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  • Eugene Gaudio, un cosentino ventimila leghe sotto i mari

    Eugene Gaudio, un cosentino ventimila leghe sotto i mari

    Lì dove finanche la potenza dell’oceano aveva fallito, riuscì una banale appendicite mal curata. E così, l’1 agosto del 1920, Hollywood si ritrovò a piangere l’ancora 33enne Eugene Gaudio. Non era il suo vero nome, ma l’americanizzazione – dopo lo sbarco nel nuovo continente – di quello ricevuto alla nascita dai genitori Francesco Gaudio e Marietta Severini a Cosenza: Eugenio. Anche suo fratello aveva fatto la stessa cosa quando, insieme ad Eugene, avevano solcato l’Atlantico in cerca di fortuna. Da Gaetano Antonio si era trasformato nel più yankee Tony Gaudio. Non sapevano ancora che il loro cognome sarebbe entrato nella Storia del cinema.

    Eugene e Tony Gaudio, da Cosenza agli Usa

    Stabilimento-Gaudio-Cosenza-200x300Eugene e Tony Gaudio erano nati rispettivamente nel 1886 e nel 1883 per poi crescere a pane e fotografia tra le vie del centro storico di Cosenza. Il fratello maggiore, Raffaele, era già da tempo tra i professionisti più affermati della città in questo campo, con tanto di titolo di Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia ottenuto per i suoi meriti sul lavoro.
    Fu proprio nei laboratori di Raffaele Gaudio in via Sertorio Quattromani e, in seguito, su corso Telesio che Eugene e Tony appresero a cavallo tra ‘800 e ‘900 i primi rudimenti dell’arte “inventata” da Joseph Nicéphore Niépce.
    Ma c’era un’altra invenzione che, più di ogni altra al mondo, sembrava attrarre i due “piccoli” di casa Gaudio. Anche lì c’entravano dei fratelli, solo che erano francesi: Auguste e Luis Lumière. Il loro cinematografo era la novità del momento, il presente, ma da subito fu chiaro che avrebbe rappresentato anche il futuro della messa in scena. E, come per molte altre cose, l’America sembrava la terra promessa dove realizzare i propri sogni. Anche (e soprattutto) quelli da imprimere su pellicola e proiettare su uno schermo.

    Il cinema dei pionieri

    Fu così che Eugene e Tony Gaudio, come tanti altri in quegli anni, si imbarcarono su un piroscafo diretti a Ellis Island. Hollywood non era ancora quella che avremmo imparato presto a conoscere e anche sull’East Coast erano parecchi i cinematografari. Erano gli anni dei pionieri del grande schermo. L’epoca d’oro in cui – racconterà in un’intervista del 1933 proprio Tony – «non c’erano costosi staff di sceneggiatori… registi, produttori, cameramen, e persino il garzone dell’ufficio, suggerivano storie destinate a diventare dei film». Quella in cui «gli attori principali di ogni studio erano al tempo stesso falegnami, pittori, scenografi, addetti alla sicurezza, nonché le star dei loro film».

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    Angolo tra la 5th Avenue e la 42nd Street (New York, 1910)

    Il più “artista” tra i due emigrati cosentini era proprio Tony – complici gli studi a Roma all’Istituto d’Arte, appunto, e alcuni corti girati per la torinese Ambrosio Film a inizio secolo – ma Eugene, seppur più giovane e inesperto, non era da meno. Grazie alle loro capacità trovare lavoro fu semplice e veloce. Agli impieghi nelle agenzie fotografiche seguirono presto quelli per le prime case di produzione cinematografiche: quella di A. L. Simpson; i Vitagraph Studios; la Life Photo Film Corporation, l’Independent Moving Pictures, con le sue dive come Mary Pickford.

    Dall’East Coast alla West Coast

    È proprio alla IMP che Tony ed Eugene Gaudio iniziano a farsi davvero un nome, il primo come capo fotografo (e autore di sceneggiature), l’altro come supervisore del laboratorio. Tony inizia a viaggiare tra l’East Coast e la West Coast, Eugene accumula successi professionali a New York lavorando per la Rex Factories e la Commercial Motion Pictures Company. Poi nel 1916 i fratelli cosentini si trasferiscono definitivamente in quella California che somiglia sempre più alla Mecca della settima arte. Eugene lo assume la neonata Universal, ma poco dopo prende servizio con Tony alla Metro. Pochi anni dopo, nel ’24, la casa si unirà ad altre due entrando nell’immaginario collettivo grazie al ruggito del leone che introdurrà per i decenni a seguire ogni pellicola della Metro Goldwin Mayer.

