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  • Frati scienziati: tre grandi dimenticati al servizio di San Francesco di Paola

    Frati scienziati: tre grandi dimenticati al servizio di San Francesco di Paola

    L’Ordine dei Minimi di San Francesco di Paola ha un grande torto storico.
    Infatti, resta quasi sconosciuta l’opera dei suoi tre più eminenti rappresentanti nella Francia del ’600. Ci si riferisce ai padri Emanuel Maignan, Jean Françoise Niceron e Marin Mersenne. Purtroppo questa “dimenticanza” occulta ancor oggi il grande apporto fornito da questi uomini allo sviluppo dell’arte, della matematica e della scienza nel corso di tutti questi secoli.
    I loro lavori, studiati nelle università di tutto il mondo, sono citati in testi e ricerche facilmente consultabili.

    L’Ordine dei minimi: una fabbrica di scienziati 

    Tuttavia, praticamente nessuno, soprattutto in Calabria, sa dire chi siano stati gli esponenti più autorevoli dell’Ordine dei Minimi. Ai tre religiosi nessuno ha dedicato una piazzetta o un vicolo, nemmeno a Paola.
    È il sintomo di una sottovalutazione del ruolo avuto dai Minimi in Francia.
    Eppure San Francesco desiderava che nel suo Ordine vi fossero «huomini letterati e di studi» perché così «sommessamente piace a Dio». I padri Maignan, Niceron e Mersenne hanno un comun denominatore: Descartes. E sulla sua scia crearono una vera e propria “poetica del dubbio”.

    San Francesco di Paola e Luigi IX di Francia

    L’abisso delle scienze: Marin Mersenne

    C’è un soprannome che dà la misura dell’importanza di Marin Mersenne: “Abisso di tutte le scienze”. E questo “abisso” contiene un primato: la scoperta dei numeri primi perfetti.
    Mersenne nacque a La Soultière nel 1588 e morì a Parigi nel 1648.
    Dopo aver studiato Teologia alla Sorbona entrò nei Minimi (1611) per insegnare filosofia. In seguito si stabili nel convento parigino dell’Annunziata, dove restò fino alla morte.
    Fu insegnante a Nevers ed ebbe rapporti stabili con i principali esponenti culturali del tempo: Cartesio, Hobbes, Fermat, Huygens, Torricelli, Gassendi. Fondò l’Accademia delle Scienze che si proponeva di rinnovare il mondo della ricerca nel campo universitario.

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    Marin Mersenne

    Un cervello universale dell’Ordine dei Minimi

    I contributi scientifici di Mersenne sono enormi: vanno dall’esegesi biblica alla filosofia, dalla meccanica alla teorica musicale e all’acustica, dalla geometria all’ottica, dalla pneumatica alla linguistica.
    Da segretario della repubblica delle lettere dell’epoca, partecipò in maniera determinante al dibattito sui problemi del vuoto, soprattutto durante il suo soggiorno in Italia (1644) dove assistette ad alcuni esperimenti barometrici e li discusse con i principali esponenti di questo filone scientifico.
    Nel 1624 pubblicò L’empietà dei deisti ed ebbe un rapporto scientifico forte con Galileo Galilei, che difese nei momenti più difficili e di cui fu traduttore e divulgatore. Inoltre fu precursore della teoria musicale con la pubblicazione de L’armonia universale (1636), in cui affrontò i problemi acustici degli strumenti musicali dal punto di vista fisico e matematico.

    Con Cartesio contro Hobbes

    Infine, Mersenne polemizzo con le sue Meditazioni metafisiche (1636) contro le formulazioni di Hobbes e Gassendi sulle dottrine cartesiane.
    Fede, vissuta con grande indipendenza dai sistemi metafici (compreso quello aristotelico) e scienza, praticata con grande lucidità. Un binomio perfetto con cui il religioso cercò Dio tutta la vita.

    L’arte si fa scienza: Jean Françoise Niceron

    Jean Françoise Niceron nacque a Parigi nel 1613. A 19 anni entrò nel convento dell’Ordine dei Minimi di Trinità dei Monti a Roma.
    Lì insegnò matematica e studiò filosofia e teologia. I suoi interessi principali furono l’ottica, la catrottica e la diottrica. Passò la maggior parte della vita nella città dei papi, tranne alcuni periodi in cui visitò le province francesi del suo Ordine su incarico del padre generale Lorenzo da Spezzano.
    Padre Niceron si impegnò nella divulgazione delle opere dei principali uomini di scienza della Francia e sperimentò gli assunti galileani. Miscelò le problematiche della filosofia con quelle dell’ottica in La perspective curieuse au Magie artificielle des effets l’optique, dea la catoptrique, et de la dioptrique, un trattato di grande diffusione. Fece scoperte determinanti per la spiegazione dell’illusione prospettica e della “magia” raffigurativa degli oggetti.ordine-dei-minimi-tre-padri-scienziati-san-francesco-di-paola

    L’anamorfosi e altri trucchi

    Inoltre, fornì gli elementi essenziali per l’anamorfosi e inaugurò un vero e proprio movimento di ricerca che fece scalpore nelle arti figurative, soprattutto la pittura, i cui effetti hanno contribuito allo sviluppo dell’arte, in particolare di quella moderna.
    La morte prematura, avvenuta a soli 33 anni, gli impedì di terminare il suo secondo lavoro, Thaumaturgus Opticus. Lo completò padre Mersenne.
    Niceron non fu solo un teorico: realizzò le sue intuizioni dipingendo due affreschi anamorfici: San Giovanni Evangelista a Pathmos (1642), a Trinità dei Monti e la sua replica a Parigi (1644) nella Casa dei Minimi in Place Royale, che fu ultimata però da padre Emanuel Maignan.

    La prospettiva curiosa

    Queste due opere, e La Maddalena in contemplazione, realizzata con la stessa tecnica, non sono più visibili per l’incuria della conservazione. Altre opere di Niceron sono conservate nella Pinacoteca di Palazzo Barberini a Roma.
    Il trattato La perspective curieuse, si rivolge in prevalenza agli artisti per fornire un indirizzo allo studio delle geometrie raffigurative. È un’opera poderosa, divisa in quattro libri con una prefazione in cui si elogiano la matematica e la fisica. Al di sopra di tutto resta però l’ottica, che tocca l’astronomia, la filosofia, l’architettura e la Pittura.

    L’anamorfosi di San Francesco di Paola nel convento di Trinità dei Monti

    Emmanuel Maignan: un fisico dell’Ordine dei Minimi

    Emmanuel Maignan nacque a Tolosa che nel 1601 ed entrò a diciotto anni nell’Ordine dei Minimi in Francia. Appassionato di matematica, approfondì da autodidatta le sue conoscenze sulla materia.
    Insegnante di filosofia e teologia a Roma presso il convento del Pincio, Maignan frequentò eminenti figure del mondo delle scienze come Gaspare Berti, Raffaele Magiotti e Athanasius Kircher.
    Con loro cominciò alcuni esperimenti per determinare l’esistenza del vuoto, che influenzarono anche Torricelli.

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    Capitole Toulouse – Grand escalier – Buste d’Emmanuel Maignan

    Ancora sull’anamorfismo

    Maignan si interessò anche di pneumatica e ottica. Ma si dedicò principalmente alla fisica, come attesta il trattato Cirsusphilosophica destinato alle scuole del proprio Ordine.
    Nella seconda edizione di questa opera si ritrovano gli scritti relativi alle dissertazioni con Cartesio. Più longevo dei suoi confratelli, Maignan morì a Tolosa all’età di 75 anni. Nel libro Perspective horaria, il religioso studia le deformazioni delle figure, e contribuisce allo sviluppo dell’anamorfismo.
    Questa tecnica consisteva nell’«esporre un meraviglioso e preciso artifizio per deformare, in maniera molto semplice e rapidissima su qualunque superficie murale o voltata, un’immagine rappresentata su una tavoletta, in modo che, vista da un punto si ricomponga otticamente e appaia nitida, chiara e simile al prototipo; vista invece da vicino, o frontalmente sparisca, lasciando apparire qualcos’altro di ben diverso e tuttavia ben rappresentatoۚ».
    Queste alterazioni visive si riscontrano nell’affresco dello stesso Maignan a Trinità dei Monti, che immortala San Francesco di Paola nel miracolo dell’attraversamento dello Stretto di Messina.

