio

    Duret de Tavel, Auguste de Rivarol, Orazio Rilliet, Gerhard vom Rath, Francesco Lenormant nell’Ottocento scrivevano che la manna più pregiata si raccoglieva dall’olmo o frassino selvaggio delle montagne vicino Corigliano e Rossano, al di sotto della zona dei faggi e delle querce. L’albero poteva fruttificare regolarmente all’età di dieci anni e la sua produzione continuava per trenta o quaranta, pur diminuendo molto negli ultimi anni.

    Incisioni su un albero per la raccolta della manna

    Verso la fine di luglio i contadini praticavano con un falcetto tagli orizzontali nel tronco dell’albero profondi circa un centimetro. Quindi sistemavano ai piedi foglie di acero o di fico d’india per raccogliere il succo vischioso che scendeva da ciascuna apertura. Questo succo qualche volta trasudava naturalmente sul tronco e sui rami, senza la necessità di provocarne lo stillicidio intaccandone la corteccia. La manna gocciolava da mezzo dì alla sera, sotto forma di un liquido incolore e trasparente. Si raccoglieva la mattina, quando il fresco della notte l’aveva disseccata dandole consistenza.
    Il succo che restava attaccato sul tronco e sui rami, conservandosi più puro, dava la qualità superiore, chiamato in commercio “manna in lacrime”. La “manna comune”, più ordinaria e meno ricercata, era quella che si raccoglieva sullo strato di foglie steso a terra per accoglierla nella sua caduta.

    Guai a chi la tocca

    I viaggiatori scrivevano che la manna era una delle più pesanti e inique corvée che il suddito doveva al sovrano. E «guai a quel contadino nella cui casa fosse stata trovata una quantità anche minima». Il re dava in appalto la produzione della manna a una Compagnia. Questa vessava i disgraziati campagnoli, «costretti a svolgere la raccolta in condizioni e con una sorveglianza davvero barbare».
    Nel 1786, Johann Heinrich Bartels, illuminista tedesco di Amburgo, annotava sulla produzione della manna nella provincia di Cosenza:

    «Con la manna prodotta in gran quantità in questa zona, specialmente nella parte orientale della provincia, si alimenta, com’è noto, una ricca attività commerciale. Solo il Re può però racoglierla, non i feudatari. Ad essi spetta il compito di provvedere alla raccolta materiale all’epoca prestabilita, nei mesi di luglio e agosto. La raccolta dura sulle cinque settimane. Durante tutto questo tempo tutti coloro che vengono chiamati dal feudatario per raccogliere la manna sono tenuti a mettere da parte i loro affari privati e a lavorare solo per il Re. Nel caso trasgrediscano a questo divieto, sono passibili di pene durissime.

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    Un produttore di manna dei nostri giorni

    Per tutto questo ricevono un risarcimento di 3 carlini al giorno. A dire il feudatario riceve per ogni uomo che impiega 5 carlini, ma ne trattiene due per sé. Per volere del Re la raccolta della manna viene sempre data in appalto. Per evitare furti, il governo è tanto geloso di questo prodotto che per tutto il tempo della raccolta si vedono in giro per i boschi gli sbirri, la cosiddetta Guardia, coi fucili spianati pronti a far fuoco su chiunque si azzardi da quelle parti senza l’accompagnamento di una persona abilitata. I raccoglitori possono mangiare quanta manna vogliono, ma pagano con la vita il minimo furto».

    Le incisioni sugli alberi

    Bartels descriveva poi nei dettagli le tecniche di produzione della manna in Calabria: «Il modo in cui viene prodotta la manna è duplice, in parte richiede la mano dell’uomo, in parte no. Nel primo caso si fanno delle incisioni sul tronco dell’albero dalle quali fuoriesce la manna che viene raccolta in piccoli recipienti. Le incisioni sono orizzontali e si fanno a poca distanza l’una dall’altra, da un pollice e mezzo a due. La lunghezza dell’incisione forma con l’altezza un rettangolo equilatero. L’incisione che si produce con un coltello a forma di piccola falce ha una profondità di mezzo pollice. Ai piedi dell’albero, per raccogliere la manna che fuoriesce dalle incisioni, si sistemano le grandi foglie spinose dei fichi d’India, una pianta che cresce in quantità sui bordi delle strade, e fa da siepe come da noi il roveto, foglie che seccando diventano concave.

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    Fiori di frassino, l’albero che produce tra le migliori qualità di manna

    Per evitare che la manna goccioli per terra, sotto la prima incisione si fa una fessura alla quale si attacca una foglia sui cui gocciola la manna prima di finire nel recipiente a terra. Si comincia ad incidere l’albero dal basso e poi a poco a poco si procede verso l’alto, e, se la stagione lo permette, si fanno delle incisioni anche sui rami grandi. Se all’epoca della raccolta piove o il tempo è mite, la raccolta è meno abbondante del solito in quanto la mancanza di caldo rallenta la fuoriuscita della linfa e la pioggia lo lava via. Il colore rassomiglia alla cera che gocciola da una fiaccola e ha un sapore dolce di miele. Nel secondo caso l’uomo si limita a raccogliere quel che viene fuori col calore del sole».

    La manna in Calabria: falsi miti e segreti

    L’illuminista concludeva soffermandosi sugli aspetti economici della questione, tra convinzioni da sfatare e misteri contabili. «È sbagliato però credere che la manna sgorghi dalle foglie: sgorga, come nel primo caso, dal tronco, e scivola lungo il tronco o, nel caso le foglie ne ostacoli il corso, lungo le stesse foglie. Scorre liquido e puro come acqua e, quando il vento lo raffredda, si fissa in palline che o restano attaccate al tronco o si fermano sulle foglie – da qui la leggenda che sgorgherebbe dalle foglie. Come potete facilmente immaginarvi, gli insetti, le formiche, le lucertole, le api ecc. ne vanno ghiotti. La manna ricavata col solo aiuto del sole è, a detta di tutti, la migliore. È così che la producono gli orni e i frassini, anche se in quantità ridotta.

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    Manna raccolta ai piedi di un albero

    La manna ricavata dall’orno è di colore bianco, simile a cera bianca, quella ricavata dal frassino va più sul giallo. Mi hanno assicurato che questa manna si vende a 7 talleri l’oncia, o a 50 talleri per 6 once. Per me sarebbe stato più importante avere il dato preciso della quantità complessiva della manna raccolta e delle entrate del Re; ma, a quanto pare, in questo paese queste informazioni vengono custodite con uno zelo tale che di fatto se ne preclude l’accesso ad uno straniero Quanto grande sia il profitto lo potete dedurre da questo dato: soltanto a Campana e a Bocchigliero, due piccole località della Calabria Citeriore se ne raccoglierebbero 30.000 libre all’anno».

  • Antonio Serra: il galeotto che inventò l’economia moderna

    Antonio Serra: il galeotto che inventò l’economia moderna

    Un’intuizione geniale, ripescata a partire da inizio millennio, e una vita avvolta nel mistero, su cui si sono accaniti decine di studiosi.
    Di Antonio Serra si sanno pochissime cose. Si sa senz’altro che fu un giurista per formazione, come testimonia il pomposo titolo di doctor in Utroque (cioè nei diritti Civile e Canonico).
    Si sa, inoltre, che Serra fu cosentino, probabilmente di Dipignano. Tuttavia, senza certezze. E si sa che visse a cavallo tra XVI e XVII secolo. Ma da un dettaglio non proprio irrilevante: pubblicò il suo capolavoro, nel 1613, mentre era imprigionato nel carcere della Vicaria a Napoli.
    Per il resto, ci sono solo indizi e illazioni.