    Lion of Metro-Goldwyn-Mayer, 1929 (b/w photo)
    Operatori della MGM filmano il celebre leone che introduce i film prodotti dalla casa hollywoodiana

    Eugene Gaudio, il mago del chiaroscuro

    Eugene, che per l’antenata della MGM fa il direttore della fotografia, è balzato agli onori delle cronache già un anno prima del suo arrivo ad Hollywood, nel 1915, grazie ai riuscitissimi chiaroscuri in The House of Fear del regista Stuart Paton. È lo stesso anno in cui, insieme ad altri 14, fonda la American Society of Cinematographers. La società ancora oggi accoglie tra i suoi membri  direttori della fotografia e tecnici degli effetti speciali che hanno saputo distinguersi nell’industria cinematografica, compreso un calabrese da Oscar come Mauro Fiore. Ma è il 1919 l’anno della sua consacrazione. E anche l’ultimo di cui vedrà la fine.

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    La locandina di Out of the fog

    A portargli le lodi delle cronache culturali dell’epoca sono soprattutto due film diretti da Albert Capellani. Il primo, The Red Lantern, gli dà modo di mostrare tutto il suo talento con le luci durante riprese che vedono coinvolte fino a 800 comparse in contemporanea. Il secondo, Out of The Fog, lo consegna alla storia come – scriverà la stampa di quegli anni – «il primo cameraman a fotografare con successo una nebbia». Eugene Gaudio è ormai, riporta il settimanale newyorkese The Leader-Observer, «uno dei maghi del chiaroscuro» e lo conferma in pellicole come The Man Who Stayed at Home o The Notorius Mrs. Sands (1920), presente nel catalogo dei film muti della Biblioteca del Congresso di Washington.

    Ventimila leghe sotto i mari

    La pietra miliare della sua carriera, però, è Ventimila leghe sotto i mari. Le riprese sono lunghe, il film arriva in sala nel 1916. Si tratta del primo lungometraggio ispirato al celebre romanzo di Jules Verne, anche se la sceneggiatura pesca negli altri due libri dello scrittore nantese sulle gesta del Capitano Nemo a bordo del sommergibile Nautilus. I costi della pellicola – a seconda dei resoconti – superano i 200mila dollari o sfiorano addirittura il mezzo milione, facendone uno dei primi kolossal della storia del cinema. Gli incassi non saranno altrettanto sostanziosi. Eppure 20.000 Leagues Under The Sea non resta negli annali per il flop in sala. Lo fa perché è il primo lungometraggio di sempre con riprese sottomarine ed effetti speciali incredibili per l’epoca. Per girare le gesta dell’equipaggio del Nautilus Eugene Gaudio mette a repentaglio la sua stessa vita.

    Il set del film sono le Bahamas, scelte dalle produttrici Universal Studios e Williamson Submarine Film Corporation per la trasparenza delle loro acque. La WSFC è la casa di John Ernest Williamson, che insieme a suo fratello George, ha appena inventato la photosphere. È una sfera di metallo da oltre 4 tonnellate, con un oblò davanti e un tubo sopra che la collega a una barca in superficie e la rifornisce dell’ossigeno necessario alla sopravvivenza del cameraman. Ma mentre Eugene Gaudio riprende l’attacco di uno squalo gigante dalle viscere dell’Atlantico qualcosa va storto. È lo stesso cosentino a ripercorrere quei momenti in un’intervista al New York Tribune.

    Eugene Gaudio e l’incidente durante le riprese

    «Il braccio telescopico con cui ero stato calato si era rotto nei pressi della chiatta quando la camera d’acciaio dentro la quale lavoravo colpì un cumulo di sabbia e vi si conficcò. Trainata dal nostro yacht, la chiatta si mosse, piegando il braccio telescopico al punto tale che tutti i tubi che convogliavano l’ossigeno finirono schiacciati, privandomi dell’aria. Sigillato in quella bara marina, telefonai freneticamente in superficie fornendo informazioni sulla mia situazione».

