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  • Rende è ko: ora rischia anche la grande Cosenza

    Rende è ko: ora rischia anche la grande Cosenza

    Rende è commissariata. Ed è il caso di dire, senza troppi “forse”: finalmente.
    E non perché si ritiene lo scioglimento per mafia una salvezza. Al contrario, la città del Campagnano subirà quel che di solito subiscono i Comuni in situazioni simili: la paralisi.
    Tuttavia, lo scioglimento ha un pregio politico non proprio trascurabile: cala il sipario su un’esperienza amministrativa finita almeno da un anno, travolta dai problemi giudiziari personali dell’ex sindaco Marcello Manna e dalle inchieste, antimafia e non.
    Le quali hanno colpito non solo i vertici politici, ma hanno danneggiato in profondità anche l’amministrazione.
    I problemi non finiscono qui: Rende non è una città piccola né secondaria. E il suo scioglimento rischia di avere conseguenze oltre i confini municipali.
    Ma andiamo con ordine.

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    La Prefettura di Cosenza (foto C. Giuliani) – I Calabresi

    Scioglimento di Rende: come vola la notizia

    Il tam tam è iniziato dopo le 22 del 27 giugno: prima sono volati gli screenshot del sito del Ministero dell’Interno (o della Presidenza del Consiglio), via What’s App o social. A bomba, è arrivato qualche articolo, arronzato alla meno peggio o preimpostato come i “coccodrilli” più classici: segno che varie redazioni attendevano lo scioglimento.
    In realtà, l’annuncio è stato meno spettacolare è più mesto: un comunicato del governo affogato tra varie note, dedicate agli argomenti più disparati, tra cui le nuove regole del Codice stradale, l’abolizione di normative ottocentesche e un altro commissariamento, stavolta a Castellamare di Stabia. Anche questo è un segno: fuori dalla Calabria, Rende è una cittadina che pesa solo i suoi 35mila abitanti. In Calabria, le cose vanno altrimenti: silenzi imbarazzati dai vertici regionali, dichiarazioni più o meno di circostanza. Più qualche posa giustizialista e l’annuncio, fatto da quel che resta dell’attuale ex amministrazione, di un ricorso al Tar.
    Fin qui siamo negli atti dovuti e nelle ipotesi. Torniamo al presente.

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    L’ex sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Il collasso della città unica

    C’è poco da essere garantisti sullo scioglimento per mafia. Questa procedura segue criteri di pubblica sicurezza, anche sganciati dagli esiti dei procedimenti giudiziari.
    Un esempio lampante è il recente scioglimento per mafia di Amantea, operato in assenza di inchieste della magistratura. Rende, oggetto di inchieste tuttora in corso ma non concluse, non fa eccezione, anzi.
    Finora hanno fatto tutti più o meno a gara a ricordare quell’autentico mostro, a metà tra il vespaio e il labirinto, che è Reset, l’operazione della Dda da cui è partito tutto.
    E qualcun altro, anche correttamente, ha raccontato che questa non è la prima volta che Rende è finita nel mirino di una commissione d’accesso. Oltre dodici anni fa era toccato alla vecchia guardia riformista. Ma Rende aveva evitato il commissariamento e il vecchio nucleo dirigente, che pure aveva passato qualche guaio, è uscito finora intero dalle attenzioni della Dda.
    Con Manna le cose cambiano: la città è sotto torchio e rischia di travolgere il processo politico-amministrativo predisposto dalla Regione, da cui dovrebbe nascere la Grande Cosenza. Vediamo come.

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    L’aula bunker di Lamezia, dove si svolge Reset

    Ordinaria amministrazione

    Sappiamo alcune cose. Innanzitutto, i nomi dei commissari che gestiranno Rende per i prossimi diciotto mesi: il prefetto a riposo Santi Gioffrè, la viceprefetta di Cosenza Rosa Correale e Michele Albertini, dirigente di seconda fascia della prefettura di Brindisi.
    Questa terna avrà due compiti: certificare la presenza mafiosa nel Comune di Rende e quindi metterla in condizioni di non nuocere; gestire l’ordinaria amministrazione.
    E qui casca l’asino.
    Riavvolgiamo il nastro: il disegno di legge regionale da cui dovrebbe derivare la fusione di Cosenza, Rende e Castrolibero in un Comune unico, prevede due passaggi e un termine finale.
    I passaggi, ricordiamo, sono: referendum consultivo tra i residenti delle tre città e gestione guidata da un commissario che dovrebbe portare la nuova città alle sue prime elezioni.
    La deadline è prevista a febbraio 2025. In pratica alla scadenza più o meno secca dei diciotto mesi di commissariamento di Rende.
    Andiamo di nuovo con ordine. Per il referendum consultivo, che dovrebbe tenersi a breve, non ci sarebbero troppi problemi: il voto sarebbe legato all’area urbana e non ai singoli municipi. Quindi la terna di commissari rendesi dovrebbe preoccuparsi, al massimo, dei seggi e della loro sicurezza.
    Il problema è lo step successivo.

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    La sede del Comune di Rende

    Scioglimento di Rende: mostri in arrivo

    Si è già detto: nel secondo passaggio, un commissario dovrebbe guidare i sindaci di Cosenza, Rende e Castrolibero alle elezioni della nuova città, dopo aver fuso gli uffici dei tre Comuni ed elaborato le linee guida urbanistiche, finanziarie e politiche.
    Per Cosenza e Castrolibero non ci sarebbero problemi perché, si scusi il bisticcio, ci sono i sindaci. Recalcitranti ma ci sono.
    Per Rende c’è il problemone: i commissari antimafia potrebbero gestire l’autoscioglimento di un Comune in un ente più grande?
    Quasi di sicuro no. Anzi, in tutto questo c’è una cosa certa: lo scioglimento totale di un Comune non è un atto di ordinaria amministrazione. Altrettanto sicuri sarebbero i mostri giuridici che uscirebbero da questa situazione.
    Primo mostro: la coesistenza tra due commissari, quello della città unica e quello antimafia, che dovrebbe sciogliere del tutto un Comune “inquinato”.
    Secondo mostro: la fusione tra un Comune sciolto per mafia, ancora in predissesto, e uno in dissesto spinto.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Sandro Principe, ex sindaco di Rende e leader dell’opposizione (foto Alfonso Bombini)

    La tempesta perfetta

    Si può far finta di non capire i problemi che nasceranno dall’attuale situazione di Rende e, quindi, si può andare avanti verso la città unica. Lo hanno fatto, ad esempio, alcune associazioni nel corso di un dibattito all’Unical.
    Le opposizioni di Rende, nel frattempo, vanno alla carica e accusano Manna: lo scioglimento è colpa sua, recitano varie note stampa, perché non si è dimesso.
    Su tutto, resta un rebus difficile da interpretare: lo scioglimento toglie dall’imbarazzo il Pd, che pure aveva sostenuto l’ex sindaco e forse riporta numeri nell’area riformista, che ha finora fatto opposizione in Consiglio comunale e si prepara a opporsi, praticamente da sola, al progetto di città unica.
    Rende non è l’unica città importante di Cosenza ad aver subito il commissariamento per mafia: prima di lei è toccato (come già detto) ad Amantea. Ma anche a Cassano e, prima ancora a Corigliano Calabro.
    Ma nessuno di questi centri ha il peso economico e culturale della città del Campagnano. Soprattutto, nessuno ha il suo ruolo geografico di tassello importante per la città unica. Che ora traballa vistosamente.
    La tempesta è alle porte. E i primi lampi fanno capire che non sarà un acquazzone estivo: si annuncia perfetta.

  • Rende sciolta per mafia: tornerà la fiducia dopo l’arroganza?

    Rende sciolta per mafia: tornerà la fiducia dopo l’arroganza?

    Lo scioglimento del Consiglio comunale di Rende per mafia è una pagina nera per uno dei municipi più importanti della Calabria.
    Rende, infatti, è sede universitaria e ha una popolazione composita e aperta anche per l’afflusso e lo stabilirsi di tanti studenti e docenti. In più, vanta un reddito medio tra i migliori della regione. Viste le dimensioni e la centralità culturale, economica e politica della città, lo scioglimento turba tutta la provincia di Cosenza e la Calabria.

    Rende e mafia: un’inutile caccia al colpevole

    Facile persino indicare le responsabilità dirette e indirette di questa situazione amara.
    Ciò che però ha colpito negli anni, soprattutto nei mesi scorsi, è stata la completa mancanza del senso del limite e del ridicolo negli attori politici coinvolti in questa faccenda.
    Davvero nessuno può dirsi esente da uno spregio continuo del comune senso del pudore. Di quel senso comune rappresentato dall’opinione pubblica, già nel Settecento definita come “tribunale” dei potenti.

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    La sede del Comune di Rende

    Mafia a Rende: un potere spregiudicato

    A Rende il potere ha agito senza la minima considerazione della grammatica istituzionale e politica democratica. La quale prevede un confronto costante con la società civile, con le sue rimostranze, le sue titubanze, le sue critiche.
    Paradossale che si siano sottratti a questo confronto, in primo luogo, una giunta e un sindaco che hanno oltrepassato gli steccati ideologici in nome di un civismo trasversale che ha messo insieme Forza Italia, Partito Democratico e altre forze di tutto l’arco costituzionale.
    Per rimanere all’ultimo anno (e mentre le inchieste e i provvedimenti giudiziari si susseguivano) si sono alternati, in nome di un malinteso garantismo, ben quattro sindaci. Negli ultimi mesi, il sindaco, più volte oggetto di provvedimenti, si è persino riproposto alla guida dell’Anci Calabria, a cui inopinatamente era stato indicato quale elemento non divisivo.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Niente remore: governiamo e basta

    Nelle ultime settimane si sono dimessi consiglieri di maggioranza e sono cambiati assessori per arrivare all’approvazione di Psc e Bilancio. Insomma, nessuna remora nell’azione di potere, anche di fronte a una società civile esterrefatta per le continue notizie di abusi e delusa per il livello dei servizi amministrativi peggiorato negli anni.
    Insomma, il potere ha mostrato quell’arroganza che Alberto Sordi ha reso nel personaggio del Marchese del Grillo.
    Lo stesso dicasi per le forze politiche maggiori. Forza Italia, il cui capogruppo in Provincia è elemento di punta dell’amministrazione rendese, pare essersi dissolta rispetto alle dinamiche locali.
    Non una manifestazione per la città. Non una dichiarazione del pur assai loquace presidente regionale Occhiuto. Guardare dall’altra parte è stato evidentemente il mantra suggerito da qualche rubicondo spin doctor.