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    Il ritratto di Serra e il frontespizio del suo trattato

    L’attualità del pensiero di Antonio Serra

    Partiamo dall’aspetto, forse più importante dell’opera di Antonio Serra: l’eccezionale longevità del suo pensiero, riemerso di prepotenza nel dibattito dello scorso decennio sul Mezzogiorno.
    L’artefice di questa attualizzazione è Vittorio Daniele, professore ordinario di Politica economica presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro.
    Nei suoi saggi, Daniele lancia una tesi che anima tuttora il dibattito sorto in seguito al centocinquantenario dell’Unità nazionale e suscita qualche entusiasmo negli ambienti culturali e politici legati a certo revisionismo antirisorgimentale. Prima dell’Unità, sostiene Daniele assieme a Paolo Malanima, non esisteva un grande divario economico tra Nord e Sud. Le cose cambiano dopo, col decollo industriale del Settentrione.
    In seguito, il prof di Catanzaro approfondisce i motivi di questo divario: il Mezzogiorno è rimasto indietro non per (sola) colpa delle scelte politiche ma (soprattutto) a causa della sua posizione geografica svantaggiosa. In altre parole, e a dispetto di tanta retorica sulla “centralità mediterranea”, il Sud è un territorio marginale che, comunque, non può sviluppare più di tanto. Cosa c’entra Serra in tutto questo?

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    Vittorio Daniele

    In fondo al Mediterraneo

    Daniele riprende di peso un’intuizione forte contenuta nel Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e argento, scritto in carcere dall’economista cosentino.
    L’intuizione di Serra si riferisce allora al Regno di Napoli, che versa in difficoltà economiche.
    Schiacciato in fondo al Mediterraneo e quasi isolato, il Regno, spiega lo studioso, è «un sito pessimo», perché «non bisogna mai passare da quello ad alcuno per andare in altro paese. Sia di qualsivoglia parte del mondo, e voglia andare in qualsivoglia altra, non passerà mai per il Regno se non vi vuol passare per suo gusto e allungare la strada».
    Insomma, a distanza di cinque secoli, il Serra-pensiero tiene banco.

    Antonio Serra pioniere dell’economia politica

    Ovviamente il pensiero di Serra non si limita solo a questa intuizione longeva, che comunque getta le basi della geografia economica.
    In realtà, secondo l’economista cosentino, le caratteristiche che possono generare ricchezza sono sette, divise in due grandi gruppi: cause naturali e cause accidentali. Serra considera come cause “naturali” solo la presenza di miniere.
    Le cause accidentali, a loro volta, si dividono in due sottogruppi: “accidenti proprii” e accidenti “communi”. I primi sono peculiari di ciascun Paese e si riducono a due: la posizione geografica, appunto, e la produzione agricola. I secondi, invece, sono tipici di tutti gli Stati e cambiano solo per quantità e qualità. E sono: la diffusione di manifatture, il volume dei commerci, l’intraprendenza e la qualità dei popoli e, infine, la politica. In pratica, il capitale umano. Secondo Serra, proprio la politica fa la differenza, perché può dare gli impulsi necessari alla vita civile e (quindi) allo sviluppo economico.
    Considerato il periodo storico, si può affermare che il Breve trattato di Serra stia all’economia come Il principe di Machiavelli sta alla politica.

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    Un busto di Antonio Genovesi

    L’economia dopo Antonio Serra

    Di economia, prima di Serra, avevano scritto in tanti, ma nessuno l’aveva mai considerata un ramo a sé dello scibile.
    Un po’ di cronologia può aiutare a capire meglio l’importanza di questo pensatore.
    La nascita dell’Economia politica ha una data convenzionale: il 1776, l’anno in cui Adam Smith licenzia il suo La ricchezza delle nazioni.
    Smith ha, essenzialmente, un precursore: Antonio Genovesi, che ottiene la prima cattedra italiana di Economia a Napoli nel 1754.
    L’intuizione dell’Università di Napoli è preceduta di poco dai re di Prussia, che patrocinarono, ad Halle, una cattedra di Ökonomische, Polizei und Kameralwissenschaft (1727).
    Antonio Serra precede questo processo scientifico e accademico di almeno 114 anni. Se non è pionierismo il suo…

    Vita misteriosa di Antonio Serra

    Nonostante ciò, di Serra si sa davvero poco. Ad esempio, non si sa con certezza dove sia nato e quando.
    Anche la sua origine a Dipignano è un’ipotesi, magari più forte delle altre. Infatti, spiega lo storico Luca Addante, gli unici dati certi sono stati a lungo quelli riportati dal frontespizio del Breve trattato, dove l’economista appare come «dottor Antonio Serra di Cosenza». Il che potrebbe non voler dire molto: tutti i notabili dell’epoca si dichiaravano abitanti dei capoluoghi, sebbene fossero nati fuori dalle mura.
    Questo vale anche per Cosenza e i suoi casali (tra questi, appunto, Dipignano).
    Sulle origini di Serra c’è stata, in realtà, una lunga disputa: secondo alcuni (Gustavo Valente in particolare) l’economista era originario di Celico, secondo altri (è la tesi di Augusto Placanica) di Saracena. Mentre Davide Andreotti lo fa nascere a Cosenza. Ma prende una stecca clamorosa sul presunto anno di nascita: 1501.
    Fosse vera questa data, Serra avrebbe dovuto avere 112 anni di età nel 1613, quando era in galera e scriveva il Breve trattato.
    L’ipotesi di Dipignano è avallata dalla recente scoperta di un documento notarile del 1602, che parla di un Antonio Serra di Dipignano. E sarebbe confermata da un altro documento notarile, stavolta napoletano, del 1591, nel quale si parla di un Antonio Serra, dottore in Utroque e proprietario di un fondo e case a Dipignano.
    In questo caso, i conti tornano: nel 1591 Serra avrebbe avuto almeno vent’anni e nel 1612 aveva fatto quel po’ di carriera sufficiente a ficcarlo nei guai e a ispirargli il Breve trattato.

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    Pedro Fernàndez de Castro y Andrade, viceré di Napoli

    Un capolavoro dalla galera

    Con un certo amore per la retorica rivoluzionaria, Francesco Saverio Salfi provò a legare la vicenda umana di Antonio Serra a quella di Campanella, che negli stessi anni era finito nei guai per aver ideato un tentativo di “rivoluzione” in Calabria.
    In pratica, Serra sarebbe stato tra i congiurati e sarebbe finito in galera per questo.
    Ancora una volta, i documenti smentiscono l’ipotesi. Serra finì alla Vicaria, come ha ricostruito tra gli altri Luigi Amabile, perché sospettato di falso monetario. In altre parole, gli avrebbero trovato dei pezzi d’oro, probabilmente grezzo. Per questo reato, per cui all’epoca si poteva finire al patibolo, il carcere era il minimo.
    Serra dedicò il Breve trattato a Pedro Fernàndez de Castro y Andrade, viceré di Napoli, probabilmente per cacciarsi dai guai. Ma inutilmente. Riuscì, invece, a incontrare Pedro Téllez-Giron, il successore di Fernàndez nel 1617. Ma l’incontro si risolse in chiacchiere e Serra tornò in galera. Considerando l’età presumibile (forse sessant’anni) e la durata media della vita dell’epoca (poco sopra i cinquant’anni), tutto lascia pensare che l’economista sia morto alla Vicaria, anche se non si sa quando.

    L’economista Erik Reinert

    Antonio Serra: sfigato in vita, eroe da morto

    È una regola tutta italiana, ancor più meridionale: riconoscere la grandezza di qualcuno solo dopo la vita. Infatti, perché si prendesse sul serio Antonio Serra è dovuto passare un secolo dalla morte presunta.
    Oltre a Salfi, si accorse di Serra l’abate Ferdinando Galiani, altro grande pioniere dell’economia, che lo citò nel suo Della Moneta (1751),
    Poi altro silenzio, interrotto da Benedetto Croce, che non lesina elogi all’economista cosentino.
    Antonio Serra deve la sua seconda giovinezza a un big dell’economia contemporanea: il norvegese Erik Reinert, che lo cita come massima fonte d’ispirazione assieme al piemontese Giovanni Botero, coevo e forse coetaneo dello studioso calabrese.
    Questa rinascita del pensiero “serriano” ha un valore particolare, perché avviene all’interno di un filone di pensiero che si pone come alternativo all’attuale liberismo.
    Non è davvero poco, per un calabrese che ebbe il colpo di genio in galera.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Le dee di Gallo in trionfo a Cannes

    Le dee di Gallo in trionfo a Cannes

    Un pezzettino di Calabria vola al Cannes World Film Festival. Il regista cosentino Francesco Gallo ha trionfato nella categoria “Miglior film sportivo” con il documentario Le dee di Olimpia, un lavoro dedicato alle lotte di emancipazione femminile nei Giochi olimpici.

