Lo deciso il gup di Catanzaro Chiara Esposito. A processo, che inizierà il primo di giugno, andranno: gli imprenditori Eugenio e Sebastiano Sgromo, di 52 e 55 anni; gli ingegneri Anas Franco Pantusa, di 39 anni, e Silvio Baudi, di 43; il geometra Gaetano Curcio (42); l’ispettore della guardia di finanza Michele Marinaro (52) e Rosa Cavaliere (54).
Le accuse, a vario titolo, sono trasferimento fraudolento di valori, auto-riciclaggio, corruzione in atti giudiziari, associazione per delinquere, frode nelle pubbliche forniture, con l’aggravante di aver agevolato associazioni di tipo mafioso. Secondo quanto ricostruito dalla Guardia di finanza nell’inchiesta coordinata dalla Dda di Catanzaro, gli imprenditori avrebbero costituito delle società intestandole fittiziamente a una loro collaboratrice, la Cavaliere.
Catanzaro, malta scadente per il Ponte Morandi?
Ma di fatto ne avrebbero mantenuto il controllo di fatto e attraverso una di queste gli Sgromo sarebbero riusciti a infiltrarsi nei lavori di manutenzione straordinaria per il ripristino del calcestruzzo del ponte Morandi e di rifacimento dei muri di contenimento di un tratto della strada statale “dei Due Mari”.
Inoltre, con la presunta complicità del direttore dei lavori dei tecnici Anas avrebbero iniziato a utilizzare nelle lavorazioni un tipo di malta di qualità scadente, ma più economico di quello inizialmente utilizzato. Il tutto potendo contare su una talpa all’interno della Procura di Catanzaro, l’ispettore della Guardia di finanza, che avrebbe orientato le indagini facendo passare i due imprenditori come vittime dei clan lametini. In cambio, secondo l’accusa, avrebbe ottenuto varie utilità tra cui il trasferimento dalla Dia di Catanzaro alla Presidenza del Consiglio dei ministri.
La vicenda, certamente poco seria e non si sa quanto grave, richiama subito il celebre aforisma di Ennio Flaiano. E viene in mente anche una battuta – già cult – dell’ultimo film di Paolo Sorrentino. Ma prima, per ricondurre tutto alla sua reale misura, forse è meglio soppesare le dichiarazioni che stanno rinfocolando la polemica tra Catanzaro e Reggio. Che ricaccia la Calabria indietro di 50 anni, se non ai tempi delle Calabrie degli Aragonesi (Citeriore e Ulteriore) e poi dei Borboni (Ulteriore I e II).
Quanto ce ne fosse bisogno, in un momento storico come quello attuale, è superfluo rilevarlo. Ma si sa: quando ci sono elezioni in ballo la frizione che regola l’emissione di comunicati stampa scappa sempre un po’ troppo. Dunque eccoci qua, catapultati all’indietro in un surreale dibattito che contrappone il centro e la punta della periferia d’Italia.
Valerio Donato, prof all’Università di Catanzaro e candidato a sindaco
Catanzaro vuole pure il consiglio regionale
L’apriti cielo si materializza con un’uscita del “Comitato elettorale Valerio Donato Sindaco”. I sostenitori del prof catanzarese, fuoriuscito dal Pd e ora appoggiato dal centrodestra, la buttano lì: «Giunta e Consiglio regionale devono essere riuniti presso la stessa sede, quella naturale, ossia Catanzaro». Presentata come una «battaglia concreta per la riduzione reale dei costi della politica», risponderebbe a «un fatto di correttezza istituzionale giacché il capoluogo della regione deve essere messo nelle condizioni di esercitare pienamente il proprio ruolo».
La sortita prende le mosse da un antefatto, anzi da due collegati tra loro. Il primo: l’11 aprile si tiene alla Cittadella regionale di Catanzaro una riunione del «Coordinamento dei presidenti delle Commissioni per le Politiche europee delle Assemblee legislative delle Regioni». Prima e dopo non mancano i comunicati di giubilo perché la riunione si svolge «per la prima volta in Calabria».
Lo strappo istituzionale
Il secondo: due giorni dopo si riunisce il consiglio regionale e in apertura il capogruppo (reggino) del Pd Nicola Irto parla (nel video in basso dal minuto 16) di «strappo istituzionale» perché «la sede naturale» di quella riunione era l’Astronave di Reggio. Raccoglie «il monito» il presidente (catanzarese) del Consiglio Filippo Mancuso che dice di aver già chiarito il «malinteso» con il presidente (catanzarese) della commissione competente, Antonio Montuoro.
Si tratta di una questione definita con sarcasmo «assai urgente» dal Comitato di Donato, che con un certo sprezzo del dileggio appena usato parla di «polemica forse non molto qualificante» e lancia l’ormai famigerata proposta di cui proprio tutti, da Praia a Mare a Melito Porto Salvo, non potevano fare a meno.
Segue, immancabile come un buffet dopo un meeting aziendale, una delle pratiche in cui eccelliamo da tempo immemore: la levata di scudi. Dalla sponda calabrese dello Stretto si alza un coro unanime di «giù le mani dal consiglio regionale». Gli stessi partiti che sostengono o sono dati come vicini a Donato insorgono.
Ciccio Franco, uno dei protagonisti del Moti di Reggio
«Non stuzzicate la città di Reggio»
Peppe Neri (capogruppo di FdI a Palazzo Campanella) quasi rievoca i moti del 1970 contro Catanzaro capoluogo: la sede del Consiglio a Reggio «assicura quell’equilibrio istituzionale che la storia ha decretato non senza tensioni». Il deputato di Forza Italia Francesco Cannizzaro definisce «grottesche» le dichiarazioni di Donato e ipotizza che le abbia rilasciate «dopo un’allegra serata con gli amici».
Mancuso ha provato a stoppare le polemiche bollandole come «surreali e divisive», ma un assessore comunale a lui vicino, Francesco Longo, ha rincarato la dose: «Ha fatto non bene, ma benissimo il comitato elettorale di Valerio Donato a ribadire che per evitare ulteriori “sgarbi istituzionali” basterebbe riportare il Consiglio Regionale a Catanzaro». Probabilmente però vince tutto il sindaco facente funzioni di Reggio Calabria, Paolo Brunetti: «Si è deciso 50 anni fa di portare il capoluogo a Catanzaro. Ormai avevamo metabolizzato la cosa, però non stuzzicate la città di Reggio. Non fateci rispolverare l’idea d’avere qui la Giunta…»
Vabbè: forse non ci si poteva aspettare molto altro dal Paese dei campanili e da una regione in cui si litiga pure per un lampione tra rioni e rughe di piccoli paesi. Ma far girare ancora, dopo mezzo secolo di fallimentare regionalismo, il disco rotto del «popu-campanilismo» (la definizione è del giornalista Giuseppe Smorto) è esattamente il contrario di ciò che davvero ci servirebbe: un po’ di sincera solidarietà e di sana ironia. Allora proviamo, per una volta, a non disunirci. E soprattutto a non prenderci sempre così tanto sul serio.
Appena l’argomento, per qualche insondabile motivo, viene fuori in una discussione, la domanda scatta automatica: «Ma le Province non le avevano abolite?». A quel punto i più informati rispondono con il tono di chi la sa lunga: «Macché… hanno abolito solo le elezioni». Alla fine è così. Eppure delle Province si parla ancora. E se ne parla, con qualche ragione, molto male.
Non è questione rimandabile all’antropologia dei campanili e nemmeno all’ormai discendente parabola anticasta. È che, evidentemente, anche nei suoi anfratti meno appetibili e più discussi, il potere attira sempre e comunque l’attenzione. Per comprendere le ragioni della lunga agonia di questi enti, intermedi e dunque transitori quasi per definizione, bisogna però andare oltre le gaffe e le liti spicciole a cui ci ha abituati la politica nostrana.
Le Province dall’Italia preunitaria a oggi
Senza addentrarsi in discussioni per feticisti dell’ingegneria istituzionale, è utile ricordare che le Province trovano fondamento nell’art. 114 della Costituzione, ma in realtà sono più vecchie della stessa Italia unita: le creò, quando ancora c’era il Regno di Sardegna (1859), Urbano Rattazzi, ministro dell’Interno del governo La Marmora, mutuando il sistema francese dopo l’annessione di alcune parti della Lombardia.
Un ritratto di Urbano Rattazzi: fu lui a istituire le Province in Italia
Da 95 sono poi arrivate a essere 110. Oggi nelle regioni ordinarie sono 76, più 14 città metropolitane. A cui si devono aggiungere 6 liberi consorzi (le ex province della Sicilia non trasformate in Città metropolitane), 4 province sarde, le 2 province autonome di Trento e Bolzano, 4 del Friuli Venezia Giulia che servono però solo alla geografia e alla statistica non essendo enti politici autonomi.
