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  • Franco Dionesalvi: non è che l’inizio

    Franco Dionesalvi: non è che l’inizio

    Franco Dionesalvi non si è mai pensato intellettuale nel senso ampolloso e ingaggiato del termine. Lo era invece e ben di più nello sguardo sul mondo e nel legame storico-affettivo con la sua città: nessun localismo, nessun souvenir, solo studio, amore, agorà al massimo grado.

    Tante vite in un una

    È parziario, oltre che impossibile, ricordarlo libro per libro, composizione per composizione, reading per reading. Come per tutti gli scrittori che lavorano da amanuensi la materia della loro scrittura per il filtro dell’ibridazione dei linguaggi, ogni opera è il tassello di un percorso intero ed interiore. Non una scatola chiusa. Quindi, in Dionesalvi vivono tante vene e filoni, tante storie attraverso i suoi scritti rivivono. Le avanguardie letterarie, ad esempio. Senza fare l’archivistica degli stratagemmi semantici, ma investigando il rapporto immediatamente politico-emotivo fra segno e senso. Era uomo del Concilio, pur essendo un bambino nei primi Sessanta, ma gli apparteneva naturalmente un cristianesimo di base, semplice, diretto, dialogico. Ecumenico ed etimologicamente cattolico: persona singolare e universalità collettiva.

    Un uomo del ’77

    Era uomo del ’77, ancora. Non per portarsi addosso le stimmate laiche di un percorso di autonomia (sul quale ormai tutti hanno la loro, tutti ne hanno fatto parte e tutti lo hanno rinnegato), ché anzi le simpatie estetiche e comportamentali di Dionesalvi andavano più agli Indiani che agli Autonomi. Era figlio del ’77 in quella naturale postura antiautoritaria che ti fa capire, volenti o nolenti, la morte di un certo tipo di appartenenze e l’emersione di una soggettività disorganizzata e plurale, oltre certe logiche e chiese, bisognosa, anzi, di nuovi stimoli, nuove istituzioni e -ancora una volta!- nuovi canali comunicativi.

    Franco Dionesalvi: come ricordarlo?

    Non si sa come potercelo ricordare Franco Dionesalvi, quale lato debba più prevalere sugli altri: l’amministratore razionale e visionario insieme? Conoscitore dei sistemi locali della cultura europea (come da sua ottima tesi di dottorato) o attivista che apre squarci nuovi e si inventa il festival cittadino che segna una generazione, lontano anni luce da cover e refrain dei decenni successivi? Il romanziere colto, sperimentale, e però legato anche all’abc del romanzo di formazione, alla narrativa come scavo psicologico e percorso di crescita? Il poeta omaggiato a New York o il profeta per un certo periodo dimenticato in patria? Il corsivista ironico e propositivo o l’uomo di teatro che dal dramma ricavava storie di popolo? base-centrale-franco-dionesalvi

    Lo ricordo, allora, al netto di tanti begli incontri personali (che con Franco erano o l’uno a uno o il cenacolo improvvisato con amici di tavolo e conversazione sempre nuovi), per una delle sue ultime antologie poetiche, Base Centrale.
    A quel libro è legata una circostanza a suo modo e a propria volta storica. La prima presentazione pubblica a Cosenza dopo la pandemia: chiostro del San Domenico sold out. Cinquanta panche piene e se non ci fosse stato il distanziamento sociale ne avrebbe riempito cento.

    Base centrale

    Non credo né mai crederò a provvidenzialismo alcuno: ci sono artisti, anche nel campo figurativo, le cui ultime opere sono profezie e altri per cui semplicemente non c’è più niente di nuovo da leggere e guardare. Base Centrale è perfettamente coerente a un percorso, a una ricerca, a uno stile. E l’autore stesso avrebbe probabilmente avuto difficoltà a superarsi: sarebbe andato, come tipicamente suo, nella direzione opposta a ogni comodità astratta, a ogni sciatteria mentale.
    In Base Centrale c’è l’amore, il racconto del disagio, la simbologia religiosa, la denuncia pasoliniana dei tempi disincarnati (ma assai meno cattedratica, perciò più pura), persino le scosse telluriche della pandemia sulla già frantumata socialità industriale.

    Consoliamoci: siamo molto meno che a metà strada per riabbracciare compiutamente tutti i temi e slanci inaugurati dall’autore. Uomo di fede, fede in primis nella donna e nell’uomo, come i predicatori in lotta di un millennio addietro, potrebbe dirci allora: non è che l’inizio. Figli di un umano non ancora nato e a cui non verrà impedito di vedere luce.

    Domenico Bilotti
    Docente di “Diritto delle Religioni” e “Storia delle religioni”, Università Magna Graecia

  • Angeli e demoni, la lunga notte di San Domenico

    Angeli e demoni, la lunga notte di San Domenico

    In una delle sale che si aprono accanto alla sagrestia di San Domenico a Cosenza, ambienti antichi ma piuttosto rimaneggiati e ingombri, vedo appesa alla parete una stampa. Ne ho una uguale a casa, una riproduzione dell’immenso convento domenicano di Soriano Calabro, nel Vibonese, prima che fosse distrutto ripetutamente dai terremoti. Oggi a Soriano è ancora leggibile il perimetro gigantesco dei chiostri, che si estendevano intorno alla chiesa superstite, ricavata da uno dei transetti della grande costruzione originaria.

    San Domenico e gli Oblati: missionari a Cosenza

    La Calabria è costellata di rovine gloriose. Il convento di San Domenico a Cosenza ha superato i secoli, le inondazioni, le requisizioni che l’hanno trasformato in caserma, con interventi arbitrari sulla struttura e dispersione degli arredi. Ma è ancora in piedi, a pochi passi dalla confluenza dei fiumi Crati e Busento, uno dei luoghi più suggestivi della città.
    Da anni i padri domenicani sono andati via. Sono arrivati a sostituirli gli Oblati di Maria Immacolata, una congregazione nata in Francia, nell’Ottocento, e diffusa in tutto il mondo, perché sono dei missionari. Evidentemente hanno deciso che a Cosenza c’era bisogno di missionari votati al sacrificio, come dargli torto?

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    Il rosone all’ingresso della chiesa di San Domenico a Cosenza

    La lunga notte

    Per parlare delle loro missioni hanno aderito alla Lunga notte delle chiese, un’apertura straordinaria, di sera, il 9 giugno scorso, con visite guidate e musica, un aperitivo solidale per raccogliere fondi per le loro missioni. Visto che ormai le università si propongono di notte (i ricercatori devono improvvisarsi intrattenitori per reclutare i futuri studenti), i musei pure, anche le congregazioni religiose devono adeguarsi ai tempi e aprire le porte al popolo della notte. Proprio il contrario di quello che le regole prescrivevano: quando si è fatta una certa si chiude e basta. Chi c’è c’è.

    Scomparse

    Arrivo in piazza Tommaso Campanella che l’aperitivo solidale è in corso. Anche nel locale accanto fanno l’aperitivo, a quest’ora il centro di Cosenza è tutto un aperitivo. Un tempo qui c’era un negozio di cordami e attrezzi vari. Leonida Repaci, che conosceva bene la città, ha ambientato un suo racconto, Magia del fiume, proprio in questa zona, in una delle case cresciute sul convento, accanto alla facciata e al suo splendido rosone.
    Anche Dante Maffia ha dedicato alcune pagine di un suo libro, Il romanzo di Tommaso Campanella, al convento cosentino, al tempo in cui il giovane fra’ Tommaso leggeva i libri della biblioteca domenicana. La biblioteca è svanita, non si sa dove siano finiti i manoscritti e i libri a stampa; si ipotizza che una parte dei testi delle biblioteche ecclesiastiche cosentine siano arrivati, dopo le soppressioni ottocentesche, negli scaffali della Biblioteca Civica.

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    L’interno della Biblioteca civica di Cosenza

    Cosenza, la cappella del Rosario a San Domenico

    L’apertura notturna mi sembra una buona idea, vedo tanta gente che dalla piazza comincia a entrare in chiesa, entro anch’io e mi ritrovo in un piccolo gruppo. Ci sono diverse guide, con la pettorina che si usa in queste occasioni. Cominciamo dalla cappella del Rosario che, ci spiega la guida, è più antica rispetto all’allestimento attuale della chiesa principale, più volte rimaneggiata nel corso dei secoli.

    Ci mostra le tele alle pareti e le immagini inserite nei riquadri del soffitto ligneo; alcune -aggiunge – mancavano già quando Cesare Minicucci visitò San Domenico e segnalò le perdite nel suo libro, Cosenza sacra, del 1933.
    Ma chi è questa signore tranquillo che ci sta accompagnando? Cosenza sacra di Minicucci è uno di quei libri che si potevano consultare, un tempo, in Biblioteca Civica e in pochi altri luoghi. Mi pare insolito che un volontario, per una serata, sia riuscito a procurarsi un testo così raro.

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    La cappella del Rosario

    Misteri

    Dalla cappella passiamo nella sagrestia, ancora riconoscibile l’architettura gotica, nonostante gli interventi piuttosto pesanti che sono evidenti. Tanti gruppi di visitatori si muovono da un locale all’altro, le altre guide sono in fibrillazione per consentire a tutti la visita, soprattutto quella a un luogo difficilmente accessibile e angusto, lo scolatoio.
    Ma il nostro gruppetto non si affretta, il misterioso Virgilio ci sta illustrando le figure del coro ligneo della sagrestia. Le illumina una per una con la torcia del cellulare, per farci cogliere i particolari. Figure maschili con il seno, fauni, Adamo ed Eva con teste di creature lussuriose, e gambe che si sono trasformate in rami e foglie, come in certi racconti mitici.