    Incuriosita dal tema, non potevo esimermi dal cercare Francesco per conoscere più a fondo la sua opera. Prima, però, avevo bisogno di conoscere meglio l’artista che si cela dietro il documentario. L’intervista, quindi, parte con una domanda banale: chi è Francesco Gallo?

    «Io sono uno storico dello sport, membro della SISS (Società italiana di Storia dello Sport). Ho studiato Cinema a Cinecittà e poi Storia all’università. E così cerco di unire tre passioni: la storia, lo sport ed il cinema. Tutti i miei documentari sono sportivi, ma sono un pretesto per far avvicinare le persone alla storia in maniera più esaltante. Le storie di sport esaltano gli spettatori e alcuni argomenti passano più facilmente al cuore e alla mente delle persone se c’è lo sport di mezzo.
    Poi c’è la passione della scrittura, perché sono principalmente uno sceneggiatore. Scrivo tutti i testi dei documentari e nella struttura narrativa che utilizzo non ci sono interviste perché racconto per lo più storie internazionali. Quello che mi interessa è raccontare le storie degli ultimi, le storie di chi ha bisogno di luce sulle proprie lotte che spesso sono dimenticate».

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    Francesco Gallo

    Prima di realizzare questo documentario, hai scritto un libro dedicato alle battaglie delle donne nella storia dei Giochi. Come ti sei avvicinato a questo tema?

    «L’idea del libro era uscita in occasione delle Olimpiadi del 2016 di Rio de Janeiro. Ero al telefono con l’editrice e le dissi “se pensi a tutte le storie delle donne, ci viene fuori un libro a parte”. Lei mi fa: “Ecco, scrivi quello”. È nata così, quasi come una sfida. Ho dovuto iniziare a studiare da capo e andare a cercare solo fonti che riguardassero le atlete. In realtà, è quasi più corposo il documentario del libro».

    Ma esattamente cosa racconta Le dee di Olimpia?

    «Inizia alla fine dell’Ottocento con le prime Olimpiadi di Atene, dove le donne non ci sono. Proprio in quegli anni c’erano le lotte per ottenere il diritto al voto e queste lotte si sono riversate anche nei giochi. Le donne hanno detto: “non solo vogliamo votare, vogliamo anche gareggiare”. Non tutte le donne potevano accedere allo sport perché era vietato. In epoca vittoriana c’erano degli studi, ai tempi considerati scientifici, che dicevano che le donne non potevano andare in bicicletta perché rischiavano infezioni agli organi genitali, potevano addirittura approfittarne per onanismo e quindi non bisognava dare alle donne le biciclette. Da una parte, quindi, la scienza diceva assolutamente no e dall’altra parte, a livello sociale e culturale, per alcune donne di ricche famiglie era sconveniente. Ma erano proprio, in maniera ambivalente, le donne di ricche famiglie a potersi permettere di essere un po’ più ribelli e di accedere ad alcuni sport. La vela, ad esempio, o l’equitazione, il golf e il tennis sono sport di alta estrazione sociale, soprattutto all’inizio del Novecento e sono queste donne a essere le prime ad andare alle Olimpiadi».

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    Charlotte Cooper, oro olimpico a Parigi nel 1900

    E poi cosa succede?

    «Da qui arriviamo agli anni Venti. C’è questo grande buco che è la Prima guerra mondiale in cui alle donne hanno detto “uscite dalle case o dalle piste di atletica e andate a sostituire gli uomini, che sono al fronte, nelle fabbriche o nei campi”. Sembrava uno stop ma, invece, è stato un grande salto in avanti: gli uomini, tornati dal fronte, si sono trovati queste donne con le gonne più corte, perché dovevano stare nelle fabbriche e serviva facilità di movimento, voglia di libertà, che ovviamente non volevano perdere. Proprio nel decennio tra gli anni Venti e gli anni Trenta c’è stato un grande salto simboleggiato dalla nascita delle Olimpiadi femminili. La dirigente francese Alice Milliat, contro le parole di Pierre de Coubertin che continuava a sostenere che le donne non devono assolutamente partecipare ai Giochi, dice di organizzare delle Olimpiadi per sole donne. Non solo c’erano migliaia e migliaia di spettatori, ma davano a tantissime donne la possibilità di partecipare».

    Numeri paragonabili a quelli degli uomini?

    «Nel documentario, anno dopo anno, ho evidenziato il numero di atleti uomini e di atlete donne. È andato via via aumentando fino a Tokyo 20-21, in cui siamo più o meno in parità.
    Nel periodo in cui il fascismo e il nazismo volevano che le donne tornassero ad essere angeli del focolare, proprio l’Italia con Ondina Valla vince la prima medaglia d’oro. Poi abbiamo questo salto della Seconda guerra mondiale, perché la guerra è drammatica ma molto spesso è una molla per l’avanzamento sociale e culturale».

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    Trebisonda “Ondina” Valla (seconda atleta da sinistra) e le ragazze della squadra italiana alle Olimpiadi del ’36

    Cosa cambia per le donne?

    «Le donne, dopo aver dato il proprio fondamentale contributo nella Resistenza europea, negli anni ’50 iniziano una salita infinita, che culmina con le istanze politiche e sociali degli anni ’60. Vediamo le donne che iniziano a vincere sempre di più nelle piste, ma anche nelle piazze con le lotte per l’aborto, per l’utilizzo della pillola, o della minigonna perché nel documentario c’è anche il costume. Mentre dall’America ancora tentavano di imporre modelli come la Barbie o le pin-up, l’Europa era più avanti. Era scoppiata anche la Guerra fredda e il modello occidentale si contrappone a quello sovietico».

    E questo cosa comportava per le sportive?

    «Nel ’52 Stalin dice “dobbiamo affrontare questa sfida anche in pista” e le donne sovietiche, quasi più degli uomini, accumulano medaglie edizione dopo edizione. Finché gli americani si chiedono perché le comuniste trionfino così tanto e come possa la piccola Germania dell’Est vincere quasi quanto gli Stati Uniti. Si dopano? Effettivamente, purtroppo, la risposta spesso era sì. Ed era un doping di Stato. Per questioni di propaganda politica dovevano per forza vincere, il numero di medaglie serviva a dimostrare che il modello sovietico era, anche dal punto di vista sportivo, superiore a quello dell’Occidente. Ragazze e ragazzine, per la maggior parte minorenni, erano costrette ad assumere anabolizzanti».

    Con quali conseguenze?

    «Molte di loro, una volta cresciute, hanno deciso di cambiare sesso, stavano praticamente diventando a tutti gli effetti degli uomini. C’è il famoso caso di Irina e Tamara Press, che la stampa americana sarcasticamente chiamava i fratelli Press perché sembravano davvero due uomini per la stazza e la muscolatura. Poi abbiamo il crollo del muro di Berlino, che cambia tutto.
    Da allora c’è stata un’evoluzione tuttora in corso perché, malgrado ci sia una parità numerica in pista adesso la sfida è fuori dagli stadi. È nei palazzi del potere e della politica sportiva dove si decidono le leggi e i regolamenti sportivi».

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    Tamara e Irina Press

    Quali sono le sfide dello sport oggi? E in che modo il genere e la razza interagiscono e diventano un limite per le atlete?

    «Il discorso che ho fatto finora vale più che altro per noi, per l’Occidente. Se andiamo nei cosiddetti paesi del Terzo mondo, l’accesso allo sport è paragonabile a cento anni fa. Questo avviene per questioni sociali, culturali e religiose. L’Arabia saudita, per esempio, o la Siria e l’Iran non permettono alle donne di gareggiare perché le divise sportive non aderiscono ai precetti islamici. Ci sono stati casi, come l’alzatrice di pesi Amna Al Haddad, che ha deciso di gareggiare comunque col velo e ovviamente non è facile. Oggi, come abbiamo visto nell’edizione 20-21, le donne hanno capito che possono usare il palcoscenico olimpico per varie forme di protesta, come quella sull’abbigliamento».

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    Amna Al Haddad

    Qualche esempio?