In Calabria erano 3 fino al 1992. Poi in quell’infornata – che comprendeva Biella, Lecco, Lodi, Rimini, Prato e Verbano-Cusio-Ossola – rientrarono anche Crotone e Vibo Valentia. Poco prima dello scorso Natale è arrivato il rinnovo dei loro consigli provinciali, come pure di quelli di Catanzaro e Cosenza. In quest’ultima, come a dicembre anche a Crotone, ora è cambiato anche il presidente. A breve ce ne sarà uno nuovo pure a Catanzaro.
Il consiglio ogni due anni, il presidente ogni quattro
A proposito di elezioni, dal 2014 in poi (riforma Delrio) sono arrivate un po’ di novità. Tra queste il fatto che i consigli provinciali si rinnovano ogni due anni mentre il presidente ogni quattro. La giunta provinciale non esiste più. E a eleggere sia i consiglieri che il presidente sono sindaci e consiglieri comunali del territorio, il cui voto “pesa” in base alla popolazione del Comune di appartenenza. È un aspetto che sembra bizzarro, ma non è certo quello più paradossale delle “nuove” Province, enti in cui spesso il fattore politico va oltre la classica dialettica maggioranza/opposizione.
Centrodestra alla riscossa
I risultati di queste ultime votazioni, in Calabria, pendono molto verso il centrodestra. A Cosenza c’era stato un sostanziale pareggio tra i consiglieri. Poi la Presidenza è andata alla sindaca di San Giovanni in Fiore (area Forza Italia) Rosaria Succurro. Divisioni e disastri targati centrosinistra hanno chiuso la partita già prima del voto anche a Crotone, dove ha vinto il sindaco di centrodestra di Cirò Marina, Sergio Ferrari. A Catanzaro, nonostante le divisioni già striscianti e ora esplose in vista delle Comunali, i consiglieri restano in maggioranza di destra. Nei prossimi mesi si dovrà scegliere il successore di Sergio Abramo. A Vibo ha trovato conferma il peso forzista, ma ne ha acquistato parecchio anche Coraggio Italia.
Rosaria Succurro, fresca di elezione a presidente della Provincia di Cosenza
Reggio in attesa di funzioni
Poi c’è Reggio, dove la Provincia ha ceduto il posto alla Città metropolitana. Da novembre, cioè dalla condanna di Giuseppe Falcomatà per il “caso Miramare”, la regge il facente funzione Carmelo Versace, che è un dirigente di Azione di Carlo Calenda. In teoria le Città metropolitane avrebbero anche più funzioni delle Province. Quella di Reggio è però l’unica in Italia a cui la Regione non le ha ancora attribuite, nonostante debba farlo per legge.
Vibo e i conti che non tornano
La Provincia di Vibo è famigerata per il disastro finanziario in cui è stata cacciata. Sta ancora cercando di uscire dal dissesto dichiarato nel 2013. Uno spiraglio di luce si era visto a novembre, quando la Commissione liquidatrice ha approvato il Piano di estinzione dei debiti: default chiuso con una massa passiva quantificata in 14,8 milioni di euro distribuiti a circa 1.200 creditori. A fine marzo però è venuto fuori che serve un nuovo Piano. Ci si è accorti che i prospetti contabili andavano aggiornati e che la massa passiva totale era in realtà di 25 milioni di euro. Dunque ne ce sono ancora altri 11 da liquidare.
Salvatore Solano stringe la mano a Papa Francesco
La necessità di un aggiornamento l’ha segnalata alla Commissione lo stesso presidente della Provincia di Vibo, Salvatore Solano, finito nel processo “Petrolmafie”. Lui ha sempre dichiarato fiducia nella giustizi,a ma anche la sua totale estraneità alle accuse che gli vengono contestate. Forza Italia però, che pure lo aveva scelto nell’ottobre del 2018, lo ha scaricato politicamente.
Catanzaro, da ente modello al rischio dissesto
Problemi di natura diversa li ha invece Abramo, che si accinge a chiudere tra ben poche glorie il suo ciclo da sindaco e da presidente della Provincia di Catanzaro. L’ente che visse un’epoca descritta come d’oro con Michele Traversa e poi con Wanda Ferro era considerato infatti un modello di buona amministrazione. Fin quando, proprio con Abramo, è scoppiata la bolla dei derivati, operazioni di swap contratte nel 2007 (con Traversa) per oltre 216 milioni di euro e ora annullate in autotutela da Abramo. Che si ritrova con la grana dei ricorsi presentati al Tar dalle banche, e con il rischio del dissesto e di non riuscire a pagare nemmeno gli stipendi dei dipendenti.
Partiamo dai tagli, iniziati già dal 2010 e dunque ancora prima della Delrio. Secondo uno studio della fondazione Openpolis ammontano a ben 5 miliardi di euro i trasferimenti statali decurtati negli anni. Con una conseguenza prevedibile: «Ciò ha portato ad una riduzione dei servizi e soprattutto negli investimenti (ad esempio infrastrutture di trasporto -65%)».
La sede dell’ex Provincia, oggi Città metropolitana, di Reggio Calabria
La Calabria si contraddistingue per un forte accentramento verso la Regione delle funzioni che erano prima delle “vecchie” Province. Unica eccezione la Città metropolitana, che ne ha invece mantenute molte. Per farsi un’idea dell’importanza che invece hanno le poche funzioni rimaste oggi in capo alle “nuove” Province è sufficiente menzionare due settori chiave.
Due settori chiave
Innanzitutto la manutenzione dell’edilizia scolastica: si parla a livello nazionale di 5.179 edifici (che ospitano di 2,6 milioni di studenti), il 41,2% dei quali si trova in zona a rischio sismico. Nella nostra regione il 10,4% risulta vetusto, il 3,8% è in zona sottoposta a vincolo idrogeologico. E poi le strade provinciali, una di quelle cose che attirano su questi enti maledizioni e improperi perfino dai cittadini più morigerati. In Calabria le Province gestiscono 7.713 km di strade, molte delle quali in zone di montagna e disagiate: il 44,75% dei 2.578 km di strade della Provincia di Cosenza è sopra i 600 metri sul livello del mare, così come il 47,34% (su 1.690 km totali) di quella di Catanzaro, il 30,5% (su 818 km) di quella di Crotone, il 25% (su 875 km) di quella di Vibo e il 16,95% (su 1752 km) di quella di Reggio.
Il paradosso delle nuove Province
Dare risposte alle giuste rivendicazioni degli utenti, in queste condizioni e con pochi fondi a disposizione – le tasse principali che vanno alle Province sono quelle per Rc e trasferimento dei veicoli – diventa dunque complicato. E il problema del passaggio delle funzioni – e dei beni ad esse collegati – resta completamente irrisolto. La Delrio nasceva come norma transitoria verso il (poi fallito) referendum renziano del 2016 che avrebbe dovuto eliminare le Province dalla Costituzione. Invece quella legge, che doveva essere provvisoria, disciplina ancora oggi il funzionamento di questi enti.
Nel frattempo la retorica dei tagli ha prodotto un altro paradosso: sono nati moltissimi nuovi enti (circa un migliaio tra unioni di Comuni, autorità di bacino, consorzi e quant’altro) proprio per aiutare i Comuni nella cogestione dei servizi. Un decennio di propaganda e di sperimentazioni normative sulle Province ha dunque generato un evitabile caos istituzionale. E un vuoto riempito solo dall’inettitudine delle classi dirigenti nazionali e locali.
Un anno fa Nicola Irto era il candidato in pectore del centrosinistra alla presidenza della Regione Calabria. Sul suo nome, però, arrivò il veto del Movimento 5 Stelle. E il Nazareno, in virtù della ricerca spasmodica – più nazionale che locale – di una alleanza organica con i grillini, lo sacrificò. A nulla valse il supporto offertogli da Dalila Nesci, pronta a candidarsi a primarie di coalizione (suscitando le ire dei suoi colleghi).
Irto si ritirò con tanto di nota polemica offerta alla stampa. «La volontà di militanti ed elettori è svilita», dichiarò. Per poi annunciare di non voler «starsene zitto e buono» e denunciare i «piccoli feudi» del Pd. Poco dopo ne divenne il segretario regionale al motto di “Rigenerare il Pd”. Ma il partito pare essere solo all’ennesima situazione di stallo dove regna il tutti contro tutti.
Francesco Boccia, responsabile enti locali del Pd
Irtolandia, in attesa delle politiche
Oggi, il Pd è “Irtolandia”, un mondo dove lo scenario politico interno che viene raccontato è quasi idilliaco. L’unanimismo (spesso forzato) nelle decisioni interne e nell’elargizione di pennacchi partitici riempie le rassegne stampa quotidiane con roboanti annunci di assunzioni di responsabilità.