  • Il fascismo nel pallone: le oscure vittorie azzurre negli anni ’30

    Il fascismo nel pallone: le oscure vittorie azzurre negli anni ’30

    Calcio e fascismo. Ne parla un libro coraggioso di Giovanni Mari edito da Storie di People.
    Già il titolo, Mondiali senza gloria, emette un giudizio senza attenuanti sulle vittorie della nazionale italiana di calcio ai Mondiali del ’34 e del ’38. È un argomento delicato, il Calcio nel nostro Paese. E lo è, in particolare, a proposito degli Azzurri, e se si avanzano, più che dubbi, certezze sulla bontà delle loro vittorie. L’assenza di gloria è un’affermazione secca, non è seguita da un punto interrogativo per mitigarla.

    Calcio e fascismo: un affare di propaganda

    D’altra parte Giovanni Mari – giornalista del Secolo XIX definito «appassionato di propaganda politica» – nella quarta di copertina, riempie molte delle 184 pagine del libro di informazioni in grado di dissolvere la nebbia che ha avvolto quelle vicende per tanto tempo.
    Mari usa una documentazione vasta e “terza” rispetto a quella disponibile in Italia. Lo ha spiegato lui stesso rispondendo alle sollecitazioni di Ernesto Romeo, dell’Arci–Circolo Samarcanda, e di Giuliana Mangiola, presidente della Sezione Carlo Smuraglia dell’Anpi, organizzatori dell’incontro tenutosi a Reggio Calabria nei giorni scorsi.
    L’autore ha consultato organi di stampa stranieri del tempo, proprio per non incappare nell’informazione pilotata dal regime fascista e da Mussolini in prima persona.

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    La nazionale in nero ai Mondiali del ’38

    La destra e il passato che non passa

    Il libro prende spunto dal calcio per parlare di storia, di politica, di passato ma anche di presente. Infatti, è uscito prima della vittoria della Destra alle elezioni del 25 settembre.
    Questa data segna l’inizio di una serie di atteggiamenti, dichiarazioni e i posizioni che hanno messo in luce il rifiuto di questo schieramento di fare finalmente i conti col passato. Al riguardo, l’ultima perla della premier è la dichiarazione della presidente del Consiglio sull’eccidio delle Fosse ardeatine, quando l’ineffabile Giorgia ha letteralmente riscritto la Storia catalogando semplicemente come Italiani, e non come antifascisti, ebrei, oppositori del regime, le 335 vittime della rappresaglia nazifascista.

    Fascismo e calcio: tutto pur di vincere

    Mari, d’altra parte, non fa sconti a nessuno. E in maniera senz’altro condivisibile denuncia come ascrivibile all’intero popolo italiano – con note e significative eccezioni – l’atteggiamento ambiguo, autoassolutorio, superficiale mostrato nei confronti del fascismo e dei suoi crimini a danno degli stessi italiani e dei Paesi che esso ha trovato sulla sua strada.


    Grazie a una poderosa ricerca, l’autore ha verificato come per la manifestazione del ’34, tenutasi in Italia, sia stato attivato ogni strumento per obbedire al diktat del duce per ottenere prima l’organizzazione del torneo e dopo la vittoria azzurra:

    • Garanzia di tolleranza zero sul fronte dell’ordine pubblico, dopo i problemi in Uruguay nel ’30, in continuità, d’altra parte, con quanto il regime aveva fatto fin dal suo avvento:
    pressioni sugli altri contendenti;
    • utilizzo di ingentissimi fondi pubblici, in una situazione pesante dal punto di vista economico, per ingraziarsi la Fifa e le altre federazioni;
    corruzione dei designatori degli arbitri e degli arbitri stessi, che consentì ai calciatori italiani di praticare un gioco violento per eliminare gli avversari e di ottenere decisioni smaccatamente favorevoli durante le partite;
    minacce ai giocatori maggiormente rappresentativi delle altre nazionali per non farli partecipare ad incontri decisivi;
    • utilizzo di giocatori stranieri naturalizzati italiani in spregio alle regole fissate dalla Fifa.

    Il duce e il pallone: un matrimonio d’interesse

    Il trionfo del duce fu totale, e la stampa, sportiva e non, agì da megafono per lo strombazzamento che ne seguì, con i consueti cori a sostegno della tesi della superiorità dell’italica stirpe.
    Inutile dire che questa tesi si trasferì presto dai campi di gioco a quelli di battaglia per essere clamorosamente smentita.

    Mussolini in posa tra gli azzurri

    Il duce, tra l’altro, non amava per niente il calcio. Semmai, era affascinato dagli sport olimpici e da quelli che riteneva nobili: boxe, scherma, tiro, ippica. E infatti il regime non inserì il pallone tra le pratiche obbligatorie.
    Tuttavia, ne aveva intuito le potenzialità per dare ulteriore impulso all’irreggimentazione delle masse, loro sì malate di calcio, allora come ora.

    Non solo calcio: il fascismo alle Olimpiadi

    Mari racconta altre vicende oscure sono legate alle Olimpiadi del ’36, quelle di Berlino e delle vittorie in serie di Jesse Owens che ferirono Hitler.
    L’Italia, che aveva aggirato il divieto di portare in Germania i professionisti facendo iscrivere all’università i giocatori più forti, vinse in finale contro l’Austria.
    Quello stesso anno, Mussolini, oramai succube del suo vecchio seguace, subì senza fiatare l’Anschluss, dopo aver fatto per anni a paladino del Paese annesso. La scomparsa dal panorama calcistico del Wunderteam, la super squadra austriaca, fu digerita dal condottiero italiano nello stesso modo. Quindi l’Anschluss aveva eliminato anche una temibile concorrente per il ’38. Perciò il sogno di uno storico bis in Francia diventava verosimile.

    Jesse Owens trionfa alle Olimpiadi di Berlino (1936)

    «Vincere o morire»: i Mondiali del ’38

    L’Italia, precisa Mari, a quel punto era una delle favorite perché oggettivamente ben attrezzata. Il clima però, era profondamente diverso: gli esuli italiani contestavano la loro stessa nazionale, che si presentava con una maglia nera col fascio littorio che, per visibilità, aveva soppiantato lo stemma sabaudo.
    Era la nazionale del fascismo, fautore delle disgrazie loro e delle loro famiglie. Mussolini inviò, per la finale con l’Ungheria, un telegramma nel suo stile: «Vincere o morire».

    Il c.t. ungherese interpretò queste parole affermando che, perdendo, avevano salvato la vita agli italiani e, probabilmente, anche a loro stessi.
    «La vittoria mondiale dichiarava, secondo la comunicazione di regime, una indiscutibile e assoluta superiorità italiana, non tanto nel talento, ma nella costruzione stessa del successo e del genio umano», scrive Giovanni Mari.
    E prosegue: «era la chiave che avrebbe portato l’Italia a occupare il posto che meritava nel consesso mondiale: se era stata capace nel pallone, poteva essere capace in qualsiasi campo».

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    Arpad Weisz, l’allenatore del Bologna epurato in seguito alle leggi razziali

    L’epurazione razziale colpisce il pallone

    Il disastro era ormai dietro l’angolo, preceduto dalle leggi razziste che anche nel mondo del calcio fecero il loro sporco lavoro. Ne fece le spese, tra gli altri, l’allenatore ebreo ungherese Arpad Weisz, artefice di due scudetti del Bologna, deportato e morto ad Auschwitz insieme alla moglie e ai figli.
    Il clima era quello che traspare da un brano de Il Calcio illustrato, secondo cui «che (gli allenatori israeliti stranieri danubiani) debbano fare le valigie entro sei mesi non ci rincresce: finiranno di vendere fumo con la loro arte imbonitoria propria della razza (…) La bonifica della razza avrà più che salutari conseguenze calcistiche».

