Se l’equilibrio è un mistero, come recita una sua canzone, figuriamoci tutto il resto. Un caffè veloce, quelle sigarette masticate tra i denti più che fumate. Passo felpato e veloce, come si addice a un’ala sinistra, oggi la chiamerebbero punta esterna. Un tempo giocava pure a calcio. Non male, dicono. Dice. Proprio in quel ruolo.
Daniele Moraca è un personaggio da Memorie dal sottosuolo, come quelle stanze inabissate sotto l’ingresso dell’autostrada che ha ribattezzato Cotton Club studio. Vai a sapere perché!
Gli anni passano, i capelli restano lunghi. Non come quelli di Amedeo Minghi che svaniscono tra i decenni. Una metamorfosi continua fino a somigliare sempre di più allo scrittore e alpino Mario Rigoni Stern. Cercate su google una sua foto se non ci credete.
Un particolare del Cotton club studio di Daniele Moraca
Cotton club Moraca
La tana di Daniele Moraca è il Cotton Club studio. Un luogo dell’anima prima di essere un perimetro di muri e oggetti. Chitarre e Dylan Dog, vinili e foto cinefile, libri di Calvino e Kamasutra. Divanetti ormai sprofondati sotto il peso di chissà cosa. Una pianola confinata sulla sinistra fa molto anni 80. Ogni tanto si siede e tira fuori qualche nota, quando si rompe le scatole di pizzicare corde.
«Cotton Club studio nasce nei primi anni Novanta. Eravamo nei magazzini a suonare. Si avvertiva già la discesa inesorabile di una città, di un Paese. Ho trovato la mia casa nella casa, oppure la casa sull’albero, fai tu».
Cinema e cantautori
«Ho amato il cinema in bianco e nero. Il Neorealismo in primis. E poiCitto Maselli, scomparso da poco. Forse era il 2000, organizzai una rassegna su di lui a Lamezia. Venne con la moglie, fu una settimana incredibile. Un combattente, uno che non si è piegato alle mode della settima arte».
Ma esiste una identità musicale di Moraca? «Esce fuori – dice – dalle mie canzoni, da quelle degli altri che canto. Le contaminazioni fanno parte di ciascuno di noi. Tenco, Indrigo, Dalla, De André. Quanta storia della musica c’è in personaggi del genere».
Da sinistra Sasà Calabrese, Dario De Luca e Daniele Moraca al Cotton Club studio
Quei bravi ragazzi
Da tre anni non ci siamo fermati. È una cosa molto bella. Con Sasà Calabrese e Dario De Luca siamo impegnati in questo ciclo di concerti dedicati proprio a Lucio Dalla e Fabrizio De André che non smette di appassionare il pubblico in tutta Italia.
Daniele Moraca inizia a suonare a 9 anni grazie a suo fratello Paolo in quel di Colosimi, piccolo paese montano. Come da copione gli ha «messo in mano una chitarra, una Eco». Sale sui palchi delle Feste dell’Unità, quando ancora avevano un senso e una religione laica da difendere.
Gli esordi a 13 anni. La prima canzone in assoluto è Quell’uomo. Il titolo segna già il cammino di un musicista che guarda dentro e si guarda dentro.
Un pugno nello stomaco
Sarajevo è il classico pugno nello stomaco per Moraca. «Ogni tanto spunta quel dolore. Sono stato in Bosnia per un concerto patrocinato dall’Unione Europea. Non dimenticherò mai tutte quelle tombe e una città che portava ancora i segni della polveriera balcanica».
L’esperienza nelle Isole Faroe non è stata solo una tappa musicale. Si è trattato di un «viaggio di studio e ricerca quando collaboravo con Cesare Pitto, professore e antropologo dell’Università della Calabria». Oggi Moraca insegna nelle scuole superiori. Sempre con un chitarra in spalla, immancabile anche in classe.
Daniele Moraca sul palco del Festival delle Serre a Cerisano
Una canzone per te
Si racconta attraverso una canzone: «Non basterebbero tutte (ride ndr). Ma ne scelgo una. Si chiama Un disegno perfetto, esplora la bellezza dell’infanzia e parla del figlio che non ho mai avuto e mi sarebbe piaciuto abbracciare». Questo abbraccio è per «tutti i bambini», compresi quelli che hanno «perso la vita a pochi metri dalla spiaggia di Cutro».
E l’amore? Quello vissuto, perso, svanito? «Ho cantato questo sentimento in tante liriche. Ma adesso mi fermo al capolinea di una canzone su tutte: Ho semplicemente rimosso».
Chi e cosa ha rimosso non è dato saperlo. Resta tra i tanti misteri nascosti sotto la polvere di Cotton club studio.
Che succederebbe se ai piedi del Partenone scoprissero che Cosenza è nota come l’Atene della Calabria? Forse nella capitale greca assisteremmo a proteste di piazza veementi quanto quelle degli anni in cui la Troika si era abbattuta su Tsipras e i suoi connazionali. Da diversi anni, più che Atene, Cosenza ricorda infatti l’arcirivale Sparta. Nella città che si faceva vanto della sua cultura l’arte fatica sempre più a trovare casa. E quando la trova – se la trova o non la sfrattano dalla precedente – scoppiano immancabili i conflitti.
Cosenza: l’arte nella Atene della Calabria
“La Bagnante” di Emilio Greco è la statua presa più di mira in questi anni sul Mab
Dall’Atene della Calabria alla Disneyland di Cosenza vecchia?
Il primo è quello della statua di Donna Brettia. Personaggio leggendario, presunta prima donna guerriera (cosa che agli spartani non dovrebbe dispiacere) della storia occidentale, la scultura che la raffigura è sostanzialmente un’appendice del già problematico museo storico all’aperto realizzato da un’associazione – la guida l’ex preside Franco Felicetti – a Cosenza vecchia pochi anni fa. E proprio come quel museo ha avuto una nascita a dir poco travagliata. Il progetto di Felicetti e soci risale ai tempi in cui era sindaco Perugini e prevedeva la realizzazione di alcuni murales a tema storico tra le vie della città antica, uno per ogni popolo susseguitosi nella dominazione di Cosenza lungo i secoli.
Uno dei dipinti del museo del centro storico
Come contorno alle opere del percorso, l’associazione ipotizzava che imprenditori locali aprissero locali a tema nelle immediate vicinanze: café chantant in omaggio agli angioini, una taverna spagnola per gli aragonesi, una birreria tedesca per gli svevi e così via, in una ipotetica gentrificazione simil Disneyland che ha fatto storcere il naso a parecchi. Dei murales non si fece nulla, ancor meno di würstel e crauti o nacchere e flamenco.
Restano salsiccia e broccoli di rapa nelle cucine del quartiere, tributo ai bruzi difficilmente riconducibile al progetto museale: c’erano già prima. E restano i dipinti: il successivo sindaco, Mario Occhiuto, diede il via libera, a condizione che gli artisti li realizzassero su pannelli da appendere e non direttamente sulle pareti secolari di Cosenza vecchia. Neanche il tempo di affiggerli con un telo sopra e già il primo era scomparso – lo ritrovarono pochi giorni dopo – prima dell’inaugurazione ufficiale. Un altro l’ha fatto cadere il vento mesi fa ed è rimasto per terra in un vicolo a lungo.
La statua nell’angolino
Felicetti, comunque, in mancanza dei bar a tema ha rilanciato. E ha provato a donare alla città anche la statua di uno dei personaggi protagonisti dei dipinti: Donna Brettia, appunto. Una donazione modale la sua, ossia vincolata a determinate condizioni. Il Comune – questo il diktat del donatore – doveva collocare la scultura in piazza Valdesi, porta della città vecchia, con tanto di spadone puntato verso colle Pancrazio.