    Mafia a Rende: anche il Pd ha le sue colpe

    Il Pd regionale non è riuscito a nominare un commissario di un circolo il cui segretario è stato prima incompatibile e poi è finito ai domiciliari. Anche da questa parte, piuttosto, silenzio.
    Anzi, il segretario provinciale e il suo factotum, responsabile degli enti locali, hanno sfondato qualche limite quando hanno deciso di incontrare le stesse aree politiche di cui i loro ispiratori sono stati i principali carnefici: hanno cucito la coalizione civica ora sciolta per mafia e l’hanno fatta votare e sostenuta sino all’ultimo.
    Del resto, lo stesso segretario provinciale, in quanto reggente del circolo, è atteso dagli iscritti da mesi per un confronto che sveli come e perché i due candidati alla segreteria locale, assessori della giunta appena sciolta, sono stati sui decisi sostenitori.

    Ricucire la fiducia

    Insomma, anche le forze politiche nazionali hanno pensato che governare Rende fosse tutto e qualsiasi tentativo di lettura della società rendese uno sforzo inutile, persino dannoso. Il governismo si rivela ancora una volta malattia mortale per la credibilità della Politica.
    Della triste vicenda rendese si parlerà a lungo e diciotto mesi di commissariamento non basteranno a ricucire la fiducia tra Politica e Società.
    Tuttavia è necessario provarci, senza nostalgie ma con una presenza costante nei quartieri della città. Soprattutto, con una capacità di studiare e proporre soluzioni ai diversi problemi dei cittadini e una accanita volontà di dispiegare orizzonti di sviluppo. Dopo le pagine buie, la storia continua e, con impegno, si possono ancora scrivere capitoli interi di buon governo.

    Antonio Tursi

  • Pena e redenzione: miracolo nel carcere di Rossano

    Pena e redenzione: miracolo nel carcere di Rossano

    Ogni vicenda giudiziaria è fatta di storie umane, alcune più complesse di altre.
    La storia di F.A., un 49enne di origini pugliesi, è un caleidoscopio di avvenimenti contraddittori, che oscilla dalla tragedia alla redenzione. Il tutto nel carcere di Rossano.
    Questa storia la racconta una recente ordinanza della Cassazione, che ispira sensazioni contrastanti in chi l’approfondisce: riprovazione (e ribrezzo) per il crimine, compassione e solidarietà per la riabilitazione.
    L’uomo scontava a Brindisi un cumulo di pena per vari reati, (circa 20 anni di reclusione in tutto). Ma nell’ottobre del 2013 riceve in carcere un’ordinanza di custodia cautelare per omicidio aggravato dal metodo mafioso.

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    Il carcere di Rossano

    In carcere a Rossano per omicidio di mafia

    La Dda pugliese accusa F.A. di aver ucciso A.M. nella notte del 29 maggio del 1998. Il cadavere di quest’ultimo era stato trovato l’’8 ottobre dello stesso anno nelle campagne di Ostuni, nel Barese.
    La vittima era un affiliato al clan dei Mesagnesi della Sacra corona unita ed era considerato un confidente della polizia. Perciò, per le regole mafiose, era il classico morto che cammina.
    Proprio F.A. sarebbe stato incaricato di mettere a tacere la “gola profonda”.
    Per l’omicidio, il 49enne prende 30 anni di reclusione. E sin da subito è trasferito da Brindisi al carcere di massima sicurezza di Rossano: in attesa degli esiti processuali diventa un detenuto “speciale”, quindi non può più restare in cella con i detenuti comuni.

    La conversione nel carcere di Rossano

    Tuttavia, al 49enne accade in carcere qualcosa che lo cambia definitivamente, nonostante le pesanti condanne che nel frattempo vari tribunali gli comminano e la sua pesante storia personale. Forse è merito di un incontro col cappellano del carcere o di altri detenuti. O forse influiscono entrambe le cose. Fatto sta che F.A. prende la via della fede e cambia vita.
    Insieme a un ergastolano decide di riprendere gli studi. Nel 2017 si laurea all’Unical in Scienze del servizio sociale e sociologia presso l’aula Caldora. Ottiene 106 su 110, con una tesi su “La sfera pubblica: Il carcere come progetto sociale”. Alla cerimonia hanno partecipato i familiari, il cappellano della casa di reclusione di Rossano e alcuni esponenti dei Radicali italiani.
    Questa svolta personale offre speranza anche a tutte le persone che si trovano nella stessa condizione di F.A., passato oscuro incluso.carcere-rossano-si-cassazione-messa-ex-mafioso

    Il Tribunale di sorveglianza diffida: niente messa

    Nel 2022 F.A. chiede al Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro di poter seguire alcune funzioni in Chiesa per le feste più importanti, (Natale e di Pasqua), ma i giudici non gli concedono il beneficio.
    Il Tribunale ha rilevato la sussistenza di «sicuri indici di un percorso carcerario esemplare, posto che dalla relazione di sintesi del carcere emergeva la partecipazione alle attività trattamentali più varie, un serio percorso di istruzione, e una profonda revisione critica del proprio passato con adesione convinta ai principi religiosi cattolici».
    Inoltre, dalle note della Dda, della Polizia di Stato e della Guardia di finanza risulta «l’assenza di elementi successivi alla carcerazione, di tipo socio familiare, patrimoniale o giudiziario, sintomatici di un persistente legame con l’organizzazione criminale di appartenenza». Tuttavia, il Tribunale di Catanzaro nega il consenso affermando che tutto questo non basta a dimostrare «la recisione dei legami associativi e l’esistenza delle condizioni che escludano in radice la ripresa della relazione con il gruppo criminale».

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    La Cassazione dice sì

    A questo punto F.A. ricorre in Cassazione contro le decisioni del Tds e stavolta le cose vanno diversamente. Gli ermellini annullano l’ordinanza e rinviano gli atti a Catanzaro per una differente decisione.
    Per i giudici di Piazza Cavour i colleghi di Catanzaro hanno «compiuto un giudizio astratto e avulso dalla realtà».
    Certo, non ci può essere nessuna certezza matematica di una riabilitazione assoluta, ma le “prove” della rieducazione e del percorso personale del detenuto sono incontrovertibili. Quindi i requisiti per l’accettazione delle sue richieste ci sono tutti. Da queste premesse il giudizio finale è positivo: «Il giudice del rinvio, senza avere vincoli sul merito del giudizio, è tenuto a riesaminare la richiesta di parte, senza ripetere i censurati vizi della motivazione». Prossimamente F.A. potrà partecipare a funzioni religiose nella cattedrale Maria Santissima Achiropita di Rossano.
    Il principio alla base della scelta della Cassazione resta sempre l’articolo 27 comma 3 della Costituzione: «Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Il caso è chiuso.

  • Colonia Federici, un tesoro in Sila tra speranze e abbandono

    Colonia Federici, un tesoro in Sila tra speranze e abbandono

    Qual è l’animale (uomo escluso) che uccide più persone ogni anno sul nostro pianeta? Non pensate a feroci predatori: è la zanzara. Il primato era ancora più indiscusso fino a qualche decennio fa, quando la malaria imperversava anche dalle nostre parti. Non c’era ancora il DDT, le aree paludose da bonificare erano tante e per curare le febbri trasmesse dall’insetto il chinino non era abbastanza per tutti.
    Nell’Italia post unitaria, a cavallo tra ‘800 e ‘900, la poverissima e incolta Calabria era tra le regioni più colpite. Così si decise di curare in una colonia la malaria con… l’aria della Sila. E centinaia di bambini si salvarono. Succedeva tra Camigliatello e Moccone, in un posto splendido e abbandonato da anni: la Colonia Silana Federici.colonia-silana

    La nascita del sanatorio

    Siamo a fine giugno del 1910 quando la Colonia apre i battenti, il terreno – tre ettari – su cui sorge l’ha donato il Comune di Cosenza, che aggiunge anche le spese per arredi e trasferimento, personale sanitario e un contributo annuo di 3.000 lire. Nonostante gli aiuti, però, le cose non sono semplicissime all’inizio. Come ricostruisce Francesca Canino in un articolo di qualche anno fa, la farmacia più vicina dista 20 km, mancano illuminazione e riscaldamento e per avere l’acqua tocca rifornirsi alle fontanelle disseminate nella zona. Ma quelli che hanno dato vita alla colonia non demordono e le cose presto migliorano. Proprio a Federici negli anni ’40 arriveranno i primi termosifoni di tutta la Sila.

    A mandare avanti le cose ci sono cosentini come il dottor Domenico Migliori, cui per un periodo sarà intitolata la Colonia Silana Federici, ma un ruolo di assoluto rilievo lo hanno i piemontesi: Bartolomeo Gosio, luminare della lotta alla malaria, che ha voluto quel centro in Sila e, soprattutto, Virginia Angiola Borrino e Giuseppina Le Maire.
    Borrino è una pediatra, prima donna titolare di una cattedra universitaria di Medicina, che Gosio ha voluto sull’altopiano calabro per occuparsi dei bambini malarici messi peggio. Le Maire, invece, un’educatrice e attivista che collaborerà a lungo con Umberto Zanotti Bianco per il riscatto del Sud Italia e della Calabria. Giuseppina, fonderà anni dopo anche una scuola rurale a Cetraro, e a Camigliatello insegnerà ai bambini le elementari regole d’igiene a loro ignote.