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    Il ct Vittorio Pozzo alza la Coppa Rimet dopo la vittoria ai Mondiali di Francia (1938)

    La stampa supina

    Chi sa di calcio, tuttavia, sa anche che proprio tali personaggi portarono la sapienza tattica e tecnica danubiana in Italia, con benefici ed innegabili effetti su tutto il movimento calcistico.
    Il libro di Giovanni Mari è un’opera densa, non riassumibile in poche cartelle. Meritano attenzione le tante considerazioni di ordine generale che contiene. Ad esempio, sulla politica fascista (non solo) nello sport. Oppure sull’atteggiamento prono della stampa e di alcuni protagonisti per troppo tempo idolatrati (il c.t. Vittorio Pozzo e il telecronista Niccolò Carosio, in testa alla lista). E sulla continuità che ignobilmente contrassegnò il dopoguerra nel calcio e non solo.

    Dittature e calcio dopo il fascismo

    Il fascismo divenne, nella percezione collettiva, una parentesi sventurata, un cancro sviluppatosi in un corpo sostanzialmente sano.
    La svolta fu determinata dall’alleanza con la Germania. Gli italiani erano “brava gente”, che non collaborò coi nazisti, o lo fece obtorto collo, nel progetto della Soluzione finale.

    Il generale Videla premia la “sua” Argentina nei Mondiali del ’78

    Non manca qualche interessante riflessione sull’utilizzo dello sport nei regimi autoritari in generale. Ad esempio, quelli comunisti, o di altri Paesi come l’Argentina di Videla o, da ultimo, il Qatar.
    Un’opera importante, soprattutto in un periodo in cui il tema è tornato di stretta attualità, in cui il Governo e importanti pezzi dello Stato sono nelle mani di chi un giorno sì e l’altro pure alimenta, con parole e atti, una narrazione tesa a manipolare la Storia, o a negarla del tutto.

  • Vena di Maida, il paese delle porte arbëreshe

    Vena di Maida, il paese delle porte arbëreshe

    Da una quarantina d’anni si è diffuso in Calabria il costume di dipingere con monumentali affreschi le mura, gli esterni dei palazzi, i portoni dei paesi con l’auspicio di dare loro nuova linfa vitale. Non è un’operazione semplice, ma pare che l’idea, oramai ben radicata, stia dando i suoi frutti. Uno degli ultimi esempi è quello di Vena di Maida, frazione arbëreshe del comune di Maida fondata, affidandosi ad alcune fonti, nella seconda metà del Quattrocento, nell’ambito della diaspora albanese dai Balcani successiva alla conquista turca di Costantinopoli e alla morte dell’eroe Giorgio Castriota Scanderbeg, capo della rivolta contro gli Ottomani.

    Da qualche mese, Vena di Maida ospita un percorso artistico a cielo aperto che rimembra e magnifica le sue antiche tradizioni albanofone.
    Il murale – da non confondere col deturpante graffitismo – è un’opera d’arte pubblica offerta alla collettività. Ma è anche una forma di comunicazione che, ridando tono a strutture e angoli disabitati, interloquisce più direttamente con le classi rurali, coi ceti meno avvezzi agli incontri con l’arte, e che sovente si fonda su una chiara connotazione sociale e ideologica.

    In principio fu Diamante

    La vicenda dei murali – o murales – in Calabria cominciò già nel 1981 quando a Diamante, comune dell’Alto Tirreno Cosentino, partì la cosiddetta Operazione Murales su spinta del pittore Nani Razetti e col placet del sindaco di allora Evasio Pascale. Fu una scommessa vincente: oggi, con oltre trecento affreschi a illuminare i suoi vicoli, Diamante è una tra le cittadine più dipinte d’Italia e tra le località turistiche di maggiore notorietà della Calabria e dell’intero Meridione.
    Nel corso di questi ultimi quarant’anni, l’impresa adamantina ha registrato svariate repliche quasi sempre sul solco di quella onesta ottica di valorizzazione, salvaguardia e riqualificazione dei luoghi.

    Una delle opere nei vicoli di Diamante (foto “Diamante Murales 40”)

    Discorsi ben conosciuti e una terminologia che è stata adottata anche dalla politica e di cui, purtroppo, talvolta ci si riempie la bocca – e così diamo senso al precedente “quasi sempre” –, ma che eticamente, e forse pure fiabescamente, convergono verso quel desiderio comune di riabitabilità dei luoghi, di far sì che essi siano riguardati, nel duplice senso suggerito da Franco Cassano ne Il pensiero meridiano: di avere riguardo, cura dei posti e di tornare a guardarli veramente come luoghi vivi e non come presepi da percorrere un festivo all’anno; luoghi palpitanti che ancora potrebbero dare all’umanità che ospitano.

    Murales: arte e memoria alla portata di tutti

    Sia chiaro: consci che queste iniziative non debbano essere vissute col furore della apologia del “piccolo mondo antico” e che i nostri non sono né la sede né il tempo per confezionare un giudizio su un’operazione ancora nuova, possiamo sostenere senza tema di smentita che, anche tramite i moderni mezzi di comunicazione sociale, per il suo forte impatto e la sua carica popolare l’arte del murale permette a una platea sempre più vasta di conoscere luoghi mai sentiti prima e che fino a non troppi decenni fa soltanto una ridotta cerchia di eletti – studiosi, viaggiatori, persone fornite di una cultura specifica – poteva essere in condizione di conoscerli.

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    Altre due porte coinvolte nel progetto a Vena di Maida

    In una visione di ampliamento, di omogeneità della conoscenza, perciò, questo è di certo uno strumento valido – non l’unico, non il principale, non il solo possibile da mettere in atto, seppur tra i più semplici e immediati – per non lasciare scivolare negli inghiottitoi della storia paesi spopolati e ruderi che un tempo hanno conosciuto “altra vita e altro calore”, per dirla con Cesare Pavese, e per impedire che essi possano entrare – e con ottime probabilità restare, sino alla perdita della memoria storica – nel lungo elenco dei paesi fantasma, termine tanto alla moda che piace ai fotografi della domenica che in quei luoghi abbandonati da Dio e dagli uomini non ci vivrebbero neppure per ventiquattro ore.

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    Liliana, l’ultima abitante di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini 2021)

    In buona sostanza, la sana e non propagandistica operazione di riqualificazione dei luoghi non può che avere un doppio obiettivo, uno a medio e uno a breve termine: quello di attrarre nuovi possibili abitatori e quello di fare restare i prodi, ultimi abitatori indigeni, ché «restare è un’arte, un’invenzione, un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali», come afferma l’antropologo Vito Teti nel suo Nostalgia (Marietti, Bologna 2020).

    Vena di Maida da Dumas padre ai murales

    E pure questa volta abbiamo divagato. Ritorniamo perciò a Vena di Maida, centro che oggi conta circa ottocento abitanti e che, sotto i Borbone, tra il 1831 e il 1839 fu comune a sé, breve parentesi entro la quale però a visitarla fu, nel suo fortuito passaggio a dorso di mulo in Calabria dell’autunno del 1835, da Alexandre Dumas padre che strabiliò dinanzi alla bellezza del costume tradizionale delle donne venote. Quella sosta oggi è ricordata con una targa affissa sull’antico caseggiato dirimpetto alla Chiesa arcipretale di Sant’Andrea Apostolo.

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    Una delle Porte d’artista a Vena di Maida

    Nell’estate del 2022 la piccola comunità arbëreshe – una delle trentatré tuttora presenti in Calabria –, grazie al patrocinio del Comune di Maida e alla direzione artistica di Massimo Sirelli – artista poliedrico, diplomato in Digital e Virtual Design all’Istituto Europeo di Design di Torino, autore di recente di una serie di murali a tema magnogreco tra Bivongi, Cinquefrondi, Locri e Monasterace per celebrare il cinquantenario del ritrovamento dei Bronzi di Riace –, è stata coinvolta in un progetto che ha visto undici artisti dipingere le porte del paese con linea guida la sua identità albanese.