    Questo coro è un mistero, dice la nostra guida, perché nell’epoca in cui è stato realizzato non si richiamavano più questi motivi medievali, e anche nel Medioevo sono piuttosto rari, rintracciabili in luoghi lontani da Cosenza. La distruzione di molti archivi religiosi rende ardua la ricostruzione delle vicende artistiche, l’individuazione delle maestranze che hanno lavorato qui. Molto interessante, appena ci si accosta ai nostri monumenti saltano fuori intrecci strani, come se da queste parti arrivasse gente da ogni parte del mondo. Probabilmente era così, la piccola Calabria si trovava comunque in mezzo alle terre allora conosciute.

    Luca Parisoli, docente di Storia della filosofia medievale all’Università della Calabria

    Cosenza e i penitenti di San Domenico

    Passa un ragazzo che lo saluta: «Buonasera professore!». Rapida indagine: si tratta del professore Luca Parisoli, docente di Storia della filosofia medievale all’università della Calabria. E con altri incarichi accademici e tante pubblicazioni. Gli Oblati hanno schierato l’artiglieria pesante, per l’occasione. Mi spiega che oblato è pure lui, ma laico, mi dice dopo.
    Dopo, dicevo, perché prima ci espone cos’è lo scolatoio verso cui siamo diretti. Una signora del gruppo ha un’esitazione, perde il sorriso quando sente che in questo scolatoio, un locale circolare con dei sedili di pietra forati, venivano posti a scolare, a perdere gli umori, il grasso e la carne, i corpi dei monaci dopo la morte. In modo da ritrovarsi con gli scheletri puliti e pronti all’inumazione. Periodicamente i frati andavano a pregare presso i corpi dei confratelli in disfacimento, per tenere a mente che per i cristiani la vita sulla terra è solo un breve cammino, prima dell’atra vita, quella eterna.

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    Lo scolatoio

    Il professore ammette che, sì, non doveva essere uno spettacolo piacevole, ma un monaco deve riflettere su certe cose. E poi nei secoli passati il rapporto con la morte era molto più tranquillo rispetto ai tempi nostri. Le persone morivano come mosche, non se ne faceva un dramma.
    La signora rinuncia alla discesa nello scolatoio, forse pensa che sia un luogo sinistro. Io come aspirante reporter vado senza esitazione (anni fa ho visitato quello nel Castello di Ischia, all’interno del convento delle Clarisse). Prendo una ginocchiata tremenda sul muretto che bisogna scavalcare, i rischi del reporter di una certa età. Lo scolatoio è molto semplice, spoglio, il pavimento coperto di terra battuta.

    Scelte radicali e tentazioni ovunque

    La notte delle chiese è un’iniziativa efficace, ma le chiese sono chiese, questi non sono percorsi nel mistero, però possono aiutare a capire quanta distanza ci separa da una scelta radicale come quella di lasciare il secolo. Così dicevano, una volta. Morire al mondo. E poi morire nel corpo e stare nello scolatoio a ricordare ai confratelli più giovani perché stanno lì.
    I domenicani e le altre famiglie religiose nel mondo continuavano a starci, a prendere posizione sulle vicende del mondo. Tommaso Campanella, oltre che studiare e riflettere, fece una serie di cose che lo portarono a un passo dal boia. Per salvarsi finse di essere pazzo e fu tenuto in prigione per molti anni. Congiurare contro il governo spagnolo comportava seri rischi. Anche scrivere libri come La città del Sole poteva portare problemi.

    La Città del Sole, l’opera più famosa del filosofo Tommaso Campanella

    Me ne esco dallo scolatoio con molta precauzione, ripasso dalla sagrestia con le sue misteriose figure. Il prof ha preso in consegna un altro gruppetto di volenterosi emuli di Indiana Jones. Sta illuminando con la torcia un punto sotto una panca del coro, una figura demoniaca, per ricordare ai frati che la tentazione può presentarsi ovunque, anche mentre si recitano i salmi. Una signora, per vedere meglio, si è inginocchiata come una penitente, come Dante nel Paradiso Terrestre mentre veniva purificato, mondato. Ormai la cultura richiede una certa prestanza fisica. I partecipanti a un evento come questo sanno che devono essere pronti a tutto. Spero che la signora riesca a rialzarsi.

    Notte e cultura

    Sono tornato fuori, in piazza Tommaso Campanella. Adesso i volontari offrono dolci, in premio, ai visitatori in uscita. E ricordano che San Domenico è sempre aperto e ci saranno altri momenti di incontro a Cosenza. Saluto il professor Parisoli e lo ringrazio per il tempo che ci ha dedicato. Adesso sono stanco, sono stato in piedi per oltre due ore, il ginocchio mi fa male. Mi trascino dignitosamente verso la macchina, questa vita culturale notturna mi sta distruggendo. Una volta potevi andare solo a qualche noiosa conferenza, ti sedevi e poi tornavi a casa per l’ora di cena, senza rischi ortopedici collaterali.

    Domani sera niente visite notturne, se proprio voglio vedere un convento mi guardo una puntata di Che Dio ci aiuti. Pare che nell’ultima serie Francesca Chillemi faccia la novizia, ma non so se la sceneggiatura virerà verso situazioni del tipo Gertrude-la monaca di Monza. Le tentazioni, il peccato, il pentimento e, poi, lo scolatoio.

  • Cosenza Wine District: la Villa Vecchia si trasforma in cittadella del vino

    Cosenza Wine District: la Villa Vecchia si trasforma in cittadella del vino

    Torna venerdì 30 giugno alla Villa Vecchia il Cosenza Wine District, una grande festa del vino calabrese nel centro storico del capoluogo bruzio. Spazio dunque agli incontri tra consumatori, winelovers e produttori, con oltre quaranta cantine del panorama regionale  presenti all’appuntamento. A organizzare la manifestazione sono Saturnalia aps e Feed It, col supporto di due partner istituzionali: il Comune di Cosenza e la Regione Calabria – Dipartimento Agricoltura.

    Cosenza Wine District, una cittadella del vino calabrese

    Cosenza Wine District è nato lo scorso anno come evento collaterale in occasione del Concours Mondial de Bruxelles che ha fatto tappa in Calabria.  Nel giro di pochi mesi è diventato un grande momento di confronto e valorizzazione del vino calabrese, capace di focalizzare l’attenzione anche sul segmento dell’enoturismo. Un filone di sviluppo importante, quest’ultimo, capace di attrarre tanti appassionati verso le esperienze da vivere nelle cantine o attraverso i consorzi della rete regionale del vino.

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    Il pubblico nell’edizione dello scorso anno

    La Villa Vecchia di Cosenza dunque si trasformerà ancora una volta in una cittadella del vino calabrese. Lungo i suoi viali sarà possibile scoprire la ricchezza e la varietà interpretativa dei vitigni autoctoni della Calabria. Produzioni che ormai hanno saputo conquistare i mercati, ma anche le giurie dei più importanti concorsi nazionali e internazionali.

    Non solo vino per nuove collaborazioni

    Ma l’appuntamento al Cosenza Wine District sarà anche con l’arte. In programma esibizioni di musicisti – grazie alla joint venture con il festival Alterazioni – e performance di arte di strada per una serata evento unica nel suo genere. Il tutto accompagnato dal migliore street food della regione.

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    Alcuni stand della passata edizione del Cosenza Wine District

    La manifestazione vuole focalizzare l’attenzione degli appassionati di tutto il Sud attorno alle potenzialità del vino calabrese. Si pone come spazio multiforme per far dialogare i protagonisti della scena enologica con i settori affini come il food, l’intrattenimento e le arti in genere, generando cosi forme nuove di collaborazione per realizzare sviluppo sui territori.

    Cosenza Wine District: le rivendite per partecipare

    Per partecipare all’evento è necessario acquistare un ticket che dà diritto all’ingresso e alla degustazione di sei vini a scelta libera. È già partita la prevendita su eventbrite o presso i rivenditori ufficiali nel territorio cosentino:

    • Fresco foodbar
    • Cheers
    • Tennis Club Cosenza,
    • Quipò più di un bar (Mendicino),
    • Pane storto lab,
    • Chiappetta sport village,
    • Bar Tabacchi Nani 11,
    • Cinque Sensi Store (Rende),
    • Tre cipolle sul comò
  • Freud a San Fili, lessico famigliare di Pigi Ciambra

    Freud a San Fili, lessico famigliare di Pigi Ciambra

    Un palermitano a San Fili, il paese delle magare dove vive Brunori, può fare molte cose. Sposarsi, mettere radici, pensare e realizzare un progetto fotografico che nel 2023 è diventato un libro dal titolo Lullaby and last goodbye, edito da 89Books. Vincendo un prestigioso premio in Giappone: il Tifa, Tokyo International Foto Awards, primo posto nella categoria “People”.

    Nel 2013 Pierluigi “Pigi” Ciambra inizia questo racconto per immagini. Rivolge verso le sue figlie l’obiettivo della sua macchina fotografica e ne esce fuori molto di più di un diario familiare. Ha subito la forza di essere riconoscibile come prodotto culturale in grado di superare il contesto domestico. E ne è testimonianza l’attenzione riservatagli in giro per l’Italia e non solo.

    Pierluigi Ciambra

    Era mio padre

    Non c’è solo l’amore di un padre e la voglia di documentare la crescita delle sue figlie. Dietro vive il canto dell’infanzia di Ciambra. I profumi e la luce di Palermo, gli abbracci di un papà che gli trasmette la passione per la fotografia. Pierluigi lo perde troppo presto. Da allora si è portato dietro questa mancanza. Un lutto di un genitore così giovane quando sei così piccolo lascia un segno indelebile dentro. Gli anni passano ma senti di dovere fare qualcosa, riprendere in qualche modo quel percorso drasticamente interrotto. Senti la necessità di elaborare il lutto a modo tuo. E non ti aiuterà un libro di Freud per uscire fuori da quel buco nero. Una delle alternative al lettino dello psicanalista può essere riannodare i fili col tuo linguaggio.