    «Le ginnaste tedesche stanno protestando contro le tutine striminzite che sessualizzano il corpo delle atlete e a Tokyo hanno indossato delle tute che non lasciavano nulla da vedere. Anche nel beach volley ci sono ancora questi pantaloncini davvero minuscoli. Mi vengono in mente le tenniste che devono, per l’etichetta ottocentesca di Wimbledon, giocare vestendo sempre di bianco, così come gli uomini. Ma le tenniste dicono “come facciamo durante il ciclo? È una cosa che ci mette a disagio e condiziona anche le nostre partite”».

    Poi c’è la questione delle violenze, che ha sollevato un polverone anche in Italia negli ultimi tempi…

    «Molte atlete stanno protestando perché sono spesso vittime di abusi piscologici e sessuali o talvolta entrambi. Queste ragazze hanno pressioni psicologiche talvolta ingestibili e persino delle professioniste, come Naomi Osaka nel tennis o la ginnasta Simone Biles, hanno deciso di ritirarsi dalle ultime Olimpiadi perché non riuscivano a gestire questo carico di pressioni, che sono sia sportive che mediatiche. Poi non possiamo parlare delle Olimpiadi e della condizione delle donne in vista di Parigi 2024, senza pensare alla situazione in corso in Ucraina. La guerra sarà un elemento fondamentale che sposterà gli equilibri.

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    La ginnasta Simone Biles con uno dei suoi quattro ori olimpici

    Esiste davvero una correlazione così forte tra politica e sport?

    «Questo accade ed è sempre accaduto, fin dalla nascita delle Olimpiadi. Nell’antica Grecia chi vinceva le Olimpiadi diventava cittadino di Atene. Molto spesso si gareggiava sia per la gloria sportiva che per quella sociale. Perché essere cittadino ateniese era il massimo del vanto che si poteva avere nell’antichità»

    Torniamo al presente e affrontiamo la polemica sulle atlete trans nelle gare sportive…

    «Cambiano le modalità, ma il cuore della questione rimane sempre lo stesso. Da cento anni c’è il problema del test sessuale nelle Olimpiadi. Lo racconto anche nel documentario: tantissime donne travestite da uomini, o viceversa, come il caso tedesco di Heinrich Ratjen che si travestì da donna e gareggiò col nome di Dora Ratjen. Poi c’è stato il caso, come dicevo prima, di medicinali utilizzati per stravolgere le donne e farle diventare più forti e muscolose. Dalla fine degli anni Sessanta è stato introdotto il sex test per non far gareggiare chi si professava di un sesso invece di un altro. In questo caso le donne trans, che volessero partecipare ai giochi, dovrebbero avere la possibilità di partecipare ai giochi nel sesso in cui più si sentono di appartenere. Poi c’è tutta la storia dei regolamenti: un uomo che gareggia contro una donna, o viceversa, può essere più o meno svantaggiato ma, quando c’è una scelta personale, si deve dare alle persone la libertà di scegliere. È una scelta che va oltre la possibilità di vincere più medaglie».

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    Heinrich/Dora Ratjen

    Non ci addentriamo oltre nei contenuti del documentario di Gallo e lasciamo a chi legge la possibilità di godersi la visione di Le dee di Olimpia.
    Con una consapevolezza in più: anche lo sport è politica e lotta.

    Francesca Pignataro

  • Cotton club studio, Moraca tra chitarre e Calvino

    Cotton club studio, Moraca tra chitarre e Calvino

    Se l’equilibrio è un mistero, come recita una sua canzone, figuriamoci tutto il resto. Un caffè veloce, quelle sigarette masticate tra i denti più che fumate. Passo felpato e veloce, come si addice a un’ala sinistra, oggi la chiamerebbero punta esterna. Un tempo giocava pure a calcio. Non male, dicono. Dice. Proprio in quel ruolo.

    Daniele Moraca è un personaggio da Memorie dal sottosuolo, come quelle stanze inabissate sotto l’ingresso dell’autostrada che ha ribattezzato Cotton Club studio. Vai a sapere perché!
    Gli anni passano, i capelli restano lunghi. Non come quelli di Amedeo Minghi che svaniscono tra i decenni. Una metamorfosi continua fino a somigliare sempre di più allo scrittore e alpino Mario Rigoni Stern. Cercate su google una sua foto se non ci credete.

    https://www.mymovies.it/persone/francesco-maselli/16023/
    Un particolare del Cotton club studio di Daniele Moraca

    Cotton club Moraca

    La tana di Daniele Moraca è il Cotton Club studio. Un luogo dell’anima prima di essere un perimetro di muri e oggetti. Chitarre e Dylan Dog, vinili e foto cinefile, libri di Calvino e Kamasutra. Divanetti ormai sprofondati sotto il peso di chissà cosa. Una pianola confinata sulla sinistra fa molto anni 80. Ogni tanto si siede e tira fuori qualche nota, quando si rompe le scatole di pizzicare corde.
    «Cotton Club studio nasce nei primi anni Novanta. Eravamo nei magazzini a suonare. Si avvertiva già la discesa inesorabile di una città, di un Paese. Ho trovato la mia casa nella casa, oppure la casa sull’albero, fai tu».

    Cinema e cantautori

    «Ho amato il cinema in bianco e nero. Il Neorealismo in primis. E poi Citto Maselli, scomparso da poco. Forse era il 2000, organizzai una rassegna su di lui a Lamezia. Venne con la moglie, fu una settimana incredibile. Un combattente, uno che non si è piegato alle mode della settima arte».

    Ma esiste una identità musicale di Moraca? «Esce fuori – dice – dalle mie canzoni, da quelle degli altri che canto. Le contaminazioni fanno parte di ciascuno di noi. Tenco, Indrigo, Dalla, De André. Quanta storia della musica c’è in personaggi del genere».

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    Da sinistra Sasà Calabrese, Dario De Luca e Daniele Moraca al Cotton Club studio

    Quei bravi ragazzi

    Da tre anni non ci siamo fermati. È una cosa molto bella. Con Sasà Calabrese e Dario De Luca siamo impegnati in questo ciclo di concerti dedicati proprio a Lucio Dalla e Fabrizio De André che non smette di appassionare il pubblico in tutta Italia.

    Daniele Moraca inizia a suonare a 9 anni grazie a suo fratello Paolo in quel di Colosimi, piccolo paese montano. Come da copione gli ha «messo in mano una chitarra, una Eco». Sale sui palchi delle Feste dell’Unità, quando ancora avevano un senso e una religione laica da difendere.
    Gli esordi a 13 anni. La prima canzone in assoluto è Quell’uomo. Il titolo segna già il cammino di un musicista che guarda dentro e si guarda dentro.

    Un pugno nello stomaco

    Sarajevo è il classico pugno nello stomaco per Moraca. «Ogni tanto spunta quel dolore. Sono stato in Bosnia per un concerto patrocinato dall’Unione Europea. Non dimenticherò mai tutte quelle tombe e una città che portava ancora i segni della polveriera balcanica».
    L’esperienza nelle Isole Faroe non è stata solo una tappa musicale. Si è trattato di un «viaggio di studio e ricerca quando collaboravo con Cesare Pitto, professore e antropologo dell’Università della Calabria». Oggi Moraca insegna nelle scuole superiori. Sempre con un chitarra in spalla, immancabile anche in classe.

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    Daniele Moraca sul palco del Festival delle Serre a Cerisano

    Una canzone per te

    Si racconta attraverso una canzone: «Non basterebbero tutte (ride ndr). Ma ne scelgo una. Si chiama Un disegno perfetto, esplora la bellezza dell’infanzia e parla del figlio che non ho mai avuto e mi sarebbe piaciuto abbracciare». Questo abbraccio è per «tutti i bambini», compresi quelli che hanno «perso la vita a pochi metri dalla spiaggia di Cutro».
    E l’amore? Quello vissuto, perso, svanito? «Ho cantato questo sentimento in tante liriche. Ma adesso mi fermo al capolinea di una canzone su tutte: Ho semplicemente rimosso».

    Chi e cosa ha rimosso non è dato saperlo. Resta tra i tanti misteri nascosti sotto la polvere di Cotton club studio.