    Le porte d’artista a Vena di Maida

    Porte d’artista è il nome del progetto che, sempre la scorsa estate, ha interessato altri due paesi del Catanzarese, Sersale e Uria (frazione di Sellia Marina), e che in questi giorni sta aggiungendo un’altra tappa: Marcellinara. Tra gli artisti, tutti calabresi, coinvolti nel progetto, oltre Massimo Sirelli: Antonio Burgello, Marco “Moz” Barberio, Claudio “Morne” Chiaravalloti, Vincenzo “Zeus” Costantino, Martina Forte, Andrea “Smoky” Giordano, Immacolata Manno, Alessia Moretti, Roberto Petruzza e Maria Soria.

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    Un’altra porta dipinta nella frazione albanofona di Maida

    Tra i murali freschi di tinteggiatura per le stradine di Vina (questo il toponimo arbëreshë di Vena di Maida) si riconoscono la veste tradizionale che piacque a Dumas, l’aquila nera a due teste della bandiera albanese, figlia diretta del sigillo di Scanderbeg, ma anche immagini contemporanee come quella che ricorda il glottologo di Cirò Marina Giuseppe Gangale.

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    Il ritratto di Giuseppe Gambale

    Dopo Verbicaro, Rogliano, Favelloni Piemonte, Plataci – comune del Pollino i cui affreschi sono improntati pure sulla sua cultura arbëreshë –, San Pietro Magisano, Sant’Agata del Biancodi recente dipinta con un magnifico ciclo murale dedicato a un suo figlio illustre, lo scrittore Saverio Strati –, un altro paesino calabrese gioca la carta dell’arte di strada per scongiurare il rischio che secoli di incontri, commistioni etniche e linguistiche e tradizioni uniche possano essere spazzati via e che il degrado originato dall’abbandonato fisico dei luoghi possa cancellarne la memoria.

  • Lettere dal Sud, l’epistolario inedito di Vittorio de Seta

    Lettere dal Sud, l’epistolario inedito di Vittorio de Seta

    Lettere dal Sud/ Vittorio De Seta è il titolo del libro, curato da Eugenio Attanasio, edito dalla Cineteca della Calabria nella ricorrenza del decennale della scomparsa (2011-2021). Una pubblicazione che raccoglie lettere inedite, diari, articoli, conversazioni e testimonianze ripercorrendo alcuni momenti più significativi, del regista e dell’uomo, valendosi di contributi autentici e qualificati di intellettuali, giornalisti e persone che lo hanno conosciuto realmente, nella ricorrenza del centenario della nascita, 1923/2023 alla Libreria Mondadori di Cosenza venerdì 31 marzo alle 18.

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    Il libro su De Seta a cura di Attanasio

    È un prodotto editoriale importante che giunge al termine di un lungo lavoro effettuato dalla Cineteca della Calabria sul regista, del quale la Cineteca custodisce l’opera omnia, ed iniziato vent’anni fa con la prima ristampa dei documentari 1954-59, proseguito nelle scuole con i progetti di alfabetizzazione e di divulgazione del cinema antropologico, e che oggi storicizza l’impegno della Cineteca nel tenere viva la memoria e indirizzare nuovi cammini di studio e ricerca. Non solo un percorso culturale ed una eredità intellettuale della Cineteca della Calabria ma anche una grande amicizia tra Vittorio De Seta e Eugenio Attanasio che ha incluso anche ricordi personali della figlia Francesca e della nipote Vera Dragone, attrice e cantante, esponente di una famiglia che si divideva tra il cinema del nonno Vittorio e il teatro della nonna Vera Gherarducci.

    Gli esordi in Calabria di Vittorio De Seta

    Nell’opera si racconta dei viaggi e dei lunghi ritorni nel meridione di un maestro del cinema che ha saputo raccontare cinquant’anni di società italiana con lo sguardo dell’antropologo e la sensibilità dell’artista. La sua avventura comincia nel 1954 tra Calabria e Sicilia, quando il giovane Vittorio De Seta inizia la sua prestigiosa carriera di documentarista, in trasferta da Roma dove ha lasciato la giovane moglie, Vera, alla quale racconta, in un piccolo epistolario qui raccolto, le cose che gli succedono davanti agli occhi. Incontri epocali, come quello con Alan Lomax e Diego Carpitella, che ha suscitato dibattiti tra gli etnomusicologi, per le collaborazioni e l’utilizzo delle musiche. Il regista e i due ricercatori compiono un percorso parallelo di ricerca, tra musica e documentazione antropologica, che viene citato ancora oggi per la ricchezza dei materiali.

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    Alan Lomax

    Qui gli si rivela di una realtà, quella del meridione, fatta di contadini, pastori, pescatori, minatori, affascinante, misteriosa, dove si lotta contro la natura per sopravvivere, a lui, studente di architettura che ha provato, senza restarne particolarmente coinvolto, il mondo del cinema di fiction con Jean Paul Le Chanois. Vittorio De Seta organizza riprese con le tecniche del cinema americano dell’epoca: il grande formato cinepanoramico, il cinemascope il 35 mm colore, l’assenza della voce fuori campo, laddove per il documentario si utilizzava al tempo il bianco e nero, il formato quadrato, il voice over che spesso appesantiva la visione.

    Ma soprattutto capisce con straordinaria intuizione che di lì a qualche anno quella vita ancora arcaica si sarebbe trasformata, che i pescatori dello stretto si sarebbero motorizzati per cacciare il pescespada, che nelle campagne sarebbero arrivati i trattori, anzi il deserto, perché l’industrializzazione avrebbe richiamato le masse bracciantili per farli diventare operai.

    L’altra faccia del boom economico

    Questo mutamento nella società italiana viene accuratamente studiato oggi grazie al lavoro di Vittorio De Seta e altri documentaristi che scelgono questa porzione di paese dimenticata. Il viaggio tra Sicilia, Sardegna, Calabria dura cinque anni per girare dieci preziosi documentari, autoprodotti, che segnano la carriera e lo preparano al passaggio al lungometraggio. Banditi ad Orgosolo è salutato come il ritorno del cinema neorealista nell’Italia del primo boom economico. Debutta infatti insieme a Ermanno Olmi con Il Posto e Pier Paolo Pasolini con Accattone, contrassegnando un momento felice del cinema che racconta la realtà dei primi anni ’60, l’altra faccia del boom economico. iI tre resteranno amici e sodali culturalmente per tutta la vita a dimostrazione di una visione comune della società e dei problemi legati alla crescita esponenziale del benessere economico.

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    Una scena di Accattone

    Chi era Vittorio De Seta

    Ma chi era veramente Vittorio De Seta, rampollo di una nobile e ricca famiglia del Sud, intellettuale comunista e figlio di una madre dichiaratamente e convintamente fascista con la quale avrà un rapporto conflittuale, tanto da girare un film Un uomo a metà come tentativo di autoanalisi (sarà lui stesso a presentare lo psicanalista Barnard a Fellini). Nella pubblicazione lo stesso Vittorio De Seta parla di «cinema come metodo per capire delle cose», lui che era cosi fuori dagli schemi della produzione cinematografica da vendersi un palazzo a S. Giovanni in Laterano per fare un film che spacca il mondo della cultura italiana; chi lo accusa di decadentismo, chi di individualismo, ma Moravia e Pasolini escono per difenderlo con due bellissimi pezzi.