    Ma la barca si trova quasi venti metri più su e la telefonata risolve poco. I soccorritori non arrivano. Peggio: durante le manovre per disincagliare la photoshere e sostituire il collegamento tra Eugene Gaudio e il resto della troupe il braccio telescopico da cambiare si rompe definitivamente. Dal tubo che doveva portare ossigeno adesso entra l’oceano.

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    Un’illustrazione d’epoca mostra il funzionamento dell’invenzione dei fratelli Williamson

    È ancora il cosentino a raccontare il seguito: «La mia unica speranza era quella di uscire da quella camera prima che si riempisse d’acqua. Non c’era alcuna scala. Allora mi arrampicai all’interno di quel camino d’acciaio, aggrappandomi alle sue giunture, mentre l’acqua mi respingeva indietro con forza crescente. Ne ho ingoiato ansimando mentre cercavo di respirare, lottando lungo quei cinquantacinque piedi (una quindicina abbondante di metri, nda) di tubo pieno di acqua di mare, finché sembrò che i miei muscoli avrebbero presto smesso di rispondere ai miei frenetici sforzi».

    Nove vite

    Quando dall’estremità in superficie del tubo sbuca tra le onde la testa insanguinata di Eugene sulla barca hanno perso ormai le speranze. Ma il direttore della fotografia è ancora vivo, sebbene svenga pochi istanti dopo per lo sforzo immane compiuto in assenza d’aria.
    «Abbiamo lavorato come delle furie, ma non ci aspettavamo di vederti vivo quando ti abbiamo tirato su: hai sicuramente nove vite, come un gatto», gli dirà il regista Paton vedendolo riprendersi dopo la disavventura sottomarina.

    Troupe e cast di “20.000 Leagues Under The Sea”: Eugene Gaudio è l’ultimo in alto a destra

    Se davvero erano nove, quella rischiata alle Bahamas per Eugene Gaudio è l’ultima vita a disposizione.
    L’Oscar non esiste ancora, ma i risultati ottenuti con Ventimila leghe sotto i mari gli portano premi e apprezzamenti da tutti gli addetti ai lavori. Gli resta poco tempo per goderseli però. Nell’estate del 1920 un attacco di appendicite acuta lo porta in ospedale quando ormai è già troppo tardi. La peritonite lo uccide il primo agosto, quando ha ancora soltanto 33 anni. Alla notizia del decesso la diva Alla Nazimova – protagonista di più film con Eugene Gaudio alla fotografia – infrangerà la regola che la vedeva sempre assente alle première delle pellicole di cui era protagonista. Invita centinaia di colleghi all’anteprima di Madame Peacock (1920) all’Hollywood Theatre e dona l’intero incasso dell’evento alla vedova del cosentino, Vincenzina Pietropaolo, anche lei calabrese emigrata da Amantea.

    Il “fotografo violinista”

    E Tony Gaudio, il fratello di Eugene? Sarà il primo premio Oscar italiano qualche anno dopo, da direttore della fotografia di Avorio nero (1937). Otterrà anche altre cinque nominations agli Academy Awards durante una carriera che lo consacra tra gli indimenticabili della Settima arte. A lui si devono innovazioni tecniche come “l’effetto notte”, quella nuit américaine celebrata decenni dopo da Truffaut nel suo più sentito e famoso omaggio al mondo del cinema d’oltreoceano. Ma anche dispositivi per la messa a fuoco, tecniche di utilizzo delle luci, le prime riprese in Technicolor.

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    Eugene e Tony Gaudio

    Questa però è un’altra storia, andata avanti fino al 1951, trentuno anni dopo la morte del fratello Eugene. Quello che – come scrisse nel 1922 The American Cinematographer – «guardava la propria macchina da presa come un violinista guarda il suo strumento, con tenerezza e affetto».

  • Il mare blues di Roccella Jonica

    Il mare blues di Roccella Jonica

    Roccella Jonica: non solo il longevo Festival del Jazz e l’ormai scontata bandiera blu. Anche il “Rocca Blues Festival” – patrocinato dal Comune di Roccella – la cui ormai prossima terza edizione si svolgerà dal oggi al 31 luglio, attira nella bella cittadina schiere di appassionati della musica che affonda le sue radici nelle piantagioni di cotone del Sud degli States e nel Delta del Mississippi.