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    Uno degli scatti del progetto fotografico di Pierluigi Ciambra

    Pierluigi Ciambra: il mio diario familiare

    «Quando sono nate le mie figlie – commenta Pierluigi Ciambra – mi sono rivisto in lui. Ho capito il suo desiderio, anzi la sua esigenza, di conservare la memoria di quegli attimi. Così ho iniziato a fotografarle quotidianamente. Le bambine crescono e scoprono un mondo ai loro occhi incontaminato, e lo fanno con la libertà di chi svela enormi misteri senza schemi e congetture, con l’ingegno istintivo della curiosità infantile, coinvolgendoti nella loro realtà fiabesca. Raccontare il loro sguardo sul mondo e, al tempo stesso, mettere a nudo la mia ricerca interiore e il processo di riconciliazione con il mio passato sono le motivazioni alla base di questo mio progetto fotografico».

    La formazione di Pierluigi dà il senso del suo percorso: diploma al corso di fotografia all’Istituto europeo di Design di Roma e poi laurea in Antropologia alla Sapienza. Lullaby and last goodbye nasce anche in questo contesto di studio e buone letture, dove il punto di partenza è l’inevitabile confronto con chi ha già fatto del diario familiare una storia universale.

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    L’immaginario onirico di Lullaby and last goodbye

    Da Alec Soth a Tarkovskij

    Nell’intervista rilasciata sul portale web del Tokyo international foto awards si definisce un un «photobook Nerd che ama leggere saggi di fotografia e monografie, non solo dei grandi fotografi, ma anche dei di quelli meno conosciuti.
    Lullaby and last goodbye si porta dentro almeno una canzone dei Cure e un pezzo di tanti progetti fotografici amati da Pierliuigi: Picture from Home di Larry Sultan , Sleeping by the Mississippi di Alec Soth, e poi Immediate Family di Sally Mann, The adventures of Guille and Belinda and the enigmatic meaning of their dreams di Alessandra Sanguinetti.
    Ma c’è anche tanto cinema nei suoi scatti. Da Stanley Kubrick, citato in una delle immagini più potenti, fino al suo regista preferito: il russo Andrej Tarkovskij e il suo tempo sospeso.

    C’è vita oltre Instagram

    Sono le 17:45 di un pomeriggio qualsiasi a Cosenza, la città che ci tiene ad essere chiamata Atene delle Calabrie. Alle 18 la Ubik ospita la presentazione di Lullaby and last goodbye. Lentamente la gente arriva. I fotografi Andrea Bianco e Claudio Valerio di lì a poco dialogheranno con Pierluigi. Il solito rito del firmacopie, qualche chiacchiera con gli amici, i curiosi. «Un libro di fotografia?» Domanda un passante. Sì, c’è vita oltre Instagram per buone foto e storie che meritano di essere raccontate.

    Da sinistra Andrea Bianco, Pierluigi Ciambra e Claudio Valerio
  • Invasioni 2023, un luglio elettronico a Cosenza

    Invasioni 2023, un luglio elettronico a Cosenza

    Dopo qualche pausa qua e là negli ultimi anni, il 2023 segna il ritorno del Festival delle Invasioni a Cosenza, più moderno che mai eppure dal retrogusto nostalgico. La kermesse che ha caratterizzato le estati bruzie da una ventina d’anni a questa parte torna alle atmosfere post-punk e ai suoni elettronici degli albori. A dimostrarlo, la presentazione di oggi pomeriggio a Palazzo dei Bruzi, col programma svelato dopo settimane d’attesa.

    L’organizzazione del festival

    Il compito di organizzare il Festival che vide tra i suoi ideatori il compianto Franco Dionesalvi questa volta è toccato a Paolo Visci. È lui il direttore artistico di questa edizione, ma un contributo è arrivato anche dal consigliere comunale Francesco Graziadio. La logistica, invece, sarà cura di “L’altro teatro”, ossia Pino Citrigno e Gianluigi Fabiano.
    Invasioni 2023 sarà una due giorni di musica nel centro storico di Cosenza. I concerti si terranno infatti in piazza XV marzo e nella Villa Vecchia. Le date scelte dal Comune sono il 13 e il 14 di luglio.

    Cosenza, Invasioni 2023: il programma

    Questo il programma del Festival delle Invasioni 2023 a Cosenza:

    Giovedì 13 luglio:

    • The Bug feat Flowdan
    • Clock Dva
    • Bono/Burattini
    • Sonic Jesus
    • Alessandro Baris pres. Sintesi live a/v

    Venerdì 14 luglio:

    • Elektro Guzzi
    • Ghetto Kumbè
    • La Nina
    • Khompa pres Perceive Reality a/v
  • Due eventi internazionali che raccontano la Calabria meglio di mille sagre

    Due eventi internazionali che raccontano la Calabria meglio di mille sagre

    «Emme’ a Dario, Saverio e Settimio su Rainews!!!».

    Spesso, in Calabria, perché un “evento” – scusate la parola – “culturale” – scusate la parola/2 – sia riconosciuto come tale serve un passaggio sulla Rai – fosse anche quella regionale («Compa’ ti ho visto al tg3»). In questo caso era il circuito nazionale e gli screenshot dei tre dioscuri – sì, è un paradosso – di Scena Verticale e della Primavera dei Teatri hanno riempito le chat ammirate dei cosentini in preda o meglio vittime del vorticoso zapping domenicale tra conflitto russo-ucraino, cronaca nera morbosa e celebrazione kitsch dello scudetto partenopeo.

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    Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano

    Dal Pollino a New York

    Domenica sera finiva a Castrovillari Primavera dei teatri, 23esima edizione, mentre oggi inizia e finisce a New York l’evento – scusate la parola/3 – in occasione dell’uscita della prima compilation della Respirano Records, l’etichetta che il cosentino Luigi Porto ha fondato nella Grande Mela in pieno lockdown: la compilation ospita artisti di NYC e Cosenza. Si tratta di «un lavoro di ricerca durato un paio d’anni, ma abbiamo messo insieme dei bei pezzi e alcuni sono secondo me dei capolavori, alcuni di artisti sconosciuti al grande pubblico, stili differenti ma affini all’art rock/psichedelia», spiega Porto, che da oltre dieci anni lavora e vive di musica a Manhattan (sì, si può fare!).

    Cervelli in fuga per scelta

    In queste ore va lì in scena il release party nello studio della Respirano (nata nel 2021 da un’idea dello stesso Porto, in seguito affiancato dal compositore newyorkese Ray Lustig), una “monthly studio” night con un giro di diversi artisti che ruotano attorno, una sorta di mini Factory incentrata uptown Manhattan. Sette progetti newyorkesi e cinque made in Cosenza nella prima compilation, intitolata No Need To Fear: piedi nell’isolotto più bello del mondo, ma testa e braccia e cuore saldamente in Calabria, o nelle varie subcolonie occupate da cervelli (e strumenti) in fuga, spesso per scelta e non per necessità come invece piacerebbe e farebbe comodo a certa narrazione lacrimevole.

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    New York

    Connettere New York e Cosenza

    Non per essere ombelicali, ma tra i nomi degni di nota oltre a Porto segnaliamo i bruzi Gintsugi – al secolo Luna Paese, cosentina di nascita che da tempo vive in Francia – con le sue atmosfere intimiste e dilatate; Al The Coordinator, ovvero Aldo D’Orrico, poliedrico cantautore e chitarrista nato e cresciuto a Cosenza; Remo De Vico, compositore e sound designer anche lui nato e cresciuto a Cosenza, dove ha fondato il laboratorio elettroacustico del Miai; infine Paolo Gaudio, batterista, compositore e sound designer, classe 1991, che invece vive e lavora a Milano.
    Per una volta non è la fuffa de «il/la cosentin* che fa le sue cose all’estero» ma è proprio un lavoro internazionale che connette Nyc con Cosenza. Bravi.

    Primavera dei teatri: un dovere morale

    Primavera dei Teatri, al contrario, non è una performance di una serata bensì quella che definiremmo una manifestazione lunga, riconosciuta e storicizzata. E soprattutto ospitata da sempre in Calabria, toponimo che indica la location – scusate la parola/4 – ma anche il sostegno istituzionale.
    Eppure la novità di quest’anno è stata tornare «alla sua collocazione primaverile, anche prendendoci il rischio di non attendere l’avviso pubblico regionale sugli eventi – spiegano Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano – che da anni sostiene economicamente il festival per due terzi del suo budget. Primavera dei Teatri, che apre ogni anno la lunga stagione festivaliera in Italia, deve poter assolvere alla funzione di presentare e accompagnare i debutti nazionali. (…) Inoltre (…) nasce da un dovere morale verso i cittadini di una regione carente di offerte culturali. (…) La grande sfida è stata e rimane quella di avvicinare la gente comune» al palcoscenico e a ciò che gli ruota intorno.

    Ospiti da tutta Italia

    Se a New York ci sono i cosentini come ospiti, a Castrovillari gli ospiti sono le compagnie teatrali di tutta Italia. Il festival diretto da La Ruina, De Luca e Pisano ha presentato oltre 40 momenti di spettacolo dal vivo tra teatro, danza, musica e performance accompagnati da residenze creative, workshop, reading, presentazioni di libri e convegni: 16 debutti assoluti, 4 anteprime, 4 coproduzioni e 3 progetti internazionali. Lo stesso De Luca ha proposto il suo Re Pipuzzu fattu a manu – Melologo calabrese per tre finali con Gianfranco De Franco, mentre La Ruina ha portato in scena il suo ultimo lavoro Via del Popolo, nelle stesse ore in cui veniva candidato come migliore novità al premio Le Maschere del Teatro italiano.