Il tutto è chiaramente funzionale alle imminenti elezioni politiche che vedranno lo stesso capogruppo regionale del Pd candidato capolista (probabilmente al Senato). Irto, attualmente impegnato in un tour sui territori di presentazione del suo libro, è già proiettato verso uno scenario extracalabrese. E pazienza se ad accompagnarlo sono i mugugni di alcuni suoi colleghi eletti a Palazzo Campanella.
L’ex ministro Peppe Provenzano e Jasmine Cristallo
I possibili intoppi rappresentati dal vedersi catapultati rivali interni nazionali pare averli scongiurati. Francesco Boccia è commissario regionale del Pd in Puglia e Stefano Graziano candidato segretario regionale del Pd campano. Con tali cariche avranno certamente diritto di opzione nei listini bloccati delle rispettive regioni. Ma per Irto sarà comunque complicato tenere le redini del partito con una lotta tra possibili “quote rosa”imposte da Roma e dirigenti locali, dato il risicato numero di posti per il Parlamento.
Dema e Cristallo
Il Nazareno, soprattutto per via dell’ex ministro Peppe Provenzano, tenta in tutti i modi di trovare spazio alla “sardina” di Catanzaro, Jasmine Cristallo. Il suo omologo bolognese, Mattia Santori, è consigliere comunale e si occupa di oche e frisbee. Lei è prima finita (con sorpresa dei più) nell’ormai noto sondaggio commissionato da Roma sui papabili candidati sindaci di Catanzaro espressi dal Pd. Poi avrebbe “suggerito” (tramite Boccia) al candidato sindaco Nicola Fiorita di offrirle un qualche ruolo nella campagna elettorale. Da qui al listino, però, ce ne passa. Certo è che se Fiorita dovesse diventare sindaco potrebbe essere suo grande sponsor. Sarà questo uno dei motivi del “boicottaggio” dei dem al “loro” candidato sindaco? Si vedrà.
Altra questione è Luigi de Magistris, radicato praticamente “solo” in Campania ed in Calabria. Il centrosinistra a trazione Pd potrà concordare qualche patto di non belligeranza, inglobando qualche candidato dell’ex pm (la cosentina Anna Falcone?) in virtù del decantato campo largo? Sulla carta un accordo simile è già in atto nel capoluogo di regione, dove Dema e il Pd andranno a braccetto. Difficile, però, che l’uscente-effervescente Enza Bruno Bossio non usi (politicamente) il bazooka per farsi spazio, unitamente alle altre donne interne al Partito con l’ambizione di un giro di giostra in Parlamento.
Stefano Graziano, ex commissario del Pd in Calabria
Ciao ciao Graziano
Unica nota accolta con sollievo unanime all’interno del Pd è il bye bye a Stefano Graziano. Dell’ormai ex commissario regionale del Pd per ben tre anni, con in mezzo due elezioni regionali stra-perse, non rimarrà certo un buon ricordo tra i militanti, eccezion fatta per le portaborse di Amalia Bruni, da lui stesso indicate. Oltre alle elezioni calabresi, Graziano perse pure la sua in Campania nell’autunno del 2020. E dire che a sostenerlo c’erano vari big locali del suo partito: il sindaco di Caserta e presidente dell’Anci Campania, Carlo Marino; il vicesindaco Franco De Michele, presidente dell’Ente Idrico; il consigliere comunale e membro del C.d.a. del Consorzio Asi, Gianni Comunale.
Graziano, però, è stato subito “recuperato” da Vincenzo De Luca quale suo consulente. Farà l’“Esperto del Presidente in materia di Analisi e programmazione economica degli interventi inerenti alle Reti ed Infrastrutture di interesse strategico regionale”. Oggi, proprio lo stesso De Luca lo sta fortemente sponsorizzando come segretario regionale a seguito delle dimissioni di Leo Annunziata. Andasse in porto, si archivierebbe nei fatti la sua candidatura in Calabria come “risarcimento” per il lavoro svolto nel triennio da commissario regionale.
I feudi ci sono ancora: il caso Vibo
Nonostante la mediatica narrazione del Pd come “IrtoLandia” e i congressi celebrati con la curatela del Nazareno che ha imposto l’unanimità nell’assunzione delle varie cariche, sui territori continuano ad esserci quei feudi che Irto aveva denunciato giusto un anno fa. E la situazione non si accinge certo a migliorare.
Emblematico è il caso del Pd di Vibo Valentia, rimasto orfano del capogruppo in consiglio comunale, Stefano Luciano. «Sono grato a Nicola Irto per avermi scelto in direzione regionale del Pd, ma quanto verificatosi recentemente nel partito cittadino e provinciale non mi ha lasciato sereno, perché ogni spinta verso un radicale cambiamento è stata impedita in ogni modo e con ogni forza», ha dichiarato Luciano prima di abbracciare Azione di Carlo Calenda qualche giorno fa.
Giovanni Di Bartolo, segretario provinciale del Pd a Vibo Valentia
Rigenerazione sì, ma dei parenti
Già, perché in città è prevalsa la linea di Francesco Colelli e Fernando Marasco (provenienti da Sinistra, ecologia e libertà) e Carmelo Apa, proveniente da Rifondazione Comunista.
Non certo una “Rigenerazione”, per dirla con Irto, ma il riproporsi delle stesse facce o dei loro parenti. È il caso del consigliere comunale del Pd Stefano Soriano, figlio di Michele, già candidato a sindaco in quota dem nel 2010. Ma anche del consigliere provinciale Marco Miceli che, seppur iscritto al gruppo “Vibo Democratica” (strizzando l’occhio al M5S), ha come padre un dirigente cittadino di lungo corso del Pd (ha guidato la commissione di garanzia dell’ultimo congresso).
A livello provinciale il “pennacchio” di segretario è andato, invece, a Giovanni Di Bartolo, studente universitario, classe ’96, già “social media manager” dell’ex deputato Brunello Censore. La presidenza del Partito, invece, è toccata all’ex consigliere regionale Michele Mirabello, anche lui ex pupillo di Censore e già segretario provinciale del Partito nel 2013. Per l’uscente segretario provinciale Enzo Insardà, infine, è arrivato il posto di tesoriere regionale del Partito.
L’ambiguo rapporto con Solano
A “rigenerarsi” con questo nuovo Pd è certamente il presidente della Provincia di Vibo Valentia, Salvatore Solano, imputato per corruzione, concorso nel minacciare gli elettori e turbata libertà degli incanti con l’aggravante mafiosa nell’ambito del processo della Dda di Catanzaro “Petrolmafie”.
Già, perché la consigliera provinciale del Pd Maria Teresa Centro ha accettato di buon grado la delega offertale da Solano (che, ricordiamo, è stato eletto con Forza Italia), unitamente al citato Miceli, supportata dal collega di gruppo comunale Giuseppe Policaro, anch’esso grande supporter di Solano. Insomma, qui il nuovo Pd inciucia quanto e come il vecchio.
A Catanzaro ritorno al passato
Una versione amarcord del Pd arriva pure dal Catanzarese. Sui tre colli hanno “incoronato” segretario l’ex consigliere comunale Fabio Celia, che è stato il primo coordinatore del Pd cittadino nel 2010. Dodici anni fa scriveva: «Basta con chi ha generato la morte della politica di centrosinistra in città; basta con chi ha costruito lobby di potere per gestire la politica dell’interesse e dell’affermazione di sé e dei propri amici». Un ottimo intento, che pare cozzare, però, con l’aver piazzato suo cognato Giuseppe Correaleprima come portaborse di Francesco Pitaro e ora di Ernesto Alecci.
Come primo atto, Celia ha nominato un direttivo dal quale nell’immediato si è dimesso più d’uno in dissenso con la linea del Partito. Non proprio un buon inizio. La nomina di Celia è arrivata dopo il passo indietro di Salvatore Passafaro, figlio di ex consigliere comunale, già coordinatore cittadino del Pd – e futuro capolista, qualora i dem abbiano la forza di stilare una lista alle prossime amministrative nonché protagonista delle primarie farsa (con tesseramento fasullo) del 2019.
Come segretario provinciale, archiviata la tragicomica era Cuda, è stato collocato Domenico Giampà. Il sindaco di San Pietro a Maida, protagonista della faida per la segreteria provinciale con Enzo Bruno a suon di ricorsi del 2013, è un ex portaborse dell’assessore all’Ambiente Roberto Musmanno, fedelissimo di Enza Bruno Bossio e Nicola Adamo. Il Pd a guida Giampà ha confermato come presidente l’ex primo cittadino di Satriano, Michele Drosi, già portaborse dell’assessore regionale Francesco Russo nell’era Oliverio.