    Gli organizzatori di Radio Roccella hanno scelto un angolo particolarmente seducente per piazzare il palco. I musicisti si esibiranno infatti con le spalle il mare della Magna Graecia e davanti il Largo Rita Levi Montalcini, dove svettano due colonne monolitiche in porfido egiziano, dette Melissari dal luogo del loro ritrovamento nel 1868. Tre serate gratuite di grande musica, e non solo. Il 29 luglio aprirà la manifestazione la Freddie Maguire Band, ideale ponte tra Italia e Stati Uniti.

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    Il musicista Alberto Lombardi

    Il 30 salirà sul palco il chitarrista e performer Alberto Lombardi, che ha al suo attivo partecipazioni ai tour e collaborazioni con artisti di fama mondiale. Tra essi l’australiano Tommy Emmanuel, uno dei chitarristi migliori al mondo. Arriverà invece da Cosenza, per la serata di chiusura, la band White Bread 69, coi suoi coinvolgenti ritmi groove. Di Radio Roccella gli speaker incaricati di condurre gli spettacoli: Manuela Cricelli, Nicola Procopio e Tiziana Romeo. Non solo musica, dicevamo: il direttore artistico, Ilario Ierace, ha previsto per ogni serata, alle ore 20:00, L’AperiBlues con il DJ Set di Tony L, e alle 21:30 la proiezione di filmati d’epoca con Racconti e aneddoti del Blues, dalle origini ai giorni nostri, a cura dello speaker Gianfranco Piria, ideatore e conduttore del programma Me&Blues.

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    White Bread 69

    In sella alle Harley d’Aspromonte

    Il villaggio del “Rocca Blues Festival” ospiterà inoltre una esposizione motociclistica curata dall’associazione Harley-Davidson “Aspromunti Calabria”, una mostra fotografica, una esposizione di oggettistica di vario genere. E, per allietare il gusto oltre che l’udito e la vista, si potranno degustare prodotti tipici locali. Il “Rocca Blues Festival” costituisce l’ennesima scommessa vinta dagli animatori, tutti volontari, di Radio Roccella, emittente senza scopo di lucro e senza vincoli commerciali. Dal 1976 essa mantiene una particolare connotazione che ancora oggi, dopo quasi quarant’ anni, ci consente di poterla associare allo spirito originario che caratterizzava quelle che allora erano definite “radio libere”.  È indicativo il fatto che per l’informazione Radio Roccella si avvalga del gemellaggio con Radio Popolare, storica emittente con una ben precisa collocazione culturale e politica. Radio Roccella organizza, proprio per ancorarsi maggiormente al territorio di riferimento, un Rock Contest per giovani gruppi emergenti e segue in diretta manifestazioni come il Festival jazz ma anche congressi, eventi sportivi, teatrali e cinematografici.

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    Agli albori di Radio Roccella, storica radio libera nata nel 1976

    La roulotte di Radio Roccella

    La ciliegina sulla torta è lo studio mobile Azzurra, una roulotte vintage che da sette anni racconta quanto di rilevante accade in giro per la costa Jonica reggina e non solo. Insomma, una realtà viva e pulsante perfettamente in sintonia con una cittadina che già al primo sguardo si segnala come una vera e propria oasi, conosciuta e apprezzata da tanti in Italia e all’estero. Le ragioni di questa diversità in positivo andrebbero indagate e analizzate per cercare di esportare il modello Roccella al di fuori dei suoi confini territoriali.

  • Sussurrando alla Luna: arte, teatro e poesia a Villa Rendano

    Sussurrando alla Luna: arte, teatro e poesia a Villa Rendano

    Due associazioni e un’istituzione culturale uniscono le forze per un gran galà nel cuore dell’estate e nel cuore di Cosenza. Ci si riferisce a I Lunari, presieduta da Lia Calabria e a Sviluppo Consentia, guidata da Angelo Perrongelli che, in collaborazione con la Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”, organizzano il gran galà Sussurrando alla Luna, che si svolgerà nei giardini di Villa Rendano la sera del 28 luglio.