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    La locandina di Diario di un maestro

    È questo un momento di grande crisi per Vittorio De Seta, che emigra in Francia per girare L’Invitata con Michel Piccoli e l’amico Jacques Perrin, un film su commissione ma elegante, raffinato, intimista. Il ritorno in Italia alla regia con il Diario di un maestro è prepotente (anche questo raccontato in un diario di lavorazione giornaliero). Una preparazione meticolosa, due anni di lavoro per realizzare la sua opera eterna sul mondo della scuola, dei ragazzi di borgata, sull’utopia di insegnare in una maniera nuova. Quando la Tv lo trasmette realizza un indice di ascolto fuori da ogni previsione: per la prima volta infatti una produzione televisiva di grande successo arriva nelle sale, per le quali monta una versione apposita dalle tre puntate originali.

    Il ritiro a Sellia Marina

    Infine, il suo buen retiro in Calabria, dove si dedica all’agricoltura, nell’uliveto di famiglia a Sellia Marina, rompendo completamente con la vita precedente. Vittorio De Seta vuole mettere in pratica quello che ha appreso negli anni diventando imprenditore agricolo e coltivatore diretto. Ma la sua presenza, in quel lembo di penisola, non può passare inosservata e inizia ad accogliere, alla fine degli anni ottanta, giovani cinefili desiderosi di scoprire il suo cinema, essenziale, rigoroso, intransigente. Così dopo anni di completa eclissi viene riscoperto e stimolato a ritornare al cinema, in fondo, il suo mestiere di vivere, con il documentario In Calabria e poi con il suo testamento, Lettere dal Sahara, una commovente riflessione sulle nuove immigrazioni.

    Vittorio De Seta, il faro del nuovo cinema del reale

    Vivendo in Calabria, una regione ricca di contraddizioni, povera e marginalizzata ancora oggi, ritorna l’autore ispirato, diventa il faro del nuovo cinema del reale, dei giovani che si ispirano a lui, come Agostino Ferrente, Jonas Carpignano, Paolo Pisanelli. Torna a girare per l’Italia e per tutto il mondo: famosa la sua partecipazione al Tribeca film Festival nel 2005 e gli elogi di Martin Scorsese tra Bologna e New York. C’è chi ha paragonato il suo passaggio alla cometa di Halley, chi all’avvento di un nuovo Messia per le sue visioni profetiche, Vittorio De Seta resta una figura di riferimento per il cinema e la cultura italiana del ‘900. Questo libro, a differenza di altri, porge il ritratto dell’uomo oltre che del regista, con il bagaglio di intuizioni, ricchezze, spigolosità, che lo rendevano geniale e difficile, scontroso e tenerissimo allo stesso tempo.

    Mariarosaria Donato

  • Frank Gambale e  il grande jazz al Tau dell’Unical

    Frank Gambale e il grande jazz al Tau dell’Unical

    Ci sono un australiano, due francesi e un ungherese. Ma, soprattutto, c’è la grande musica in programma domenica 2 aprile alle 21 nel Tau dell’Unical. Il teatro dell’Università della Calabria ospiterà, infatti, il quartetto di Frank Gambale. Ossia un autentico mostro sacro del jazz contemporaneo.

    Frank Gambale e non solo: il resto del quartetto

    Non che i tre insieme a lui siano da meno. Ad accompagnare il chitarrista di Canberra ci saranno musicisti di indiscutibile talento e caratura internazionale. Primo tra tutti Hadrian Feraud, bassista francese che un genio come John McLaughin – col quale ha lavorato in passato – reputa una sorta di reincarnazione del mito di ogni bassista degno di questo nome: Jaco Pastorius. Detterà insieme a lui il ritmo un altro grandissimo: il batterista Gergo Borlai, che in carriera si è esibito, tra i tanti, con musicisti del calibro di Terry Bozzio, Scott Henderson e Al Di Meola. Dulcis in fundo, spazio alle tastiere per Jerry Lionide, uno che è salito per ben due volte – una sul gradino più alto – sul podio dei migliori pianisti del celeberrimo Montreal Jazz Festival.

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    Il Frank Gambale Quartet

    Un modello per i più grandi

    La star del concerto al Tau, però, non può che essere Frank Gambale. Basterebbe citare quello che dicono di lui artisti come il compianto (e un po’ calabrese) Chick Corea: «Tutto ciò che tocca con la sua chitarra diventa oro, lo è sempre stato. Frank è il mio chitarrista preferito». Oppure l’opinione di divinità delle sei corde come Pat Metheny: «Mi piacerebbe prendermi un mese di pausa e studiare con Frank Gambale». L’australiano, infatti, ha letteralmente inventato e dato il suo nome a un nuovo modo di usare il plettro e suonare la chitarra: la Gambale Sweep Picking Technique. Una piccola grande rivoluzione che ne ha fatto un esempio da seguire anche per un figlio d’arte come Dweezil Zappa: «Studiare la tecnica Sweep Picking di Frank Gambale mi ha permesso di suonare le parti più difficili della musica di mio padre che lui stesso non suonò».

    Frank Gambale al Tau dell’Unical

    Dagli anni ’80 ad oggi Frank Gambale ha pubblicato oltre 300 canzoni e una ventina abbondante di album, tutti con quello stile che Rolling Stone – la bibbia del rock, più o meno – ha definito «feroce» per intensità. Nella sua musica hanno trovato spazio il jazz e il rock, con incursioni nel funk e il rythm&blues e contaminazioni che richiamano sonorità latine e brasiliane. Un artista a tutto tondo, insomma, che con i suoi virtuosismi alla chitarra ha scritto pagine importanti e portato un vento di freschezza nella scena jazz (e non solo) degli ultimi decenni.

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    L’interno del Tau

    Non capita tutti i giorni di ospitare musicisti di questo valore alle nostre latitudini. Un motivo in più per non perdere il suo concerto domenica 2 aprile al Tau dell’Unical e la rassegna JazzAmore che vedrà il Frank Gambale Quartet tra i protagonisti. Costo del biglietto: 20 euro.

  • Joseph Roth, libri e film per combattere la fortezza Europa

    Joseph Roth, libri e film per combattere la fortezza Europa

    La citazione è lunga, e la chiosa ne riporta una seconda davvero illuminante. Ma per il suo contenuto, il suo autore, l’anno in cui è stata partorita, vale la pena di leggerla fino in fondo.

    Le parole di Joseph Roth

    «Se fossi papa, vivrei ad Avignone. Sarei felice di vedere ciò che è riuscito a realizzare il cattolicesimo europeo, quale grandiosa mescolanza di razze, quale miscuglio colorito delle più disparate linfe vitali. Sarei felice di constatare che nonostante questo rimescolio il risultato non è una tediosa uniformità. Ogni persona porta nel proprio sangue cinque diverse razze, antiche e recenti, e ogni individuo è un mondo che ha origine in cinque diversi continenti. Ognuno capisce tutti gli altri, e la comunità è libera, non costringe nessuno a comportarsi in un determinato modo. Ecco qual è il grado più alto di assimilazione: ognuno resti com’è, diverso dagli altri, straniero rispetto ad essi, se qui vuole sentirsi a casa propria. Un giorno il mondo avrà l’aspetto di Avignone? Che timore ridicolo hanno le nazioni, e perfino le nazioni in cui si vanta una mentalità europea, se credono che questa o quella “peculiarità” possa andar perduta e che dalla colorita varietà degli esseri umani possa scaturire una poltiglia grigiastra! Gli uomini infatti non sono dei colori, e il mondo non è una tavolozza! Quanto più numerosi sono gli incroci, tanto più nette resteranno le peculiarità! Io non riuscirò a vedere quel mondo meraviglioso in cui ogni singolo rappresenterà l’intero, ma già oggi intuisco un simile futuro quando siedo nella piazza dell’Orologio di Avignone e vedo rifulgere tutte le razze della terra nel viso di un poliziotto, di un mendicante, di un cameriere. È questo il grado più alto di quella che viene chiamata “umanità”. E l’umanità è l’essenza della cultura provenzale: il grande poeta Mistral, alla domanda di un dotto che gli chiedeva quali razze vivessero in questa parte del paese, rispose stupito: “Razze? Ma se di sole ce n’è uno solo!“.