Ernesto Alecci, consigliere regionale del Pd
Il nuovo Pd che guarda a destra
Piccolo particolare: come membro della direzione regionale il Pd catanzarese ha nominato Eugenia Paraboschi, figlia dell’ex presidente della commissione di garanzia del partito catanzarese, storico comunista di Marcellinara. È proprio in questo paese che Eugenia è stata candidata ed eletta con “Marcellinara da Vivere”, lista di centrodestra con candidato a sindaco l’allora vicepresidente della provincia in quota Forza Italia, oggi consigliere regionale di Fdi, Antonio Montuoro. La Paraboschi correva contro il segretario cittadino del Pd di Marcellinara, Giovanni Torcasio, ed è ancor oggi nel gruppo consiliare con l’esponente dei meloniani. Insomma, c’è molta confusione in questo “nuovo Pd”. Tanto che, in vista delle comunali del capoluogo, molti suoi esponenti hanno già virato a destra con Valerio Donato, chi ufficialmente, chi in maniera felpata.
A Cosenza tutto rimandato
A non cedere fino ad oggi all’unanimismo forzato che è stato imposto nelle varie province è stata la federazione del Pd cosentino, che esprime la deputata Enza Bruno Bossio.
La Commissione nazionale di garanzia ha annullato le fasi propedeutiche alla celebrazione dei congressi alla luce dei vari ricorsi presentati. Tutto rimandato a maggio, in attesa che Bruno Bossio, Bevacqua, Zagarese, Locanto e Iacucci, con la tutela nazionale imposta per il tramite del funzionario Riccardo Tramontana, trovino la quadra.
Nel mezzo, però, ci son state le elezioni provinciali di Cosenza, che hanno visto vincere il centrodestra di Rosaria Succurro. Il sindaco di Corigliano-Rossano, Flavio Stasi, ha punzecchiato: «Bisognerebbe riflettere su quanti e sulle ragioni di chi, seppur del centrosinistra o del PD, hanno votato centrodestra, visto che è aritmeticamente accertato». Per questa resa dei conti c’è da attendere.
Intanto il tour di Irto continua, di feudo in feudo.
Cinquantasette detenuti che sognano di laurearsi dal carcere in Calabria. Sono i numeri che nell’anno accademico in corso delineano i tratti della parte meno nota del sistema di istruzione universitario calabrese: quella di chi si è rimesso a studiare con l’obiettivo di trovare sui libri un riscatto che galere troppo spesso sovraffollate non riescono a garantire. A fare da traino è il penitenziario “Ugo Caridi” di Catanzaro, che, sulla scorta di una collaborazione ormai consolidata con l’Università Magna Græcia, conta ben 26aspiranti dottori.
Altri quattro che scontano la pena lì risultano iscritti all’Unical. L’ateneo rendese martedì ha festeggiato la prima laurea specialistica in Sociologia di un detenuto a Rossano, penitenziario nel quale a sognare il titolo sono in 12. Sei gli studenti Unical rinchiusi a Paola, tre – uno per carcere – quelli a Lauretana di Borrello, Vibo Valentia e Castrovillari.
L’Università di Catanzaro
La scommessa del penitenziario di Catanzaro
Due dei 29 detenuti che si sono laureati nelle patrie galere nel corso del 2021 hanno conseguito il titolo nel “Caridi”: Salvatore Curatolo a luglio, Sergio Ferraro a ottobre. Ma dietro le sbarre c’è anche chi non si limita a studiare e fa da tutor a quelli che per portare a termine il proprio percorso formativo hanno bisogno di una spinta in più. La collaborazione tra Magna Græcia e Unical in carcere a Catanzaro passa anche da una serie di seminari per gli studenti detenuti in Alta sicurezza.
I corsi sono di Sociologia giuridica e della devianza e Sociologia della sopravvivenza. I temi spaziano dal populismo penale alla giustizia riparativa, passando da violenza e diritto, prostituzione e pornografia, police brutality e tortura, terrorismo, lotta armata, resistenza e molto altro. È un’iniziativa mai sperimentata prima in Italia e tra i relatori ha visto anche il calabrese Giuseppe Spadaro, oggi presidente del Tribunale dei minori di Trento.
La Dad dietro le sbarre
Tutto si svolge in carcere, con i 16 detenuti coinvolti che diventano protagonisti di lezioni che poi arrivano in streaming ai cosiddetti “studenti normali”, tra cui quelli dell’Università di Bologna e di un liceo di Palermo. La Magna Græcia e il “Caridi” hanno così trasformato il freno della Dad imposta dalla pandemia in un’occasione per rendere fruibile all’esterno lezioni che i detenuti hanno svolto in presenza. Tutto nella massima attenzione alla tutela della sicurezza: i detenuti non possono interagire con gli altri studenti.
Quello di Catanzaro è comunque l’unico polo universitario penitenziario d’Italia nel quale i corsi rivestono carattere di ufficialità. Qui i docenti non sono più volontari del sapere, una delibera recentemente approvata dal dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia consente loro di sfruttare il tempo compreso nel proprio monte ore personale esattamente come quando insegnano in facoltà.
Angela Paravati, direttore del carcere di Catanzaro
Carcere in Calabria: a Catanzaro la cultura è di casa
Non mancano le richieste di trasferirsi in questo carcere per soli uomini diretto da una donna, avanzate da detenuti che nel capoluogo calabrese vedono lo sbocco naturale del loro percorso formativo. Tra i 588 ospiti del “Caridi”, in effetti, la cultura è di casa. A puntarci è la direttrice Angela Paravati, a stimolarla il coordinatore del corso di laurea in Giurisprudenza, Andrea Porciello, e il delegato del rettore nella Rete per i poli universitari penitenziari, Charlie Barnao.
La casa circondariale di Catanzaro
Dolci evasioni
Neppure il regime di Alta sicurezza 1 fa da freno. Anzi, chi esce dal 41 bis cede spesso al fascino dei libri e a Catanzaro trova gli stimoli giusti. Ma tra quelle mura c’è spazio pure per le ghiottonerie di chi, nonostante l’ergastolo ostativo, il suo riscatto l’ha cercato nei dolci. È il caso di Fabio Valenti, che nel profumo dei suoi dolci trova golosissimi momenti di evasione apprezzati dentro e fuori il carcere. È il pasticcere del penitenziario di Catanzaro e coi suoi manicaretti ha attirato pure l’attenzione del maestro della pasticceriaLuca Montersino. Per iniziare gli sono bastate due pentole capovolte, il suo forno l’ha creato così.
Nelle 280 pagine del libro Dolci (c)reati, curato da Ilaria Tirinato ed edito da Città del Sole, c’è tutto il buono delle pratiche educative che aiutano anche chi ha trascorso in carcere 27 dei suoi 50 anni e sa che di avere dinnanzi il “fine pena mai”. La sua è un’altra storia di passioni assecondate e sostenute. Arriva anche da qui la scelta di dare i nomi alle sue ricette associando a ogni dolce un articolo del codice penale. Perché in fondo dietro le sbarre resta sempre la consapevolezza che ogni azione ha una conseguenza.
Nel giro di poche settimane potrebbe innescarsi un complesso effetto domino in seno alla magistratura calabrese. Il Consiglio Superiore della Magistratura, infatti, sembra intenzionato ad accelerare sulla nomina del nuovo procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. E tra i papabili, figura anche il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.
Federico Cafiero De Raho è stato fino a febbraio procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo
Il successore di Federico Cafiero De Raho
Sono in tutto sette i candidati per ricoprire il ruolo che, fino alla scorso febbraio, è stato di Federico CafieroDe Raho. Magistrato per anni in prima linea contro i Casalesi a Napoli e poi contro la ‘ndrangheta da procuratore di Reggio Calabria. Proprio nello scorso febbraio, Cafiero De Raho è andato in pensione, lasciando vacante la postazione.
Per la successione nella Direzione nazionale antimafia, uscito di scena l’ex procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, nel frattempo nominato procuratore di Roma, in corsa ci sono il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, il pg di Firenze, Marcello Viola, i procuratori di Catania, Carmelo Zuccaro, di Messina, Maurizio De Lucia, e di Lecce, Leonardo Leone De Castris, e il vicario Giovanni Russo.
Ma la lotta sembra essere ristretta proprio ai primi due: Melillo e Gratteri. Con il primo favorito. Proprio negli scorsi giorni, la Commissione Direttivi del Csm ha effettuato le sue audizioni sui papabili. E da più parti trapela la voglia di Palazzo dei Marescialli di stringere i tempi.
Che dipenderanno, però, da quelli di un’altra nomina. Quella, altrettanto delicata, per il successore di Francesco Greco come procuratore di Milano. La Commissione ha indicato una rosa di tre nomi: il Pg di Firenze Viola, il procuratore di Bologna Giuseppe Amato e l’aggiunto della procura di Milano Maurizio Romanelli, con il primo favorito (e che, quindi, uscirebbe dalla corsa verso la DNA).