A piazza Valdesi, però, per mesi c’è stato solo il basamento. Nessuno si era premurato di coinvolgere la Soprintendenza, passaggio obbligato quando si tratta di intervenire in un centro storico. Poi è sparito pure il basamento, mentre la statua restava chiusa in un magazzino. Nei giorni scorsi l’hanno riposizionata in un punto più defilato, da cui il centro storico, seppur a pochi passi, a stento si vede. La spada punta ora più verso Rende, quasi la soluzione per la città unica fosse l’Anschluss. A Sparta avrebbero gradito, ad Atene chissà.
La statua dopo l’inaugurazione
La statua prima dell’inaugurazione
La base, oggi rimossa, su cui doveva poggiare la statua in piazza Valdesi
La base attuale del monumento donato da Felicetti
Da Donna Brettia ai Bee Gees
Tutto è bene quel che finisce bene? Macché. Prima che la inaugurassero qualcuno ha pensato di omaggiare Dalì piegando la spada di Brettia come i celebri orologi del pittore surrealista. Poi, a cerimonia avvenuta (e spada raddrizzata), è partito l’appello di storici, archeologi e semplici cittadini contro la scultura. Mistificherebbe la storia di Cosenza in nome del turismo, denunciano in estrema sintesi gli accademici (e non solo) chiedendone al Mic la rimozione.
Donna Brettia tornerà in magazzino? Farebbe comunque una fine migliore di quella toccata in sorte per il momento all’altra scultura protagonista delle cronache recenti: il monumento a Sergio Cosmai. O, secondo la più disincantata e insensibile expertise dell’Atene della Calabria, ai Bee Gees, con quelle sagome à la Stayin’ Alive a custodire il ricordo del delitto dell’ex direttore del carcere di Cosenza sull’omonimo viale.
Il monumento a Cosmai qualche anno fa, dopo la rimozione della scritta che lo circondava
Il lungo addio
Velato omaggio burocratico-amministrativo anche a H. G. Wells e al suo La macchina del tempo – l’inaugurazione dell’opera risale a marzo 2013, il Comune però l’ha commissionata ufficialmente alcuni mesi dopo – l’installazione dedicata a Cosmai era già ridotta a metà da anni. La scritta che la circondava, infatti, risultava pericolosa secondo la Polizia stradale. Su quella sorta di potenziale ghigliottina gravò a lungo il sospetto – poi fugato dal tribunale – di aver causato la morte di due ragazzi in un incidente stradale. La portarono via lasciando lì solo i Bee Gees, di cui la famiglia stessa di Cosmai auspicava da anni la rimozione ritenendo celebrassero più i killer della vittima. A far sparire anche quelli ha provveduto nei giorni scorsi l’amministrazione Caruso, attirandosi subito le critiche di chi l’aveva commissionata, ossia l’ex sindaco e oggi senatore Occhiuto.
Regimi a Cosenza e una nuova Atene della Calabria
C’è chi apprezza così tanto la statua di Mancini da metterle la sciarpa quando fa più freddo
«Un’opera di arte contemporanea non deve per forza piacere a tutti, semmai deve interrogare in virtù dell’idea che le sta dietro, perché a partire dal secolo scorso l’arte è diventata soprattutto concettuale. Adesso magari metteranno al suo posto l’ennesimo busto celebrativo, come si usa nei regimi totalitari o nei posti dove regna l’ignoranza», ha argomentato con amarezza. Parere simile aveva riservato, pochi mesi fa, alla quasi altrettanto discussa statua di Giacomo Mancini piazzata di fronte al municipio. Ma il problema, probabilmente non è questo. In fondo, come diceva Borges, «chi dice che l’arte non deve propagandare dottrine si riferisce di solito a dottrine contrarie alle sue».
Il fatto è che poco dopo la rimozione hanno iniziato a circolare in rete foto di quel che restava dell’opera buttato in terra ai piedi di una rete, con polemiche al seguito. Tutto mentre il gruppo consiliare “Franz Caruso sindaco” si affrettava ad assicurare che «l’installazione è attualmente custodita nei locali comunali per essere riposizionata in un altro luogo idoneo e non ostativo della sicurezza e dell’incolumità pubblica. Anzi, è bene precisare che sarà ricollocata l’intera opera, con l’aggiunta, cioè, della striscia in ferro riportante una frase di Sergio Cosmai».
“L’ex monumento” a Sergio Cosmai tra i rifiuti
Qualità della custodia a parte, insomma, alla famiglia del defunto toccherà forse pure la beffa di partecipare a una seconda inaugurazione della già poco gradita scultura. Se non a Cosenza, nell’hinterland: il sindaco Magarò ha proposto di metterla nel suo paese in caso qualcuno a Palazzo dei Bruzi voglia davvero farla sparire per sempre.
Sarà Castiglione Cosentino la nuova Atene della Calabria?
Non può esservi storia nazionale senza storia locale. Quella affidata, dalla notte dei tempi, anche a poemi e versi. Una poesia che, nelle molteplici correnti succedutesi nei secoli, ha continuamente rivendicato spazi di libertà nel suo essere polimorfa, sociale, ironica, sagace, sdrammatizzante, strumento di conoscenza dei luoghi e delle persone. Una poesia mai doma, come quella creata da Giovanni Amendola, cantore della piccola comunità di Nocera Terinese.
Giovanni Amendola e la Nocera del Secondo dopoguerra
Nato nel 1934 nel paese in provincia di Catanzaro affacciato sul Tirreno, Giovambattista Amendola, per tutti Giovanni, ha legato la sua intera esperienza esistenziale e artistica alla sua terra traversata dai fiumi Savuto e Grande, sorta sui resti delle antichissime città di Temesa e Terina che non possono non conferirle, tutt’oggi, un’aura quasi mitica.
Ne hanno visti di cambiamenti Nocera e il suo figlio Amendola: la lenta alfabetizzazione, non soltanto in meri termini scolastici, del popolo; il secondo conflitto mondiale; il re-innesco dei dissanguanti flussi migratori mentre altrove esplodeva il Boom economico; la fuga dalle campagne e il popolamento delle marine, con la susseguente creazione dei paesi doppi – quello vecchio in alto, il moderno giù sulla costa –, una sperimentazione politica e culturale che mutò la morfologia della regione e che riguardò Nocera e tanti altri centri calabresi, sia sul versante tirrenico, sia su quello jonico.
Un panorama di Nocera Terinese
I disagi quotidiani e la passione popolare
Fine osservatore dei mutamenti in atto, attraverso il suo dialetto, la lingua delle radici, Amendola ha raccontato in versi le piccole e grandi debolezze dell’umanità, sentimenti comuni a ogni etnia e latitudine.
La poesia di Giovanni Amendola, definita “poetante” perché più musicale ed efficace, si caratterizza per l’insaziabile ricerca della parola, quella più appropriata, quella più giusta, al fine di penetrare a fondo la storia popolare, di stigmatizzare i costumi e cantare le difficoltà quotidiane e le piccole gioie – con le prime che appaiono sempre più rilevanti e insostenibili – di generazioni di noceresi. E lo fa senza ergersi a giudice, ma permettendo al suo autore di partecipare alla passione della sua gente – e di passione, Nocera, col suo secolare rito dei Vattienti, ne sa qualcosa – e i lettori partecipi delle fragilità del poeta.