    Questo brano è tratto dal libro Le città bianche di Joseph Roth. Nel 1925, il grande scrittore mittleuropeo fu inviato dal Frankfurter Zeitung nelle località della Provenza – tra le altre, Avignone, Lione, Marsiglia, Vienna, Tarascona – caratterizzate, appunto, dal loro colore dominante.

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    Lo scrittore Joseph Roth

    Cinema al Circolo Zavattini

    Queste magnifiche corrispondenze si trovano in un libro che ho letto nello stesso periodo in cui il Circolo Zavattini di Reggio propone una rassegna che comprende alcuni film francesi, l’ultimo dei quali è stato L’anno che verrà, del 2019, per la regia di Mehdi Idir e Grand Corps Malade. La storia narra di una scuola media in cui dai primi anni si concentrano in classi di sostegno gli allievi che non esprimono opzioni su materie come il latino, lingue straniere o musica. La vice preside appena arrivata, Samia, francese di seconda generazione, prende a cuore le sorti di alcuni alunni di origine maghrebina e sub sahariana, con un contesto familiare segnato da difficoltà di vario genere. Al di là della bella trama dell’opera, m’interessa prendere in considerazione un altro aspetto, legato a quanto esplicitato da Joseph Roth.

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    Il regista francese Mehdi Idir

    Il cinema d’Oltralpe, in questa e in tante altre occasioni, ha tratto enorme vantaggio dalle “linfe vitali” delle quali scrive Roth. È l’ennesima dimostrazione, nota a chi sa leggere l’evoluzione umana senza pregiudizi e preconcetti ideologici, del contributo fondamentale che può venire a ogni Paese dall’iniezione nel suo corpo sociale, economico, politico, di forze fresche, di idee e punti di vista e conoscenze e culture differenti.

    Nello scritto di Roth vi sono altre riflessioni. Quello che oggi chiameremmo melting pot sarebbe il frutto dell’azione del cattolicesimo europeo, che ha realizzato una «grandiosa mescolanza di razze, (un) miscuglio colorito delle più disparate linfe vitali». Inoltre, il “rimescolio” non produce “una tediosa uniformità”, ma persone che portano in sé le proprie caratteristiche (di razza: allora il termine era di uso corrente) perché nessuno è “costretto a comportarsi in un determinato modo”.

    Il mondo che immagina Joseph Roth

    Nel mondo futuro che Roth immagina, consapevole che non avrà il tempo per ammirarlo, dalla commistione scaturisce non una “poltiglia grigiastra”, ma una società nella quale ognuno manterrà la propria identità, nel rispetto di quella altrui.
    Una vera lezione, quella di Joseph Roth, che dovrebberoe mandare a memoria soprattutto i governanti e i cittadini di quelle nazioni affette dal “timore ridicolo” di subire chissà quali stravolgimenti, chissà quali “sostituzioni etniche”, addirittura programmate da menti diaboliche.
    Capita abbastanza spesso di rilevare in qualche grande del passato un pensiero attuale, perfettamente adattabile alla realtà dei nostri giorni. Credo che questo sia un caso emblematico di pensiero eterno, di analisi e conclusioni sempre valide, dai tempi dei cacciatori – raccoglitori fino ai nostri giorni. Un dubbio, tuttavia, rimane, instillato nella nostra mente dalla stretta attualità: se il mondo vaticinato da Joseph Roth lo vedremo noi o i nostri posteri, o nessuno mai.

  • Édouard Manet: 30 capolavori alla Galleria Nazionale di Cosenza

    Édouard Manet: 30 capolavori alla Galleria Nazionale di Cosenza

    Centoquaranta anni dopo la sua morte per vedere un Manet tocca andare al Musée d’Orsay o in altri templi della cultura mondiale, quelli che un secolo e mezzo prima lo respinsero. Oppure, più semplicemente, fare un salto alla Galleria Nazionale di Cosenza. A partire dal 24 marzo e fino al 25 aprile, infatti, tra i corridoi di Palazzo Arnone sarà possibile ammirare le creazioni del genio francese. Si tratta di trenta capolavori incisi, della prestigiosa edizione Strölin, per scoprire come la Parigi di metà ‘800 entrò nella modernità. La mostra di Cosenza si chiama Manet. Noir et Blanc. A idearla e produrla è l’Associazione N. 9, mentre la curatela è affidata ai fratelli Mario e Marco Toscano.

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    Palazzo Arnone, antica sede del carcere cittadino, ospita oggi la Galleria Nazionale di Cosenza

    Per un mese, dunque, non ci sarà bisogno di arrivare fino al Metropolitan Museum di New York per godersi Il chitarrista spagnolo (1860) o a Parigi per quell’Olympia (1863) che tanto scandalo destò alla sua prima apparizione pubblica. Basterà salire a colle Triglio, nel centro storico di Cosenza, e lasciarsi catapultare nel bianco e nero di Manet. Il pittore che Baudelaire e Zola adoravano perché voleva «essere del proprio tempo e dipingere ciò che si vede, senza lasciarsi turbare dalla moda».

    Realismo e impressionismo

    Esistono un prima e un dopo Édouard Manet nella pittura degli ultimi due secoli. Rivoluzionario suo malgrado, controcorrente per indole, il pittore francese ha rappresentato con la sua opera un punto di svolta per l’arte. L’Accademia però, salvo rari casi, non gli riconobbe a lungo la grandezza che avrebbe meritato (e desiderato). Manet cercava di portare sulla tela la realtà, amava dipingere all’aria aperta, venerava artisti del passato come Velasquez. Ma, al contempo, stravolgeva le aspettative di quanti si erano nutriti fino a quel momento con l’arte classica. Un amore per la vita reale, il suo, che fece innamorare del suo pennello scrittori come Baudelaire e Zola, ma faticò a incontrare i favori del grande pubblico e della critica.

    E così, a lungo, nei grandi Saloni e musei per i suoi quadri non si trovò posto per colui che molti oggi considerano il padre dell’impressionismo. In realtà Manet impressionista non fu mai o, almeno, non fino in fondo. Già il fatto che usasse il nero nei suoi dipinti – colore tabù per i colleghi Renoir, Monet, Degas – rende complesso considerarlo tale. L’ammirazione nei suoi confronti da parte dei tre appena citati, però, basterebbe a quantificare il ruolo della sua arte nella nascita della celeberrima corrente pittorica. «Manet era per noi tanto importante quanto Cimabue o Giotto per gli italiani del Rinascimento», disse di lui il padre del celebre regista. E pazienza se il diretto interessato riteneva, al contrario, Pierre-Auguste «un ragazzo senza alcun talento».

    I Manet alla Galleria Nazionale di Cosenza

    Pur non trattandosi di tele – l’unico quadro del francese in Italia, salvo sporadici prestiti, è il Ritratto del Signor Arnaud a cavallo, conservato alla GAM di Milano – le opere che per un mese saranno a Cosenza non sono certo di poco conto. Come si legge nel comunicato che annuncia l’apertura dell’esposizione, infatti, «la produzione grafica di Manet, sperimentale ed innovativa, è considerata fondamentale nello sviluppo delle tecniche di stampa. Le incisioni esposte, edite nel 1905, furono stampate postume dalle tavole originali di Manet, da Alfred Strölin, importante collezionista e commerciante tedesco. Le 30 lastre pubblicate nel 1894 da Dumont (che comprendevano le 23 del portfolio curato da Suzanne Manet per Gennevilliers nel 1890) rappresentano una raccolta esaustiva della produzione dell’artista. Vennero infine biffate dallo stesso Strölin per evitare ulteriori impressioni».