    La malaria in Calabria e la colonia in Sila

    In Sila, insomma, la malaria si sconfigge anche attraverso l’educazione dei più piccoli e, di riflesso, dei loro familiari. Fino a quegli anni, infatti, i principali rimedi contro le febbri si richiamavano alla medicina tradizionale, se non alla magia. Barbieri e magare praticavano salassi, ai malati si davano da bere infusi di vario genere. Qualcuno beveva gusci di noce tritati e bolliti nel vino con limone e bergamotto. Altri mettevano fichi d’India vicino al focolare o facevano pipì al mattino sui cucuzzielli acriesti maturi, pensando di trasferire alle piante la malattia. A Castrovillari i devoti si rivolgevano così alla Madonna d’Itria in cambio della guarigione: «Madonna mia ‘i l’Itria, chi stai ‘nganna a’sta jumara fammi passà ‘sta freva ‘i quartana c’u jurnu tuju non vugghiu mangia’ panu».colonia-malaria-sila

    I metodi della Colonia Silana Federici non tardarono a mostrarsi più efficaci. E la struttura crebbe di anno in anno, grazie alle donazioni che arrivarono. Ci furono contributi dalla regina Elena in persona, così come dalla Croce Rossa, dalla Fondazione Carnegie, dal Consiglio Nazionale delle Donne Italiane, dall’Associazione Donne di Cremona, dalla marchesa Lucifero di Crotone. Il marchese Berlingieri offrì un padiglione, un altro lo regalò l’ingegnere Barrese. Le Maire donò una campana e la contessa Adorno fece erigere una chiesetta in legno per ricordare suo figlio Enrico, aviatore morto nel corso di un’esercitazione.

    Malaria o tubercolosi, si va in colonia in Sila

    La Colonia Silana Federici nel frattempo era diventata un ente morale e il fascismo aveva sostituito l’intestazione a Domenico Migliori con una al quadrunviro Michele Bianchi. I bambini guarirono a centinaia e si andò avanti così anche dopo la guerra, quando nella struttura iniziarono a occuparsi anche di tubercolosi. La malaria, in Sila come nel resto d’Italia, era ormai praticamente scomparsa. Salvo rari casi isolati di viaggiatori di ritorno da qualche paese africano, l’abbiamo debellata definitivamente nel 1970.

    Sarà forse per questo che proprio in quel decennio a Camigliatello la struttura ha iniziato lentamente a andare in malora. Per un po’ ci ha tenuto corsi di formazione la Regione, poi si è dibattuto a lungo su chi fosse il vero proprietario della struttura. Vandali e scorrere del tempo nel frattempo hanno fatto il loro mestiere, con la colonia sempre più malridotta.
    Sindaci hanno dato vita a petizioni online, giornalisti e associazioni hanno sollevato periodicamente il problema del deterioramento progressivo degli immobili. Che hanno un valore notevole, non solo dal punto di vista storico e sociale. Per anni però non si è mosso nulla.

    Una nuova vita, ma senza fretta

    Poi, a inizio 2021, sulle pagine web dell’Ente Parco e di vari quotidiani locali arriva l’annuncio: il ministero dell’Ambiente ha stanziato oltre 3 milioni di euro per il recupero della struttura. Che è del Comune di Spezzano, ma ad occuparsene, sarà, appunto il Parco. Nuova vita per l’ex colonia? Le premesse non mancherebbero. A Federici, si legge nei comunicati di due anni e mezzo fa, dovrebbe nascere «una Scuola di formazione della montagna, destinata alla specializzazione degli operatori, ma pure allo studio e al monitoraggio del bosco, al fine di completare l’Inventario Forestale del Parco Nazionale della Sila». Il tutto condito da efficientamento energetico, foresteria, un centro cultura.

    «Siamo pronti – assicurò il Parco per l’occasione – a iniziare questa sfida bellissima, l’ufficio tecnico è già al lavoro sulla progettazione». Trenta mesi dopo, però, a Federici non c’è traccia di cantieri, se non una rete di protezione che col recupero della struttura non ha nulla a che vedere. I soldi, ci hanno assicurato dal Parco, non sono a rischio, il finanziamento è confermato ma è arrivato solo di recente. La progettazione va invece per le lunghe. Il ritardo di Roma nell’erogazione dei fondi ha impedito di fare granché finora. E le parole di gennaio 2021? «Annunci», appunto, ci confessano con un certo candore. Sperando che i fatti li seguano presto.

    Le immagini all’interno dell’articolo sono tratte dalla pagina Facebook dell’associazione culturale Mistery Hunters o dagli archivi fotografici dell’Istituto Superiore di Sanità.

  • Quattromani: il padre cosentino della letteratura italiana

    Quattromani: il padre cosentino della letteratura italiana

    Nobile, benestante quindi con possibilità di studiare cose “astratte” e “inutili”. E sarebbe un modo per liquidare Sertorio Quattromani in poche battute.
    Ma oltre che ingenerosa, questa liquidazione sarebbe inutile: non spiegherebbe perché una via importante del centro storico di Cosenza è dedicata a lui. E non spiegherebbe perché questo umanista cosentino riceve ancora tanto interesse fuori dalla Calabria dagli addetti ai lavori.
    Filologo e filosofo, Quattromani ha diviso la maggior parte dei suoi 62 anni di esistenza tra la critica letteraria e la divulgazione del pensiero del suo maestro: Bernardino Telesio. E ha un altro merito: aver tolto l’ego dall’Accademia della sua città, nata come Parrasiana, diventata poi Telesiana e, solo sotto la sua gestione, Cosentina.
    Un modo per dire che l’Accademia è della città. Ma anche per affermare che i cosentini che l’avevano fondata erano una élite coi controfiocchi.

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    Il frontone dell’Accademia Cosentina

    Quattromani: un notabile del ’500

    Sertorio Quattromani non è un pioniere come Aulo Giano Parrasio. Le sue biografie, che si basano essenzialmente su un epistolario professionale degno di dieci grafomani longevi, lo raccontano come un personaggio pignolo, metodico e zelante.
    Come uno di quei professori di cui si subiscono i metodi e l’antipatia da studenti ma che non si finisce mai di ringraziare dopo.
    Non è neppure un pensatore della statura di Telesio, il primo grande rinascimentale. Anzi, tutto lascia pensare che Quattromani non abbia osato troppo anche perché schiacciato dalla mole intellettuale del filosofo cosentino. Che tra l’altro figura tra i suoi maestri e nella sua parentela.
    Notabilato e cultura: sono i primi due elementi utili per inquadrare il Nostro.

    Ritratto di Aulo Giano Parrasio

    Quattromani e la Cosenza che conta

    Come per molti notabili, anche nel caso di Quattromani le date sono incerte.
    Nasce, comunque, a Cosenza nel 1541. E vale subito la pena di spendere due paroline sulla genealogia che, per lui, fa tutt’uno con l’araldica.
    Suo padre Bartolo, feudatario della Sila Grande cosentina, è a sua volta rampollo di una famiglia di nobiltà “privilegiata” (cioè di borghesi nobilitati) originaria di Aprigliano e piena zeppa di giuristi, soprattutto notai, e vescovi. Una volta nobilitati, i Quattromani si stabiliscono a Cosenza e fanno parte in maniera stabile del Sedile, cioè il Senato cittadino. Dove siedono spesso assieme ai Telesio, con cui si imparentano. Infatti, Elisabetta D’Aquino, la mamma di Sertorio, è lontana parente di Bernardino Telesio. Ma non finisce qui: la moglie di Bernardino Telesio, nonno del filosofo, è Giovanna Quattromani.
    Fin qui, non c’è una vera differenza tra il patriziato cosentino e le altre nobiltà di provincia della Penisola, perché tutte le famiglie che “nascono” tendono a legarsi fino all’endogamia. La vera differenza è il livello culturale, decisamente alto, dell’élite bruzia dell’epoca, che si divide tra le cariche e le biblioteche e, soprattutto, ha un ruolo sociale davvero forte.
    Già: Antonio Telesio, figlio di Bernardino senior e quindi zio del filosofo e parente in doppia linea di Sertorio, è un accademico di grido, che lascia il Sedile solo per far carriera a Roma.

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    Sertorio Quattromani

    Una provincia cosmopolita

    Non c’è nulla di meglio che acculturarsi in famiglia. Per Sertorio Quattromani l’espressione vale alla lettera: appena quindicenne, frequenta le lezioni che il cugino Telesio tiene periodicamente all’Accademia.
    È in buona compagnia: tra gli uditori ci sono Agostino Doni, medico e filosofo che avrebbe fatto carriera a Basilea, e, giusto per restare in famiglia, il filosofo (un po’ oscuro e decisamente dimenticato) Giovan Paolo d’Aquino, cugino di Sertorio per parte di madre.
    Da buon intellettuale cosentino, il giovane Quattromani ha un imprinting progressista (quasi cattocomunista, secondo gli standard dell’epoca): prima di ascoltare il grande Telesio, ha come precettore Onorato Fascitelli, un benedettino molisano dalle simpatie valdesi che, tuttavia, fa carriera. Infatti, diventa vescovo di Isola Capo Rizzuto a metà ’500 e a dispetto delle sue idee.
    Con questo popò di bagaglio, che la Cosenza bene non avrebbe mai più raggiunto, al Nostro non resta che cambiare aria, per migliorare. Infatti, va a Roma.

    Quattromani supertopo di biblioteca

    A Roma, Quattromani dimostra il suo talento eccezionale di topo da biblioteca. Si esercita nella Biblioteca Vaticana, dove divora di tutto, dai classici greci e latini ai grandi poeti italiani, Petrarca in particolare.
    Su quest’ultimo, il cosentino ha un’intuizione geniale, con cui riscrive la storia, allora nascente, della letteratura italiana. Secondo lo studioso, infatti, Petrarca si sarebbe ispirato ai poeti provenzali e volgari per comporre il suo Canzoniere.
    Per provare la propria intuizione, Quattromani non esita a ricorrere alle “pastette”. Quelle dei compatrioti, come l’alto prelato e nobile Vincenzo Bombini, allora impegnato nel Concilio di Trento assieme a Tommaso Telesio, arcivescovo e fratello del filosofo.
    E quelle, forse più efficaci, dell’editore Paolo Manuzio, che convince papa Pio IV a mettere a disposizione di Quattromani tutte le biblioteche capitoline. Dopo aver ingurgitato questa impressionante mole di opere, il Nostro decide di raggiungere Bernardino Telesio, che nel 1565 si trova a Napoli per divulgare e difendere la sua opera.