Un vattiente e un Ecce Homo, uniti da una corda (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)
Giovanni Amendola e il mondo che non c’è più
Nei suoi componimenti, Amendola ha cantato con nostalgia «gli stigmi di un mondo che non c’è più», sorridendo sommessamente dinanzi ai bocconi amari della vita. Ché, come ripeteva sovente con la colorita ma incisiva saggezza degli antichi, «‘u cane muzziche sempre u cchjù sciancatu» (il cane morde sempre chi è più storpio, chi sta peggio). In una sorta di appiattimento antropologico sugli “ultimi” le cui vicende tragicomiche hanno rappresentato un inesauribile bacino in cui placare la sete dell’ispirazione.
Plasmatasi sulla scorta di una prima, scolastica, formazione umanistica affinata negli anni con letture e studi da autodidatta (si autodefiniva un eterno studente e un divoratore di enciclopedie), quella del poeta calabrese è una poetica soltanto all’apparenza semplice, ma che cela un denso sostrato di complessità.
Giovanni Amendola è stato un uomo «dotato di quello strabismo intellettuale necessario a fissare contemporaneamente il locale e l’universale con uguale attenzione e intensità per fonderli nella poesia», sostiene Antonio Macchione, storico medievista con la passione per la letteratura calabrese e curatore de La poesia poetante di Giovanni Amendola (Graficheditore, 2023), opera fresca di stampa dedicata al poeta di Nocera Terinese.
Una sfida tra versi e ironia
Una delle raccolte di poesie di Giovanni Amendola
«Mettere alla prova la propria capacità di leggere il mondo», ha scritto Silvio Mastrocola, è stata la scommessa poetica di Amendola. Una vera e propria sfida, di superare le diffidenze e fragilità del paese, «di impadronirsi dei suoi meccanismi più riposti, di dragare con cura paziente i fondali della vita sceverando granello dopo granello la sabbia dell’esistenza, lasciando scorrere ciò che nulla può aggiungere al difficile quadro del vivere e trattenendo, invece, i segni più preziosi della vicenda terrena». E come ogni scommessa implica una percentuale di rischio. Il rischio di sentirsi esclusi, emarginati, soli, abbandonati. Però, a ben pensarci, è questo l’humus che favorisce lo sprigionamento della poesia, quella autentica.
Arrivismi, inganni, tradimenti noti a tutti fuorché, come si conviene, al tradito, gravidanze impreviste, espedienti d’ogni genere e altri piccoli casi tipici di ogni civiltà si trasformano nell’immaginario di Giovanni Amendola in stigmi antropologici che sottili stratagemmi letterari fotografano assieme a minuscoli attimi di vita quotidiana, al lavoro o in famiglia; divertissement utili a distrarsi, per non pensare alla fame e alla vita grama.
Ed è stata pure questa cifra della poesia amendoliana: indagare con ironia il tempo antico, non con un approccio vuotamente scherzoso, parodistico o nostalgico, bensì in maniera giovevole a comprendere i cambiamenti avvenuti e quelli in corso, l’omologazione, la corruzione linguistica e dei costumi, il rinnegamento (vissuto con ingiustificata vergogna) del passato e delle differenze.
L’opera di Giovanni Amendola
Nel corso della sua vita spentasi nel 2022, Giovanni Amendola ha ricevuto vari riconoscimenti in concorsi di poesia in vernacolo e ha pubblicato quattro raccolte poetiche: ’A vrascèra (Edizioni Ferraro, Napoli 1985), ’U tilaru (Edizioni ARE, Amantea 1990), ’A pacchiana (Edizioni Sinfonica, Brugherio 2002) e ’U trappitu (Edizioni Sinfonica, Brugherio 2013).
Altri quaderni e altri versi sono invece in attesa di incontrare i lettori, di suscitare in loro emozioni e scuoterne, con la riconosciuta vena graffiante, gli animi.
Poesia senz’altro e soprattutto. Ma anche performance teatrali e musica.
Chiude col botto la prima edizione de I padri della parola-Festival nazionale della poesia, promosso e organizzato dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani assieme al Comune di Cosenza e alla Regione Calabria.
Sono stati tre giorni intensi, dal 27 al 29 aprile, durante i quali sei poeti di grido (Elisabetta Pigliapoco, Tiziano Broggiato, Claudio Damiani, Giancarlo Pontiggia, Loretto Raffaelli e Daniel Cundari), hanno fatto il giro della città.
È stata una manifestazione itinerante, che si è svolta tra le scuole (il Liceo classico “B. Telesio”, i Licei scientifici “Scorza” e “Fermi” e il Polo tecnico-scientifico “Brutium”), la storica Villa Rendano, il Chiostro di San Domenico e, per concludere, Il tatro Rendano.
L’Acoustic Music Ensemble in azione
Festival della poesia: la parola alla Fondazione
«Dire che sono contento della riuscita del Festival è il minimo», spiega Walter Pellegrini, editore e presidente della Fondazione Giuliani.
«Non abbiamo organizzato a caso questa manifestazione: mi sono accorto, proprio grazie alla mia attività professionale, che c’è una forte domanda di poesia. Il pubblico vuole leggere versi. E allora abbiamo pensato: perché non mettere i poeti a contatto diretto col pubblico?».
In altre parole, «la poesia non ha bisogno di essere promossa, perché è un’arte che si valorizza da sé. Di più: credo che questa voglia di poesia sia una specie di reazione al degrado culturale e al vuoto di valori che attraversiamo». Perciò, «perdonatemi l’orgoglio, ero fiducioso. Ma la bella partecipazione della città ha superato le aspettative».
Da sinistra: Franz Caruso, Walter Pellegrini e Dario De Luca
Arte multimediale al Festival della Poesia
Le migliori chiusure richiedono i fuochi d’artificio. Ma la poesia non ha bisogno di feste o serate di gala per celebrarsi. È un’arte che si nutre di altre arti (e le nutre a sua volta). Nulla di meglio, allora, di una performance.
Per la precisione, quella che si è tenuta al Teatro Rendano la sera del 29 aprile, intitolata I padri della parola.
Musica e teatro incorniciano la poesia anche per rievocare chi non c’è più ma ha dato tanto, alla città e alla cultura.
Il ricordo di tre intellettuali
Non a caso, nella seconda parte della serata si è celebrato il ricordo di tre personalità significative.
Il primo è Angelo Fasano, scomparso giovanissimo nel lontano ’92. Dei suoi 26 anni vissuti intensamente resta Inònija, una rivista manifesto attraverso la quale ha espresso la sua poetica fondata sullo stupore.
Il secondo big è Enzo Costabile, giornalista, critico e cultore di jazz, oltre che poeta, scomparso nell’estate del 2003. Costabile spinse al massimo il legame tra poesia e musica: scrisse i testi dei Dedalus, vecchia gloria dell’etno-jazz. E non a caso la band ha partecipato alla serata per omaggiare l’amico e paroliere. Last but not least, Franco Dionesalvi, scomparso la scorsa estate. Tra i tre, Dionesalvi ha avuto il ruolo maggiore nella vita pubblica della città. Infatti, nel suo chilometrico curriculum c’è una voce consistente dedicata alla politica culturale, in cui si è speso alla grande: sua l’ideazione del Festival delle Invasioni. E non serve davvero dire altro.
il reading della poetessa Elisabetta Pigliapoco
Reading e note al Festival della poesia
Ma torniamo a I padri della parola. Sulle assi del Rendano si è svolto un reading, raffinato ma di forte impatto.
Introdotti dai saluti del sindaco Franz Caruso e dalla consigliera comunale Antonietta Cozza, i sei poeti hanno recitato i propri versi scelti su un tappeto musicale di tutto rispetto eseguito dall’Acoustic Music Ensemble.
Il trio, composto da Enzo Campagna, Salvatore Cauteruccio e Pietro Perrone, ha eseguito una base suggestiva piena di citazioni cinematiche (soprattutto Morricone).