  • C’era una volta il futuro: Alessia Principe torna con le sue “Stelle meccaniche”

    C’era una volta il futuro: Alessia Principe torna con le sue “Stelle meccaniche”

    In una sfera immaginaria, in cui le vite degli altri diventano ricordi ed energia e l’umanità non ricorda più il Sole, si riflette la storia scritta da Alessia Principe nel suo nuovo romanzo Stelle meccaniche (Moscabianca edizioni), di recente pubblicazione.
    Aprendo uno squarcio nel tempo e nello spazio la giornalista e autrice porta il lettore in un futuro distopico in cui la Terra ferita da un disastro nucleare crede di riuscire a ripartire dai talenti e dai ricordi. La scrittrice dopo Tre volte (Bookabook, 2017) sceglie di spostare l’immaginazione narrativa lontana dal presente per proiettare il lettore in un futuro cupo, sospeso tra i ricordi del passato e l’ipertecnologia.
    Il romanzo sarà presentato in anteprima giovedì 23 marzo alle ore 18 alla libreria Feltrinelli di Cosenza. A dialogare con l’autrice ci saranno la scrittrice Elena Giorgiana Mirabelli e la critica d’arte Gemma Anais Principe. Il giorno dopo, venerdì 24 marzo, sempre alle ore 18, Alessia Principe dialogherà con Nunzio Belcaro alla libreria Ubik di Catanzaro.

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    Alessia Principe

    Stelle meccaniche: Alessia Principe e il suo futuro distopico

    In Stelle meccaniche tutto ha inizio alla fine degli anni Novanta del XX secolo: il sogno di una fonte di energia pulita, eterna e sicura sembra potersi realizzare grazie alla stella artificiale Meti. Il lavoro del team scientifico a capo della ricerca porta però a una catastrofe di dimensioni inimmaginabili: il 3 aprile del 2013 Meti, creata nella centrale a fusione nucleare Tokamak, implode e crea un buco nero che risucchia al suo interno gran parte del mondo per come lo conosciamo oggi.

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    ​Secoli dopo, il volto della Terra è ancora profondamente segnato dall’incidente e fulcro della vita è ormai il continente Mediana, formatosi dopo l’implosione. E per mandarlo avanti occorre energia: la soluzione sono i Resti, sfere di ricordi cristallizzati, attimi del passato che salgono verso l’atmosfera, invisibili e impalpabili finché lampi elettrici non li mostrano e solidificano.

    Gli esseri umani sono divisi tra chi possiede il talento, e vive un’esistenza tranquilla, e chi ne è sprovvisto ed è destinato a trascorrere i suoi giorni nel terrore di essere usato come pezzo di ricambio organico. In tal modo il sogno di una società utopica in cui i migliori hanno il posto che meritano, diventa una distopia che vede il talento ridotto da dono a forma di discriminazione.

    Anime, classica e steampunk

    Nel romanzo seguiamo le vicende di due bambini di undici anni: Giosuè, talento del pianoforte e Tito scugnizzo delle periferie, luogo ai margini del grande Continente della Mediana, dove le scorie rendono l’aria irrespirabile. I due si conoscono nella sala d’attesa di un ospedale dove si effettuano trapianti. Giosuè sta per avere delle mani nuove, Tito un cuore migliore. Tra loro si allaccerà un rapporto fraterno e, grazie a quel legame, capiranno cosa è successo al mondo e cosa riserva il futuro.

    In Stelle meccaniche si ritrovano le atmosfere cupe e steampunk che rievocano alcuni anime giapponesi degli anni ’70 e ’80 come Galaxy Express999, mentre tra le pagine risuonano le note di Satie, Mozart e Rachmaninov.
    Stelle meccaniche dal 23 febbraio è disponibile in libreria e nei maggiori store online.

  • Santa Maria di Corazzo, l’Abbazia tra passato e futuro

    Santa Maria di Corazzo, l’Abbazia tra passato e futuro

    Rispetto è la parola chiave, la stella polare degli interventi di restauro, consolidamento e valorizzazione che partiranno dalle prossime settimane alla Abbazia di Santa Maria di Corazzo, sita nella frazione Castagna di Carlopoli, comune di circa 1.500 anime della Presila catanzarese.
    I lavori avranno un approccio corretto, equilibrato e delicato, nel rispetto dell’immenso valore storico, culturale, religioso, paesaggistico e ambientale di quello che è senza dubbio uno dei monumenti più significativi e suggestivi dell’intera Calabria, terra di mare, certo, ma anche di monti, di storia, di tradizioni, di diversità linguistiche e culturali, di beni mobili e immobili di eccezionale pregio. Un patrimonio di cui essere consapevoli e da riguardare, fedeli alla duplice accezione suggerita dal sociologo e saggista Franco Cassano, vale a dire di avere riguardo, premura dei luoghi e di tornare a guardarli e a viverli davvero.

    L’Abbazia di Santa Maria di Corazzo: dalle origini all’abbandono

    L’Abbazia di Santa Maria di Corazzo – per secoli parte dell’Università di Scigliano – prende il nome dal vicino fiume Corace e la sua fondazione risale all’XI-XII secolo. Una più precisa collocazione temporale e susseguente paternità risultano ancora difficili da definire. È confermata la presenza dei monaci cistercensi e dell’abate Gioacchino da Fiore nell’arco di tempo che va dal 1157 al 1188 circa. Non trova, invece, al momento attestazione l’ipotesi caldeggiata da molti di una precedente edificazione dei monaci benedettini.
    La fine dell’Abbazia coincide con i drammatici terremoti del 1638 e 1783 che sconvolsero la popolazione calabrese e cambiarono per sempre l’aspetto paesaggistico della regione. Dopo un secolo e mezzo di trascuratezza e silenzio, dal 1934 il sito è tutelato dallo Stato italiano (legge di Tutela n. 364 del 1909).abbazia-di-santa-maria-corazzo-cartello

    Rispettoso, conservativo e delineato a seguito di un’attenta analisi conoscitiva, il progetto di restauro e consolidamento punta a valorizzare il bene tenendo fissa in mente la sua funzione originaria. Quindi non condannandolo, tracciando la strada, a una futura trasformazione in una luccicante attrazione turistica e macchina per fare soldi nell’interesse di pochi e a scapito di tutti gli altri.

    Malazioni simili vedrebbero l’imponente Abbazia vittima di un altro “terremoto”, non di minore entità – anzi, assai più grave considerato che sarebbe generato da chi è soltanto ospite della Terra e non da chi la governa – rispetto alle calamità naturali che ne determinarono prima la distruzione, poi l’abbandono – seppur documenti ne attestino residenti sino ai primi anni dell’Ottocento – e infine la progressiva espoliazione dei materiali e delle opere che vi erano conservate. Tra questi da citare quello che dovrebbe essere il portale della navata principale, collocato nella chiesa di San Bernardo della vicina Decollatura.

    Ritorno all’antico pensando al futuro

    L’intento è dunque di agire soltanto sulle problematiche in atto – sulle lesioni dannose e la vegetazione deleteria per l’integrità degli elementi delle murature –, lungi dall’alterare l’aspetto dell’antico monumento.
    Nello specifico, l’intervento consterà nella installazione di stampelle di acciaio per sorreggere le creste murarie, di griglie metalliche poste a copertura degli ambienti ipogei, di parapetti e luci gentili, non impattanti, che accompagneranno, giorno e notte, i visitatori. Una serie di operazioni per rendere sicuro e accessibile il rudere medievale, anche per le persone diversamente abili.ruderi-abbazia-santa-maria-corazzo

    Dettaglio importante e che manifesta una lieta sensibilità e lungimiranza: gli interventi di consolidamento e restauro di questa gemma preziosissima del patrimonio artistico e culturale della Calabria, eredità per l’intera regione, saranno potenzialmente reversibili. I componenti impiantati, un domani, potranno essere estratti, non intralceranno l’operato di più avanzate attività che potrebbero avere luogo nei decenni e secoli futuri. Rispetto sia per il bene sia per le generazioni postere, per l’appunto.

    Il progetto per l’Abbazia di Santa Maria di Corazzo

    Il progetto ha ottenuto il via libera – diversamente da un altro, assai più aggressivo e snaturante, che prevedeva l’installazione di pareti in cristallo e di un tetto in legno lamellare, presentato nel 2020 (allora si parlò di «intervento di tipo conservativo ma allo stesso tempo innovativo») – dalla Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio delle province di Catanzaro e Crotone.