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    Papa Pio IV

    Telesio nei guai con la Chiesa

    Si è già capito che la Chiesa ha avuto un’influenza determinante anche nella nascita dell’umanesimo più laico.
    Tuttavia, la Chiesa dell’epoca di Telesio e Quattromani, non è più quella cosmopolita e, a modo suo, progressista della generazione precedente.
    È una Chiesa irrigidita e incalzata dalla Riforma, che sceglie, col Concilio di Trento, il razionalismo e punta tutte le sue fiches su Aristotele. Non proprio l’ideale per i nuovi filosofi alla Telesio, che invece si ispirano ai presocratici per costruire i propri sistemi di pensiero, più o meno “rivoluzionari” e comunque di rottura proprio con l’aristotelismo.
    Nello stesso periodo, il pensatore cosentino inizia la riedizione delle sue opere e tutto lascia pensare che Quattromani sia andato a Napoli per aiutare il maestro.
    Ma stavolta le amicizie e le parentele che contano possono poco: i libri di Telesio, ripubblicati nella Capitale nel 1570, finiscono all’Indice. Quattromani si dà da fare per evitare la condanna e fa pressioni su Bombini, diventato nel frattempo protonotaro apostolico della Curia romana sotto Pio V e Gregorio XIII.
    Ne esce un compromesso superclericale: le opere restano all’Indice dei libri proibiti, ma con la formula ambigua “Donex expurgentur”, cioè fino a quando non saranno ripuliti. Da vietati, i libri telesiani diventano “vietatini” (quindi leggibili più o meno sottobanco). Analoga fortuna non l’avranno gli altri grandi pensatori dell’epoca, Bruno e Campanella, molto più espliciti del cosentino e, soprattutto, molto meno protetti.

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    La statua del filosofo Bernardino Telesio a Cosenza in piazza XV Marzo

    Quattromani torna a Cosenza

    Finalmente il Nostro rientra a Cosenza per restarvi, salvi vari viaggetti a Roma e Napoli, puntualmente registrati nelle sue lettere.
    Da buon rinascimentale, Quattromani coltiva un epistolario monumentale, dove racconta sé stesso e i suoi studi. Scrive a tutti e dappertutto: da Roma, Cosenza, Cerisano ecc. E fa l’intellettuale a tempo pieno. Traduce (o “volgarizza”, come si diceva allora) i classici latini in quantità industriali, come se non ci fosse un domani.
    E si dà un gran da fare nell’Accademia Telesiana (già Parrasiana), dov’è braccio destro del suo maestro.
    Alla morte di Telesio (1588), che aveva trasformato l’Accademia in un club filosofico, Quattromani prende le redini dell’istituzione, la riorganizza e le dà un’impronta più letteraria, forse meno rischiosa della filosofia.
    Ma la filosofia comunque non sparisce: né dall’Accademia né dalle preoccupazioni di Sertorio, che omaggia il suo maestro con La filosofia di Bernardino Telesio ristretta in brevità, un “bignamino” del pensiero telesiano, dedicato per l’occasione a Ferrante Carafa, il duca di Nocera.

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    Immagine di Cosenza all’epoca di Sertorio Quattromani

    La fine e l’eredità

    La biografia di Sertorio Quattromani non è particolarmente emozionante. L’intellettuale cosentino non è un “rivoluzionario” né un “riformista”: è solo uno studioso acuto e capacissimo, che ha fatto (bene) il proprio mestiere al riparo del notabilato a cui apparteneva e non ha mai messo in discussione il “sistema”. Non in maniera pubblica, almeno.
    La data precisa della morte, causata dai soliti acciacchi dei benestanti (tra cui l’immancabile gotta) è incerta. Lo studioso Luigi De Franco ipotizza il 10 novembre 1863, che è poi la data del testamento.
    A dispetto di un’immagine piuttosto polverosa, Quattromani ha un merito serio: aver contribuito all’affermarsi della lingua italiana, che identifica nella parlata dell’alta Toscana (per capirci, la stessa utilizzata dagli speaker più bravi).
    L’eredità fisica più importante è costituita dalla sua biblioteca, lasciata alla nipote, figlia della sorella Giulia: la poetessa e accademica cosentina Lucrezia della Valle.
    Ma questa è un’altra storia.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Parrasio: il papà giramondo dell’Accademia Cosentina

    Parrasio: il papà giramondo dell’Accademia Cosentina

    Di Aulo Giano Parrasio si sa molto. Ma non tutto quel che si sa è preciso.
    Ad esempio, il luogo di nascita, che di solito è autorevolmente indicato in Figline Vegliaturo, un paese di poco più di 1.200 abitanti a sud-est di Cosenza.
    Tuttavia c’è chi ipotizza che il luogo di nascita dell’intellettuale cosentino fosse, invece, Serra Pedace, che ora fa parte di Casali del Manco e non confina neppure con Figline. E non manca chi pensa a Cosenza.
    Più certi il giorno di nascita, 28 dicembre 1470, e i dati familiari, che forniscono un identikit socio-economico piuttosto dettagliato di Parrasio.
    Nato come Giovanni Paolo Parisio, il Nostro era figlio di Tommaso, un giurista molto apprezzato e discendente dei feudatari di Figline, e della nobildonna Bernardina Poerio.
    Si tratta, nel suo caso, di una nobiltà decaduta, in seguito alle lotte feroci tra angioini e aragonesi, e costretta a riciclarsi nelle professioni liberali.

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    Ritratto di Aulo Giano Parrasio

    Parrasio umanista mediterraneo

    Per papà Tommaso la scappatoia è la laurea “in Utroque”, per Giovanni Paolo, invece, è la filologia.
    Infatti, va a lezione di latino e greco da Crassio Pedacio e da Tideo Acciarino Piceno, un illustre studioso marchigiano arrivato a Cosenza nel 1880 al servizio dei Sanseverino e rimastovi per dieci anni.
    Poi, come tutti i rampolli delle famiglie bene, cambia aria e va prima a Lecce e poi a Corfù, per approfondire il greco. Quindi ritorna a Cosenza, dove prova ad aprire una scuola sull’esempio dei suoi maestri. Ma, evidentemente, le cose non vanno troppo bene. Ed ecco che Parisio, il quale nel frattempo ha latinizzato il suo nome in Parrasio, cambia di nuovo aria e nel 1491 va a Napoli. E lì scopre un mondo.

    La cultura al Sud

    A questo punto, serve una piccola operazione verità. Innanzitutto, non è vero che nel medioevo la cultura classica fosse scomparsa.
    Si era, più semplicemente, inabissata la letteratura greco-romana. Ma il latino e il greco sopravvivevano, anche a livello di massa, perché i due più grandi best seller dell’epoca erano scritti in latino e greco. Ci si riferisce alla Bibbia e al Corpus Juris Civilis.
    Ancora: nel Sud Italia il greco restava piuttosto diffuso, sia nelle classi colte sia a livello religioso. Si pensi, giusto per fare un esempio, al ruolo del monaco basiliano Barlaam di Seminara (che, tra le varie, fu anche maestro di Boccaccio).
    Il Sud, a cavallo tra medioevo e rinascimento, è ancora un territorio importante e conteso: è il centro del Mediterraneo, ancora non “scavalcato” dalle rotte atlantiche. Napoli e Palermo sono due capitali di tutto rispetto che surclassano Roma e non hanno nulla da invidiare a Firenze. Le élite meridionali sono in genere aperte e cosmopolite e scommettono non poco sulla cultura. Parrasio è uno degli ultimi esponenti di questa nobiltà che lancia le ultime fiammate prima di declinare.

    Il monaco Barlaam di Seminara

    Parrasio nella Napoli degli Aragona

    Vuoi per le origini nobili, vuoi per sensibilità culturale della nobiltà napoletana, vuoi perché Napoli è accogliente, Parrasio si sente subito a casa.
    Si lega a Giovanni Pontano, un umanista umbro al servizio degli Aragona. Pontano vuol dire senz’altro cultura: riscuote un grande successo nei circoli “dotti” ed è il fondatore dell’Accademia Pontaniana. Ma significa anche politica.
    Parrasio approfitta di entrambi gli aspetti: entra nell’Accademia e, soprattutto, a corte, dove riceve la protezione di re Ferdinando II di Aragona, che lo riempie di riconoscimenti e quattrini.
    Troppo bello per essere vero? Forse. Soprattutto, troppo bello per durare: Ferdinando muore nel 1496 senza eredi. Gli succede lo zio Federico, che di sicuro non simpatizza con lo staff del nipote. Infatti, l’intellettuale cosentino abbandona Napoli e si rifugia a Roma. Ci resta giusto il tempo di farsi notare dal clero-che-conta e, soprattutto da Pomponio Leto, un umanista che lavora per il papa ma vuole restaurare la religione imperiale. Leto iscrive Parrasio nella sua Accademia Romana. Per fortuna sua, quest’ultimo lascia la città dei pontefici per tempo, cioè nel 1498. Altrimenti sarebbe finito nella retata dei papalini contro l’Accademia.
    La meta successiva di Parrasio è Milano. Un must per i calabresi di tutti i tempi…

    Ferdinando II d’Aragona, re di Napoli e duca di Calabria

    Parrasio e i veleni tra intellettuali

    Il cosentino arriva nella Milano degli Sforza, dove domina Ludovico il Moro, a inizio 1499.
    Qui conosce Alessandro Minuziano, un foggiano di origini oscure, che fa l’editore. In realtà, Minuziano è un superfaccendiere. Filologo geniale e – secondo i critici – un po’ arronzone, il pugliese gestisce una biblioteca e un pensionato di studenti. Ha buone entrature a corte, ma fa troppe cose. Perciò ha bisogno di un collaboratore.
    Assume quindi Parrasio, di cui nota l’estrema abilità nella scrittura latina, e lo usa come ghost writer.
    Tuttavia il rapporto tra i due si incrina, a causa di un terzo incomodo: il cattedratico Emilio Ferrario, che disistima Minuziano e non lo nasconde affatto. Anzi, arriva ad accusare il pugliese di aver stravolto Cicerone e si fa beffe di lui con dei versi micidiali.
    Parrasio, all’inizio si schiera con Minuziano.