  • Democrazia sociale: quando Cosenza voleva cambiare il mondo

    Democrazia sociale: quando Cosenza voleva cambiare il mondo

    Nel 1865, alcuni cosentini fondarono un’associazione clandestina per promuovere una rivoluzione sociale. La maggior parte degli aderenti cinque anni prima aveva partecipato alla spedizione garibaldina e altri avevano militato nelle associazioni segrete mazziniane come la Falange Sacra. In un dettagliato documento redatto in una riunione tenutasi a Cosenza i rivoluzionari elencarono i punti fondamentali dell’organizzazione:

    • abolizione del «diritto divino, diplomatico e storico»;
    • rinunzia a ogni idea di «preponderanza nazionale»;
    • federazione dei comuni e delle nazioni;
    • abolizione della proprietà e dei privilegi;
    • eguaglianza politica dei cittadini;
    • emancipazione del lavoro dal capitale;
    • la terra ai contadini e i mezzi di produzione agli operai.

    Per il suo programma insurrezionale la “Democrazia Sociale” operò nella più rigorosa clandestinità. Gli aderenti comunicavano con nomi di battaglia e si organizzavano in luogotenenze e sub-luogotenenze. L’obiettivo della società era la rivoluzione socialista. Ma per realizzarla bisognava distruggere il prestigio di Mazzini e Garibaldi che, pur avendo fatto tremare i tiranni, avevano portato il popolo su vie sbagliate. Certo, erano due uomini «immortali» che si erano battuti con grande coraggio. Ma il primo vagheggiava un programma che non affrontava i problemi sociali. E il secondo aveva sconfitto il re borbonico per consegnare il paese a un re sabaudo.

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    Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano

    La rivoluzione a Cosenza, Mazzini e Garibaldi

    In un documento spedito agli adepti dell’associazione si legge a questo proposito:
    «Fratello! La nostra missione è ridurre l’uomo né suoi diritti naturali presso la umanità di Libertà ed uguaglianza, prima libertà, e di conseguenza l’uguaglianza. Per ottenere questo fine sacrosanto i mezzi sono i capi del programma, perché il primo assalto alla uguaglianza fu portato dalla proprietà, il primo assalto alla libertà fu portato dalle società politiche e dai Governi. I soli appoggi della proprietà e de’ Governi sono le leggi religiose e civili. Dunque, per ristabilire l’uomo né suoi diritti primitivi di Uguaglianza e di libertà, è necessario incominciare dal distruggere ogni religione ed ogni società civile, e terminare coll’abolizione della proprietà. Il latore se le conviene, sarà il legionario nostro anello.

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    Marsiglia, 1833: il primo incontro tra Mazzini e Garibaldi

    Dovrà francamente ed energicamente Ella studiarsi come distruggere il prestigio de’ due nomi immortali di Mazzini e Garibaldi, perché l’uno prese fin dal primo momento falso indirizzo, e con tutto ciò fece impallidire e tremare il foglio e il cuore de’ tiranni, ma non ristabilì l’uomo né suoi bisogni primi naturali e né secondi sociali, secondo bell’anima, ma moncamente servì il Paese ma collocò il tiranno in sulla sedia, ed il prestigio suo allucinò anche la mente nostra dal braccio che donava al tiranno. Ora il compito dè nostri guai è spento, ed incomincia l’era della luce, e noi faticando su di un difficile apostolato dobbiamo ridurre tutto il falso al vero, e combattere fino a morire l’ignoranza e la superstizione».

    Morte alla monarchia e a chi la difende

    E in un altro documento approvato in un convegno della Luogotenenza di Cosenza e le subluogotenenze di Rogliano e Paola si legge:
    «La Luogotenenza del Cosentino, e sue Subluogotenenze fan pieno plauso al programma della Democrazia Sociale e fan loro bensì la circolare di Cotesto C.C. che ha per iscopo di combattere il falso indirizzo di Mazzini. È indubitato che questo grande uomo ci fa la guerra: però più che col fatto col nome (almeno per quanto si può giudicare da noi ed in questa continenza Calabra Cosenza) e questo nome ci farà vieppiù la guerra che credesi di accordo con Garibaldi, ed il popolo ricco di affetti, e di devozione e pur di ingegno più che di intelligenza atteso che manca lo svolgimento intellettivo e di associazione al solo nome di Garibaldi cede ad ogni gloria ed anche alla propria salute: ci è che anzi tutto bisogno inerente alla nostra costituzione facessimo conoscere ai fratelli della nostra residenza centrale, che stante Mazzini ci ostacola colle idee e coi falsi indirizzi. Garibaldi involontariamente ci ostacola col suo prestigio che porta seco, entusiasmo perpetua anche alle colte intelligenze come colui che in faccia a Mazzini che rappresenta l’idea della sfera del vuoto, desso rappresenta il moto nel campo del fatto, perciò il nostro voto è di conciliare per tutta la nostra continenza i Garibaldini all’opera nostra. Ed è certo che Garibaldi ci può essere forza e luce, senza intelligenza, senza mente socialista un’ente della rivoluzione che serve col suo braccio a rendere per altro tempo esistente la monarchia in Italia, ma il suo fine è quello di liberare il popolo, ma che per altro non fa creare una rivoluzione che compia il bene di questo immiserevole popolo, anzi la conseguenza del fatto suo lo agghiaccia dippiù.

    Ma è ora terribile fatale ora, che ci annunzia che dinnanzi che ci scorre, che ci passa come fulmine un atomo di momento che tutti noi dovremmo metterci alla videtta di affermare per la causa del popolo e non farlo scorrere innanzi indolentemente per abbracciarlo quella stregona monarchia che non ci farebbe rendere il capo a quel suo vecchio infame crudo che ha la testa cornuta che i privilegiati adorano, e fanno rispettare col sacrilego nome di Diritto Divino. Non bisogna in questo momento solenne di libera associazione radergli i peli per poi spuntarli più duri e feroci. Si distrugga una volta questa idra con miliardi di teste. Bisogna che ci cooperiamo tutti che questo momento fatale destinato dai tiranni a pro loro per l’ignoranza del popolo tanto dia ora per opera della luce nostra, latte, a quella sopirata bimba, libertà.

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    Casa Savoia, la famiglia reale riunita all’epoca di Vittorio Emanuele II

    Morte alla monarchia, sterminio a chi la difenda, l’unico grido sia questo, ed in tutti i punti dello spazio la voce del fratello nostro predichi, che i diritti essenziali che l’uomo ricevette dalla natura, nella sua perfezione originaria e primitiva sono l’uguaglianza e la libertà, che il primo assalto a questa uguaglianza fu portato dalla proprietà, ed il primo assalto alla libertà fu portato dalle società politiche e dà governi, i soli appoggi della proprietà e dè governi sono le leggi religiose e civili, che per ristabilire l’uomo né suoi diritti è necessario incominciare dal distruggere ogni religione ed ogni società civile e terminare coll’abolizione della proprietà.

    Siffatta formula la nostra società deve predicerla fino ad avere l’audacia di farla inserire fra gli atti alla Regia dè tiranni. Fratelli prendete in considerazione che questa terra del cosentino, misera di mezzi come è, ma ricca di individui forti di spirito e di audacia è tutta pronta a sostenere la vita e la pace ad una siffatta iniziativa di rivoluzione democratica-sociale, e ricordatevi che fu l’unica terra fra tutto il mondo che ha protestato senza interruzione in faccia all’umanità contro la proprietà e contro la tirannia della monarchia».

    Cosenza, spie e rivoluzione

    Nel giugno 1866, probabilmente in seguito a una spiata, la polizia effettuò perquisizioni in casa di alcuni rivoluzionari. In quella di Gregorio Provenzano trovò documenti e piani per l’insurrezione. Il giovane, impiegato nello studio di un avvocato, fu arrestato, richiuso e interrogato nelle carceri della città. Al processo alcuni testimoni dissero che era un scrivano competente, onesto e gentile. Ma aggiunsero anche che «viveva in una tale stranezza e una tale confusione che si rendeva incomprensibile».