Protagonisti della commemorazione, invece, gli attori Mariasilvia Greco ed Ernesto Orrico. Il tutto sotto la supervisione artistica di Dario De Luca.
Per concludere, la premiazione di alcuni studenti delle Scuole del territorio, che hanno partecipato ai laboratori di poesia a stretto contatto coi protagonisti del Festival.
Buona la prima, come testimonia la sala piena. E già, fanno sapere gli organizzatori, ci si prepara per una seconda edizione.
«Non è stato semplice. Operazione importante, impegnativa e coraggiosa, sotto diversi punti di vista». Patrizia Nardi, storica, già docente universitaria della Facoltà di Scienze Politiche di Messina, già assessore alla cultura del Comune di Reggio Calabria e focal pointper l’Unesco della Rete delle Grandi Macchine a spalla italiane è appena rientrata dalla Palestina dove, a Betlemme, lo scorso 4 aprile 2023 ha inaugurato la mostra internazionale Machines for Peace. Un’iniziativa importante realizzata in sinergia con l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del Ministero della Cultura, con il patrocinio della Farnesina, della Commissione Nazionale Italiana UNESCO e il Consolato Generale d’Italia a Gerusalemme. Dalla sua voce traspaiono soddisfazione, stanchezza e quella consapevolezza per una missione di pace che è il suo senso dell’operare nella Storia.
Perché organizzare una mostra del genere?
«Il 2023 segna per noi una data importante: è il decennale del riconoscimento UNESCO che coincide con il ventennale della Convenzione UNESCO 2003 per la Salvaguardia del Patrimonio Immateriale, ossia di quelle espressioni culturali, dei processi e dei saperi trasmessi e ricreati da comunità e gruppi in risposta al loro ambiente, all’interazione con la natura e alla loro storia. Era necessario dare un segnale importante, concreto, di testimonianza praticata. Per questo ho proposto alla grande comunità della rete – 36 associazioni e 4 amministrazioni comunali, Viterbo, Nola, Palmi e Sassari – di aggiungere alle attività ordinarie un focus specifico sul tema della pace che è una delle missioni, forse la più importante per cui è nata UNESCO dopo la seconda guerra mondiale: indurre comunità, gruppi, individui e nazioni a parlarsi e dialogare partendo dal patrimonio culturale come luogo per ricomporre i conflitti».
La guerra in questi mesi è su tutti i media…
«A maggior ragione oggi, con il conflitto ucraino in Europa e un rischio sempre maggiore di escalation, il tema della pace bussa, se mai ce ne fosse bisogno, con maggiore urgenza. Per questo abbiamo coinvolto tanti soggetti, pubblici e privati: l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del Ministero della Cultura, i Comuni, le Diocesi e Arcidiocesi delle Città della Rete, la Federazione Nazionale dei Club per l’UNESCO, Rotary International, FRACH – Fellowship of Rotarians who Appreciate Culturale Heritage, Meraviglia Italiana».
Raccontaci questo percorso
«A settembre scorso, in occasione del trasporto della Macchina di Santa Rosa – che celebra la traslazione del corpo della patrona di Viterbo avvenuta il 4 settembre 1258 per volere di Alessandro IV – abbiamo organizzato nella Città dei Papi un grande concerto coinvolgendo musicisti e cantanti dei Teatri dell’Opera di Leopoli, Odessa e Kiev: un evento partecipatissimo, oltre mille persone presenti. Quei musicisti straordinari, sofferenti e dignitosi al tempo stesso, suonavano il loro dramma davanti a noi, come abbiamo visto fare al coro dell’opera di Odessa riunitosi all’aperto per intonare l’inno nazionale ucraino.
Un modo esplicito per parlare alla comunità internazionale attraverso la musica, linguaggio universale per antonomasia. In quel momento ho pensato che la Rete delle Grandi Macchine potesse e dovesse continuare a dare un contributo concreto schierandosi contro tutti i conflitti: Macchine di pace contro macchine da guerra».
Che risposta c’è stata?
«La Rete ha molto sostenuto il progetto, fin dall’inizio: una mostra da portare nei luoghi di guerra, a partire dalla Terra Santa, per lanciare un messaggio di pace, forte e chiaro. Un Patrimonio Unesco ha il dovere di farlo e la partnership istituzionale è fondamentale. Le trattative erano state lunghe e complicate: avevamo avviato lo scorso ottobre l’interlocuzione con il Comune di Bethlehem per ricevere l’adesione solo il 20 febbraio successivo. Abbiamo organizzato tutto in poco più di un mese, pancia a terra potrei dire, costruendo una rete di cooperazione anche professionale molto significativa: abbiamo operato contemporaneamente con il team di ICPI, la OpenLab Company e il partner palestinese Iprint».
Altri aiuti?
«Abbiamo avuto il sostegno tecnico dei Comuni di Sassari e Viterbo e delle comunità della Rete, che sono venute in Terra Santa insieme a me. Senza di loro il progetto non avrebbe avuto la stessa valenza, progettare è un conto, condividere con gli stakeholder un altro ed ė un atto dovuto. E, chiaramente, fondamentale ė stato il lavoro di squadra ministeriale, la sinergia costante con il Gabinetto del ministro degli Esteri Tajani e la collaborazione con la nostra straordinaria rete diplomatica: Commissione Unesco, Rappresentanza Unesco a Parigi, Ambasciata di Tel Aviv, Consolato Generale d’Italia a Gerusalemme. Quando arrivai in riunione, la prima volta qualche giorno dopo l’ok da Bethlehem, rimasi stupita. Mi sarei aspettata più una riunione tecnica che una mobilitazione generale e questo mi ha molto incoraggiata, devo dire».
Patrizia Nardi insegna all’Università di Messina, è stata anche assessore alla Cultura del Comune di Reggio Calabria
Potremmo dire che il governo ha avuto l’opportunità di cogliere un’occasione importante: il Mediterraneo in generale (e il Mediterraneo allargato, più specificamente) tornano ad essere centrali per la politica estera italiana.
«L’Italia lavora da diversi anni a sostenere l’obiettivo della costituzione di uno Stato palestinese nella logica dei “due popoli, due stati”, sostenendo i negoziati di pace tra le parti: un ritorno a linee di politica estera che possano contribuire a costruire la pace in territori in cui la tensione ė continua e tangibile non può che essere considerato un fatto importante. Il conflitto ucraino ha saldamente posizionato il Paese in assetto atlantista, come mai accaduto prima dello scorso anno; e la guerra, con le sue priorità per la diversificazione di approvvigionamento energetico, combinata con le pressioni migratorie, impone la necessità di tornare alla vocazione naturale italiana:snodo centrale e madre del Mediterraneo, una responsabilità dalla quale, nel bene e nel male, non possiamo esimerci. Tajani ne è consapevole e la sua missione nello scorso marzo in Israele e Palestina è un segnale che va interpretato in un certo modo».
Mi stai dicendo che la cultura è il guanto di velluto della diplomazia?
«Avvicinare, far dialogare, fare cooperare comunità e soggetti istituzionali è il primo obiettivo dell’agenzia dell’ONU. La diplomazia culturale è strettamente connessa alla diplomazia politica e deve avvalersi di molti strumenti e altrettante strategie, specie in contesti complessi come quello palestinese, dove un conflitto che va avanti da oltre settant’anni anni ha creato comunità che vivono quotidianamente la divisione come parte integrante e quasi connaturata alla loro vita, con un mondo che sembra essersi girato dall’altra parte. Ma la missione della nostra delegazione non è passata inosservata».
In che senso?