    Una carriera in ascesa

    L’arrivo dei francesi a Milano cambia le carte in tavola. Ferrari, legatissimo agli Sforza, deve lasciare la città e la cattedra di Eloquenza. Parrasio, che gode del favore dei francesi, ne prende il posto. E inizia a far concorrenza al suo ormai ex mentore.
    Minuziano, che evidentemente è la classica malalingua, mette in giro calunnie pesantissime. A suo dire, Parrasio sarebbe scappato da Napoli perché colpevole di omicidio. E non basta: lo accusa anche di pederastia.
    Ma il cosentino, per quanto amareggiato, tira dritto. Anzi, si lega all’ateniese Demetrio Calcondila, una specie di Machiavelli dei Balcani rifugiatosi a Milano in seguito a gravi problemi politici, e ne sposa la figlia Teodora. E ottiene la protezione di Étienne Poncher, vescovo di Parigi e membro influente del Senato meneghino.

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    Demetrio Calcondila

    I meriti di Parrasio

    Un piccolo intermezzo per rispondere a una domanda banale: quale fu l’importanza vera di questa generazione di umanisti, di cui Parrasio fu la classica punta di diamante?
    Con non poca retorica, parecchi storici attribuiscono a questi intellettuali il merito di aver recuperato il meglio della cultura classica.
    In realtà, le cose sono più complicate, perché quella cultura non era mai andata persa. L’aveva salvata la Chiesa, in particolare i monaci, che per secoli avevano copiato e conservato manoscritti.
    Parrasio e i suoi colleghi hanno, semmai, un altro merito: la divulgazione di questa cultura in chiave laica. E attenzione: a questo processo non è estranea la stessa Chiesa, che si serve volentieri dell’opera di questi umanisti.
    Lo prova il rapporto tra Parrasio e Poncher. Grazie ai buoni uffici del vescovo francese, il cosentino cura le riedizioni di Ovidio e Claudiano ed entra nei giri politici che contano. Ovviamente, questo tipo di rapporti tra Chiesa e intellettuali contiene il classico boccone avvelenato: questi filologi laici sono più spregiudicati e pubblicano di tutto, a partire dai presocratici e proseguendo con opere esoteriche.
    Questa spregiudicatezza darà le basi al pensiero filosofico successivo, che prenderà direzioni di rottura con il sistema ecclesiastico (Telesio) o sconfinerà nell’eresia e nell’anticlericalismo (Campanella), con conseguenze a volte tragiche (Bruno). Ma questa è un’altra storia.

    L’odierna piazza Parrasio, nel centro storico di Cosenza

    Parrasio intellettuale girovago

    A Milano l’aria diventa pesante per Parrasio: Poncher è richiamato in Francia. Gli subentra Jeoffroy Charles, che prende a benvolere il cosentino, ma ha meno potere per tutelarlo.
    Per questo, Parrasio decide di tagliare la corda. Girovaga tra Vicenza, Pavia e Venezia. Poi, stanco e acciaccato dalla gotta, nel 1511 torna a Cosenza con molti libri e pochi quattrini. Perciò, per sbarcare il lunario fonda una scuola privata: è l’Accademia Parrasiana. Questa istituzione ha un bel successo che, forse, va oltre le intenzioni del fondatore: una generazione dopo la prende in mano Telesio e la ribattezza Accademia Telesiana. Poi la gestione passa a Sertorio Quattromani, che le dà il nome con cui è tuttora nota: Accademia Cosentina.
    Ma i quattrini scarseggiano e il Nostro deve rimollare Cosenza. Stavolta per Roma, dove papa Leone X gli affida una cattedra di eloquenza.
    Stavolta Parrasio non ha nemici, tranne la salute, che lo costringe a tornare a Sud, prima a Napoli, dove gode della protezione di Isabella d’Este, infine a Cosenza, dove arriva moribondo e si spegne il 6 dicembre 1821.
    Ha cinquantuno anni portati malissimo e, alle spalle, un’esistenza passata tra biblioteche e politica che ne vale almeno quattro.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Colta? Sul fatto: la solita Cosenza (Iva esclusa)

    Colta? Sul fatto: la solita Cosenza (Iva esclusa)

    Tempo fa, in occasione di poco rincuoranti risultati elettorali, un amico mi scriveva «in Calabria il feudalesimo non è stato abolito ma si è semplicemente evoluto». Descrizione indiscutibile. L’irrecuperabilità della situazione è conclamata, a Cosenza come altrove. Basterebbe un cambio di mentalità? E quante generazioni occorrono? Una mutazione genetica vera e propria? Una glaciazioncella riequilibratrice?

    Cosenza e la politica

    Recentemente, tra le mie tante scherzose utopie politiche (che chiaramente farebbero ridere i miei colleghi giuristi, e quantomeno i costituzionalisti) si affacciava questa: esiste l’Unione Europea? Bene. Ne facciamo parte? Bene. Allora che gli amministratori di ogni Paese siano destinati, a turno e a sorte, e a tempo determinato, ad amministrare un altro Paese anziché il proprio. Vediamo se qualcuno è capace di raddrizzarci. Vediamo se siamo capaci di fare schifezze dove storicamente attecchiscono con più difficoltà (ehm… su questo mi sa che siamo già collaudati). E vediamo se certa mentalità da quattro soldi continua a proliferare. Beaux rêves

    A Cosenza c’era addirittura uno che si candidava giusto perché gli era crollato un palazzo davanti casa. Bisogna arrivare a questo. Alla fine, ma proprio alla fine, qualcosa che smuove il sentire civico si trova. C’era un politicante locale che mi faceva sapere per conto terzi di volermi nella sua lista (a me anonima nullità – specie a Cosenza –, residente da quasi trent’anni in un’altra Regione) per poi parlarmene a quattr’occhi in maniera molto meno che poco rassicurante. Il classico “giro in macchina” di registro mafiosesco, perfetto per un film di Scorsese ma sgradevolissimo per la vita reale.

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    Una scena da “Quei bravi ragazzi” (Martin Scorsese, 1990)

    Cose tipiche e insopportabili

    Quest’è, questa è ancora la mentalità. E trent’anni fa la percezione che avevo di Cosenza era addirittura migliore di quella odierna.  Sembrava una città almeno familiare, ora pare più volgare, più litigiosa, supponente all’inverosimile, tendenzialmente incapace, con una cultura media di livello piuttosto discutibile. Una città piena di troppa gente che non svolge i compiti per cui è pagata e di disoccupati la cui voce non importa a nessuno. Di finti intellettuali (che spesso gestiscono male tanti soldi veri) che non conoscono quasi mai gli argomenti di cui parlano; di istituzioni assolutamente sorde e autocelebrative (e mi raccomando, per contattare i referenti bisogna scrivere su Facebook, mica sulla PEC istituzionale). Una città di approssimazione, maleducazione… devo continuare?

    Mi viene in mente la favolosa poesia di Remo Remotti su Roma (Mamma Roma Addio), in cui il romanissimo attore infilava una dietro l’altra tutte le cose tipiche e perciò ormai insopportabili della Città Eterna. Ecco, lo si dovrebbe e potrebbe fare anche per Cosenza. Ma forse l’elenco sarebbe troppo lungo.

    Cosenza dalle mille contraddizioni

    «E me ne andavo da questa Cosenza…», comincerebbe così. Da quella Cosenza degli Alimentari e Diversi, dalla Cosenza delle graffe, del càrrefur e dei profìtterol scritti e pronunciati così. La Cosenza del collega che è uscito un momento per fare un’Ambasciata e degli Accademici imbalsamati (immedesimazione nelle mummie?). Degli impiegati entrati con la dueottocinque e degli operatori culturali improvvisati e tendenti alla magniloquenza da quattro soldi (IVA esclusa). La Cosenza del cilicio, dei focolarini, dei numerari e dei soprannumerari della follia. La Cosenza dei laici che votano i cattolici, “sotto il grembiule il cilicio” e un piede furbamente in due scarpe diverse.

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    Un articolo di qualche anno fa su una Cosenza sempre attuale

    Degli editori che editori non sono, dei dilettanti di genio che pontificano di tutto, dalla grafica alla pedagogia, dalla fotografia alla storia, dalla gastronomia alla politica. Dei sedicenti intellettuali in pantaloni di velluto rosso che tentano ridicolmente di imbastire conversazioni a gambe accavallate. La Cosenza del tribunale in cui i giudici devono per forza dire «attesoché» dieci volte al giorno. Dove «il pm nulla osserva». E dove l’avvocato pavido «ricorda innanzitutto a se stesso prima che alla Corte» e poi scivola sulla questione che «ci attaglia», sui «duri di comprensorio» sulla «congerìe», “sul” Zanardelli e sulle “barracche”.

    Baracche e corso Mazzini

    Già, le baracche… S’è ripulito Gergeri e via Reggio Calabria, ché di pasoliniano c’era già troppo nel centro storico e c’è ancora. E però, più del centro storico, quelle due baraccopoli mi facevano venire in mente un episodio di Dino Risi, Due cuori e una baracca (1973), con Giannini e un’improbabile Laura Antonelli strabica. L’episodio fu una prova generale dell’autore Ruggero Maccari per il successivo film Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola (1976), quello con Manfredi, con tanto di vecchia nonna intenta a fumare la pipa in baracca e ripetizione di identici nomi. Chiusa parentesi. Una volta scesi dalla macchina per dare un’occhiata da quelle parti, lo squittio dei topi sembrava un cinguettio diffuso. Non ho idea di quanti potessero essere.