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    Lia Calabria, la presidente dell’associazione “I Lunari”

    Una serata di teatro, arte e musica

    Sussurrando alla luna è una serata di teatro, arte e musica, a base di monologhi teatrali, reading poetici, musica e esposizione di opere d’arte, legati da un solo filo conduttore: la luna e la sua bellezza.
    Al riguardo, dice Lia Calabria: «Ho voluto fare un omaggio alla bellezza della Luna e delle Stelle, perciò ho creato una serie di monologhi a tema, che saranno seguiti da sei canzoni. Il tutto, sarà “incorniciato” dalle tele di diversi pittori cosentini, momento artistico, curato dalla storica e critica d’arte Mariateresa Buccieri. Novità assoluta, è il momento moda, basato su collezioni a tema».

    Sussurrando alla Luna: monologhi e note

    Iniziamo dai monologhi, scritti e diretti da Lia Calabria e affidati a un nutrito gruppo di interpreti, che menzioniamo uno per uno.
    E cioè: Luca Aiello, Anna Angellina, Antonio Buffone, Marco Buoncristiano, Giuseppina Calvelli, Katia Diesse, Francesca Gaudio, Elena Massaro, Rodolfo Perri, Laura Pescatore, Cesarina Petramale, Giulia Perrongelli, Carmen Romano, Rosabella Rizzo e Giuseppe Rizzo. Le canzoni, invece, saranno interpretate da Martina Ranieri.
    Il reading, invece, si baserà sulle poesie di Mariateresa Buccieri, Melania Dorsa e Giuseppe Piluso. Ospite d’onore, Matteo Bria.

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    La cantautrice Martina Ranieri

    Sussurrando alla luna: artisti in mostra

    Seguirà la mostra d’arte di maestri cosentini, illustrata dalla storica e critica d’arte Mariateresa Buccieri.
    Tra gli artisti: Sandra Assisa, Emilia Berlingieri, Rita Canino, Rossana Chiappetta, Maria Clemente, Antonio De Luca (Anioti), Rosetta Juele, Francesca Lo Celso, Letizia Lucio, Brunella Patitucci, Mariella Perrotta, Sabina Salituro, Vincenza Salvino, Alessia Santamaria, Elena Semina.

    Intermezzo culturale

    Seguiranno due momenti culturali: Conversazione Al di là dei fiumi, l’Ottocento «sentimentale» di Villa Rendano (1873-1891) e Mons Trilius con l’esperta d’arte e guida turistica Paola Morano e lo storico Stefano Vecchione e Inno alla Creatività, a cura della professoressa Maria Gabriella Gallo.

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    L’artista Elena Semina

    Una sfilata per concludere

    In chiusura di serata, il fashion party e le creazioni dell’Accademia New Style, scuola di moda e di design di Franca Trozzo e della creatrice di moda Vincenza Salvino.
    Sfileranno con gli abiti della collezione: Angelica Aiello, Drusy Caputo, Federica Filice, Francesca Gaudio, Martina Sicoli, Irma Zicarelli.

  • Corrado Alvaro, dalla Russia con amore

    Corrado Alvaro, dalla Russia con amore

    «Guardo giù nella strada e mi ricordo di colpo l’impressione che ebbi all’arrivo, quando, passato l’arco di trionfo imperiale sulla piazza Sadowa, uguale a quelli che da Roma emigrarono nel nord, mi trovai tra la folla di Mosca».

    Scrittore fra i più significativi del Novecento e sceneggiatore e intellettuale di prim’ordine, è stato anche un apprezzatissimo giornalista e reporter di viaggio. Partito dall’entroterra della Calabria – era nato nel 1895 a San Luca, sperso cuore dell’Aspromonte –, Corrado Alvaro visitò il mondo spingendosi fino in Russia, alimentando, più che appagando, con l’errare la sua inestinguibile sete di conoscenza verso tutto quello che era incognito e straniero. Sete che aveva come origine l’inesauribile passione per la letteratura, su tutte quella francese – nel 1923 tradusse parti de La prigioniera, quinto volume della Recherche di Marcel Proust – e quella, appunto, russa.