Per Gratteri, tra i massimi esperti di ‘ndrangheta al mondo, la nomina a procuratore nazionale antimafia sarebbe il coronamento della propria carriera. Che, peraltro, è arrivata a uno snodo cruciale. Gratteri, infatti, si è insediato a capo della Procura di Catanzaro nel maggio del 2016. Praticamente sei anni fa.
E come è noto, per gli incarichi direttivi, il termine massimo di durata è di otto anni, per evitare incrostazioni di potere. Tradotto: entro due anni, il procuratore dovrà lasciare l’attuale posto per scegliere quello che, verosimilmente, lo porterà alla pensione. Ma, chiaramente, la velleità di ambire alla Direzione Nazionale Antimafia, oltre che una legittima aspirazione di Gratteri, è dovuta al fatto di non arrivare al termine ultimo, quando, poi, il trasferimento di funzione diverrebbe obbligatorio.
Gratteri in Direzione Antimafia: gli scenari
Non è facile. Ma, in un modo o nell’altro, il vertice della Procura di Catanzaro dovrà cambiare nei prossimi due anni. E questo potrebbe aprire un effetto domino molto ampio in seno alla magistratura calabrese. Quel posto, infatti, potrebbe essere molto ambito.
In primis dall’attuale procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, che a Catanzaro è già stato aggiunto. Secondo i rumors, Bombardieri tornerebbe volentieri a Catanzaro. Peraltro, essendo alla soglia dei quattro anni di mandato in riva allo Stretto, Bombardieri deve iniziare a guardarsi un po’ intorno. E le Procure importanti, nei prossimi anni, potrebbero essere tutte occupate. Roma ha un nuovo capo da pochi mesi e lo avranno a brevissimo anche Milano, Firenze e Palermo. E, ovviamente, il posto in DNA non sarebbe più vacante.
Il procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri
Resterebbero, quindi, Napoli (in caso di vittoria di Melillo) o Catanzaro (in caso di vittoria di Gratteri). Ma, certamente, da calabrese, Bombardieri sceglierebbe più di buon grado la seconda destinazione.
Da non trascurare, però, la soluzione interna dell’aggiunto Vincenzo Capomolla, dell’outsider Giuseppe Capoccia (procuratore di Crotone) e di Pierpaolo Bruni, che a Catanzaro ha già lavorato e che ora è procuratore di Paola.
E se si libera Reggio?
Esponente della corrente di Unicost romana, Bombardieri è stato, da sempre, molto vicino all’ex magistrato Luca Palamara, per anni dominus del Csm e destituito dopo gli scandali in cui rimarrà coinvolto. «Per me Giovanni Bombardieri è come se fossi io, ti prego di non dimenticarlo» – scriveva in una chat. «Ora penso di poter chiudere la mia esperienza qui» – aggiungeva dopo la nomina dello stesso a capo della Procura reggina.
E quindi, a quel punto, si aprirebbe anche la corsa per Reggio Calabria. Una Procura che, negli anni, ha rivestito un ruolo di avanguardia nella lotta alla ‘ndrangheta. Con Giuseppe Pignatone prima e con Federico Cafiero De Raho poi. Ma che negli ultimi anni è stata decisamente fagocitata dall’opera di Catanzaro (soprattutto con la maxi-inchiesta “Rinascita-Scott”) e dalla forza mediatica di Gratteri.
Ma le cose potrebbero cambiare. Perché, con quella poltrona vacante potrebbe arrivare il momento di Giuseppe Lombardo, attuale procuratore aggiunto di Reggio Calabria, che nelle scorse settimane ha già presentato domanda per Firenze, come successore di Giuseppe Creazzo. Al pari proprio di Pierpaolo Bruni. Insomma, l’ambizione al grande salto non manca. E Reggio Calabria potrebbe essere la piazza giusta.
L’ex magistrato Luca Palamara
Valzer delle nomine
Dove, peraltro, è ancora vacante il ruolo di procuratore aggiunto lasciato libero da Gerardo Dominijanni, divenuto negli scorsi mesi procuratore generale in riva allo Stretto. Con otto magistrati in corsa: il Procuratore della Repubblica di Caltagirone (Catania), Giuseppe Verzera, ed il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Salvatore Dolce. Poi, ancora, Stefano Musolino e Walter Ignazitto, sostituti procuratori nella Dda di Reggio Calabria ed i sostituti procuratori di Roma Pietro Pollidori, di Salerno Marco Colamonici, di Caltanissetta Pasquale Pacifico e il gip di Napoli Maria Luisa Miranda.
E presto potrebbe liberarsi anche un altro posto: quello dell’altro procuratore aggiunto, Gaetano Paci, indicato all’unanimità come procuratore della Repubblica di Reggio Emilia.
Prima cresce e fa un pienone. Poi cala. E ora, dopo aver messo mano all’organigramma, tenta la rimonta. La Lega punta le fiches calabresi su due tavoli: le imminenti Amministrative, dove mira a recuperare posizioni, soprattutto a danno dei propri alleati, e le Politiche dell’anno prossimo.
Evidentemente, in Calabria tira ancora la trovata salviniana di aver accantonato il vecchio antimeridionalismo in favore del lepenismo all’italiana, prima, e del nuovo corso “moderato” poi.
Leghisti calabresi in azione
Anche a prescindere dal fatto che a tanta potenza comunicativa non corrisponda, in realtà, troppa sostanza: Salvini sostiene tuttora la proposta delle autonomie differenziate, su cui il suo partito giocò una carta importante poco prima delle Politiche del 2018, con i referendum regionali di Veneto e Lombardia.
Ancora: lo zoccolo duro della Lega resta nel Nord profondo, dove è tuttora molto forte la classe dirigente bossiana, a partire da Luca Zaia.
Al contrario, la flessione della Lega da Napoli in giù dovrebbe suggerire che il Sud, per il Carroccio, potrebbe non essere più un buon affare. E allora, come mai tanto interesse?
Il calo della Lega in numeri
Per avere una fotografia fedele della situazione, basta comparare i dati del 2020 a quelli delle Regionali di ottobre. Il partito di Salvini, in questo caso, è passato da 95mila e rotti voti (12,28%) agli attuali 63mila e cinquecento (8,33%). Peggio che andar di notte al Comune di Cosenza, dove il Carroccio ha perso l’unico consigliere, Vincenzo Granata, che tra l’altro era stato eletto in una lista civica nel 2016, prima dell’ascesa del Capitano.
Il tonfo, in questo caso, è stato fortissimo: con il 2,81% dei consensi, la lista della Lega non ha preso neppure il quorum.
Un’altra emorragia forte ha colpito la base, che ha perso trecento militanti tra Cosenza e Catanzaro, a partire da Bernardo Spadafora, ex segretario provinciale di Cosenza.
Il corso moderato di Salvini, a dirla in parole povere, non ha portato benissimo. Non in Calabria, almeno.
Prove di rimonta
La new entry Davide Bruno
Dopo aver salvato il salvabile, la Lega punta a risalire la china a partire dal radicamento. E il nuovo organigramma, annunciato a fine marzo, mira a rafforzare i legami col territorio. Così è a Cosenza, dove un volto noto della destra dura ma pensante, Arnaldo Golletti, gestirà la segreteria provinciale. Golletti è affiancato da un volto giovane dell’area moderata, l’ex assessore cosentino Davide Bruno, che invece gestirà la segreteria cittadina.
Discorso simile per l’area centrale della regione dove lo stato maggiore del partito si è impegnato in prima persona: è il caso di Crotone, dove il coordinatore regionale Cataldo Calabretta è, al momento, segretario provinciale, e di Catanzaro, dove Giuseppe Macrì è stato confermato nello stesso ruolo. Reggio, dove ancora prevale Tilde Minasi, non è ancora pervenuta. Ma questo non è un problema, perché la partita vera si giocherà, in particolare, tra Catanzaro e Cosenza, che replicano nel Carroccio l’atavica rivalità di campanile.
Catanzaro scalda i motori
Il capoluogo regionale sarà decisivo per le Amministrative di giugno.
Per il dopo Abramo, il Carroccio appoggerà il civico (ed ex Pd) Valerio Donato con due liste, una di partito e l’altra civica, entrambe organizzate dal big Filippo Mancuso. A differenza di Cosenza, dove il fratricidio è quasi la norma, a Catanzaro cane non mangia cane.
Domenico Furgiuele e Matteo Salvini
Infatti, la Lega ha tenuto grazie all’equilibrio tra il moderato Filippo Mancuso e il “duro” Domenico Furgiuele. Difficile pensare a due personalità più diverse: quasi centrista Mancuso, formatosi alla corte di Sergio Abramo, ultradestrorso, invece, il deputato di Lamezia, cresciuto a pane ed Evola.
Tuttavia, i due non si pestano i piedi. Tanto più che la Lega, con il recente ingresso al Senato del vibonese Fausto De Angelis, si è rafforzata nella fascia centrale della regione. E quindi, riempire una o più caselle a Catanzaro potrebbe puntellare ancor più la posizione di entrambi.