    Quanto a proletariato in via d’estinzione, un certo chioschetto che fa cuddrurieddri e vecchiareddre in una certa piazza della città può offrire veramente il meglio di sé nelle sere d’agosto: ottimo punto di osservazione privilegiato su una certa naïveté genuina, direi quasi “bio”, che si va perdendo. E poi è anche un melting pot di nuovi arrivi: giovani famigliole dell’Est, o indiane, o dell’Estremo Oriente, non ancora contaminate dal bisogno (né dalla possibilità) di fare le vacanze fuori città. Un luogo che mette pace.
    Al contrario, su Corso Mazzini tocca fare lo slalom in mezzo a quattro ragazzetti tamarri anziché no, autoctoni, risaliti da qualche traversa un po’ più a valle, km zero, con i monopattini quando va bene ma soprattutto con le bici elettriche dagli pneumatici extra large (perché non si sa mai).

    È cambiato anche il dialetto

    Ho notato che nel tempo è cambiato pure il dialetto. Più sguaiato, le vocali accentate sono sempre più aperte, spalancate, divaricate, al limite dell’autocaricatura. Una volta il dialetto lo si imparava a scuola, dai compagni di classe, per appuntarsi al petto un necessario attestato di machismo che l’italiano a queste latitudini non garantisce. Il tutto mentre le anziane maestre si ostinavano – mai capito il motivo – a dire «Frìuli», «qualsièsi», «perièdo», «austrièco».
    Alle Poste Centrali, invece, due ore di fila sono ottime per l’osservazione delle facce e per capire come mai siamo nel Bruttium: il teatro anatomico dello zoomorfismo.

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    Ammonimento in un ufficio pubblico cosentino (foto L.I. Fragale)

    E non basta l’onnipresente, proverbiale pioggia cosentina, per lavare i peccati di questa città. La pioggia, a proposito… ma è possibile che, appena spunta il sole, mezza popolazione si metta a fare jogging? I commercianti cosentini del settore “abbigliamento sportivo” continuano ad accendere un lume a chi inventò viale Mancini. Da allora, un’impennata inarrestabile nelle vendite di tute e affini. L’estate scorsa, addirittura, avvistato tizio con bastoncini da trekking.

    Cosenza da Atene a Sparta

    Invece, la Biblioteca Civica restava deserta. Millecento ingressi all’anno quando andava bene (eppure a Cosenza dicono quasi tutti d’essere grandi depositari di cultura, acquisita in chissà quali sudate ricerche) e quando veniva presentato qualche discreto libro, gli invitati dovevano essere trascinati per l’orecchio o, possibilmente, per la gola.

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    L’ingresso della Biblioteca Civica

    Non è un male esclusivamente cosentino, per carità: l’Italia galleggia sull’ignoranza. La gente, a seconda della fascia d’età, si divide tra giovani sguardi bassi sul cellulare, medi e anziani rimbambimenti tra televisione e social network, commentandosi a vicenda gli aforismi copincollati o le catene di Sant’Antonio. Così passano le vite. Così le vite passano. Facendo cose vuote, in un impalpabile abbrutimento.
    Poi ci si sorprende – e nemmeno abbastanza – che la sedicente Atene della Calabria ne sia diventata la mera Sparta.

    Miseria e nobiltà

    Non solo pigrizia, ma pure vergogna. Piccoli Comuni di tutto il Mezzogiorno sono riusciti negli ultimi decenni a far pubblicare i lavori di qualche studioso locale che ha avuto la pazienza di studiare il Catasto Onciario del proprio paese di provenienza. Brevissima spiegazione semplificata: il Catasto Onciario era una specie di censimento con acclusa dichiarazione dei redditi, redatto nella seconda metà del Settecento, oggi utilissimo per le ricerche storiche e genealogiche. Vi siete chiesti come mai un capoluogo come Cosenza, patria d’arroganza, non ha mai avuto nessuno che ne pubblicasse il relativo Onciario? Ve lo dico io: perché significherebbe mettere alla berlina molta presunta nobiltà ottocentesca e buona parte di una Cosenza oggi apparentemente bene, ma in realtà decisamente parvenu. Ma proprio decisamente.

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    Cosenza, anni ’50: anonimi spettatori al tirassegno (archivio L.I. Fragale)

    Proviamo invece a osservare le vecchie foto che venivano scattate automaticamente nei tirassegno dei luna park tra gli anni ’40 e ’60. Provate a non fare caso al tiratore immortalato, al vostro parente che faceva centro. Guardate gli spettatori, perlopiù passanti casuali. Notate la necessaria attenzione che prestano in quell’istante, che li rende tutti involontariamente dei figuranti sbalorditivi, delle comparse straordinarie (anzi meravigliosamente ordinarie). A raccoglierle, ne verrebbe fuori il perfetto teatro umano dell’Italia del dopoguerra. Che era pur meglio di questa.

     

  • MAFIOSFERA| Sibaritide e clan: il dito e la luna

    MAFIOSFERA| Sibaritide e clan: il dito e la luna

    Il 16 settembre 2020, tra imminenti nuovi lockdown per contenimento del Covid e la fine della prima estate pandemica, un tale Claudio Franco Cardamone, di Corigliano-Rossano, è a bordo di un’Audi A4 e sta per valicare i confini tedeschi. È in compagnia di un altro soggetto e insieme sono apparentemente diretti in Belgio. Le autorità del Polizeipraesidium di Francoforte sul Meno stanno seguendo l’autovettura e l’uomo della Sibaritide. Lo vedono entrare in un’abitazione di Hanau, in Germania. A quel civico sono ufficialmente residenti Carmelo Bellocco e Federica Viola, lui di Rosarno, lei di Palmi.

    Dalla Sibaritide alla Germania per il clan

    Claudio Franco Cardamone – conosciuto come Il Bello o anche Marine o Taccagno – è un astro emergente del narcotraffico sul territorio dell’alto Jonio cosentino. Lo arresteranno in seguito a ordinanza di custodia cautelare a firma della Direzione distrettuale Antimafia di Catanzaro i primi di giugno 2023, in un’indagine, Gentleman 2, contro il clan Abbruzzese-Forastefano di Cassano Jonio e i loro gruppi satelliti di Corigliano-Rossano, sempre nella Sibaritide. Secondo gli inquirenti, tra 26 persone coinvolte nell’ordinanza, ci sono individui che gestiscono la distribuzione di stupefacenti nell’alto Jonio cosentino; arriva dal Sudamerica ma passa per l’Europa per poi finire sul mercato a Cosenza, Vibo Valentia e anche Reggio Calabria.

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    Claudio Cardamone

    Cardamone è considerato il punto di riferimento del gruppo Abbruzzese-Forastefano in quanto riesce, si legge nell’ordinanza, a «intavolare trattative per l’importazione di partite di cocaina dal Sudamerica da destinare al mercato europeo e in particolare al territorio calabrese». Cardamone è dunque un broker locale. Lavora insieme a un altro soggetto Rosario Fuoco – detto Schmitt – anch’egli dell’entroterra cosentino, di Campana, che a Francoforte sul Meno gestisce la pizzeria Da Dino, appoggio logistico dei coriglianesi in visita d’affari in Germania. Entrambi sono «pienamente inseriti nel panorama del narcotraffico internazionale».

    Il narcotraffico al contrario

    In Operazione Gentleman 2, che segue appunto l’indagine Gentleman del 2015, sempre contro le cosche del territorio, ci sono una serie di spunti interessanti. Soprattutto, per capire il narcotraffico, per così dire, al contrario. Infatti, per soddisfare gli appetiti dei gruppi criminali della Sibaritide, lo stupefacente arriva non in Calabria – come spesso pure accade per mano di clan di ‘ndrangheta – ma in Germania, Belgio o Spagna. Dunque si muove al contrario, verso la Calabria e non dalla Calabria.

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    Navi cariche di container nel porto di Gioia Tauro

    Sembra infatti peculiare notare come questo sia in parziale controtendenza alle stime della DCSA (Direzione Centrale per i Servizi Antidroga) nell’ultima relazione del giugno 2023, per cui «a Gioia Tauro si concentra l’80,35% dei sequestri di cocaina effettuati alla frontiera marittima, con un’incidenza del 61,73% sul totale nazionale», nel 2022.
    Si tratta dunque di reti del narcotraffico che necessitano organizzazione diversa. La distribuzione e lo spaccio sono sì in Calabria, ma l’importazione avviene invece altrove.

    Germania d’appoggio e Sibaritide piazza per i clan

    Dunque, le quantità dello smercio e delle forniture sono diverse (10-20-50 kg si distribuiscono, ma molti di più se ne importano), le alleanze pure. Serve infatti collaborare con altri attori che importano, siano essi albanesi, italiani o spagnoli.
    Sono sicuramente chiari anche gli obiettivi del gruppo – il profitto, ovviamente – e la capacità di movimento. La Germania è luogo prediletto come “appoggio”, ma la Sibaritide è la piazza.

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    Angelo Caravetta

    Ci sono soggetti coinvolti in questa operazione che fanno emergere un po’ di domande in più a chi la analizza. Un esempio? Angelo Caravetta, che hanno arrestato in questa operazione e vanta esperienza decennale nel traffico di stupefacenti grazie anche a viaggi e collegamenti in Spagna. Tra il 2013 e il 2018 Carevetta è stato politico locale a Corigliano, eletto in consiglio comunale. Ci sono molte domande relative allo stato della democrazia in Calabria che arrivano sempre molto puntuali quando succedono queste cose.

    L’unione fa la forza

    Ma torniamo al viaggio del settembre 2020 perché ci aiuta a ragionare su un altro elemento di questa indagine e cioè l’esistenza di una squadra investigativa comune tra Italia, Germania, Spagna, Belgio, proprio per operare in modo più svelto e condividere le indagini in Europa, grazie al supporto di Eurojust ed Europol. Le squadre investigative comuni (Joint Investigative Teams, JITs) sono di gran lunga lo strumento che gli operatori del settore – analisti, poliziotti, magistrati – prediligono perché aiutano ad evitare i ritardi della burocrazia che naturalmente esiste quando bisogna condividere dati e materiali di indagine da paese a paese.

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    La sede di Eurojust

    Se indaga la polizia tedesca e condividerà poi gli elementi di indagine con la DDA di Catanzaro, è sicuramente molto meglio per tutti da un punto di vista di capacità di indagine e di gestione delle autorità del territorio. Lo si dice sempre, ma sta diventato sempre più ovvio anche nella pratica: l’unico modo per contrastare il narcotraffico europeo è la collaborazione. Non solo negli arresti, ma già dalle indagini. Perché qui di narcotraffico si tratta, anche se al contrario, verso la Calabria.