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    Gianfranco De Franco

    Primavera dei teatri oltre le «splendide cornici»

    Contro i numeri zero delle sagre mordi e fuggi con tanto di neomelodico nella «splendida cornice» di un borgo magari resiliente – scusate la parola/5 –, ecco invece una mole non indifferente di nomi, cifre – stilistiche e di presenza – e copertura mediatica che smentiscono il mantra delle prefiche calabre («qui non si può fare nulla»).
    Capannoni abbandonati restituiti alla fruizione artistica, tributi in morte a Renato Nicolini e Franco Scaldati e in vita alla iconica – scusate la parola/6 – Patrizia Valduga. Momenti di sogno, silenzio e aggregazione, riflessione, risate e commozione.
    Certo serve sostanza ed esperienza per riempire di magia un festival. «Che lavoro fai?». «L’attore». «Ok, ma il vero lavoro?». «Questo. Questo che vedi». Anche in Calabria si può.

  • Mughini di lotta per un Mondo Nuovo a Cosenza

    Mughini di lotta per un Mondo Nuovo a Cosenza

    Sessant’anni fa, nel 1963, a Cosenza, viene pubblicato il primo dei Quaderni di cinema del circolo Mondo Nuovo. L’informazione si ricava dal terzo, dato alle stampe a Cosenza nel febbraio 1964. Un fascicolo di 54 pagine, con testi di Guido Aristarco, Pio Baldelli, Tommaso Chiaretti, Adelio Ferrero, Giampiero Mughini.

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    Antonio Lombardi, tappezziere e agit prop

    Antonio Lombardi, animatore del circolo Mondo Nuovo, presenta il terzo numero dei Quaderni, dedicato ai problemi della critica della settima arte, precisando che il secondo fascicolo è stato stampato in 500 copie, «testimonianza del successo della nostra iniziativa e in direzione della diffusione e della divulgazione della cultura cinematografica». Nello stesso testo Lombardi annuncia che il quarto numero è già in preparazione e sarà dedicato a Cinema italiano 1943-1963.

    Da Fellini a Moretti

    Per tutto il periodo della sua attività, tra il 1960 e il 1980, il circolo Mondo nuovo dedica una particolare cura al cinema, organizzando rassegne di film e dibattiti, a cui interviene un pubblico non solo giovane (i fondatori del circolo sono ragazzi poco più che ventenni). Si era nella stagione d’oro, registi italiani come Fellini, Visconti, Antonioni, Pasolini e tanti altri erano studiati e imitati, premiati nei concorsi internazionali.
    In una registrazione relativa alle origini del circolo, Antonio Lombardi, circa venti anni fa, mi aveva raccontato le sue prime incursioni nel mondo della critica cinematografica, nel clima di grande emozione suscitato dai fatti di Ungheria del 1956. Quel momento rievocato di recente da Nanni Moretti ne Il sol dell’avvenire, che spinse tanti intellettuali e semplici militanti ad allontanarsi dal Partito comunista italiano e a cercare nuove strade. In quel clima di delusione, di ripensamento, di ricerca di nuove modalità espressive, si costituisce il gruppo di amici, a Cosenza, che darà vita a Mondo nuovo, che sorge ispirandosi all’omonima rivista fondata da Lucio Libertini.

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    Vittorio De Sica, icona e maestro del cinema

    La Ciociara che divide

    Ragazzi appassionati di politica e del nuovo linguaggio del cinema, così racconta Lombardi:
    «A proposito di Chiaretti nel 1960 facemmo una discussione, a Mondo nuovo, su La ciociara di De Sica, tratto dall’ultimo per me grande romanzo di Moravia. Per me il film valeva poco. Chiaretti invece ne scrisse in termini positivi, allora per la prima volta presi la macchina da scrivere e mandai una lettera a Chiaretti, che Libertini pubblicò insieme alla replica di Chiaretti (Libertini mi conosceva, era venuto a Cosenza ad inaugurare Mondo nuovo). Chiaretti nella replica mi invitava a leggere le posizioni critiche di Galvano Della Volpe nella sua Critica del gusto. Insomma queste riviste non ortodosse mi hanno formato, riviste nate da posizioni minoritarie, come quelle di Libertini, polemico con la dirigenza socialista fin dal 1948, quando si era schierato con Tito contro Stalin, e fondato l’Unione socialista indipendente, un piccolo partito, durato fino al 1956».

    Una Olivetti sgangherata

    Lombardi senza nessuna timidezza va, dal suo primo intervento, oltre i confini della sua città, è convinto che sia necessario, da subito, allacciare rapporti con gli intellettuali e gli autori, partecipando agli incontri più innovativi e importanti, come quelli a Porretta Terme. Sarà sempre questo il suo modo di operare, diretto e personale, con la Olivetti ormai sgangherata che ha utilizzato fino alla fine, per molti anni dopo la chiusura del circolo.Il testo di Tommaso Chiaretti pubblicato sul Quaderno numero 3, La critica cinematografica tra industria culturale ed organizzazione di partito, è la relazione tenuta a Porretta Terme al convegno Cinema e critica oggi (10-12 settembre 1963). Lo stesso vale per il testo di Guido Aristarco, Realismo, decadentismo e avanguardia nel cinema contemporaneo.

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    I Quaderni di cinema partoriti nella fucina di Mondo Nuovo

    Nella registrazione già citata Lombardi racconta: «Nel 1964 ho fatto un viaggio importante, prendendo contatto con persone come Chiaretti, chiedendogli di collaborare con Giovane critica» di Giampiero Mughini.
    Insomma abbiamo dedicato qualche pagina a Chiaretti, che in quel momento non se la passava bene. Questo viaggio nasceva da uno precedente, nel 1963, quando sono stato invitato a Porretta Terme, al Festival del cinema libero, in cui si alternavano proiezioni e dibattiti. Il Festival del 1963 era dedicato alla critica cinematografica, Aristarco era invitato a parlare dell’avanguardia, Chiaretti sul rapporto tra organizzazione partitica e industria culturale.

    Intellettuali, borghesi, avanguardisti

    C’era anche Giuseppe Ferrara, che ancora non era passato alla regia. Dibattito animatissimo, con una frattura tra gli intellettuali di sinistra, tra chi propendeva per un’integrazione nel sistema dell’industria culturale. E chi invece voleva mantenere le distanze. Era in discussione ben altro, non la critica cinematografica, Mughini non colse questo aspetto. Il nocciolo della questione era la possibilità di fare opposizione di sinistra in Italia. Il capofila della critica ad Aristarco era Lino Miccichè, critico cinematografico de L’Avanti. Sui Quaderni di Mondo nuovo abbiamo pubblicato integralmente la relazione di Aristarco, e lui non perdeva occasione di citarla. Dibattito proseguito a lungo sui giornali, intanto sono andato in giro per capire cosa di pensava in giro.
    L’intervento di Chiaretti, Le ragioni dell’avanguardia, a questo proposito mi aveva colpito anche l’intervento di un altro critico, Mario De Micheli, autore de Le avanguardie artistiche del ‘900. Si dibatteva dell’avanguardia sempre a partire dalla crisi dello stalinismo. Il problema non era solo liquidare l’avanguardia come prodotto borghese, decadente, De Micheli e Chiaretti rileggono la crisi che tra gli intellettuali si apre nel 1848 e giunge al culmine nel 1871.

    Questi intellettuali non arrivano a posizioni veramente rivoluzionarie, ma sono degli irregolari, a livello artistico questa è l’avanguardia. Molti critici ritengono che il realismo moderno non sia la continuazione del grande realismo borghese ottocentesco. De Micheli e altri pensano a un incontro tra le manifestazioni dell’avanguardia, con le rotture dei linguaggi tradizionali, solo da questa sintesi nasce il moderno realismo rivoluzionario. Ad esempio Majakovskij e Brecht, con il futurismo e l’espressionismo.

    Mughini per Mondo Nuovo

    Mondo nuovo aveva stretti legami con il Centro universitario cinematografico, CUC, di Catania, animato da Giampiero Mughini, che invia agli amici cosentini un suo contributo per il Quaderno, Vecchio e nuovo nella critica cinematografica.
    Gli autori del terzo numero dei Quaderni di cinema sono critici militanti, noti e affermati già in quegli anni, spesso al centro di polemiche roventi, accompagnate da risvolti giudiziari. Nel 1953 Guido Aristarco, direttore di Cinema nuovo, viene arrestato per vilipendio delle forze armate, per aver pubblicato sulla rivista da lui diretta un soggetto cinematografico, L’armata sagapò, relativo alla condotta dei militari italiani in Grecia durante la seconda guerra mondiale. Aristarco e Renzo Renzi, autore del testo, trascorrono quarantacinque giorni nel carcere militare di Peschiera. Sono condannati a scontare rispettivamente quattro mesi e mezzo e otto mesi, ma rimessi in libertà grazie alla mobilitazione della stampa e dell’opinione pubblica.

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    Il regista e attore Nanni Moretti

    Quel che resta del cinema a Mondo Nuovo

    Nonostante la diffusione in centinaia di copie dei Quaderni di cinema non sono riuscito a trovare gli altri numeri, il primo, il secondo e il quarto, quelli che sicuramente sono stati pubblicati. Nemmeno nelle biblioteche pubbliche sono consultabili, almeno non risultano nel Sistema bibliotecario nazionale, SBN. Potrebbero trovarsi forse in qualche fondo librario non catalogato. Come accade spesso per gli archivi dei gruppi e delle associazioni, gli animatori del circolo, ragazzi estranei alla cultura ufficiale, all’epoca non si preoccupavano di depositare le copie dei propri stampati, né evidentemente di consegnarli direttamente alle biblioteche pubbliche.
    Questo terzo fascicolo, recuperato fortunosamente, apre le porte di un mondo ormai lontano, per certi versi superato, gravato da schematismi ideologici oggi incomprensibili. Ma ci conduce nel cuore del dibattito politico e artistico degli anni Sessanta, seguito con interesse a Cosenza da centinaia di persone. Come nelle palazzine del quartiere romano, dove Silvio Orlando nell’ultimo film di Nanni Moretti, si interroga sul suo ruolo di segretario di sezione del P.C.I. davanti al dramma del popolo ungherese.