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    Palazzo Arnone, oggi sede della Galleria Nazionale, era il carcere della città

    Uno di loro disse ai giudici: «Facendo il Provenzano il giovane di studio del G. Marini ha frequentato vari giovani forniti di varie cognizioni e ascoltando or da uno or dall’altro nei discorsi qualche idea o qualche principio scientifico si à infarcito la mente di tante idee che han formato nella di lui mente un guazzabuglio tale da non potergli credere. Per lui non vi ha proprietà, non vi è Iddio, l’uomo deve far tutto per l’amore del prossimo, non può esser né cittadino né suddito ma deve vivere secondo viveva nei primi giorni della creazione».

    Cospirazioni e intelligenza

    Nel corso degli interrogatori, il giovane Provenzano ammise di aver fatto parte dell’associazione sovversiva. Cercò, però, di sminuire l’attività del gruppo e confessò di aver vagheggiato astratti ideali in un momento difficile della sua vita. A differenza di quanto era scritto nei documenti della società sul carattere indomito dei cosentini mostrato durante i moti risorgimentali e la spedizione garibaldina, il giovane scrivano affermava: «Io sono innocente dell’imputazione che mi si addebita, poiché non ho mai cospirato né attentato sapendo benissimo che le cospirazioni non si fanno individualmente con se stesso ma unitamente ad uomini di alta intelligenza che in questa nostra terra di Cosenza non se ne trovano».

  • Cosenza, Sparta della Calabria

    Cosenza, Sparta della Calabria

    Che succederebbe se ai piedi del Partenone scoprissero che Cosenza è nota come l’Atene della Calabria? Forse nella capitale greca assisteremmo a proteste di piazza veementi quanto quelle degli anni in cui la Troika si era abbattuta su Tsipras e i suoi connazionali. Da diversi anni, più che Atene, Cosenza ricorda infatti l’arcirivale Sparta. Nella città che si faceva vanto della sua cultura l’arte fatica sempre più a trovare casa. E quando la trova – se la trova o non la sfrattano dalla precedente – scoppiano immancabili i conflitti.

    Cosenza: l’arte nella Atene della Calabria

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    “La Bagnante” di Emilio Greco è la statua presa più di mira in questi anni sul Mab

    «Prendi l’arte e mettila da parte» in riva al Crati e al Busento, più che un vecchio detto, pare ormai una regola di vita. In principio fu piazzetta Toscano, con la sua futuristica copertura a nascondere antiche vestigia romane. Poi venne la statua di Cesare Baccelli in piazza Spirito Santo: sparita nel nulla anni or sono, riapparsa in un post Facebook dell’allora sindaco Occhiuto, scomparsa nuovamente il giorno dopo.

    Ma l’elenco è lungo e variegato: c’è la penna della statua di Telesio fregata – leggenda vuole – da un ricco studente dell’omonimo liceo; la colonna di Sacha Sosno abbattuta da un mezzo della nettezza urbana che manovrava su corso Mazzini. Ci sono gli atti vandalici sul Mab, i Picasso e Chagall (ma non solo) che la città non è stata in grado di farsi regalare.

    E poi, ancora, i murales su Marulla raddoppiati d’imperio perché il primo non incontrava i gusti di alcuni ultrà, i musei promessi ma mai realizzati e quelli chiusi, i teatri serrati, la Biblioteca civica sommersa dai debiti, i Bocs Art vuoti, i monasteri ultrasecolari sigillati. L’illustre – e parziale – campionario dell’Atene della Calabria si è arricchito negli ultimi giorni di altri due esempi che hanno fatto parecchio discutere a Cosenza e dintorni.

    Dall’Atene della Calabria alla Disneyland di Cosenza vecchia?

    Il primo è quello della statua di Donna Brettia. Personaggio leggendario, presunta prima donna guerriera (cosa che agli spartani non dovrebbe dispiacere) della storia occidentale, la scultura che la raffigura è sostanzialmente un’appendice del già problematico museo storico all’aperto realizzato da un’associazione – la guida l’ex preside Franco Felicetti – a Cosenza vecchia pochi anni fa. E proprio come quel museo ha avuto una nascita a dir poco travagliata. Il progetto di Felicetti e soci risale ai tempi in cui era sindaco Perugini e prevedeva la realizzazione di alcuni murales a tema storico tra le vie della città antica, uno per ogni popolo susseguitosi nella dominazione di Cosenza lungo i secoli.

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    Uno dei dipinti del museo del centro storico

    Come contorno alle opere del percorso, l’associazione ipotizzava che imprenditori locali aprissero locali a tema nelle immediate vicinanze: café chantant in omaggio agli angioini, una taverna spagnola per gli aragonesi, una birreria tedesca per gli svevi e così via, in una ipotetica gentrificazione simil Disneyland che ha fatto storcere il naso a parecchi. Dei murales non si fece nulla, ancor meno di würstel e crauti o nacchere e flamenco.

    Restano salsiccia e broccoli di rapa nelle cucine del quartiere, tributo ai bruzi difficilmente riconducibile al progetto museale: c’erano già prima. E restano i dipinti: il successivo sindaco, Mario Occhiuto, diede il via libera, a condizione che gli artisti li realizzassero su pannelli da appendere e non direttamente sulle pareti secolari di Cosenza vecchia. Neanche il tempo di affiggerli con un telo sopra e già il primo era scomparsolo ritrovarono pochi giorni dopo – prima dell’inaugurazione ufficiale. Un altro l’ha fatto cadere il vento mesi fa ed è rimasto per terra in un vicolo a lungo.

    La statua nell’angolino

    Felicetti, comunque, in mancanza dei bar a tema ha rilanciato. E ha provato a donare alla città anche la statua di uno dei personaggi protagonisti dei dipinti: Donna Brettia, appunto. Una donazione modale la sua, ossia vincolata a determinate condizioni. Il Comune – questo il diktat del donatore – doveva collocare la scultura in piazza Valdesi, porta della città vecchia, con tanto di spadone puntato verso colle Pancrazio.

    A piazza Valdesi, però, per mesi c’è stato solo il basamento. Nessuno si era premurato di coinvolgere la Soprintendenza, passaggio obbligato quando si tratta di intervenire in un centro storico. Poi è sparito pure il basamento, mentre la statua restava chiusa in un magazzino. Nei giorni scorsi l’hanno riposizionata in un punto più defilato, da cui il centro storico, seppur a pochi passi, a stento si vede. La spada punta ora più verso Rende, quasi la soluzione per la città unica fosse l’Anschluss. A Sparta avrebbero gradito, ad Atene chissà.

    Da Donna Brettia ai Bee Gees

    Tutto è bene quel che finisce bene? Macché. Prima che la inaugurassero qualcuno ha pensato di omaggiare Dalì piegando la spada di Brettia come i celebri orologi del pittore surrealista. Poi, a cerimonia avvenuta (e spada raddrizzata), è partito l’appello di storici, archeologi e semplici cittadini contro la scultura. Mistificherebbe la storia di Cosenza in nome del turismo, denunciano in estrema sintesi gli accademici (e non solo) chiedendone al Mic la rimozione.

    Donna Brettia tornerà in magazzino? Farebbe comunque una fine migliore di quella toccata in sorte per il momento all’altra scultura protagonista delle cronache recenti: il monumento a Sergio Cosmai. O, secondo la più disincantata e insensibile expertise dell’Atene della Calabria, ai Bee Gees, con quelle sagome à la Stayin’ Alive a custodire il ricordo del delitto dell’ex direttore del carcere di Cosenza sull’omonimo viale.

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    Il monumento a Cosmai qualche anno fa, dopo la rimozione della scritta che lo circondava

    Il lungo addio

    Velato omaggio burocratico-amministrativo anche a H. G. Wells e al suo La macchina del tempo – l’inaugurazione dell’opera risale a marzo 2013, il Comune però l’ha commissionata ufficialmente alcuni mesi dopo – l’installazione dedicata a Cosmai era già ridotta a metà da anni. La scritta che la circondava, infatti, risultava pericolosa secondo la Polizia stradale. Su quella sorta di potenziale ghigliottina gravò a lungo il sospetto – poi fugato dal tribunale – di aver causato la morte di due ragazzi in un incidente stradale. La portarono via lasciando lì solo i Bee Gees, di cui la famiglia stessa di Cosmai auspicava da anni la rimozione ritenendo celebrassero più i killer della vittima. A far sparire anche quelli ha provveduto nei giorni scorsi l’amministrazione Caruso, attirandosi subito le critiche di chi l’aveva commissionata, ossia l’ex sindaco e oggi senatore Occhiuto.