    Una ‘ndrangheta “non mafiosa”

    Quel viaggio di Cardamone in Germania nel settembre 2020 e la presenza di Carmelo Bellocco ci permettono di riflettere su un’altra cosa ancora. Bellocco ha vari precedenti penali ed è membro di uno dei casati principali della piana di Gioia Tauro. Eppure non ha rapporti costanti o diretti con i vari membri dell’organizzazione criminale sotto indagine in Gentleman 2. Anzi, si legge nell’ordinanza che «sebbene non si nutrano dubbi in ordine all’inserimento dell’indagato nel traffico internazionale di stupefacenti, non si reputano sussistenti sufficienti elementi per affermare che in detto contesto egli operi legato da vincoli con i ritenuti sodali».

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    Nicola Gratteri durante la conferenza stampa sull’operazione Gentleman 2

    Insomma, Bellocco, che è uno ‘ndranghetista in un circuito del narcotraffico di primo piano, non è coinvolto a tutto tondo nell’operazione. E che ci sia la ‘ndrangheta ma non le condotte tipiche di mafia, ex articolo 416-bis del Codice penale, risulta chiaro nel resto dell’ordinanza. Essa esclude la mafiosità dell’associazione e che i proventi illeciti siano confluiti in tutto o in parte nelle casse dell’associazione mafiosa.
    Si opera dunque – e non è affatto raro nelle operazioni del narcotraffico, soprattutto della distribuzione di stupefacenti – una differenziazione tra gli obiettivi di profitto, che sono comuni nel crimine organizzato, e quelli di potere, che sono comuni al crimine organizzato di natura mafiosa.

    Sibaritide: clan sì, ‘ndrina pure?

    Si pone qui sempre lo stesso problema interpretativo-analitico quando si parla di ‘ndrangheta fuori dai territori canonici (Reggio Calabria e dintorni, fino al confine con le province di Vibo e di Crotone per capirci). Che il clan Abbruzzese-Forastefano sia un’organizzazione di stampo mafioso della Sibaritide, ai sensi del codice penale, sembra abbastanza pacifico quanto meno nella giurisprudenza. Ma che venga chiamato ‘ndrina e dunque clan di ‘ndrangheta non è necessariamente accurato. A maggior ragione quando – come nel caso di Gentleman 2 – il clan non opera secondo modalità mafiose ma solo per logiche di profitto criminale.

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    Un panorama di Cassano

    La giustapposizione che si fa, sempre troppo facilmente e superficialmente, è tra organizzazione mafiosa in Calabria e ‘ndrangheta. Come se tutte le organizzazioni mafiose in Calabria fossero “attratte” dal marchio e dall’organizzazione della ‘ndrangheta di default solo perché stanno in Calabria.
    È certamente vero che esistono delle somiglianze tra gruppi del nord e del sud della regione,. Ma esistono anche importanti differenze – tra cui proprio le reti del narcotraffico, come evidenziato in questa sede – di cui sappiamo comunque troppo poco perché continuiamo ad applicare le “lenti” della ‘ndrangheta (e dunque certe aspettative che ne derivano). E così ci perdiamo i dettagli e le specificità dei gruppi nel contesto di riferimento.

    La legge del mercato

    Volendo togliere l’etichetta e le lenti di ‘ndrangheta agli Abbruzzese-Forastefano per un momento (senza per questo togliere loro quella di mafia, se e quando utile a comprenderne l’operato) e guardando poi ai loro traffici di stupefacenti, ci accorgiamo che il loro comportamento non è in linea con i comportamenti di ‘ndrangheta quanto più lo è con i comportamenti di altre organizzazioni criminali operanti nel mercato degli stupefacenti e che incidono sul territorio di riferimento in modo molto dannoso. I clan di ‘ndrangheta sono spesso importatori di cocaina, ma anche fornitori per altri gruppi (cioè la comprano e la rivendono all’ingrosso).

    Ma non tutti i clan (mafiosi e non) calabresi si comportano così o addirittura utilizzano la fornitura della ‘ndrangheta. Le scelte, nel mondo del narcotraffico sono dettate da logiche di mercato quanto da opportunismo. Le tendenze europee, confermate anche nella relazione 2023 della DCSA, mostrano infatti come per l’importazione e la distribuzione di stupefacenti, soprattutto cocaina ma anche altri narcotici, ci siano moltissimi attori criminali attivi a specializzazione crescente, di origine mista e soprattutto dalla natura nucleare operante tramite rete.

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    Nikolaos Liarakos, latitante greco in contatto con i Forastefano

    Non è un caso che tra i principali fornitori del gruppo Abbruzzese-Forastefano, e di Cardamone come suo broker, siano albanesi e greci, dominanti sia per le importazioni sia per la logistica. Grazie a questi fornitori e a individui in Messico e in Colombia che possono garantire i contatti con i cartelli della produzione e del narcotraffico dall’America Latina, il gruppo riesce a partecipare all’importazione (si badi bene, non a gestirla né a pilotarla) ad Anversa, in Belgio, o a Rotterdam, in Olanda, per poi spostare lo stupefacente a Francoforte, tramite ‘amici’ calabresi, alcuni anche di “ndrangheta classica” (Bellocco ad esempio), e infine in Calabria per la vendita.

    Sibaritide e clan: si guarda il dito e non la luna

    Operazioni come quella qui in esame ci ricordano che spesso, nel guardare alle notizie, si rischia la proverbiale confusione tra il dito e la luna. Sappiamo tutti della internazionalizzazione della ‘ndrangheta e della capacità dei clan di ‘ndrangheta di operare a diverse latitudini spostando stupefacente per mezzo mondo, spesso (non sempre) passando dal porto di Gioia Tauro, porta del Mediterraneo e dell’Europa. Sappiamo molto meno della situazione in cui versano parti della Calabria dove i gruppi criminali coinvolti nel narcotraffico possono rispondere a diverse logiche e diverse reti e di conseguenza avere almeno la possibilità, se non la capacità, di operare in modo controintuitivo rispetto al resto della regione a matrice ‘ndranghetista.spacciatore-spaccio-droga-2-2

    Questo è il dito. La luna, invece, sta come sempre in quello che si vede meno, e cioè il mercato dei consumi in Calabria. Tutta questa cocaina, tutta l’eroina, destinata alla Sibaritide, chi la consuma? Ci si indigna molto quando gli ‘ndranghetisti spostano tonnellate di cocaina da Gioia Tauro al resto d’Italia e del mondo. Ma quando gruppi locali la cocaina o l’eroina la portano a casa propria, che impatto può avere questo consumo sul tessuto sociale di riferimento, quello stesso tessuto di cui le organizzazioni criminali poi si nutrono? Ma sulla luna dovremo interrogarci in un altro momento.

  • Angeli e demoni, la lunga notte di San Domenico

    Angeli e demoni, la lunga notte di San Domenico

    In una delle sale che si aprono accanto alla sagrestia di San Domenico a Cosenza, ambienti antichi ma piuttosto rimaneggiati e ingombri, vedo appesa alla parete una stampa. Ne ho una uguale a casa, una riproduzione dell’immenso convento domenicano di Soriano Calabro, nel Vibonese, prima che fosse distrutto ripetutamente dai terremoti. Oggi a Soriano è ancora leggibile il perimetro gigantesco dei chiostri, che si estendevano intorno alla chiesa superstite, ricavata da uno dei transetti della grande costruzione originaria.

    San Domenico e gli Oblati: missionari a Cosenza

    La Calabria è costellata di rovine gloriose. Il convento di San Domenico a Cosenza ha superato i secoli, le inondazioni, le requisizioni che l’hanno trasformato in caserma, con interventi arbitrari sulla struttura e dispersione degli arredi. Ma è ancora in piedi, a pochi passi dalla confluenza dei fiumi Crati e Busento, uno dei luoghi più suggestivi della città.
    Da anni i padri domenicani sono andati via. Sono arrivati a sostituirli gli Oblati di Maria Immacolata, una congregazione nata in Francia, nell’Ottocento, e diffusa in tutto il mondo, perché sono dei missionari. Evidentemente hanno deciso che a Cosenza c’era bisogno di missionari votati al sacrificio, come dargli torto?

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    Il rosone all’ingresso della chiesa di San Domenico a Cosenza

    La lunga notte

    Per parlare delle loro missioni hanno aderito alla Lunga notte delle chiese, un’apertura straordinaria, di sera, il 9 giugno scorso, con visite guidate e musica, un aperitivo solidale per raccogliere fondi per le loro missioni. Visto che ormai le università si propongono di notte (i ricercatori devono improvvisarsi intrattenitori per reclutare i futuri studenti), i musei pure, anche le congregazioni religiose devono adeguarsi ai tempi e aprire le porte al popolo della notte. Proprio il contrario di quello che le regole prescrivevano: quando si è fatta una certa si chiude e basta. Chi c’è c’è.

    Scomparse

    Arrivo in piazza Tommaso Campanella che l’aperitivo solidale è in corso. Anche nel locale accanto fanno l’aperitivo, a quest’ora il centro di Cosenza è tutto un aperitivo. Un tempo qui c’era un negozio di cordami e attrezzi vari. Leonida Repaci, che conosceva bene la città, ha ambientato un suo racconto, Magia del fiume, proprio in questa zona, in una delle case cresciute sul convento, accanto alla facciata e al suo splendido rosone.
    Anche Dante Maffia ha dedicato alcune pagine di un suo libro, Il romanzo di Tommaso Campanella, al convento cosentino, al tempo in cui il giovane fra’ Tommaso leggeva i libri della biblioteca domenicana. La biblioteca è svanita, non si sa dove siano finiti i manoscritti e i libri a stampa; si ipotizza che una parte dei testi delle biblioteche ecclesiastiche cosentine siano arrivati, dopo le soppressioni ottocentesche, negli scaffali della Biblioteca Civica.