«Le date scelte non sono state casuali. Abbiamo individuato il periodo della Pasqua, anzi delle “Pasque” che hanno radice comune, per il nostro messaggio di pace. La Pasqua cristiana, quella ebraica e l’ortodossa quest’anno, per l’insolito allineamento di calendario, hanno assunto un significato ecumenico di notevole importanza e un ulteriore invito al dialogo tra le religioni e le comunità. Purtroppo determinate ricorrenze vengono “utilizzate” anche nel male. Fino al martedì 4 aprile la situazione appariva tranquilla. Poi è precipitata. Il 5 era previsto un nostro incontro con gli studenti dell’Università di Bethlehem alla fine saltato per ragioni di sicurezza. Il 6 è iniziata l’escalation: la pioggia di missili, l’auto lanciata contro un gruppo di turisti proprio vicino all’ambasciata italiana di Tel Aviv, a trenta metri da dove si trovava l’ultimo gruppo della nostra delegazione, con le conseguenze che tutti conosciamo».
Avete percepito il pericolo?
«Si, anche per l’aumento dei controlli ordinari, particolarmente accurati anche in aeroporto. Una “normalità” che si è presentata a noi in maniera molto cruda, difficile da capire per chi non vive la quotidianità dell’emergenza».
Un alberello di Ulivo fra i totem della mostra “Machines for peace”
Una mostra virtuale, un “affresco digitale”. Non avete trasferito nulla, ma avete trasferito tutto…
«Proprio così. Grazie alla tecnologia abbiamo scomposto, trasportato e ricomposto le feste di Nola, Sassari, Palmi e Viterbo, la coralità delle stesse, il significato che quella coralità assume in un processo di costruzione di ponti e di dialoghi di pace. Il film di Francesco De Melis – che abbiamo girato durante il lockdown per testimoniare il rischio della sparizione dei patrimoni immateriali in contesti di crisi riportando nelle città vuote, sui palazzi, sulle chiese, la musicalità e le immagini delle feste – fa scorrere le sue sequenze su un enorme spazio di proiezione di 16 metri».
Che effetto crea nello spettatore?
«Si entra nelle feste, nel Bethlehem Peace Center, a due passi dalla Natività e ci si trova in un’altra dimensione, accompagnati da 13 figuranti nei loro magnifici costumi “di scena” festiva, che dialogano con la maestosa testa-scultura che Giuseppe Fata ha dedicato al tema della mostra, nel contesto del progetto Simulacrum. Una circolarità di sensazioni, idee, progetti, competenze, solidarietà che hanno prodotto un miracolo».
Sei soddisfatta?
La pace si coltiva e si pratica nel lavoro quotidiano, non credo bastino più le teorizzazioni, i cortei e le bandiere. Aiutano, ma non bastano. Essere operatori di pace è una grande responsabilità e le “mie” comunità della Rete lo hanno capito bene. Se devo parlare di soddisfazione, beh, questo può essere sufficiente. Non possiamo voltarci dall’altra parte, né far finta che niente succeda: questo vale per tutti i conflitti e soprattutto per le comunità che ne restano vittime fisiche, sociali, economiche. Quel muro, immanente e imminente, che divide la Cisgiordania parla anche a chi si rifiuta ancora di ascoltarlo».
Le prossime tappe dopo Betlemme?
«La mostra resterà a Betlemme fino a maggio. Poi alcune tappe europee, tra cui Praga e Parigi e dove sarà necessario portare il nostro messaggio di pace, fino al 2024. In più, oltre ad alcune città italiane, ci sono situazioni in progress che stiamo monitorando, di cui daremo notizia al momento opportuno».
Cosa ti porti indietro da questa esperienza?
«La consapevolezza di avere dato il mio contributo e di aver incoraggiato la Rete a dare il suo, in un momento particolarmente difficile; l’aver lavorato con tantissime persone, le mie comunità, il mediatore Giorgio Andrian, il mio straordinario co-curatore Taisir MasriehHasbun e il team palestinese di IPrint, con OpenLab, la vicinanza di tutti. Di aver dato un contributo con i mezzi che mi sono propri e congeniali. Non dimenticherò le preghiere all’alba del muezzin dal minareto, l’avere la percezione che quella Terra continui ad essere il centro del mondo. E non dimenticherò un piccolo bambino, che accompagnava il suo papà autista di un nostro transfer: un piccolo bambino vivacissimo, un bimbo in trincea, le cui prospettive sono ben lontane da quelle di un mondo forse anche fin troppo dorato e fasullo, come a volte sembrerebbe essere il “nostro”».
Cosenza città della poesia. E non temete: non c’è alcun rischio che i cosentini si mettano a parlare di punto in bianco in versi sciolti.
Più semplicemente, è la parola chiave dell’iniziativa I padri della parola-Primo festival nazionale della Poesia, promosso dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani in partnership col Comune di Cosenza e la Regione Calabria.
Il Festival è una delle iniziative cantierate dalla Fondazione Giuliani per celebrare il proprio decennale con un ruolo attivo per la crescita culturale della città.
È una tre giorni (dal 27 al 29 aprile) di incontri, recital, dibattiti e reading organizzata da Walter Pellegrini, il presidente della Fondazione, e da Franz Caruso, il sindaco di Cosenza, che si svolgerà in tre location principali.
Il Festival della poesia si svolge in tre location di Cosenza per tre giorni e tre tipi di contenuti, diversi ma coerenti tra loro.
Ecco di seguito il calendario.
Villa Rendano
I poeti e gli studenti
Versi da per tutte le età, da raccontare e divulgare da zero a cento anni. Per i giovanissimi c’è la serie di eventi La poesia incontra gli studenti.
• La mattina del 27 aprile, a partire dalle 8,30, è previsto l’incontro di Elisabetta Pigliapoco e Loretto Rafanelli con gli allievi del Liceo classico “B. Telesio”.
A partire dalle 11,30 è previsto un cambio di poeti e studenti. Per la precisione, Tiziano Broggiato e Claudio Damiani, che dialogano con gli allievi del Polo tecnico-scientifico “Brutium”.
• Il 28 aprile, a partire dalle 10, i poeti Elisabetta Pigliapoco, Loretto Rafanelli, Tiziano Broggiato e Claudio Damiani incontrano gli studenti del Liceo scientifico “G. B. Scorza”.
• Il 29 aprile, a partire dalle 8,30, è previsto l’incontro tra Giancarlo Pontiggia ed Elisabetta Pigliapoco e gli studenti del Liceo scientifico “Fermi”.
Questi incontri non sono riservati solo ai giovanissimi, visto che non c’è età per apprezzare la poesia.
Infatti, sempre il 29 aprile, a Villa Rendano, a partire dalle 17,30, è previsto L’Università della Terza Età incontra i poeti, un evento a cui partecipano gli autori finora menzionati assieme a Daniel Cundari.
Il meeting al Chiostro di San Domenico
Un reading fiume come se ne facevano nei tardi ’60 e nei ’70, in cui i professionisti del verso dialogano e duettano con gli appassionati.
L’evento si intitola La poesia incontra la città ed è previsto il 27 aprile, a partire dalle 16, al Chiostro di San Domenico.
Il Chiostro di San Domenico
I padri della parola
Ultima ma non per ultima (anzi, si dovrebbe parlare di finale col botto), I padri della parola, prevista il 29 aprile a partire dalle 18,30 al Teatro “Rendano”. L’incontro è strutturato in due parti.
La prima è un reading poetico di Tiziano Broggiato, Daniel Cundari, Claudio Damiani, Elisabetta Pigliapoco, Giancarlo Pontiggia e Loretto Rafanelli. La seconda parte è un ricordo di tre importanti poeti calabresi: Enzo Costabile, Franco Dionesalvi e Angelo Fasano, a cura di Mariasilvia Greco ed Ernesto Orrico.