    Regimi a Cosenza e una nuova Atene della Calabria

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    C’è chi apprezza così tanto la statua di Mancini da metterle la sciarpa quando fa più freddo

    «Un’opera di arte contemporanea non deve per forza piacere a tutti, semmai deve interrogare in virtù dell’idea che le sta dietro, perché a partire dal secolo scorso l’arte è diventata soprattutto concettuale. Adesso magari metteranno al suo posto l’ennesimo busto celebrativo, come si usa nei regimi totalitari o nei posti dove regna l’ignoranza», ha argomentato con amarezza. Parere simile aveva riservato, pochi mesi fa, alla quasi altrettanto discussa statua di Giacomo Mancini piazzata di fronte al municipio. Ma il problema, probabilmente non è questo. In fondo, come diceva Borges, «chi dice che l’arte non deve propagandare dottrine si riferisce di solito a dottrine contrarie alle sue».

    Il fatto è che poco dopo la rimozione hanno iniziato a circolare in rete foto di quel che restava dell’opera buttato in terra ai piedi di una rete, con polemiche al seguito. Tutto mentre il gruppo consiliare “Franz Caruso sindaco” si affrettava ad assicurare che «l’installazione è attualmente custodita nei locali comunali per essere riposizionata in un altro luogo idoneo e non ostativo della sicurezza e dell’incolumità pubblica. Anzi, è bene precisare che sarà ricollocata l’intera opera, con l’aggiunta, cioè, della striscia in ferro riportante una frase di Sergio Cosmai».

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    “L’ex monumento” a Sergio Cosmai tra i rifiuti

    Qualità della custodia a parte, insomma, alla famiglia del defunto toccherà forse pure la beffa di partecipare a una seconda inaugurazione della già poco gradita scultura. Se non a Cosenza, nell’hinterland: il sindaco Magarò ha proposto di metterla nel suo paese in caso qualcuno a Palazzo dei Bruzi voglia davvero farla sparire per sempre.
    Sarà Castiglione Cosentino la nuova Atene della Calabria?

  • I padri della parola: i poeti invadono Cosenza

    I padri della parola: i poeti invadono Cosenza

    Poesia senz’altro e soprattutto. Ma anche performance teatrali e musica.
    Chiude col botto la prima edizione de I padri della parola-Festival nazionale della poesia, promosso e organizzato dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani assieme al Comune di Cosenza e alla Regione Calabria.
    Sono stati tre giorni intensi, dal 27 al 29 aprile, durante i quali sei poeti di grido (Elisabetta Pigliapoco, Tiziano Broggiato, Claudio Damiani, Giancarlo Pontiggia, Loretto Raffaelli e Daniel Cundari), hanno fatto il giro della città.
    È stata una manifestazione itinerante, che si è svolta tra le scuole (il Liceo classico “B. Telesio”, i Licei scientifici “Scorza” e “Fermi” e il Polo tecnico-scientifico “Brutium”), la storica Villa Rendano, il Chiostro di San Domenico e, per concludere, Il tatro Rendano.

    L’Acoustic Music Ensemble in azione

    Festival della poesia: la parola alla Fondazione

    «Dire che sono contento della riuscita del Festival è il minimo», spiega Walter Pellegrini, editore e presidente della Fondazione Giuliani.
    «Non abbiamo organizzato a caso questa manifestazione: mi sono accorto, proprio grazie alla mia attività professionale, che c’è una forte domanda di poesia. Il pubblico vuole leggere versi. E allora abbiamo pensato: perché non mettere i poeti a contatto diretto col pubblico?».
    In altre parole, «la poesia non ha bisogno di essere promossa, perché è un’arte che si valorizza da sé. Di più: credo che questa voglia di poesia sia una specie di reazione al degrado culturale e al vuoto di valori che attraversiamo». Perciò, «perdonatemi l’orgoglio, ero fiducioso. Ma la bella partecipazione della città ha superato le aspettative».

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    Da sinistra: Franz Caruso, Walter Pellegrini e Dario De Luca

    Arte multimediale al Festival della Poesia

    Le migliori chiusure richiedono i fuochi d’artificio. Ma la poesia non ha bisogno di feste o serate di gala per celebrarsi. È un’arte che si nutre di altre arti (e le nutre a sua volta). Nulla di meglio, allora, di una performance.
    Per la precisione, quella che si è tenuta al Teatro Rendano la sera del 29 aprile, intitolata I padri della parola.
    Musica e teatro incorniciano la poesia anche per rievocare chi non c’è più ma ha dato tanto, alla città e alla cultura.

    Il ricordo di tre intellettuali

    Non a caso, nella seconda parte della serata si è celebrato il ricordo di tre personalità significative.
    Il primo è Angelo Fasano, scomparso giovanissimo nel lontano ’92. Dei suoi 26 anni vissuti intensamente resta Inònija, una rivista manifesto attraverso la quale ha espresso la sua poetica fondata sullo stupore.
    Il secondo big è Enzo Costabile, giornalista, critico e cultore di jazz, oltre che poeta, scomparso nell’estate del 2003. Costabile spinse al massimo il legame tra poesia e musica: scrisse i testi dei Dedalus, vecchia gloria dell’etno-jazz. E non a caso la band ha partecipato alla serata per omaggiare l’amico e paroliere.
    Last but not least, Franco Dionesalvi, scomparso la scorsa estate. Tra i tre, Dionesalvi ha avuto il ruolo maggiore nella vita pubblica della città. Infatti, nel suo chilometrico curriculum c’è una voce consistente dedicata alla politica culturale, in cui si è speso alla grande: sua l’ideazione del Festival delle Invasioni. E non serve davvero dire altro.

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    il reading della poetessa Elisabetta Pigliapoco

    Reading e note al Festival della poesia

    Ma torniamo a I padri della parola. Sulle assi del Rendano si è svolto un reading, raffinato ma di forte impatto.
    Introdotti dai saluti del sindaco Franz Caruso e dalla consigliera comunale Antonietta Cozza, i sei poeti hanno recitato i propri versi scelti su un tappeto musicale di tutto rispetto eseguito dall’Acoustic Music Ensemble.
    Il trio, composto da Enzo Campagna, Salvatore Cauteruccio e Pietro Perrone, ha eseguito una base suggestiva piena di citazioni cinematiche (soprattutto Morricone).
    Protagonisti della commemorazione, invece, gli attori Mariasilvia Greco ed Ernesto Orrico. Il tutto sotto la supervisione artistica di Dario De Luca.
    Per concludere, la premiazione di alcuni studenti delle Scuole del territorio, che hanno partecipato ai laboratori di poesia a stretto contatto coi protagonisti del Festival.
    Buona la prima, come testimonia la sala piena. E già, fanno sapere gli organizzatori, ci si prepara per una seconda edizione.

  • RITRATTI DI SANGUE | Sangue, droga, veleni e impunità: la leggenda di Franco Muto

    RITRATTI DI SANGUE | Sangue, droga, veleni e impunità: la leggenda di Franco Muto

    Lo chiamano, da sempre, “il Re del pesce”. Già, perché spesso in Calabria l’affaccio sul mare non significa vocazione turistica. Vuol dire che le cosche del luogo sono capaci di sfruttare anche gli specchi d’acqua per fare affari. E di affari, Franco Muto ne avrebbe fatti molti.
    Muto è uno dei boss più longevi della ‘ndrangheta. A inizio anno ha lasciato il 41bis, dove era ristretto, per motivi di salute legati all’età: 82 anni suonati.

    Franco Muto da Cetraro

    Da Cetraro, il suo regno indiscusso della provincia di Cosenza, la cosca Muto, retta da Franco Muto per decenni, avrebbe controllato il settore turistico dell’area. Soprattutto il mercato ittico.
    Soldi che vanno e vengono, tra strutture ricettive e carichi di pesce, ma anche grazie al traffico di droga, che la cosca Muto sarebbe riuscita a controllare anche nell’area campana del Cilento.
    Forse proprio grazie a questa leadership, mai messa in discussione da nessuno, la cosca è riuscita a entrare nel gotha della ‘ndrangheta. Ed è rimasta sostanzialmente immune al già marginale fenomeno del pentitismo, da cui la ‘ndrangheta è sempre riuscita a difendersi meglio rispetto a mafia e camorra.