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    L’interno della Biblioteca civica di Cosenza

    Cosenza, la cappella del Rosario a San Domenico

    L’apertura notturna mi sembra una buona idea, vedo tanta gente che dalla piazza comincia a entrare in chiesa, entro anch’io e mi ritrovo in un piccolo gruppo. Ci sono diverse guide, con la pettorina che si usa in queste occasioni. Cominciamo dalla cappella del Rosario che, ci spiega la guida, è più antica rispetto all’allestimento attuale della chiesa principale, più volte rimaneggiata nel corso dei secoli.

    Ci mostra le tele alle pareti e le immagini inserite nei riquadri del soffitto ligneo; alcune -aggiunge – mancavano già quando Cesare Minicucci visitò San Domenico e segnalò le perdite nel suo libro, Cosenza sacra, del 1933.
    Ma chi è questa signore tranquillo che ci sta accompagnando? Cosenza sacra di Minicucci è uno di quei libri che si potevano consultare, un tempo, in Biblioteca Civica e in pochi altri luoghi. Mi pare insolito che un volontario, per una serata, sia riuscito a procurarsi un testo così raro.

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    La cappella del Rosario

    Misteri

    Dalla cappella passiamo nella sagrestia, ancora riconoscibile l’architettura gotica, nonostante gli interventi piuttosto pesanti che sono evidenti. Tanti gruppi di visitatori si muovono da un locale all’altro, le altre guide sono in fibrillazione per consentire a tutti la visita, soprattutto quella a un luogo difficilmente accessibile e angusto, lo scolatoio.
    Ma il nostro gruppetto non si affretta, il misterioso Virgilio ci sta illustrando le figure del coro ligneo della sagrestia. Le illumina una per una con la torcia del cellulare, per farci cogliere i particolari. Figure maschili con il seno, fauni, Adamo ed Eva con teste di creature lussuriose, e gambe che si sono trasformate in rami e foglie, come in certi racconti mitici.

    Questo coro è un mistero, dice la nostra guida, perché nell’epoca in cui è stato realizzato non si richiamavano più questi motivi medievali, e anche nel Medioevo sono piuttosto rari, rintracciabili in luoghi lontani da Cosenza. La distruzione di molti archivi religiosi rende ardua la ricostruzione delle vicende artistiche, l’individuazione delle maestranze che hanno lavorato qui. Molto interessante, appena ci si accosta ai nostri monumenti saltano fuori intrecci strani, come se da queste parti arrivasse gente da ogni parte del mondo. Probabilmente era così, la piccola Calabria si trovava comunque in mezzo alle terre allora conosciute.

    Luca Parisoli, docente di Storia della filosofia medievale all’Università della Calabria

    Cosenza e i penitenti di San Domenico

    Passa un ragazzo che lo saluta: «Buonasera professore!». Rapida indagine: si tratta del professore Luca Parisoli, docente di Storia della filosofia medievale all’università della Calabria. E con altri incarichi accademici e tante pubblicazioni. Gli Oblati hanno schierato l’artiglieria pesante, per l’occasione. Mi spiega che oblato è pure lui, ma laico, mi dice dopo.
    Dopo, dicevo, perché prima ci espone cos’è lo scolatoio verso cui siamo diretti. Una signora del gruppo ha un’esitazione, perde il sorriso quando sente che in questo scolatoio, un locale circolare con dei sedili di pietra forati, venivano posti a scolare, a perdere gli umori, il grasso e la carne, i corpi dei monaci dopo la morte. In modo da ritrovarsi con gli scheletri puliti e pronti all’inumazione. Periodicamente i frati andavano a pregare presso i corpi dei confratelli in disfacimento, per tenere a mente che per i cristiani la vita sulla terra è solo un breve cammino, prima dell’atra vita, quella eterna.

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    Lo scolatoio

    Il professore ammette che, sì, non doveva essere uno spettacolo piacevole, ma un monaco deve riflettere su certe cose. E poi nei secoli passati il rapporto con la morte era molto più tranquillo rispetto ai tempi nostri. Le persone morivano come mosche, non se ne faceva un dramma.
    La signora rinuncia alla discesa nello scolatoio, forse pensa che sia un luogo sinistro. Io come aspirante reporter vado senza esitazione (anni fa ho visitato quello nel Castello di Ischia, all’interno del convento delle Clarisse). Prendo una ginocchiata tremenda sul muretto che bisogna scavalcare, i rischi del reporter di una certa età. Lo scolatoio è molto semplice, spoglio, il pavimento coperto di terra battuta.

    Scelte radicali e tentazioni ovunque

    La notte delle chiese è un’iniziativa efficace, ma le chiese sono chiese, questi non sono percorsi nel mistero, però possono aiutare a capire quanta distanza ci separa da una scelta radicale come quella di lasciare il secolo. Così dicevano, una volta. Morire al mondo. E poi morire nel corpo e stare nello scolatoio a ricordare ai confratelli più giovani perché stanno lì.
    I domenicani e le altre famiglie religiose nel mondo continuavano a starci, a prendere posizione sulle vicende del mondo. Tommaso Campanella, oltre che studiare e riflettere, fece una serie di cose che lo portarono a un passo dal boia. Per salvarsi finse di essere pazzo e fu tenuto in prigione per molti anni. Congiurare contro il governo spagnolo comportava seri rischi. Anche scrivere libri come La città del Sole poteva portare problemi.

    La Città del Sole, l’opera più famosa del filosofo Tommaso Campanella

    Me ne esco dallo scolatoio con molta precauzione, ripasso dalla sagrestia con le sue misteriose figure. Il prof ha preso in consegna un altro gruppetto di volenterosi emuli di Indiana Jones. Sta illuminando con la torcia un punto sotto una panca del coro, una figura demoniaca, per ricordare ai frati che la tentazione può presentarsi ovunque, anche mentre si recitano i salmi. Una signora, per vedere meglio, si è inginocchiata come una penitente, come Dante nel Paradiso Terrestre mentre veniva purificato, mondato. Ormai la cultura richiede una certa prestanza fisica. I partecipanti a un evento come questo sanno che devono essere pronti a tutto. Spero che la signora riesca a rialzarsi.

    Notte e cultura

    Sono tornato fuori, in piazza Tommaso Campanella. Adesso i volontari offrono dolci, in premio, ai visitatori in uscita. E ricordano che San Domenico è sempre aperto e ci saranno altri momenti di incontro a Cosenza. Saluto il professor Parisoli e lo ringrazio per il tempo che ci ha dedicato. Adesso sono stanco, sono stato in piedi per oltre due ore, il ginocchio mi fa male. Mi trascino dignitosamente verso la macchina, questa vita culturale notturna mi sta distruggendo. Una volta potevi andare solo a qualche noiosa conferenza, ti sedevi e poi tornavi a casa per l’ora di cena, senza rischi ortopedici collaterali.

    Domani sera niente visite notturne, se proprio voglio vedere un convento mi guardo una puntata di Che Dio ci aiuti. Pare che nell’ultima serie Francesca Chillemi faccia la novizia, ma non so se la sceneggiatura virerà verso situazioni del tipo Gertrude-la monaca di Monza. Le tentazioni, il peccato, il pentimento e, poi, lo scolatoio.

  • Cosenza Wine District: la Villa Vecchia si trasforma in cittadella del vino

    Cosenza Wine District: la Villa Vecchia si trasforma in cittadella del vino

    Torna venerdì 30 giugno alla Villa Vecchia il Cosenza Wine District, una grande festa del vino calabrese nel centro storico del capoluogo bruzio. Spazio dunque agli incontri tra consumatori, winelovers e produttori, con oltre quaranta cantine del panorama regionale  presenti all’appuntamento. A organizzare la manifestazione sono Saturnalia aps e Feed It, col supporto di due partner istituzionali: il Comune di Cosenza e la Regione Calabria – Dipartimento Agricoltura.

    Cosenza Wine District, una cittadella del vino calabrese

    Cosenza Wine District è nato lo scorso anno come evento collaterale in occasione del Concours Mondial de Bruxelles che ha fatto tappa in Calabria.  Nel giro di pochi mesi è diventato un grande momento di confronto e valorizzazione del vino calabrese, capace di focalizzare l’attenzione anche sul segmento dell’enoturismo. Un filone di sviluppo importante, quest’ultimo, capace di attrarre tanti appassionati verso le esperienze da vivere nelle cantine o attraverso i consorzi della rete regionale del vino.

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    Il pubblico nell’edizione dello scorso anno

    La Villa Vecchia di Cosenza dunque si trasformerà ancora una volta in una cittadella del vino calabrese. Lungo i suoi viali sarà possibile scoprire la ricchezza e la varietà interpretativa dei vitigni autoctoni della Calabria. Produzioni che ormai hanno saputo conquistare i mercati, ma anche le giurie dei più importanti concorsi nazionali e internazionali.

    Non solo vino per nuove collaborazioni

    Ma l’appuntamento al Cosenza Wine District sarà anche con l’arte. In programma esibizioni di musicisti – grazie alla joint venture con il festival Alterazioni – e performance di arte di strada per una serata evento unica nel suo genere. Il tutto accompagnato dal migliore street food della regione.

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    Alcuni stand della passata edizione del Cosenza Wine District

    La manifestazione vuole focalizzare l’attenzione degli appassionati di tutto il Sud attorno alle potenzialità del vino calabrese. Si pone come spazio multiforme per far dialogare i protagonisti della scena enologica con i settori affini come il food, l’intrattenimento e le arti in genere, generando cosi forme nuove di collaborazione per realizzare sviluppo sui territori.

    Cosenza Wine District: le rivendite per partecipare

    Per partecipare all’evento è necessario acquistare un ticket che dà diritto all’ingresso e alla degustazione di sei vini a scelta libera. È già partita la prevendita su eventbrite o presso i rivenditori ufficiali nel territorio cosentino:

    • Fresco foodbar
    • Cheers
    • Tennis Club Cosenza,
    • Quipò più di un bar (Mendicino),
    • Pane storto lab,
    • Chiappetta sport village,
    • Bar Tabacchi Nani 11,
    • Cinque Sensi Store (Rende),
    • Tre cipolle sul comò