Il tutto con l’accompagnamento musicale dell’Acoustic Music Ensemble, un trio composto da Enzo Campagna, Salvatore Cauteruccio e Pietro Perrone.
La supervisione artistica è a cura di Dario De Luca.
L’America delle sliding doors, la soglia del tutto è possibile. E poi l’America che regala e toglie, del sogno infranto, della calce nelle unghie, della fatica bagnata di Coca Cola.
È la Malamerica. Si intitola così la pièce messa in scena dall’attore e regista Ernesto Orrico, un artista che trasforma in materia teatrale vicende e personaggi calabresi. L’autrice è Vincenza Costantino ed è una produzione Rossosimona.
Orrico è in scena con Mariasilvia Greco. Entrambi interpretano più personaggi, diverse figure sceniche, pregne di storie personali, che danno il senso dell’infinita epopea del viaggio nella terra straniera.
Meri, Joe e la Malamerica
Le storie si incrociano nel luogo di transito per eccellenza: una boarding house newyorkese, gestita da Meri, strappata a un Sud d’Italia e agli abbracci della madre, per seguire il destino americano del padre. È lei il crocevia delle vite. Quelle che hanno costruito i grattacieli, che volevano essere Gene Kelly o Marlene Dietrich e che hanno vissuto gli States dai tuguri. E poi c’è Joe, l’emigrato tipo o anche la voce di tutti, come un coro drammatico ma anche comico.
«Mi interessava parlare di emigrazione in maniera diversa, raccontare quella fallita, andata male. L’emigrazione italiana è spesso narrata – spiega Vincenza Costantino,- attraverso storie di successo. E allora mi sono chiesta: ma chi parla degli altri? Di tutti quelli che non ce l’hanno fatta?».
Mariasilvia Greco (foto Pietro Scarcello)
Le figure femminili sono interpretate da Mariasilvia Greco, capace di trasformarsi in emigrata polacca e subito dopo in donna del boss, semplicemente cambiando una giacca, legando i capelli, indossando un cappello. Anche Orrico “scivola” da un personaggio a un altro a vista del pubblico. «Non amo un teatro troppo costruito e artefatto -spiega il regista-. Il gioco del travestimento, dello svelamento in scena, mi sembra un modo per poter arrivare subito allo spettatore, per coinvolgerlo in maniera diretta nel gioco teatrale».
Garritano come un jazzista newyorkese
La musica lega i destini, disegna il percorso. Gli attori escono dalla scenografia, scarna ed evocativa, e vestiti di lustrini, con un microfono in mano e una luce rossa come un semaforo al contrario, cantano schegge di vita dei migranti di tutti i tempi. Sono i momenti delle song. Sul palcoscenico, con loro, il musicista e compositore Massimo Garritano. Ancora una volta in felice tandem con Orrico, ha creato le musiche originali, cariche di sonorità elettriche. È vestito come un jazzista del Birdland, con un grande fiore bianco sulla giacca. Riesce a smuovere emozioni, sia quando omaggia lo swing americano, sia quando esegue la sua personale interpretazione del tema.
Greco, Orrico e Garritano in un momento dello spettacolo (foto Pietro Scarcello)
Malamerica ci racconta che il teatro è più che vitale tra i sette colli cosentini, ed è un teatro emozionante, che racconta storie universali, con impegno e infinito amore. Ciò che è meno vitale è la galassia scenica. Due teatri comunali chiusi, il presidio dell’avanguardia, l’Acquario, smantellato, in sofferenza quasi irreversibile molti piccoli spazi di associazioni e minicompagnie attive in città. I cartelloni del Rendano e del Garden hanno fatto il sold out, soprattutto con i nomi noti in tv e al cinema, ma sono la sperimentazione e le piccole produzioni a soffrire.
Quest’ultimo lavoro di Orrico-Costantino, marito e moglie e partner artistici, ha debuttato al Gambaro di San Fili, che con la rassegna Tutti a teatro, viaggio nei diversi generi, ha riempito una parte del vuoto, offrendo un’alternativa. Malamerica non è classificabile come genere, è una pièce che ha multiformi radici nello studio dell’emigrazione italiana.
La fucina di personaggi germoglia, infatti, da storie reali.
Gli indesiderati: il caso Mike Salerno
C’è anche un riferimento alla parabola di Michele Salerno da Castiglione Cosentino, vicedirettore di Paese Sera dagli anni Cinquanta al 1964. Salerno, diventato Mike a New York, viveva nel Bronx, giornalista antifascista e anche sarto al bisogno, fu rispedito in Italia dopo ventotto anni, sulla nave Saturnia, 379 passeggeri. La sua complessa e coerente esistenza è narrata nel Dizionario Biografico della Calabria Contemporanea, curato da un maestro del giornalismo calabrese, Pantaleone Sergi, sul sito dell’Icsaic (l’Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea, diretto da Vittorio Cappelli).
«L’anticomunismo americano – si legge, – stava montando e dopo ben ventotto anni di residenza negli Stati Uniti durante i quali si era sempre battuto contro capitalismo e imperialismo, fu vittima del Procuratore generale Tom Clark e della legge McCarran del 1950 e fu deportato in Italia…».
Vincenza Costantino
Da anni Vincenza Costantino studia l’emigrazione. Malamerica, nato prima che il covid bloccasse il mondo, è stato finalista, nel 2017, al premio made in Usa Mario Fratti, dedicato agli inediti italiani ed è l’ultima tappa di una trilogia (Jennu brigannu del 2005, L’emigrazione è puttana, 2008). Una valida fonte è stata Trovare l’America, storia illustrata degli italoamericani nella collezione della Library of Congress (la Biblioteca nazionale degli Stati Uniti che custodisce oltre 158 milioni di documenti), di Linda Barrett Osborne e Paolo Battaglia.
Il teatro è la vera America, parola di autrice
Rocco Perri e Bessie Starkman
Ma Malamerica è anche un omaggio al teatro stesso. «È il mio omaggio a Pirandello e a De Filippo, per me i più grandi, gli autori che amo di più. Il teatro è il luogo in cui i fantasmi possono vivere, impossessarsi di corpi e raccontare storie diverse. È il teatro la mia America».
Tra i fantasmi evocati da Meri e Joe c’è Rocco Perri. Partito da Platì a 16 anni e diventato il re dell’alcool proibito in Canada, ricco e potente, in affari con Al Capone, gestiva i suoi affari illeciti con la compagna Bessie Starkman. La sua storia è stata scritta dal giornalista ed esperto di criminalità organizzata Antonio Nicaso (Il piccolo Gatsby, Pellegrini editore).
Nella galleria di figure, c’è poi il giovane Gene (Eugenio), il più sognatore di tutti. «È un personaggio che ho amato da subito. Cerca la sua strada e al padre che lo esorta a fare il muratore e gli dice “faremo questa città tutta nuova”, lui risponde “io voglio il mio sogno”. Il suo sogno – racconta Ernesto Orrico – è il cinema».
Malamerica e i fantasmi di Foster Wallace
È il desiderio a tirare i fili di questi fantasmi. Sono le vicende della gente che veramente ha investito sull’America e lo ha fatto in maniera totalizzante – conclude Vincenza Costantino – pagando il prezzo più alto in assoluto».
La disillusa Meri e l’emigrato narratore Joe cantano: «Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi». È una frase di David Foster Wallace, lo scrittore che alcuni lettori trovano noioso, altri venerano come un genio. Sotto i fantasmi di Malamerica crepita il suo pensiero.