    La Russia di Corrado Alvaro

    E per un uomo occidentale la Russia, oggi come ieri, è senz’altro il primo e più immediato approdo corrispondente a un mondo cosiddetto “altro”. La misteriosa Russia – o per meglio dire, la Repubblica socialista russa, principale repubblica dell’Unione Sovietica sorta nel 1922 sulle macerie dell’Impero russo a seguito dell’aspra guerra civile e del Terrore rosso – catturò la curiosità di Corrado Alvaro. Lo scrittore calabrese ebbe modo di visitarla fra la primavera e l’estate del 1934 come inviato speciale de La Stampa.
    Quell’eccezionale relazione di viaggio uscì a puntate sulle colonne del quotidiano torinese, che al tempo dirigeva Alfredo Signoretti. Mondadori, poi, nel 1935 la raccolse nel volume I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia Sovietica, pubblicato poi anche col titolo, editorialmente più efficace, Viaggio in Russia.

    Per Corrado Alvaro l’attività giornalistica fece da preludio a quella letteraria. Già nel 1916 – durante la Grande Guerra e ancora prima di contrarre matrimonio con Laura Babini – il sanluchese cominciò a collaborare per alcune testate come Il Resto del Carlino, Il Corriere della Sera, Il Mondo, Il Becco giallo. Quei lavori anticiparono la pubblicazione, nel 1917, dei suoi primi versi, raccolti nel libricino Poesie grigioverdi, delle sue prime novelle, La siepe e l’orto, edite nel 1920, e soprattutto del suo primo romanzo, L’uomo nel labirinto, pubblicato nel 1926.

    Antifascismo e amicizie

    Furono anni decisivi per il Paese. Il 1922 coincise con l’avvento del Fascismo e l’inizio di un ventennio che segnò in maniera indelebile la storia italiana del Ventesimo secolo. Alvaro mantenne una certa distanza dal Partito nazionale fascista e fu fra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Ciononostante la sua attività culturale non fu ostacolata dal regime, come accadde invece a molti altri uomini di cultura dell’epoca.

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    Margherita Sarfatti, musa di Benito Mussolini

    Collaborò col Popolo di Roma, testata filofascista di cui, per un breve periodo nell’estate del ’43, appena conclusa la parabola antidemocratica dello Stivale, ricoprì anche il ruolo di direttore. Taluni spiegano la clemenza del regime verso l’intellettuale calabrese attraverso la grande amicizia con Margherita Sarfatti, giornalista, critica d’arte, confidente e musa ispiratrice di Benito Mussolini.
    Nel 1934, anno di altissimo consenso del popolo italiano verso il governo Mussolini – precedette le “imprese” fasciste in Abissinia che assai entusiasmarono le piazze del Belpaese –, Corrado Alvaro ottenne quindi l’incarico dalla Stampa di realizzare un reportage nella Russia di Stalin.

    Dopo la Rivoluzione del 1917

    Si trattava di visitare un pianeta per definizione inintelligibile, che ha da sempre effuso un miscuglio di seduzione e repulsione, dato vita a scenari distorti e sentimenti contrastanti nell’uomo occidentale, attratto da quel misterioso – perché distante e perciò oscuro e poco raccontato nella sua vera essenza – mondo al di là del trentesimo meridiano Est. Un sentimento che ha origini antiche e senza dubbio ingigantitosi con la Rivoluzione bolscevica del 1917, il crollo dell’Impero degli zar e l’istituzione dell’Unione Sovietica col suo modello economico e sociale che proponeva di “esportare” nel Vecchio Continente.

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    Lenin incita la folla russa: la Rivoluzione ha inizio

    La Russia, la terra del samovar, della balalaika e della banja, delle cupole a cipolla e delle foreste di larici e betulle, il Paese venato dai lunghissimi fiumi: la Lena, il Volga, l’Oka, il Don, l’Ob’, l’Amur, l’Enisej. Un universo in bilico tra Oriente e Occidente che nel Novecento, dopo la Rivoluzione, ha ammaliato ed entusiasmato sempre più cronisti e scrittori. Fra questi, anche Joseph Roth e Stefan Zweig, autori, fra il 1926 e il 1928, di relazioni di viaggio poi confluite in note opere letterarie.