    Probabilmente sarebbe ancora possibile reperire queste pubblicazioni in qualche biblioteca privata, anche molto lontano da Cosenza, dato che il circolo Mondo nuovo e Antonio Lombardi in particolare, intratteneva una fitta corrispondenza con centri e persone di ogni parte d’Italia. Sarebbe un modo per recuperare uno dei tanti tasselli dispersi della vita culturale cittadina, non per municipalismo, ma al contrario per documentare i legami e gli scambi che da Cosenza si intrecciavano con le più vivaci energie del tempo.

  • Gissing e il Concordia: il Grand Tour nel cuore di Crotone

    Gissing e il Concordia: il Grand Tour nel cuore di Crotone

    C’è quella epopea culturale che conosciamo con il nome aulico di Grand Tour. Una cosa che sta tutta nei libri, più che nelle sale dei musei, nelle collezioni archeologiche. Mi ero ormai fatto convinto che fuori non fosse durato niente. Neanche uno di quei vecchi cimeli e memorabilia. E con questi, nessun luogo privato o pubblico, custodito a futura memoria. Mi sbagliavo. Qualcosa di quel passato è rimasto. Sorprendentemente vivo e godibile, per chi ne ha voglia, beninteso, ancora oggi. Questo luogo è a Crotone. Nella Crotone un tempo Magna Grecia delle migliori annate, poi scivolata ai nostri tempi nel limbo avvelenato e rugginoso della ex Stalingrado del Sud. E non in museo. Per strada. Nel cuore della Crotone di oggi.

    Se arrivate in piazza Pitagora, appena a ridosso dei popolari quartieri del centro storico, oggi colorato di presenze multietniche e negozi da suk, appena sotto i bastioni del grande castello di Carlo V, vi imbatterete in uno straordinario cimelio vivente della stagione del Grand Tour. Voltato l’angolo, a pochi passi dal Duomo che custodisce l’icona della venerata Madonna di Capo Colonna, e dalla storica Libreria Cerrelli, una nobile libreria indipendente, la più antica della Calabria, frequentata anche da Corrado Alvaro, c’è ancora un vecchio albergo, che fu anche il primo costruito in città.

    Il Concordia a Crotone: da Lenormant a Gissing

    Al civico 12 di piazza Vittoria, con ancora l’ingresso sotto i portici pitagorici che, unici in Calabria, fanno tanto Bologna, troverete oggi, come dal 1880, anno della sua probabile fondazione, al primo piano (il piano originario dello stabile costruito sopra i portici), le circa venti stanze che formavano il corpo del vecchio albergo Concordia. Che a quel tempo, nuovo di zecca, sfoggiava sulla balconata un’elegante insegna trascritta con vezzo francese, Hotel et Restaurant Concordia. Il Concordia in realtà era un albergo «semplice ma comodissimo, senza le finezze dei grandi alberghi, ma con delle camere sufficientemente pulite e discreta cucina». Ad uno straniero di passaggio poteva bastare. Lo descriveva così il suo primo illustre ospite straniero, l’archeologo francese François Lenormant che nel 1881 lo immortala nella sua descrizione di “Crotone moderna”, confluita poi nei tre grossi volumi de La Magna Grecia.

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    Norman Douglas soggiornò al Concordia di Crotone seguendo l’esempio di Gissing

    Paesaggi e storie. Il Concordia sarà poi lo stesso albergo cittadino puntualmente segnalato per la rara clientela internazionale sulle puntigliose pagine del Murray’s Handbooks for Travellers e sulla celebre guida Baedeker per l’Italia Meridionale. Qualche decennio ancora e il Concordia accoglierà altri ospiti di riguardo tra le sue stanze. Non mancarono l’appuntamento con il Concordia firme come il francese Paul Bourget (1890), l’americano James Forman (1927), i britannici Edward Hutton (1915) ed Henry V. Morton (1969). Ma l’epopea del Concordia la fanno soprattutto due nomi di grandi personalità letterarie – il secondo richiamato qui dal primo. Vi sostarono, a cavallo di Otto e Novecento, due scrittori del calibro dei britannici George Gissing e Norman Douglas. Entrambi giunti a Crotone avventurosamente. Sebbene in condizioni economiche, di salute e con stati d’animo persino opposti.

    La rinascita dopo l’abbandono

    Una targa celebrativa apposta dal Rotary nel 2002 celebra con discrezione gli ospiti illustri passati dall’albergo. Accanto alla targa commemorativa, l’insegna del Concordia (nome celebrativo risorgimentale e post-unitario), coevo alla prima ben proporzionata addizione urbanistica in cui si collocava il nuovo albergo, costituita dalle “due belle strade porticate che tagliano in croce la parte inferiore della città”, è da poco tornata a campeggiare su un angolo della storica piazza Pitagora. Il Concordia è rinato infatti da poco dopo qualche decennio di abbandono e di oblio. Merito della famiglia Pezziniti che ne regge le sorti dalla metà del secolo scorso. Assieme, fa piacere ricordarlo, al più antico caffè-pasticceria di Crotone, il Moka. Anche quest’ultimo ha già di suo più di un secolo di storia cittadina alle spalle.

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    La targa del Rotary

    Al Concordia non aspettatevi riverniciature alla moda, sofisticazioni e arredi di design. L’albergo, dopo qualche lavoro sulle vecchie e solide mura, con le volte riportate a vista, è rimasto praticamente quello di allora. In accordo con la sua atmosfera riposante, accogliente e demodé. Senza pretese, ma un porto sicuro per chi viaggiava, e viaggia, da queste parti. Lo snob aristocratico Norman Douglas, che passò dal Concordia due volte nel corso dei suoi viaggi al Sud, in Old Calabria, nel 1911 ne scriveva con soddisfatta degnazione: «Resto fedele al Concordia, l’edificio è migliorato, il cibo è buono e variato, i prezzi modici; il luogo è di una pulizia perfetta. Vorrei solo augurarmi che certi alberghi di provincia inglesi possano essere all’altezza del Concordia».

    Gissing e il Concordia di Crotone

    All’opposto, non un effimero souvenir di viaggio, ma luogo rivelativo di una più profonda esperienza umana, diventerà il Concordia per un vittoriano solitario, George Gissing, che a Crotone approda nel novembre 1897.
    Gissing fu l’ultimo degli inglesi e dei grandi viaggiatori a visitare, le regioni dell’estremo Sud della Penisola al tramonto di un secolo che, sotto l’incalzare del moderno, stava definitivamente cancellando anche nelle regioni del Sud più ‘archeologico’, problematicamente unificate al resto della nazione, l’ultimo riflesso dell’antica Land of Romance. «Cosa ne è stato delle rovine della Croton magnogreca? In questa piccola città di provincia, dalla fisionomia spoglia e malinconica, oggi nulla è rimasto visibile della sua gloriosa e trapassata antichità».

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    L’insegna del Concordia, oltre un secolo dopo il pernottamento dello scrittore inglese

    Squattrinato e malfermo di salute, Gissing dedica a Crotone quasi metà del suo libro di viaggio. Restò nelle stanze del Concordia una quindicina di giorni. Giorni, e notti, cruciali. Fermato a Crotone da un improvviso attacco di febbre polmonare, conseguenza della tubercolosi che lo affliggeva sin da giovane, la malattia di cui morì a soli 46 anni in Francia, in uno sperduto sanatorio ai piedi dei Pirenei.

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    Riccardo Sculco

    Qui fu salvato dall’intervento provvidenziale di un bravo medico, il dottor Riccardo Sculco che se ne prese cura – «il mio amico dottore» – (Sculco fu poi a più riprese anche sindaco progressista della città), e da poche «gentili e affettuose persone». Che altre non erano se non le cameriere, le povere serve di locanda e le grisettes impiegate al Concordia. «La gente dell’albergo Concordia, nonostante la terribile povertà e rozzezza, si dimostra molto gentile e premurosa nei miei riguardi. Due o tre di queste si presentano di continuo nella mia stanza per vedere come sto e per poter solidarizzare, simpatizzando con me».

    La Calabria più vera dalla bolla dell’albergo

    Il Concordia e la febbre polmonare divennero così il suo punto di osservazione sulla città. Il ritratto che fa della popolazione cittadina e della gente che in albergo si occupava di lui e dei clienti, è il cuore stesso di Verso il mar Ionio, la sua più autentica e inaspettata iniziazione al Sud povero. Una Calabria dal vero in cui egli si aggirerà spaesato, fra le quinte di un paesaggio naturale e umano reso ancora più surreale dalla malattia, inasprito dalla storia e dalle circostanze personali.

    Sarà tuttavia questo per lui l’esame di realtà più perspicace, l’esperienza dell’altrove più fertile e umanamente partecipe, l’impressione vitale meno libresca e astratta. Precipitato in una condizione di estremo pericolo, solo, debole e malato, si rimette a ciò che fatalmente può accadergli lì, tra quella mura, in mezzo a gente estranea. Questione di vita o di morte: «Avevo la febbre. Quella febbre. La situazione si faceva grave, più grave che mai, e mentre la febbre continuava a salire, ebbi un solo pensiero: piansi amaramente la circostanza beffarda che quella ricaduta della mia malattia fosse sopraggiunta tra capo e collo proprio lì dove mi trovavo adesso. Poteva accadere ovunque: ovunque ma non a Cotrone». Eppure…

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    Una cartolina di Crotone con un panorama d’epoca

    Ciò che Gissing ricorda e scrive in quelle circostanze estreme, nonostante lo spettro incipiente della morte, suona sempre affettuoso, ironico e disincantato, intriso di un’umanità curiosa e bonaria. Eppure la realtà da cui veniva sopraffatto poteva apparirgli persino crudele.
    Sul Concordia, poi, salta fuori ben altro. «A giudicare dalla monotonia e dalle ristrettezze del menù servito ai tavoli del ristorante, il tenore di vita medio in città doveva essere ben misero e stentato. Le pietanze da portata e i pochi piatti che erano in lista componevano un menù meschino, poverissimo e ripetitivo. E peggio ancora, era tutto cucinato in un modo infame. Il vino del posto, un vinaccio locale, non aveva nulla di raccomandabile. Era molto forte, impossibile da reggere, e sentiva più di narcotico che di succo d’uva».