«Può piacere o meno, ma non può essere ignorato. Negli ultimi anni ha segnato la letteratura più di ogni altro. Credo che Infinite Jest sia importante come l’Ulisse di Joyce». Malamerica ha iniziato il suo viaggio, verso nuove stagioni e nuovi cartelloni, proprio come i suoi emigranti. Con un occhio alle odissee e alle tragedie che si consumano nei nostri mari.
Via del Casale Giuliani è una strada di Roma tutta in salita e la prima volta che ci andai fu quasi un pellegrinaggio laico. Volevo vedere la via dove abitava Franco Costabile e dove aveva deciso che la vita era una cosa tropo faticosa per essere affrontata.
Restai lì a guardare i palazzoni tutti uguali, cercando di indovinare quale fosse la casa del poeta calabrese i cui versi non si insegnano nelle scuole, anzi sono proprio dimenticati, pur se ad amarli quei versi furono Ungaretti e Caproni che a Costabile dedicarono parole cariche d’amore.
I versi che Giuseppe Ungaretti dedicò a Franco Costabile dopo la sua morte sulla lapide del poeta calabrese
Oggi ricorre l’anniversario della sua morte e con tutta evidenza ogni cosa è cambiata.
Il quartiere romano dove Costabile abitava si è trasformato negli anni da triste periferia in una zona residenziale abitata da una borghesia benestante. E la Calabria che lui raccontava nelle sue poesie non c’è più, trascinata da una modernità che non l’ha emancipata dalle sue disgrazie, ma solo imbruttita.
La Calabria di Franco Costabile
Eppure sembra restare intatta una potente attualità in quei versi, nella descrizione di una terra senza redenzione, che pare condannata alla rinuncia. Diversa e nonostante tutto ancora drammaticamente uguale la dinamica del consenso elettorale, come nella poesia in cui Costabile elenca ripetutamente i nomi dei notabili della vecchia Dc che durante lo spoglio elettorale si ripetevano senza fine: “Cassiani, Cassiani, Antoniozzi, Antoniozzi, i nomi segnati e pronunciati per trentasei ore”.
Erano le famiglie che decidevano il destino della Calabria, il cui voto era suggerito dalla Chiesa influente e vicina al potere. Adesso sono cambiati i nomi, ma non troppo. Basti pensare che ancora oggi un Antoniozzi è arrivato in parlamento con i voti dei calabresi. E se in passato “L’onorevole tornava calabrese” in occasione di “processioni ed elezioni”, adesso non deve nemmeno fare questa fatica, i voti se li prende e basta.
Ma se volete la misura di come Costabile e i suoi versi siano attuali, leggetevi la poesia Il taccuino dell’onorevole, perché è impressionante per come quelle parole sembrino uscite dalla bocca di un qualunque politico attuale.
Il taccuino dell’onorevole
L’Occidente, Pensarci su
Insistere sul termine salvezza ecc.
Ricordarsi l’enciclica.
Statistiche Molte scarpe nel sud molti cucchiai
Avvolgere col tricolore dieci minatori morti
Calcolare 50” di applausi
Qualcosa sull’uomo
Tornare all’enciclica
La polizia le piazze calme Cura del paesaggio molta alberatura verde
Per il contadino dire anche 2 foglie
Bontà delle suore.
Bambini a scuola con molte medaglie
Undici arcate I Cavalieri del lavoro
Citare il cammello e la cruna dell’ago
L’area democratica citare più volte
Diverse e paradossalmente ancora uguali le dinamiche economiche rivolte alla nostra regione. Una volta c’era la Cassa per il Mezzogiorno, oggi i mille provvedimenti per il sud, fino al Pnrr. Ma come scriveva Costabile nella raccolta di poesie La rosa nel bicchiere, “l’occhio del mitra è più preciso del filo a piombo della Rinascita”, perché magari la ‘ndrangheta di oggi spara di meno rispetto al passato, ma è pervasivamente dentro gli affari di qualunque progetto di ricostruzione. Ora come allora vale la supplica di Costabile rivolta ai governanti: “Non venite a bussare con cinque anni di pesante menzogna”.
Una poesia di Franco Costabile su un muro del centro storico di Sambiase
Perché studiare Franco Costabile
Né nei versi di Costabile manca la consapevolezza delle opportunità perdute, della distorsione culturale che per anni ci ha portati a “chiamare onore una coltellata e disgrazia non avere un padrone, troppo tempo a stare zitti quando bisognava parlare”. Restano uguali gli stereotipi che vogliono la Calabria un paradiso, una terra meravigliosa, fatta “Di limoni e salti di pescespada”. Oggi quell’inganno si è trasformato nei cortometraggi pagati a milioni e che hanno fatto ridere il mondo. Franco Costabile andrebbe letto nelle aule dei licei perché, a saperli leggere, si colgono i mutamenti e l’immobilismo della Calabria più nelle sue poesie che negli aridi report dell’Istat.
Sono passati 11 anni e mezzo dalla sua morte. E circa 15 da quando conversai con lui nel foyer di un albergo di Parma, dopo uno scambio epistolare che durava da un po’. Non mi pare che Vittorio De Seta, nel frattempo, sia stato sufficientemente celebrato da chi avrebbe dovuto e potuto. Del resto, cos’è “sufficiente” per un artista di quel calibro? E poi, visto che era stato poco celebrato in vita (come succede solo ai più grandi), figuriamoci una volta scomparso. Le scrivo io, due parole in suo ricordo: Vittorio De Seta era innanzitutto un gentilissimo signore, pacato e misurato, forse immerso fin troppo nel suo ideale di un mondo buono da poter recuperare, innocente testa tra le nuvole.
Un giovane Vittorio De Seta accanto a una cinepresa
Sinistra e nobiltà
Aveva natali pesanti, Vittorio De Seta. Il nonno paterno (prefetto un po’ ovunque e poi sindaco di Catanzaro a fine Ottocento) e suo fratello erano i marchesi Francesco ed Enrico, deputati, poi senatori all’inizio del Novecento, nati a Belvedere Marittimo. Il nonno materno era invece il conte piemontese Giovanni Emanuele Elia, inventore in ambito militare.
Ma stavamo parlando di Vittorio De Seta: bene, al maestro tutto ciò stava in realtà molto molto stretto. Uno dei suoi film – il più intimo, il più tormentato – racconta proprio del rapporto difficilissimo con una madre d’acciaio che lo ritiene solo un sognatore inetto, disumana, dura, insensibile. Con un padre impalpabile e denigrato dalla vedova. Con un fratello maggiore a lui preferito e poi scomparso anzitempo. E, soprattutto, con un milieu aristocratico che cozzava non poco con la visione antropologica sincera di un artista vicino al popolo – e non a parole –, alla semplicità e persino al sacrificio.
Palazzo De Seta, a Palermo, dove il regista venne alla luce
Così mi scriveva nell’autunno del 2008 e riporto fedelmente queste poche frasi ancora inedite: “C’è stato all’origine della mia esistenza (…) un evento – al quale ovviamente ero estraneo – che mi ha segnato con un marchio d’infamia e di vergogna. La mia vita, il mio lavoro, sono stati segnati dalla necessità del riscatto di questa ‘colpa’ e, nello stesso tempo, dall’identificazione con le classi umili, diseredate per eccellenza. Dal ’58 ho fatto analisi psicologica junghiana con Bernhard, fino al ’65 (…). Avevo problemi: mai visto mio padre, nessun rapporto con mia madre, famiglia ricca, aristocratica ed infine due anni di deportazione in Austria (‘43/’45) (…). Non si faceva molta cultura a casa mia (…). Ricordo che tornato dalla prigionia restai in casa mesi a leggere Benedetto Croce. Poi fui attratto dal marxismo, avevo bisogno di una fede, di un’appartenenza, uno schieramento. Ma intimamente non ero convinto, tanto che restai iscritto al partito comunista un solo anno (‘47/’48)”.