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    Franco Muto da giovane e in un’immagine più recente

    La leggenda del re del pesce

    Franco Muto è un boss leggendario. Un po’ perché è vissuto tanto a lungo da superare varie epoche. Un po’ perché le inchieste solo in parte hanno fatto luce sui suoi affari. Molto, in realtà, è rimasto avvolto nel mistero, nella leggenda, appunto. Dagli interessi nel campo della sanità (l’ospedale di Cetraro è, da sempre, considerato cosa sua) ai rapporti con i “colletti bianchi”: dalle forze dell’ordine alla magistratura. Tutto, come sempre, all’ombra dei cappucci della massoneria deviata.

    Un regno nato a colpi di pistola

    Come tutte le storie dei grandi clan di ’ndrangheta, anche quella della cosca Muto ha radici lontane nel tempo. Già negli anni ’70, infatti, quei territori sono teatro di conflitti armati in cui la famiglia Muto si distingue in termini criminali. Sono gli anni in cui la ’ndrina costruisce la propria egemonia.

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    Franco Pino e Franco Perna. boss rivali della Cosenza di quegli anni

    Alla fine degli anni ’70 la famiglia si schiera con i Pino-Sena in faida con i Perna-Pranno-Vitelli. Più o meno gli stessi anni in cui anche la provincia di Reggio Calabria è scossa dalla prima guerra di ’ndrangheta. E sono gli anni in cui le cosche si modernizzano e sostituiscono le proprie fonti di guadagno.
    Ovviamente, il cambio di gerarchie e di equilibri non può essere silenzioso e indolore. La faida tra i Pino-Sena e i Perna-Pranno-Vitelli termina solo alla fine degli anni ‘80 con un totale di ventisette morti ammazzati.

    Chi denuncia muore: il delitto Ferrami

    Come detto, le attività investigative solo in parte hanno tratteggiato la vera entità degli affari di Franco Muto e della sua cosca. Allo stesso modo, il “re del pesce”, sebbene coinvolto in diverse inchieste, è uscito spesso “pulito”. Su tutti, gli omicidi di Lucio Ferrami e Giannino Losardo.
    Il primo, nativo di Cremona, aveva spostato la propria attività imprenditoriale di ceramiche nel Cosentino. Per la precisione, nell’area che ricadeva, già tra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80, sotto l’influenza dei Muto. Proprio dagli ambienti malavitosi legati al “re del pesce”, Ferrami avrebbe ricevuto le richieste estorsive. Non solo tutte rispedite al mittente, ma anche con nomi e cognomi messi a verbale in denunce circostanziate.

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    Lucio Ferrami

    Ma quelli sono gli anni in cui nessuno parla, in cui una denuncia significa condanna a morte certa. E, infatti, il 27 ottobre del 1981 Ferrami rimane vittima di un agguato mentre rientra a casa in auto dal lavoro. La sua vettura e il suo corpo vengono crivellati di colpi e la moglie, Maria Avolio, si salva solo perché Ferrami le fa scudo con il corpo.
    Per il delitto di Lucio Ferrami, il boss Franco Muto, il figlio Luigi e quattro scagnozzi del clan che avrebbero materialmente effettuato l’agguato, saranno condannati in primo grado dalla Corte d’Assise, ma assolti in secondo grado, con la formula dubitativa, allora prevista dal Codice.

    Franco Muto e il caso Losardo

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    Giannino Losardo

    Grida (e forte) voglia di giustizia anche l’omicidio di Giannino Losardo, membro del Pci e segretario giudiziario della Procura di Paola.
    Losardo viene ucciso circa un anno e mezzo prima di Ferrami. Sindaco di Cetraro tra il 1975 e il 1976, Losardo cercò di contrastare lo strapotere della cosca Muto, che già in quel periodo imperversava.
    Poi, nel 1979, ricopre il delicato ruolo di assessore comunale ai Lavori pubblici. Proprio negli anni in cui la speculazione edilizia arricchisce le cosche un po’ dappertutto in Calabria.
    Nella zona di Cetraro, la cosca Muto vuole fare man bassa di concessioni edilizie, per sviluppare i propri affari sulla ricettività e sul mercato ittico.
    Losardo denuncia più volte in consiglio il malaffare e le connivenze di cui possono godere Franco Muto e i suoi.

    Proprio al rientro da un consiglio comunale due killer in motocicletta affiancano la sua 126 azzurra e lo colpiscono gravemente. È il 21 giugno 1980.
    Losardo muore poche ore dopo in ospedale, non prima di aver pronunciato l’ormai celebre, ma inquietante, frase: «Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato». Forse per sottolineare che, però, nessuno avrebbe parlato. E, di conseguenza, nessuno avrebbe pagato.
    Anche per questo omicidio, Franco Muto sarà imputato come mandante. Mentre come esecutori finiranno alla sbarra Francesco Roveto, Franco Ruggiero, Antonio Pignataro e Leopoldo Pagano. Ma anche in questo processo Muto e i suoi saranno assolti.
    Il delitto Losardo è tuttora impunito.

    Franco Muto e la Cunski

    È lunga l’epopea criminale di Franco Muto. Il suo nome spunta anche nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Fonti.
    Uomo della ’ndrangheta di San Luca, Fonti si autoaccusa di traffici di rifiuti radioattivi e dell’affondamento di alcune carrette del mare al largo delle coste calabresi.
    Tra queste, parla anche della Cunski, la nave che sarebbe stata colata a picco al largo di Cetraro. Ovviamente con il placet e la complicità di Muto.
    Il caso scoppia tra il 2009 e il 2010. E la ricerca della verità va avanti, in quel periodo, grazie alla pervicacia dell’allora assessore regionale all’Ambiente Silvio Greco.

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    Il relitto della Cunski

    Fonti racconta di aver chiesto un aiuto logistico alla famiglia Muto nel 1993 al fine di affondare imbarcazioni cariche di rifiuti tossici o radioattivi affidati alla famiglia Romeo di San Luca da alcune società estere.
    Inoltre, Fonti racconta di aver fatto saltare in aria le navi, azionando un telecomando da un motoscafo a 300 metri dall’imbarcazione abbandonata in mezzo al mare. Il tutto sfruttando l’oscurità, già incombente dal pomeriggio, del mese di gennaio. In cambio dell’appoggio e dell’aiuto, la famiglia di Cetraro avrebbe ricevuto circa duecento milioni di lire.

    Molto rumore per nulla?

    L’affaire Cunski si sgonfia: l’allora ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, insieme ad altri soggetti istituzionali, chiude la vicenda. Quella al largo di Cetraro – sostiene la tesi del governo – non sarebbe la Cunski, ma un piroscafo, residuo della prima guerra mondiale. Un dato inoppugnabile è dato dal fatto che, in quelle settimane di caos, le vendite di pesce a Cetraro diminuiscono dell’80%, con diversi commercianti costretti a chiudere le proprie attività. Certo non una bella situazione per il “re del pesce” Franco Muto.

    Franco Muto torna libero

    Ma Franco Muto ha superato questo e altro. Dal febbraio scorso è anche uscito dal carcere, forse quando nemmeno se l’aspettava.
    Muto aveva subito una condanna definitiva a vent’anni di reclusione nel processo “Frontiera”, che aveva ricostruito diversi anni di affari criminali della ‘ndrina. Tra questi, lo sfruttamento delle attività economiche del luogo e il traffico di droga (cocaina, hashish e marijuana) sia nel Cosentino che nel Cilento.
    Ma, in ragione dell’età avanzata e delle precarie condizioni di salute, il magistrato di sorveglianza ha autorizzato l’uscita di Muto dal carcere di Tempio Pausania, dove era detenuto.

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    Il porto di Cetraro

    E così, dopo la sentenza definitiva sancita dalla Cassazione, ha potuto far ritorno nella sua Cetraro. Sua, senza le classiche virgolette.