    Dieci giorni d’angoscia e scoperte

    Seguono dieci fatali giorni di infermità al Concordia, in compagnia dell’angoscia. «Mi sembrava una beffa davvero miserabile ritrovarmi qui e giacere ora immobile e ammalato di tisi sulle rive del Mar Ionio. Una vera sfortuna. Non poter uscire di nuovo a veder brillare il sole caldo in un cielo tanto più bello e migliore di quello del lontano Nord». Ma con la malattia si apre anche la porta di una diversa percezione dell’umanità circostante:

    «La gente della casa, l’intero personale, dagli sguatteri di cucina alla padrona dell’albergo, sarebbero apparsi, ne sono certo, poco più che dei selvaggi. Sporchi nella persona e sotto ogni riguardo, di abitudini maleducate, assolutamente rozzi nel loro contegno, sempre a litigare e a inveire l’uno contro l’altro, e peggio sommamente privi di ogni necessaria qualificazione o attitudine per i compiti che in quel pubblico esercizio sostenevano di svolgere. In Inghilterra basterebbe l’aspetto sciatto con cui si presentano a far rivoltare di disgusto un pubblico di inflessibili moralisti e benpensanti. Tuttavia, facendo appello alla mia migliore buona volontà e conoscendoli meglio, un po’ alla volta la mia disposizione d’animo verso di loro mutò decisamente.

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    Superando la distanza con cui potevo giudicarne la miseria e le azioni per me incomprensibili, ho poi scavalcato anche la prima fase di insofferenza per quella gente così diversa da me. Ho visto il loro lato buono e ho imparato a perdonarne i difetti, conseguenza naturale di uno stato di autentica arretratezza e di primordiale miseria. Ci vollero due o tre giorni buoni e molta pazienza prima che il loro comportamento rozzo e sbrigativo, le maniere brusche e indelicate, si ammorbidissero verso di me in cordialità: una cordialità veramente umana, priva di formalismi ma autenticamente disinteressata.

    Fu proprio quello che avvenne. Quando si seppe che non avrei dato loro soverchie seccature, che avevo bisogno solo di un po’ di attenzione in più per la mia salute precaria, e in materia di cibo e cure, la buona volontà e la simpatia umana di quella buona gente ebbero la meglio per aiutare scarsità irrimediabili e l’inettitudine senza speranze».

    Meglio morire in Calabria che a Londra

    Gissing sembra così divenire via via più consapevole nella bolla del Concordia del legame indivisibile che intercorre nelle relazioni umane tra persone e luoghi. Un sentimento dell’altrove persino più significativo di quello determinato dalla conoscenza delle vicende storiche o da percezioni di ordine squisitamente estetico. Solo l’esperienza del “luogo”, in forza del suo carattere determinato, permette di conoscere più a fondo l’individuo in rapporto con l’ambiente. Solo attraverso essa si coglie tutta la potenza di questi condizionamenti. Gissing è un uomo di educazione classica, tollerante, di mentalità aperta, persino ironico e lungimirante. L’immersione nel paesaggio umano di cui è ospite al Concordia in questi frangenti del suo viaggio al Sud, ne faranno davvero un uomo diverso.

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    Londra, 1868: una strada del quartiere Shoreditch

    A distanza di anni, ricordando l’angoscia della malattia patita a Crotone, rifletteva così: «Ammetto, tuttavia, che allora quel pensiero di morte mi fece soffrire molto più di adesso che ci penso. Dopotutto, resto convinto che un povero di Cotrone ha comunque dei vantaggi rispetto al proletario che abita in una catapecchia dei sobborghi di Londra. E pensai comunque che per me, dopotutto, sarebbe stata comunque cosa più grata morire lì in un tugurio sul Mar Ionio che in uno di quei luridi scantinati di Shoreditch in cui non ebbi mai pace».

    Lo straniero

    Lirico e malinconico, il capolavoro di scrittura di viaggio di Gissing così alterna luce e oscurità, vita e morte, paganesimo e cristianesimo. Ma egli resta soprattutto un ritrattista formidabile degli incontri umani, dei luoghi e delle persone, che popolarono il suo viaggio. Come quella povera serva del Concordia – «un essere umano che a fatica potrei chiamare donna», che ad un certo punto, “al capezzale del mio letto da infermo, cominciò a rivolgersi a me in modo incomprensibile, con rabbia, urlando nel suo dialetto oscuro e fangoso. Passò un minuto o due di terrore, prima che riuscissi a cogliere il senso di quel suo sfogo furibondo, incomprensibile e addolorato. Mi chiedeva, agitata e piangente, se era giusto che una “povera cristiana” venisse maltrattata così, dopo aver “tanto, tanto lavorato!”.

    Quello sfogo piangente e belluino era il suo modo di fare appello alla mia simpatia, di muovermi a compassione umana per la sua povera storia, per quella vita miserabile: non era venuta di sicuro a maltrattarmi. No. Voleva solo che il signore malato, lo straniero, l’ascoltasse. Che qualcuno come me le desse per una volta ragione della sua condotta, di tutta quella sofferenza ingiustamente patita. Dopo pochi istanti il peso esorbitante di quel suo dolente resoconto si impadronì di me. Era come se una povera bestia da soma schiacciata dalla fatica, sotto un carico insopportabilmente pesante e vessatorio, avesse improvvisamente trovato la strada per tradurre in un rudimentale linguaggio, inarticolato e ancora subumano, la sua ribellione sbraitata contro il destino infelice a cui era stata condannata dalla sua condizione di oppressa.

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    Una stanza del Concordia oggi. Sulla parete, il ritratto di uno dei suoi primi ospiti illustri: François Lenormant

    La ascoltai a lungo. Si calmò, infine. Scrutai tra le pieghe di quel viso affranto, tra i segni di quel volto corrugato e malinconico, scavato dalla fatica e dallo sconforto. In qualche misura i miei sforzi di rendermi partecipe del suo disagio, quel mio dare ascolto alle sue sofferenze senza infingimenti, di parlarle con calma rispondendole gentilmente, riuscirono. Alla fine del nostro colloquio, la donna si voltò per andarsene via, mi guardò e mi disse ancora per una volta sospirando, “Ah, Cristo!”. Quell’ultima esclamazione fu pronunciata con un accento più dolce, con un po’ di sollievo. E non risuonò, mi parve, del tutto priva di gratitudine».

    Il posto più vicino al paradiso

    Sorprendentemente, nonostante quel che gli accadde, per Gissing proprio la Calabria povera e malvissuta del 1897, da poco unificata al resto dell’Italia, si rivelerà «dopotutto, il posto più vicino al paradiso dove avessi mai sperato di giungere». Non a caso proprio tra le stanze e dopo l’incontro con la gente del Concordia Gissing conclude le sue riflessioni sulla verità del suo viaggio e dei suoi incontri con l’umanità dimessa e povera che popola anche i recessi più irrilevanti e svisti dell’estremo Sud di cui farà dopotutto una paradossalmente lieta e assillante esperienza umana, con un rimprovero, infine. Ma rivolto a se stesso: «Perché ero venuto qui, se non perché amavo questa terra e la sua gente? E non avevo io già ottenuto la ricompensa, tanto più riccamente corrisposta, quanto immeritatamente ricevuta in dono da loro per questo mio amore?».

    Un parco culturale per Gissing nel Concordia di Crotone

    Fanno bene gli attivisti di Italia Nostra di Crotone a chiedere di estendere il vincolo di Bene culturale a difesa della memoria vivente del Concordia. E a progettare, a partire da quelle stanze fatidiche, insieme al Comune di Crotone, un Parco Culturale da dedicare a George Gissing e ai suoi compagni di viaggio e ospiti crotonesi del Concordia. Basta per capirne il fascino dormirci dentro una notte, in compagnia dello spirito benigno del vittoriano solitario.
    È proprio vero come scriveva già Norman Douglas, che tra le mura del Concordia è rimasto per sempre qualcosa di speciale: «L’ombra di George Gissing aleggia ancora in quelle stanze e in quei corridoi». Provate a passare dal Concordia, la sentirete anche voi.

  • Reggio e la lezione di Resistenza di Napoli e Loy

    Reggio e la lezione di Resistenza di Napoli e Loy

    QUESTO FILM È DEDICATO ALLA MEMORIA DEL DODICENNE, MEDAGLIA D’ORO, GENNARO CAPUOZZO, AL VALOROSO POPOLO NAPOLETANO ED A TUTTI GLI ITALIANI CHE HANNO COMBATTUTO PER LA LIBERTÀ.

    Con questa scritta, coi caratteri proprio in maiuscolo, si chiude il film Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, prima proiezione del ciclo “Resistenza e Resistenze” organizzato dalla sezione ANPI C. Smuraglia di Reggio Calabria e dal circolo Arci Samarcanda, in collaborazione con il circolo Zavattini. «Quattro proiezioni – secondo la presidentessa del circolo ANPI Giuliana Mangiola – per riflettere sulla Resistenza come opposizione ad ogni azione tesa a calpestare i diritti della persona, i valori della libertà e della democrazia. Una rassegna che vuole denunciare quelle forme di sopraffazione con le quali l’altro non è più il prossimo ma il mezzo, lo strumento utile per ottenere potere e affermazione».

    Le Quattro giornate di Napoli: la resistenza si allarga

    Del film, e del suo grande valore artistico, abbiamo parlato col presidente del circolo Zavattini, Tonino De Pace, e ne riferiremo più avanti. Prima vogliamo invece analizzare l’oggetto dell’opera, l’episodio dal punto di vista storico. E chiederci anche il motivo per il quale esso non abbia avuto la rilevanza che avrebbe certo meritato.