Cosenza, la Lega punta sulla Sanità
Più complesso il discorso a Cosenza, dove non sono in vista tornate importantissime. Dei ventiquattro Comuni che vanno al voto, solo tre hanno le dimensioni adatte a ospitare liste di partito: Paola, Acri e Trebisacce, che sommate non superano i 60mila abitanti. La partita vera riguarda una sola persona: la capogruppo regionale Simona Loizzo, che vanta un ruolo forte nella Sanità e nella Cosenza che conta (tra le varie, è nipote di Ettore Loizzo, ex big del Goi).
Simona Loizzo, la big della Sanità cosentina
Con i suoi 5.500 e rotti voti, la dentista cosentina si è affermata a sorpresa a ottobre grazie agli ambienti della Sanità, dove ha intaccato il quasi monopolio dei Gentile. E ora forse carezza un altro colpo: la Camera dei deputati, probabilmente in concorrenza con Furgiuele.
A proposito di Sanità: la Loizzo vanta uno sponsor di eccezione, i fratelli Greco, big delle cliniche private, che aspirano da tempo alla realizzazione del mega ospedale privato. E non è un caso che proprio a Cariati, di cui è sindaca Filomena Greco, sia nato di recente un movimento dedicato alla Loizzo.
Loizzo, dai Gentile al Capitano
Il movimento cariatese è il coronamento curioso della carriera di Simona Loizzo, iniziata proprio all’ombra dei fratelli Gentile quando egemonizzavano il Pdl cosentino, di cui fu coordinatrice provinciale. Questo rapporto particolare è proseguito nel 2020, quando, anche a dispetto di una tragedia familiare, la dentista è stata indicata come potenziale sindaco di Cosenza.
La Sanità, per Simona Loizzo, non è tutte delizie, ma ha non poche croci: tra queste, il turnover minimale concesso alla Calabria, circa lo 0,4%, che impedisce le nuove assunzioni, a dispetto dei concorsi annunciati e banditi per rimpolpare ambulatori e ospedali ridotti allo stremo.
Benedetta dal Capitano, Simona Loizzo e Salvini
L’iperattivismo nella Sanità si spiega col fatto che il bacino elettorale della capogruppo è l’Azienda ospedaliera di Cosenza e tutta l’umanità varia, titolata e non, che vi ruota attorno. In particolare, quella che riempie le graduatorie prodotte da vari concorsi, anche recenti, e aspetta di essere assorbita. Anche per questo, la Loizzo fa quasi corpo a sé nella Lega: il suo supporter è stato l’ex presidente facente funzioni Nino Spirlì, che a dirla tutta non va proprio di pelo con gran parte del suo partito.
Potenzialità di crescita
Eppure queste rivalità interne potrebbero garantire una certa crescita al Carroccio, proprio perché sono rivalità tra i territori e non nei territori.
Di questa crescita, annunciata dai vertici con toni entusiastici («triplicheremo le candidature»), il vero beneficiario sarebbe il solo Salvini, che mira a ricavare dal Sud – e quindi dalla Calabria – i consensi elettorali necessari a puntellare la sua leadership nei confronti della vecchia area bossiana, egemone nelle regioni forti del Nord.
Ma non è detto che l’eventuale crescita della Lega si traduca in un vantaggio per i calabresi.
Energia e rifiuti, gli interessi di Salvini
Com’è noto, Matteo Salvini è un azionista di A2A, società bresciana specializzata nella gestione delle acque, nella produzione energetica e nel ciclo dei rifiuti.
E, al riguardo, non è proprio un caso che l’azienda lumbard abbia annunciato di recente una serie di investimenti importanti proprio in Calabria, dove ha già le mani in pasta in alcuni settori non proprio secondari, come l’idroelettrico in Sila.
Dove sta la fregatura per i calabresi? Che l’azienda pagherà le imposte e le tasse prevalentemente dove produce il suo reddito e dove ha la sua sede legale principale, cioè in Lombardia. In pratica, una delocalizzazione degli oneri a dispetto del fatto che gli utili siano prodotti in Calabria. Il tutto, con la benedizione dell’amministrazione regionale, di cui il Carroccio è un puntello…
Proprio ieri Matteo Salvini si è detto particolarmente fiducioso per la crescita della Lega in Calabria. Un mantra che ama ripetere in ogni occasione possibile. Bisogna dirlo, a differenza di molti altri leader, Salvini in Calabria ci mette la faccia: incontra militanti e dirigenti, tenta di dirimere le (numerose) beghe interne, ha chiuso l’ultima campagna elettorale regionale il giorno prima del silenzio elettorale proprio in Calabria.
Insomma, Salvini alla Regione che lo ha eletto senatore (salvo poi venire scalzato dalla forzista Fulvia Caligiuri) ci tiene e non poco. Peccato, però, che l’elettorato abbia cominciato a non contraccambiare.
Un sindaco leghista? Reggio ha detto no
Nel settembre 2020, quando il vento leghista ancora spirava forte, Matteo Salvini tentò il colpaccio: piazzare un sindaco leghista a Reggio Calabria. Si scelse un tecnico d’area di origine reggina, con un forte legame con la Liguria del leghista Edoardo Rixi, fedelissimo dello stesso Salvini: Antonino Minicuci.
Il rientro dei mugugni del deputato Francesco Cannizzaro, che bramava per gli azzurri la sindacatura del post-Falcomatà, non bastarono per vincere. La Lega ottenne il 4,69% con 4.299 voti e un solo consigliere, a fronte dei 3 di Forza Italia (11,1%) e dei due di Fdi (7,1%).
Antonino Minicuci
Insomma, il traino non c’è stato. E quel «ragazzino Falcomatà» pronunciato in diretta tv da Minicuci, ne fu il requiem politico-elettorale. Tornarono nel cassetto i sogni e le ambizioni di espansione leghista nei territori calabresi. Unica (e magra) consolazione? Aver conquistato “solo” la Taurianova di Spirlì.
Il deserto di Crotone…
A Crotone e a Cosenza si può chiaramente parlare di flop. Nella città pitagorica alle Regionali del gennaio 2020 la Lega ottenne oltre 3.000 voti e il 14,5% dei voti. Alle Comunali di settembre dello stesso anno, invece, 1.163 voti e il 3,6%, conquistando un solo seggio con Marisa Luana Cavallo. Il suo sponsor era l’ex segretario provinciale Giancarlo Cerrelli, poi uscito, unitamente alla consigliera eletta, dalla Lega in polemica con le scelte dei vertici. A non convincerli era l’aver visto dare sempre più centralità al commissario della Sorical, Cataldo Calabretta, divenuto poi commissario anche della Lega per la provincia di Crotone.
Le scelte politiche di Calabretta non furono elettoralmente lusinghiere, avendo puntato le sue fiches sull’avvocata Pina Scigliano, moglie dell’ex sindaco di Cirò Mario Caruso. La Scigliano ottenne poco più di 1.400 voti, ma a Cirò Marina non raggiunse le 400 preferenze. Lì la superò la forzista Valeria Fedele, che ne ottenne 561 senza aver messo piede in paese.
Salvini e Cataldo Calabretta
Insomma, la Lega non cresce e perde pezzi a favore degli azzurri. Anche l’editore Salvatore Gaetano, big leghista nel 2020, si è poi candidato con FI l’anno successivo, divenendo consulente di Roberto Occhiuto per la comunicazione strategica del territorio.
…e il voto “disgiunto” di Cosenza
Alle Comunali di Cosenza, invece, la Lega ha ottenuto un misero 2,8% e 946 voti non eleggendo nessun consigliere comunale. Alle Regionali (tenutesi lo stesso giorno delle Amministrative) ha raccolto il 7,1% e 2.080 voti. Una differenza di voti quasi pari alle preferenze che ha racimolato in città (1.196) quella che è divenuta la capogruppo della Lega in Consiglio Regionale, Simona Loizzo. Circostanza curiosa che non ha impedito a Loizzo di prendere le redini del partito a livello provinciale, “epurando” l’area di riferimento dell’ex consigliere Pietro Molinaro (che ha fatto ricorso contro di lei per asserita ineleggibilità).
Il consigliere regionale della Lega, Simona Loizzo (foto Alfonso Bombini)
Proprio domani ci sarà la conferenza stampa delle nuove leve leghiste, con il neosegretario cittadino Davide Bruno – eletto consigliere comunale con l’Udc nel 2011 (fu anche assessore) e con “Forza Cosenza” nel 2016 – e quello provinciale Arnaldo Golletti, già segretario provinciale del Msi-Destra Nazionale.
Proprio quest’ultimo nel 2016 si lamentava della destra “inesistente”. In una nota dichiarò, infatti, che «correre senza simboli sembra essere una surrettizia forma di indipendenza, creata per avere mano libera nel futuro: tutto questo non va bene e rischia di vanificare le logiche politiche identitarie». Chissà se lo dirà a Filippo Mancuso, pronto nel capoluogo a coprire il Carroccio con qualche emblema civico.