Dieci piccoli capolavori
La mia corrispondenza con De Seta aveva avuto inizio quando ad una finale dei Mondiali di calcio (Europei? Mai fatta troppa attenzione) preferii la proiezione al cinema dei suoi cortometraggi appena restaurati dalla Cineteca di Bologna. Si trattava dei suoi primi dieci brevissimi capolavori, girati tra il 1954 e il 1959 tra Sicilia, Calabria e Sardegna (e rieccoci con la Calabria come terza isola).
Servirebbero pagine e pagine per commentarli a dovere tutti e dieci (uno di essi, Isole di Fuoco, vinse a Cannes nel ’55). Mi limito a segnalare i soli due girati in Calabria:
Lu tempu de li pisci spata
I dimenticati
Il primo è girato nelle acque al largo di Scilla e documenta una battuta di pesca, appunto, al pesce spada, compiuta con metodo più che tradizionale (l’unico, del resto, ancora praticato all’epoca in quella zona).
Il secondo racconta del giorno di festa per antonomasia nell’ultraperiferico paese di Alessandria Del Carretto, che ancora nel ’59 si poteva raggiungere solo a dorso di mulo: il giorno della paganissima festa della pita.
Poi arrivò il cinema vero, i film ‘canonici’, i lungometraggi. E poi anche alcuni prodotti per la televisione: mirabile, e insuperata, la serie Diario di un maestro, del 1973, con l’eccezionale Bruno Cirino.
La Calabria di Vittorio De Seta
Ma Vittorio De Seta non dimenticò la Calabria. Anzi, svernava tutti gli anni nella sua antica masseria di Sellìa Marina, in contrada – noblesse oblige – Feudo De Seta, dove il regista chiuse poi gli occhi. Tornerà infatti a filmare la Calabria in altre due opere, ovvero nel documentario In Calabria (del 1993) e nel tardo (e più dimenticabile) Pentedattilo – Articolo 23 (2008), episodio del film Human Rights for All.
Il secondo è una breve metafora del ripopolamento del paese, abbandonato da tempo, da parte di una comunità di migranti. Il primo è un capolavoro vero, e ne consiglio assolutamente la visione.
L’ingresso alla masseria di Feudo De Seta, a Sellia Marina
È la testimonianza di una Calabria – a 360° dal Pollino a Polsi – svenduta, di una Calabria fallita, che ha barattato una sua propria identità col baratro del progresso sperato, inattuato, neppure col miraggio dell’Università, delle fabbriche abbandonate e delle cattedrali nel deserto. E con uno sguardo malinconico a chi nel 1993 allestiva ancora carbonaie, faceva la ricotta con le mani rovinate, cantava in greco antico nelle chiese di rito bizantino e si riuniva più serenamente attorno a un maiale da sublimare. Altrettanto meravigliose, per inciso, alcune tracce liturgiche inserite nella colonna sonora, ed eseguite dalla Corale greco-albanese di Lungro.
Vittorio De Seta era un figlio, anzi, un nipote di Calabria che con i suoi occhi e con la sua sensibilità ne ha disegnato un ritratto delicato e rassegnato.
Cosa ne resterà? E chi avrà scrupoli e talento tali, dopo di lui?
Il 12 aprile 1943 la città di Cosenza subì un bombardamento in pieno giorno, con le conseguenze che ancora oggi accompagnano queste azioni militari: distruzioni di case e infrastrutture, decine di morti tra la popolazione civile. Nel centro storico viene distrutto il seminario arcivescovile e subisce danni anche il Duomo.
Dopo il bombardamento chi può abbandona la città e cerca rifugio nei paesi vicini, già invasi di sfollati provenienti anche da altre regioni. Seguiranno altre incursioni, altri morti e distruzioni.
La bomba a via Popilia
Complessivamente la Calabria fu oggetto di circa duecento incursioni aeree, fino al settembre 1943, quando in soli dieci giorni gli anglo-americani occuparono la regione. Limitandoci a Cosenza, riportarono gravi danni anche la Biblioteca Civica, il teatro Rendano, la chiesa della Riforma. E tante abitazioni. Alcuni ordigni inesplosi sono ricomparsi nei decenni successivi, ancora nel 2015 a via Popilia fu necessario disinnescarne uno, con l’intervento del Genio militare. Progressivamente sono stati cancellati o rimossi i resti degli edifici colpiti, che per molto tempo hanno caratterizzato alcune zone della città. Fino a quella tragica primavera la Calabria non era mai stata un obiettivo importante. Ma in quei mesi le truppe alleate, dopo la conquista della Libia italiana, stavano organizzando lo sbarco in Sicilia, per dare un colpo definitivo al regime fascista e portare la guerra in Europa, aprire un altro fronte, attaccare da sud la Germania nazista.
Il bombardamento del 1943 su Cosenza in un libro
Roberta Fortino, autrice del volume 1943 Cosenza bombardata …e la morte arrivò dal cielo, ricorda nella dedica suo zio che la salvò quando, da bambina, la vide giocare con un ordigno nei pressi di casa. Come accade ancora oggi ai bambini che vivono in zone di guerra. Perché le guerre lasciano tracce lunghe e dolorose. A distanza di ottant’anni la pubblicazione di 1943 Cosenza bombardata…e la morte arrivò dal cielo (editoriale progetto 2000) è quanto mai opportuna. La memoria collettiva non disponeva finora, infatti, di una narrazione adeguata agli eventi.
Il volume offre molti documenti, alcuni tratti da pubblicazioni estemporanee e difficili da reperire, altri pubblicati per la prima volta e di particolare interesse. Come le testimonianze, tradotte per la prima volta in italiano, dei piloti americani alla guida dei bombardieri, che offrono una prospettiva nuova alla ricostruzione dei fatti.
Altre carte inedite provengono dall’archivio dell’Associazione nazionale vittime civili di guerra. Ciò conferma che le strade della ricerca storica sono molteplici e tortuose. E, per quanto riguarda la storia recente di Cosenza e della Calabria, decisamente poco battute ed esplorate.
Storia e sentimenti
Sui libri di storia difficilmente si trova narrata la fatica della ricostruzione, della vita tra le macerie, dell’attesa di notizie dai campo di prigionia o dal fronte, che intanto si era spostato sempre più a nord, tagliando fuori migliaia di soldati calabresi dalle proprie famiglie. Nemmeno l’allegria assurda dei superstiti e il desiderio di ricominciare a vivere trovano spazio nelle pagine degli studiosi, che non considerano i sentimenti degni di attenzione.
Elsa Morante ha dedicato una delle sue ultime fatiche, La Storia, proprio alla vita delle persone più umili, in quei drammatici anni. E ha immaginato la prima parte del romanzo proprio a Cosenza, collocandovi la vita ordinaria di una famiglia modesta.
La memoria ufficiale, invece, si affida alle commemorazioni periodiche, alle targhe, alle lapidi, di cui in questo libro si raccontano con molti particolari le tappe, fino alla realizzazione nei luoghi dove sono ancora oggi visibili.
La scultura di Baccelli in onore di cinque bambini uccisi dalle bombe in piazza Spirito Santo (oggi piazza Cribari) è scomparsa
Una scheda particolareggiata ricostruisce anche la storia paradossale, tipicamente calabrese, del monumento alle vittime di Cesare Baccelli, andato “perduto” durante uno spostamento all’interno di un cantiere. Una pagina di valore simbolico, non isolata, dato che sono note gustose analoghe vicende, relative ad altri monumenti smarriti, evaporati nel cielo azzurro. Lo stesso cielo in cui si allontanavano gli aerei americani, dopo aver seminato morte e distruzione.
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