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    Un momento delle Quattro giornate di Napoli

    Nel suo manuale di Storia contemporanea il reggino Rosario Villari riporta così le Quattro giornate di Napoli: «A Napoli, intanto – una città che aveva subito nel modo più tragico le conseguenze della guerra, dei bombardamenti aerei, della penuria alimentare e dello sconvolgimento della vita civile – la popolazione, esasperata dalle violenze e dalle angherie delle truppe tedesche, insorgeva battendosi valorosamente e vittoriosamente nelle strade per quattro giorni (27-30 settembre 1943). Era uno dei primi episodi della Resistenza italiana, che coincideva con una diffusa presa di coscienza antifascista in tutto il paese e con la trasformazione dell’antifascismo da atteggiamento di gruppi relativamente ristretti in un vasto movimento di massa».

    La città liberata senza aiuti esterni

    Nel Dizionario di Storia de Il Saggiatore alla voce “Quattro giornate di Napoli (28 settembre – 1° ottobre 1943)” troviamo questa descrizione: «Episodio di resistenza armata contro l’occupazione tedesca, alla vigilia dell’arrivo delle truppe anglo-americane. L’insurrezione non fu organizzata da un centro militare e politico ma fu la somma di molte iniziative individuali o di gruppo, anche di giovanissimi; vi morirono sessantasei cittadini, tra cui undici donne». Non è poco.
    Villari segnala che l’episodio è uno dei primi della Resistenza italiana. Dà anche conto di un suo tratto peculiare, la spontaneità, e sottolinea il valore dei napoletani che vi aderirono. Nel Dizionario, le Quattro giornate di Napoli sono traslate di un giorno, ma nel complesso, per lo spazio loro destinato, si deve tener conto che esso contiene 12.000 voci relative a tutta la storia del mondo intero.

    Rimane un dato, incontestabile. Come abbiamo già scritto, il popolo italiano sa poco o nulla di una delle pagine più belle della lotta degli Italiani per la libertà. Dal 27 al 30 settembre del 1943, Napoli diede dimostrazione, con scarsissimi mezzi e altrettanto scarsa o nulla organizzazione, che era possibile scacciare i nazifascisti dalla città, tanto da presentarsi il giorno dopo, all’arrivo delle truppe alleate, già liberata. E tanto da meritarsi due medaglie d’oro al valor militare, una conferita alla città e una alla memoria di un ragazzino di neanche 12 anni, Gennaro Capuozzo.

    Gennarino Capuozzo e le Quattro giornate di Napoli

    Gennarino era nato nel 1932 in una delle case tipiche del centro storico di Napoli, nella quale abitava con i suoi cinque familiari. Suo padre era stato mandato in guerra nel 1941 e lui dovette darsi da fare per il sostentamento suo, della madre e dei tre fratelli. Dopo l’armistizio dell’8 settembre del ‘43, con il Re e Badoglio al sicuro a Brindisi, il Regio Esercito è abbandonato a se stesso, non sa più chi sono i nemici da combattere. I nazisti occupano Napoli e, giorno dopo giorno, aumentano la pressione sulla popolazione con angherie e soprusi di ogni genere. Gli alleati sono sbarcati a Salerno, ma la città non può aspettare perché il comandante cittadino dei nazisti assume il 12 settembre i pieni poteri, ordinando alla popolazione di consegnare le armi.

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    Lo sgombero della fascia costiera da parte dei nazisti

    Il 22 i nazisti istituiscono un servizio di lavoro obbligatorio per i cittadini dai 15 ai 30 anni e impongono lo sgombero della fascia costiera. Il 27 i Napoletani iniziano ad attaccare i tedeschi con armi di ogni genere, ad alzare barricate, ad assalire i mezzi che trasportano prigionieri italiani. Tra gli insorti ci sono donne e bambini. Il giorno seguente i carri armati tedeschi, mandati dal comandante a fronteggiare la popolazione, sono fermati a a Capodimonte dai partenopei coi cannoni sottratti in precedenza agli occupanti. Messi alle strette, i tedeschi si arrendono e il 30 lasciano Napoli. Nella prima mattinata del 1° ottobre gli alleati entrano nella città, la prima a liberarsi da sola, senza l’aiuto di nessuno se non della dignità messa sotto i loro stivaloni dai nazisti.

    Due medaglie al valore

    Nella Storia collettiva, quella individuale ed eroica di Gennarino Cappuozzo. È il 28 settembre quando Gennarino si aggrega a un gruppo di ragazzi scappati dal carcere minorile che combatte contro i nazisti. Il 29 Gennarino Capuozzo e i suoi compagni decidono che la morte di 10 persone, uccise in un quartiere poco lontano, va vendicata. Avvistano un mezzo tedesco e lo attaccano. Il camion prova a scappare, ma Gennarino gli si avvicina e getta una bomba a mano contro il mezzo militare. Si avvicina e intima ai tre occupanti di scendere. E li fa prigionieri! Gennarino si sposta in un’altra zona della città. Qui, armato di mitragliatore e bombe a mano, si scaglia contro un carro armato. Una granata, a questo punto, mette a tacere per sempre il suo ardimento. Lo raccolgono col volto devastato e una bomba ancora stretta nel pugno.

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    Gennarino Capuozzo

    La medaglia d’oro verrà consegnata alla madre, con una pergamena dove si legge: «Prodigioso ragazzo che fu mirabile esempio di precoce ardimento e sublime eroismo». L’altra medaglia verrà attribuita alla città di Napoli, che «col suo glorioso esempio additava a tutti gli italiani la via verso la libertà, la giustizia, la salvezza della Patria».
    Questi i fatti che dovrebbero essere conosciuti, al pari di tutti gli eventi che hanno restituito la libertà e consegnato una vera democrazia all’Italia.

    I dimenticati: Nanni Loy e le Quattro giornate di Napoli

    Nanni Loy ha il merito di averli rappresentati magistralmente nella sua opera del 1962, che si segue dal primo all’ultimo fotogramma col fiato sospeso. «Nanni Loy – ci dice Tonino De Pace – è uno dei tanti registi che dopo la scomparsa l’Italia e il suo cinema hanno dimenticato abbastanza in fretta. È stato un regista molto attento alle regole dello spettacolo, ma al contempo anche un geniale innovatore. Il suo Specchio segreto, con l’allora sconosciuta (in Italia) candid camera, ha contribuito a rivoluzionare il mondo della televisione».

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    Una locandina del film di Nanni Loy

    «Il film – afferma il presidente del circolo Zavattini – è uno dei pochi che raccontano la Resistenza al Sud e ha contribuito a rendere vivo il ricordo dell’insurrezione napoletana. Con la sua coralità reinterpreta lo spirito solidale della Resistenza. Protagonista del racconto è la città stessa con i suoi popolani, con le microstorie che compongono il quadro di un racconto drammatico che prende le mosse dal soggetto di Vasco Pratolini e dal libro, edito nel ’56, del giornalista Aldo De Jaco La città insorge: le quattro giornate di Napoli. Napoli e il suo popolo di scugnizzi ed eroici combattenti sono al centro della scena, con i loro volti e i loro drammi personali che si sommano a quelli della guerra».

    «Nanni Loy – continua De Pace – ha realizzato un film avvincente, dal ritmo sostenuto, sorretto da una schiera di attori di primo piano: Gian Maria Volontè e Lea Massari, Jean Sorel e Aldo Giuffrè, e ancora le grandi Pupella Maggio e Regina Bianchi, un giovane Enzo Cannavale e Carlo Taranto. Un film che, a dispetto del suo valore culturale e cinematografico, critica e istituzioni hanno ingiustamente dimenticato quando, invece, riveste un ruolo centrale nella storia del nostro cinema proprio per essere uno dei pochi che racconta la Resistenza del Sud, ignorata o quasi, a sua volta, al pari del film di Loy, che la valorizza e la tramanda».
    Insomma, un film da vedere, per il suo valore artistico e per avere una lettura e una conoscenza più complete della Resistenza italiana al nazifascismo.

  • Le dee di Gallo in trionfo a Cannes

    Le dee di Gallo in trionfo a Cannes

    Un pezzettino di Calabria vola al Cannes World Film Festival. Il regista cosentino Francesco Gallo ha trionfato nella categoria “Miglior film sportivo” con il documentario Le dee di Olimpia, un lavoro dedicato alle lotte di emancipazione femminile nei Giochi olimpici.

    Incuriosita dal tema, non potevo esimermi dal cercare Francesco per conoscere più a fondo la sua opera. Prima, però, avevo bisogno di conoscere meglio l’artista che si cela dietro il documentario. L’intervista, quindi, parte con una domanda banale: chi è Francesco Gallo?

    «Io sono uno storico dello sport, membro della SISS (Società italiana di Storia dello Sport). Ho studiato Cinema a Cinecittà e poi Storia all’università. E così cerco di unire tre passioni: la storia, lo sport ed il cinema. Tutti i miei documentari sono sportivi, ma sono un pretesto per far avvicinare le persone alla storia in maniera più esaltante. Le storie di sport esaltano gli spettatori e alcuni argomenti passano più facilmente al cuore e alla mente delle persone se c’è lo sport di mezzo.
    Poi c’è la passione della scrittura, perché sono principalmente uno sceneggiatore. Scrivo tutti i testi dei documentari e nella struttura narrativa che utilizzo non ci sono interviste perché racconto per lo più storie internazionali. Quello che mi interessa è raccontare le storie degli ultimi, le storie di chi ha bisogno di luce sulle proprie lotte che spesso sono dimenticate».

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    Francesco Gallo

    Prima di realizzare questo documentario, hai scritto un libro dedicato alle battaglie delle donne nella storia dei Giochi. Come ti sei avvicinato a questo tema?