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    Rendering del progetto di restauro respinto

    A realizzarlo, il Comune di Carlopoli e i professionisti della Giannantoni Ingegneria srl: gli ingegneri Andrea Giannatoni e Isabella Santeramo, l’architetto Luisa Pandolfi. L’elaborazione ha beneficiato del supporto e della consulenza scientifica dell’archeologo e docente Francesco Cuteri, del soprintendente Belle Arti e Paesaggio di Catanzaro e Crotone Stefania Argenti, del docente e architetto Riccardo dalla Negra, del docente e architetto Giuseppina Pugliano e del geologo Marcello Chiodo.

    La presentazione del progetto

    A presentare gli interventi di restauro, consolidamento e valorizzazione della Abbazia di Santa Maria di Corazzo sono stati invece Wanda Ferro, sottosegretario al Ministero degli Interni, Mario Amedeo Mormile, presidente della Provincia di Catanzaro, Emanuela Talarico, sindaco di Carlopoli, Antonio Chieffallo, presidente dell’associazione Muricello, all’interno del Municipio di Carlopoli lo scorso 19 marzo nell’ambito degli eventi di chiusura del Premio Muricello.

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  • Donne sull’orlo di una crisi di Omero

    Donne sull’orlo di una crisi di Omero

    Sono belle le donne raccontate da Omero, attraverso l’arte della tessitura e la cura della casa conquistano gli uomini e restano fedeli ai mariti. Altre s’innamorano follemente di un uomo che appartiene a un’altra donna e lo trattengono su un’isola lontana. Sono donne lussuriose e c’è anche una maga seduttrice che trasforma gli uomini in maiali; donne come modelli da seguire e altre come esempi da respingere. Donne che ci parlano ancora con tutta la forza di una narrazione che affonda le sue radici nel mito, quello capace di esplorare interiorità personali e collettive.

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    Un momento del reading teatrale “Le voci delle donne di Omero”

    Le donne di Omero

    Le Voci delle Donne di Omero ci raggiungono attraverso un reading teatrale che, partendo dal mito, ripercorre le sensazioni dei personaggi femminili di Iliade e Odissea. Emozioni racchiuse nell’attenta scrittura drammaturgica di Katia Colica e, nella sua voce, che ne declama i versi, si addensa il senso profondo di una mitologia attualizzata. Le voci delle donne di Omero echeggiano tra gli spazi artistici della Calabria, riuscendo a registrare quel famoso sold out che fa ben sperare sulle sorti della diffusione della cultura teatrale nella nostra regione, luogo in cui vivere di teatro e più in generale di cultura, non è sempre un’impresa facile.

    È questa l’occasione per incontrare da vicino Katia Colica e, con lei, parlare di donne, miti, teatro, periferie e come dice lei di cultura salvifica. La performance, come chiarisce Colica, consente di far conoscere al pubblico, attraverso un linguaggio innovativo dettato da un’interpretazione personale, un testo che si articola in un intreccio narrativo, poetico e musicale.

    La dignità perduta

    Le donne di Omero, dee o umane, mortali o immortali, sono legate a un percorso di sofferenza, di sacrificio, ma che nella narrazione prendono forma, i silenzi diventano voci e le voci si concretizzano nella consapevolezza di essere state private della propria dignità. Donne che raccontano il proprio punto di vista e per fare questo partono dal mito, il solo capace di spiegare le emozioni di donne in balia del destino, donne utilizzate come merce di scambio, che piangono le sorti del marito, ma anche logorate dall’inganno. Nient’altro che i temi della nostra attualità descritti amplificando emozioni e sensazioni. In scena ci sono delle donne, voci di donne, che si raccontano, appartengono tutte allo stesso nucleo familiare. Emerge la voce di Persefone, una ragazza che vive il suo Ade personale all’interno della bulimia, quindi intrappolata in quel sotterraneo cavernoso del disturbo patologico alimentare.

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    Particolare di una scultura dell’Ottocento che raffigura Omero

    Il mito diventa narrazione contemporanea

    Demetra, la madre di Persefone, non vuole vedere e accettare l’Ade creato dalla figlia. Il personaggio di Tiresia è quello di una transessuale che si racconta, una narrazione che Colica ha costruito sulla doppia identità dell’indovino cieco che fu sia uomo sia donna. Eco è una donna trasparente, una ragazza che non riesce a esprimersi e quindi, senza le giuste parole la sua immagine non si concretizza in un corpo. Infine arriva Ade, simbolo di quel luogo in cui tutte le anime possono ritrovarsi solo ascoltando le proprie voci. Le musiche originali e dal vivo sono di Antonio Aprile e sul palco prende forma un percorso in cui il mito diventa una narrazione contemporanea, si parte da lontano per raccontare le problematiche femminili che si ripetono da millenni.

    La drammaturgia di Katia Colica

    La drammaturgia di Katia Colica nasce proprio dalla consapevolezza di storie reiterate, voci che arrivano da un tempo remoto, si attualizzano e si aprono a un costante e reciproco dialogo. Colica è riuscita a costruire una scrittura drammaturgica lavorando, come afferma, su una sorta d’innesto tra il mito classico e la contemporaneità. Un gioco d’incroci e di equilibri linguistici utili a non far dimenticare le nostre origini classiche. Katia difende la grecità radicata nella nostra cultura, ne parla come qualcosa che si avverte sotto pelle, una eco che risuona interiormente e che può tradursi nelle parole della contemporaneità.

    L’architetto delle emozioni

    Katia Colica è un architetto urbanista di Reggio Calabria, ma alle costruzioni di mattoni e cemento ha preferito quelle delle emozioni fondate dal sapiente intreccio delle parole. Il mestiere della scrittura per affrontare temi di disagio e di malessere sociale, autrice di romanzi e giornalista, ma più di tutto lei si sente una drammaturga e questo perché, come in un racconto mitico, non ha fatto altro che seguire le orme di una suggestione legata al tempo della sua infanzia.

    Un Altro Metro Ancora è la prima drammaturgia di Katia, quella che le ha consentito di rappresentare le emozioni suscitate da una storia vera vissuta da sua madre: finita la guerra, un gruppo di sfollati dell’Italia centrale diretti verso il Sud, si ritrova in un campo minato. Un ragazzo si propone di essere il primo della fila così da consentire a tutti di attraversare indenni quel pezzo di strada.

    Un progetto di liberazione

    Le figure del ragazzo e degli sfollati che seguivano le sue impronte, per Katia Colica, hanno sempre costituito un’immagine teatrale, tale da elaborarla negli anni e alla fine tradurla in una vera e propria scrittura scenica e anche in un libro. Fedele all’importanza attribuita alla forza delle parole Katia va in scena per raccontare delle storie, ma non si sente un’attrice, per lei stare sul palco è una pura casualità che ritrova un riscontro nell’apprezzamento del pubblico.

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    Katia Colica impegnata nel reading teatrale “Le voci delle donne di Omero”

    Le parole, Katia, le porta anche nelle periferie, e le condivide come un progetto di liberazione con gli stranieri, con le donne, con le minoranze etniche. Il suo amore viscerale per l’antica Grecia l’ha portata a ideare, insieme all’associazione Adexo, il Balenando in Burrasca Reading Festival, giunto ormai alla sua IV edizione e di cui lei è direttrice artistica. Il reading affonda le sue radici nell’antica Grecia, luogo in cui il cantore o aedo era considerato un profeta sacro poiché trasmetteva la tradizione orale dei testi accompagnato dal suono della cetra. L’ultimo progetto in cantiere della drammaturga Colica è il reading Persefone, il ritorno: incanto di primavera. che approderà in primavera nell’antico Parco Archeologico di Locri Epizeferi, luogo sacro della cultura e simbolo della Magna Graecia.