Catanzaro, il fortino della Lega di Salvini
Il vento in poppa che soffiava sul simbolo della Lega due anni fa (con sacche di voto di simbolo e amministratori locali pronti a vestire le effigie di Alberto da Giussano) non c’è più. E la flessione di consensi non offre segni di inversione di rotta, tranne che nel capoluogo di Regione.
Alle elezioni regionali del gennaio 2020 la Lega prese 95.509 voti, con il 12,28%. Nella circoscrizione centro (Catanzaro-Vibo Valentia-Crotone) ottenne il 15,09%, con il picco nella città di Catanzaro con il 17% e 6172 voti. Di questi, 3.005 li portava in dote l’ex consigliere comunale (dal 2011, poi anche assessore) e provinciale (dal 2018) Filippo Mancuso. All’epoca era appena “zompato” sul Carroccio su indicazione di Sergio Abramo.
Filippo Mancuso (Lega) è il presidente del Consiglio regionale della Calabria
Nella successiva tornata regionale dell’ottobre 2021, la Lega sprofondò all’8,33% e 63.459 voti e nella circoscrizione centro scese al 9,45%. Nonostante la perdita di 7 punti percentuali, nel capoluogo di Regione il Carroccio ottenne il 10,28% con 3.257 voti. Quasi tutti (2.655) li ha portati il citato Filippo Mancuso, divenuto poi Presidente del Consiglio Regionale.
Certo, la Lega nel complesso ha cantato vittoria perché ha mantenuto quattro Consiglieri regionali (grazie al premio di maggioranza). Ma in vista delle elezioni amministrative di Catanzaro il timore di “pesarsi” rimane alto, non potendosi permettere percentuali da prefisso telefonico nel feudo del plenipotenziario Mancuso.
La soluzione anti-flop: a sinistra, ma senza simboli
Più che alla Lega, però, Filippo Mancuso, anche in vista delle Amministrative, sembra più affezionato alla sua lista civica “Alleanza per Catanzaro”.
Difatti, nel capoluogo, dopo la defezione dell’ex coordinatore cittadino Antonio Chiefalo (dimenticata la candidatura nel 2020 con la Lega è poi trasmigrato in Forza Italia, sostenendo Michele Comito alle Regionali 2021) e i risultati elettorali del commissario provinciale Giuseppe Macrì, è il presidente del Consiglio regionale ad avere carta bianca.
A sostenerlo, però, non vi sono leghisti doc, ma suoi personali fedelissimi. Qualche esempio? I consiglieri comunali Eugenio Riccio, eletto con il centrosinistra nel 2017 con “Svolta Democratica” di cui è stato capogruppo; Rosario Mancuso, già consigliere Udc nel 2012 e poi capogruppo di “Catanzaro con Sergio Abramo”; Andrea Critelli, eletto con “Federazione popolare per Catanzaro”. All’elenco si è aggiunto Antonio Mirarchi (già esponente di “Catanzaro da Vivere”, aveva il figlio Alessio portaborse di Baldo Esposito, fino alla non rielezione di quest’ultimo e alla rottura col gruppo in vista delle elezioni provinciali). Così come Cono Cantelmi – già candidato presidente di Regione con il M5S nel 2014, divenuto responsabile amministrativo di Filippo Mancuso – e l’ex consigliere comunale di “Catanzaro con Sergio Abramo”, Francesco Scarpino.
Valerio Donato, professore all’Università di Catanzaro e candidato a sindaco
Insomma, una pletora di amministratori e politici locali che si troverebbe a disagio nel definirsi leghisti. Ma che troverebbe nel civismo la “scusa politica” per sostenere quel Valerio Donato che fino a ieri aveva la tessera del Pd ed era un notabile del circolo dem “Lauria” del centro di Catanzaro. Lo stesso Donato che, ancora oggi, pubblicamente nelle tv locali dichiara «ero e rimarrò un uomo di sinistra. Non ho modificato la mia ispirazione politica». Ecco perché, in attesa di sapere cosa deciderà Salvini, l’associazione “Alleanza per Catanzaro” del citato Longo ha già fatto pubblicamente un endorsement a Donato.
Mancuso, leghista ma non troppo
Il sostegno ad un esponente della sinistra cittadina (nel quale si riconoscono molti dem, tra cui il più votato in città alle scorse regionali: il sindacalista Fabio Guerriero) sarebbe un boccone troppo amaro per Matteo Salvini. Che si ritrova stretto tra il rischio flop al pari delle altre città (ma sarebbe troppo vicino rispetto alle imminenti elezioni politiche) e l’ipotesi Donato caldeggiata da Mancuso, mai più di tanto leghista.
Domenico Furgiuele
Una terza ipotesi in campo è quella che si realizzò a fine 2019 a Lamezia Terme, città dell’unico deputato leghista calabrese, Domenico Furgiuele. Dopo gli attacchi dell’allora dirigente leghista Vincenzo Sofo al candidato sindaco del centrodestra Ruggero Pegna sulle sue idee sul tema dei migranti (con tanto di critiche a Salvini), il leader della Lega impose di non presentare alcuna lista. Decisione al quale Furgiuele si adeguò «non senza rammarico e travaglio interiore».
Furgiuele, invece, sul capoluogo oggi tace. Difficile, però, che un uomo di sinistra come Donato, che fino a qualche anno fa riceveva in Università a Catanzaro il ministro Andrea Orlando (esponente dell’area più di sinistra del Pd) insieme all’allora consigliere regionale dem Carlo Guccione bramando un posto alle politiche del 2018 (che andò poi al rivale di sempre, Antonio Viscomi), possa essere in linea con il sovranismo salviniano. La palla tocca ora, come si è detto, ai tavoli romani.
«La guerra tra la Russia e l’Ucraina è agli sgoccioli». A prefigurare imminenti e inimmaginabili scenari di pace non è il professor Orsini, direttore dell’Osservatorio sulla sicurezza internazionale, bensì la signora Lidya che di mestiere fa la badante.
Classe ‘59, Lidya ha passato gli ultimi vent’anni in Italia, più precisamente in Calabria dove è vissuta tra Sellia Maria, Catanzaro Lido e Pentone.
Lydia ha scelto di accudire anziani come la signora Teresa
È una delle quattromiladonne ucraine residenti nella nostra regione, come la maggior parte di esse il suo lavoro è accudire anziani non autosufficienti.
Prendersi cura degli altri è la sua vocazione, prima di venire in Calabria è stata per anni infermiera pediatrica in un ospedale a Čerkasy a circa 200 km a sud di Kiev.
In Calabria, come la maggior parte della prima generazione di ucraine emigrate, ha sempre scelto di coabitare con i «nonnini», come li chiama lei. Il suo lavoro le piace. «Vedi lei, la signora Teresa è brava. Solo che ora non ricorda nulla».
La foto di una delle nipoti sul comodino di Lidya
La pandemia in Calabria, la guerra in Ucraina
Oltre allo stipendio, il vitto e l’alloggio sono garantiti purché si presti assistenza h24. Una scelta economicamente vantaggiosa ma emotivamente pesante. In casa si dedica anche alle sue passioni: l’uncinetto, la lettura e la scrittura. Ha decine di taccuini sparsi per casa, una scrittura ordinata riempie tutte le pagine. «Un giorno scriverò un libro», dice. Chissà se come i romanzi rosa presenti che riempiono le mensole di casa.
Gli unici momenti di libertà sono le uscite in compagnia delle amiche ucraine o per fare la spesa da spedire settimanalmente a marito, figlio e nipoti.
Una famiglia che non vede da anni. Ha rimandato la partenza più e più volte dal 2019 ad oggi, per la pandemia prima, per la guerra oggi.
Il 23 luglio le scade il passaporto ed ha un solo desiderio: «Tornare a casa». Alla domanda «Com’è la situazione in Ucraina?», Lidya stringe le spalle, sgrana gli occhi azzurro cielo e dice: «Non bene, ma sta per finire». Per fortuna la sua città, Čerkasy, non è stata “ancora” bombardata «ma si sentono le esplosioni, le sirene del coprifuoco sono sempre più vicine. Vivono tutti come conigli, nei sotterranei. Con la paura che possano arrivare».
Casco, giubbotto e fucile per suo figlio
Suo figlio, poco più che quarantenne, è stato precettato nella milizia civile. «Una mattina sono andati al suo negozio, gli hanno dato un caschetto, un giubbetto e un fucile». Lui, come tutti gli uomini fino ai 60 anni di età deve fare la ronda in città a difesa dei confini. Lydia abbassa lo sguardo e sospira con un filo di voce: «È il mio unico figlio».