    «L’idea del libro era uscita in occasione delle Olimpiadi del 2016 di Rio de Janeiro. Ero al telefono con l’editrice e le dissi “se pensi a tutte le storie delle donne, ci viene fuori un libro a parte”. Lei mi fa: “Ecco, scrivi quello”. È nata così, quasi come una sfida. Ho dovuto iniziare a studiare da capo e andare a cercare solo fonti che riguardassero le atlete. In realtà, è quasi più corposo il documentario del libro».

    Ma esattamente cosa racconta Le dee di Olimpia?

    «Inizia alla fine dell’Ottocento con le prime Olimpiadi di Atene, dove le donne non ci sono. Proprio in quegli anni c’erano le lotte per ottenere il diritto al voto e queste lotte si sono riversate anche nei giochi. Le donne hanno detto: “non solo vogliamo votare, vogliamo anche gareggiare”. Non tutte le donne potevano accedere allo sport perché era vietato. In epoca vittoriana c’erano degli studi, ai tempi considerati scientifici, che dicevano che le donne non potevano andare in bicicletta perché rischiavano infezioni agli organi genitali, potevano addirittura approfittarne per onanismo e quindi non bisognava dare alle donne le biciclette. Da una parte, quindi, la scienza diceva assolutamente no e dall’altra parte, a livello sociale e culturale, per alcune donne di ricche famiglie era sconveniente. Ma erano proprio, in maniera ambivalente, le donne di ricche famiglie a potersi permettere di essere un po’ più ribelli e di accedere ad alcuni sport. La vela, ad esempio, o l’equitazione, il golf e il tennis sono sport di alta estrazione sociale, soprattutto all’inizio del Novecento e sono queste donne a essere le prime ad andare alle Olimpiadi».

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    Charlotte Cooper, oro olimpico a Parigi nel 1900

    E poi cosa succede?

    «Da qui arriviamo agli anni Venti. C’è questo grande buco che è la Prima guerra mondiale in cui alle donne hanno detto “uscite dalle case o dalle piste di atletica e andate a sostituire gli uomini, che sono al fronte, nelle fabbriche o nei campi”. Sembrava uno stop ma, invece, è stato un grande salto in avanti: gli uomini, tornati dal fronte, si sono trovati queste donne con le gonne più corte, perché dovevano stare nelle fabbriche e serviva facilità di movimento, voglia di libertà, che ovviamente non volevano perdere. Proprio nel decennio tra gli anni Venti e gli anni Trenta c’è stato un grande salto simboleggiato dalla nascita delle Olimpiadi femminili. La dirigente francese Alice Milliat, contro le parole di Pierre de Coubertin che continuava a sostenere che le donne non devono assolutamente partecipare ai Giochi, dice di organizzare delle Olimpiadi per sole donne. Non solo c’erano migliaia e migliaia di spettatori, ma davano a tantissime donne la possibilità di partecipare».

    Numeri paragonabili a quelli degli uomini?

    «Nel documentario, anno dopo anno, ho evidenziato il numero di atleti uomini e di atlete donne. È andato via via aumentando fino a Tokyo 20-21, in cui siamo più o meno in parità.
    Nel periodo in cui il fascismo e il nazismo volevano che le donne tornassero ad essere angeli del focolare, proprio l’Italia con Ondina Valla vince la prima medaglia d’oro. Poi abbiamo questo salto della Seconda guerra mondiale, perché la guerra è drammatica ma molto spesso è una molla per l’avanzamento sociale e culturale».

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    Trebisonda “Ondina” Valla (seconda atleta da sinistra) e le ragazze della squadra italiana alle Olimpiadi del ’36

    Cosa cambia per le donne?

    «Le donne, dopo aver dato il proprio fondamentale contributo nella Resistenza europea, negli anni ’50 iniziano una salita infinita, che culmina con le istanze politiche e sociali degli anni ’60. Vediamo le donne che iniziano a vincere sempre di più nelle piste, ma anche nelle piazze con le lotte per l’aborto, per l’utilizzo della pillola, o della minigonna perché nel documentario c’è anche il costume. Mentre dall’America ancora tentavano di imporre modelli come la Barbie o le pin-up, l’Europa era più avanti. Era scoppiata anche la Guerra fredda e il modello occidentale si contrappone a quello sovietico».

    E questo cosa comportava per le sportive?

    «Nel ’52 Stalin dice “dobbiamo affrontare questa sfida anche in pista” e le donne sovietiche, quasi più degli uomini, accumulano medaglie edizione dopo edizione. Finché gli americani si chiedono perché le comuniste trionfino così tanto e come possa la piccola Germania dell’Est vincere quasi quanto gli Stati Uniti. Si dopano? Effettivamente, purtroppo, la risposta spesso era sì. Ed era un doping di Stato. Per questioni di propaganda politica dovevano per forza vincere, il numero di medaglie serviva a dimostrare che il modello sovietico era, anche dal punto di vista sportivo, superiore a quello dell’Occidente. Ragazze e ragazzine, per la maggior parte minorenni, erano costrette ad assumere anabolizzanti».

    Con quali conseguenze?

    «Molte di loro, una volta cresciute, hanno deciso di cambiare sesso, stavano praticamente diventando a tutti gli effetti degli uomini. C’è il famoso caso di Irina e Tamara Press, che la stampa americana sarcasticamente chiamava i fratelli Press perché sembravano davvero due uomini per la stazza e la muscolatura. Poi abbiamo il crollo del muro di Berlino, che cambia tutto.
    Da allora c’è stata un’evoluzione tuttora in corso perché, malgrado ci sia una parità numerica in pista adesso la sfida è fuori dagli stadi. È nei palazzi del potere e della politica sportiva dove si decidono le leggi e i regolamenti sportivi».

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    Tamara e Irina Press

    Quali sono le sfide dello sport oggi? E in che modo il genere e la razza interagiscono e diventano un limite per le atlete?

    «Il discorso che ho fatto finora vale più che altro per noi, per l’Occidente. Se andiamo nei cosiddetti paesi del Terzo mondo, l’accesso allo sport è paragonabile a cento anni fa. Questo avviene per questioni sociali, culturali e religiose. L’Arabia saudita, per esempio, o la Siria e l’Iran non permettono alle donne di gareggiare perché le divise sportive non aderiscono ai precetti islamici. Ci sono stati casi, come l’alzatrice di pesi Amna Al Haddad, che ha deciso di gareggiare comunque col velo e ovviamente non è facile. Oggi, come abbiamo visto nell’edizione 20-21, le donne hanno capito che possono usare il palcoscenico olimpico per varie forme di protesta, come quella sull’abbigliamento».

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    Amna Al Haddad

    Qualche esempio?

    «Le ginnaste tedesche stanno protestando contro le tutine striminzite che sessualizzano il corpo delle atlete e a Tokyo hanno indossato delle tute che non lasciavano nulla da vedere. Anche nel beach volley ci sono ancora questi pantaloncini davvero minuscoli. Mi vengono in mente le tenniste che devono, per l’etichetta ottocentesca di Wimbledon, giocare vestendo sempre di bianco, così come gli uomini. Ma le tenniste dicono “come facciamo durante il ciclo? È una cosa che ci mette a disagio e condiziona anche le nostre partite”».

    Poi c’è la questione delle violenze, che ha sollevato un polverone anche in Italia negli ultimi tempi…

    «Molte atlete stanno protestando perché sono spesso vittime di abusi piscologici e sessuali o talvolta entrambi. Queste ragazze hanno pressioni psicologiche talvolta ingestibili e persino delle professioniste, come Naomi Osaka nel tennis o la ginnasta Simone Biles, hanno deciso di ritirarsi dalle ultime Olimpiadi perché non riuscivano a gestire questo carico di pressioni, che sono sia sportive che mediatiche. Poi non possiamo parlare delle Olimpiadi e della condizione delle donne in vista di Parigi 2024, senza pensare alla situazione in corso in Ucraina. La guerra sarà un elemento fondamentale che sposterà gli equilibri.

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    La ginnasta Simone Biles con uno dei suoi quattro ori olimpici

    Esiste davvero una correlazione così forte tra politica e sport?

    «Questo accade ed è sempre accaduto, fin dalla nascita delle Olimpiadi. Nell’antica Grecia chi vinceva le Olimpiadi diventava cittadino di Atene. Molto spesso si gareggiava sia per la gloria sportiva che per quella sociale. Perché essere cittadino ateniese era il massimo del vanto che si poteva avere nell’antichità»

    Torniamo al presente e affrontiamo la polemica sulle atlete trans nelle gare sportive…

    «Cambiano le modalità, ma il cuore della questione rimane sempre lo stesso. Da cento anni c’è il problema del test sessuale nelle Olimpiadi. Lo racconto anche nel documentario: tantissime donne travestite da uomini, o viceversa, come il caso tedesco di Heinrich Ratjen che si travestì da donna e gareggiò col nome di Dora Ratjen. Poi c’è stato il caso, come dicevo prima, di medicinali utilizzati per stravolgere le donne e farle diventare più forti e muscolose. Dalla fine degli anni Sessanta è stato introdotto il sex test per non far gareggiare chi si professava di un sesso invece di un altro. In questo caso le donne trans, che volessero partecipare ai giochi, dovrebbero avere la possibilità di partecipare ai giochi nel sesso in cui più si sentono di appartenere. Poi c’è tutta la storia dei regolamenti: un uomo che gareggia contro una donna, o viceversa, può essere più o meno svantaggiato ma, quando c’è una scelta personale, si deve dare alle persone la libertà di scegliere. È una scelta che va oltre la possibilità di vincere più medaglie».

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    Heinrich/Dora Ratjen

    Non ci addentriamo oltre nei contenuti del documentario di Gallo e lasciamo a chi legge la possibilità di godersi la visione di Le dee di Olimpia.
    Con una consapevolezza in più: anche lo sport è politica e lotta.

    Francesca Pignataro