Allo scoppio della guerra, i familiari della nonnina convivente le hanno proposto di far venire in Calabria la sua famiglia. Ma ha declinato la proposta. «No, non possono venire devono stare lì, abbiamo la nostra casa, la nostra vita da proteggere».
I soldi seppelliti
Lei racconta perché è venuta in Calabria: «Ho lasciato tutto per venire qui, lavorare e costruire una vita migliore per me, mio marito, mio figlio e i miei due nipoti. Non posso perdere quanto ho costruito in tutti questi anni di sacrifici”. Con il sudore della fronte e le lacrime del cuore. Con gli occhi cerca la foto di sua nipote undicenne sul comodino. Il contatto con la famiglia è continuo. Ha sempre il telefono in mano. «All’inizio della guerra, ci telefonavamo di più perché le telefonate verso l’Ucraina erano gratuite, ora non lo sono più». La guerra spaventa la sua generazione: non l’ha mai vissuta, se non nei racconti di nonni e zii. «Niente è al sicuro. Abbiamo persino nascosto i nostri soldi e il nostro oro sottoterra».
Lidya ha vissuto la Guerra fredda, la caduta del muro di Berlino. Quegli anni li ricorda con nostalgia: «Si stava bene, quando eravamo tutti insieme. Poi per un periodo male. Ma ora stavamo di nuovo bene». Ora sono una nazione e lo sa bene anche lei. Alla domanda «Ti senti più russa o europea?», risponde senza esitare con voce fiera: «Io sono ucraina».
Putin eZelens’kyj
Ma cosa pensa Lidya di questa guerra? «È brutta, fa male. Distrugge tutto». E di Putin? Prima di rispondere tentenna, fa un respiro e sbotta: «È un disgraziato, se voleva riunificare Russia, Ucraina, Bielorussia doveva farlo con la pace. Non in questo modo».
E del suo presidente? «Zelens’kyj è un satirico, ha dimostrato di essere forte, un patriota. Ma no, non è un politico», scuote la testa.
Ma perché la guerra sta per finire? «La nostra capitale resiste. E anche la mia città».
E mentre lo dice, ha già digitato su Youtube in cirillico Čerkasy. Fa partire un documentario sulla sua città immersa nel verde, ordinata, costruita sulle sponde del fiume Dnepr e dominata dal monastero di San Michele.
Lidya freme, vuole tornare a casa, nella sua città ad abbracciare i suoi cari. E nell’attesa «piange e prega».
Lidya trova on line un video sulla città di Čerkasy
Strumenti nuovi che restano imballati, macchinari obsoleti che non escono di scena, percorsi protetti inesistenti nel 95% dei centri. E, dulcis in fundo, un sistema di trasporto che evidenzia problemi differenti da provincia a provincia. Sono le tappe di una via crucis tutta calabrese che costringe i pazienti nefropatici della regione ad una corsa a ostacoli quotidiana. Tutto per l’assenza di una riorganizzazione generale che l’Aned chiede da anni.
Segnali di apertura cominciano a intravvedersi, ma la strada per l’uscita dal tunnel è ancora lunga perché per districare la matassa della nefrologia in Calabria servirebbe la bacchetta magica. Intanto il tempo passa e il calvario dei malati prosegue. Anche per via di una distribuzione che non sempre mette in correlazione i pazienti con il centro più vicino e più adatto ai loro bisogni. Ironia della sorte, può così capitare che chi vive in provincia di Catanzaro debba fare dialisi ad Amantea (CS). O che, invece, la faccia a Catanzaro chi abita a Vibo Valentia.
Il poliambulatorio di Amantea
La giungla del trasporto
Ne sanno qualcosa 140mila nefropatici, 770 trapiantati renali e 1.500 dializzati. Un esercito fragile e ostaggio di una rete fatta di 37 Centri dialisi, ma priva di una vera visione complessiva e, pertanto, non in grado di concentrarsi sulle vere esigenze di pazienti, spesso anziani, costretti a barcamenarsi nel labirinto della burocrazia.
Lo dimostra il caso di una settantacinquenne catanzarese che deambula a fatica, ma che proprio perché qualche passo riesce ancora a farlo non ha diritto al trasporto in ambulanza. Sarebbe più indicata un’auto medica. Ma, mentre la vicenda è esplosa tra le mani di Asp e trasportatori, a vivere un disagio costante sono lei e il marito, che non se la sente più di accompagnarla sempre per via degli acciacchi senili.
Il suo non è un caso unico in una regione costellata di drammi singoli che fanno da sfondo a una giungla sanitaria. Sempre Catanzaro ha visto proliferare, ad esempio, i trasportatori privati. A queste associazioni adesso sono stati bloccati anche i pagamenti, peraltro da sempre bollati come «inadeguati» rispetto ai chilometri percorsi. Il braccio di ferro ingaggiato per ottenere anche la retribuzione dei chilometri macinati nel tragitto dalla propria sede a casa del paziente da accompagnare in dialisi e viceversa si interseca, dunque, con le richieste dell’Asp. Che alle associazioni ha imposto il rispetto della legge 141 del 2018, quella che punta a mettere la Calabria in linea con le normative nazionali legando l’accreditamento dei trasportatori privati al rispetto di stringenti requisiti da garantire in sede e nelle ambulanze.
Stop del trasporto degli emodializzati a Catanzaro
E proprio a Catanzaro l’ultimo venerdì di marzo segna lo stop del trasporto in ambulanza degli emodializzati che ne hanno diritto. Le associazioni private che nel capoluogo di regione hanno di fatto il monopolio del servizio incrociano le braccia, parlano di tempo scaduto e per rimettersi in marcia dettano condizioni precise. Incassare le spettanze dovute almeno fino a febbraio è il mantra di operatori sfiancati da difficoltà storiche che si scontrano pure con l’assenza di parcheggi riservati alle ambulanze private. Le multe, dunque, fioccano e diventano ciliegine indigeste di una torta amarissima farcita da conti che non tornano e rimborsi troppo esigui.
Un’ambulanza della Croce Rossa
Ombre un po’ ovunque
Un problema, questo, che non esiste a Vibo Valentia. Lì a gestire il trasporto dei dializzati non autonomi c’è soltanto la Croce Rossa, però le questioni burocratiche sono di fatto sostituite dalle carenze di mezzi e personale, come in provincia di Reggio Calabria. Nella Locride va molto peggio che nel capoluogo dello Stretto. Ombre pure nel Cosentino, dove nel 2020 esplose il caso, non ancora rientrato, della chiusura del Centro dialisi di Rogliano.
L’ospedale di Rogliano
La struttura serviva tanti dializzati residenti in paesini di montagna, costretti di colpo e in piena pandemia a raggiungere Cosenza, oltretutto in orari non proprio ottimali. Tutto in una regione intrappolata tra le maglie di una gestione dialisi limitata alle ambulanze. Soltanto tra Catanzaro e provincia prende in carico 33 pazienti e ne lascia letteralmente a piedi 74, ovvero tutti quelli che vivono una situazione simile alla paziente che qualche mese fa fece scoppiare il caso.
Il vulnus delle attrezzature
Da qui la necessità di «interventi urgenti e necessari» che l’Aned continua a chiedere, consapevole che il dramma dei nefropatici calabresi vada ben oltre il solo problema dei trasporti. È l’associazione che, con un documento in cinque punti, a ridosso di Natale ha acceso i riflettori sui due processatori messi a disposizione di Cosenza e Reggio Calabria ormai più di un anno fa, ma mai entrati in funzione.
È così che, nonostante tali apparecchi siano in grado di verificare prima e meglio la qualità degli organi, l’ottimizzazione dei tempi dei trapianti rimane un miraggio. A Scilla poi il dramma riguarda impianti tecnologici in agonia come quelli per l’osmosi dell’acqua che non garantiscono più qualità di cura al top e mettono a rischio persone bisognose di trattamenti salva vita.
La promiscuità che mette a rischio la salute
L’ingresso dell’ospedale dell’Annunziata a Cosenza
Ma non finisce qui. Tanti, troppi pazienti nefropatici sono pure costretti ad accontentarsi di strutture che l’Associazione nazionale emodializzati definisce «a rischio infettivo». Succede a Vibo Valentia dove – fanno notare – «per accedere bisogna passare dall’ambulatorio di gastroenterologia». A Cosenza «i quattro reparti di competenza, distanti tra loro e qualcuno addirittura adiacente all’obitorio, sono allocati anche in sottoscala». A Crotone, invece, fanno notizia i rischi clinici e psicologici legati al fatto che i posti letto dedicati ai pazienti nefropatici sono adiacenti a quelli di Oncologia. E per Palmi il giudizio è impietoso: «Struttura da terzo mondo». Il sistema in pratica fa acqua da tutte le parti. E anche dalla Nefrologia arriva la conferma che curarsi in Calabria è più difficile che altrove.
Antonella Scalzi
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