    «Una grande scuola di addestramento»

    Corrado Alvaro intraprese il suo viaggio in Russia nella primavera del 1934, nel bel mezzo del secondo piano quinquennale. L’anno che si chiuse con l’assassinio di Sergej Kirov, alto dirigente del Partito e sodale di Stalin. L’evento scatenò la reazione violenta del Piccolo Padre, ossessionato da possibili tradimenti, anche e soprattutto orditi nella sua cerchia di fedelissimi,. Iniziò così la stagione di repressione e sangue passata alla storia col nome delle Grandi purghe.
    Dopo il diluvio della Rivoluzione d’ottobre – intenzionata, riprendendo una affermazione di Viktor Šklovskij, a rifare «l’uomo dalle budella» – e la nascita del nuovo Stato, gli anni Trenta in Unione Sovietica videro affievolirsi l’illusione del comunismo universale di matrice leniniana. Continuarono comunque a essere anni di enormi stravolgimenti. In quel decennio, segnato dal terrore delle epurazioni staliniane, nacquero nuove classi sociali, esplosero le migrazioni interne, si sfruttarono fino all’impoverimento le terre. L’URSS diventò, fra trionfi e fallimenti, il laboratorio di un nuovo modo di vivere.

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    Cittadini sovietici in un gulag durante le Grandi Purghe

    Nel Paese, sconfinato, multietnico e multilingue, si susseguirono i tentativi di instaurare una convivenza civile fra tutte le etnie che lo popolavano – erano 170 milioni gli abitanti nei Soviet a quel tempo –, comprensibilmente intontite da quella Rivoluzione che in una manciata d’anni aveva provocato un epocale cataclisma, cancellando tre secoli di zarismo autocratico. «Una grande scuola di addestramento alla vita civile e ai rapporti umani»: così fotografò Alvaro l’Unione nel ’34.
    Lo scrittore, sulla scorta di una grande cultura “russa” costruita e consolidata attraverso incessanti studi privati, negli articoli su La Stampa raccontò i mutamenti sociali del Paese, la realtà in parte nascosta della Russia sovietica.

    Corrado Alvaro e la propaganda in Russia

    Descrisse la nascita di una nuova borghesia, non si sa quanto diversa rispetto a quella antecedente, detestata, vituperata e annientata. Riferì della fame e delle carestie che, dopo l’holodomor ucraino del ’32-’33, ancora erano diffuse in numerose aree rurali della sterminata Unione. Ma, soprattutto, si soffermò sull’utilizzo subdolo della propaganda, così instradante della condotta del popolo russo. Memento che ne accompagnò l’intero itinerario fu infatti badare alla potenza degenerante della propaganda: «Tra i fenomeni che formano e limitano il suo carattere bisogna annoverare questo in primo piano”.

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    Il poeta Vladimir Majakovskij

    L’autore di Gente in Aspromonte scrisse pagine civili, dedicandosi all’ostracismo, alle vessazioni e alle espulsioni ordinate e indotte verso la categoria degli intellettuali. Quella generazione stava dissipando i suoi maggiori poeti: Esenin si era suicidato, o era stato suicidato, nel 1925; Majakovskij si era sparato nel 1930, Mandel’štam sarebbe morto in un gulag nel ’38 e Cvetaeva in esilio negli Urali nel ’41.

    Un tour sotto controllo 

    «A Mosca! A Mosca!», reclamavano le protagoniste delle Tre sorelle di Anton Čechov. E come ogni viaggio in Russia che si rispetti, oggi al pari di allora, quello di Corrado Alvaro non poté che principiare da lì. Da Mosca, la Terza Roma, divenuta capitale nel 1918, dopo il diluvio. Nella città de Il Maestro e Margherita, Alvaro fu colpito istantaneamente dal suo ritmo immutabile, dalla «uniformità della sua gente» che saettava attorno alle sacre mura rosse del Cremlino e lungo i viali attraversati dai tranvai e tappezzati da giganteschi cartelli propagandistici, satirici e anticlericali.

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    La vetrina di un negozio nella Mosca degli anni ’30

    Lo scrittore andò per parchi urbani, circhi, teatri di carattere didattico – un’istituzione in URSS: «Tutta la Russia è oggi una grande messinscena» –, accompagnato come ogni burgiuà, ogni borghese occidentale – una parola che in quella Russia emetteva il suono di un insulto –, da una guida. E anche qua le virgolette sarebbero doverose, ché è ben riduttivo definire guida una persona che vigila ogni tuo passo, che, con un «sistema di investigazione minuta e quotidiana», supervisiona e affianca l’intero soggiorno dello straniero senza mai proferire una parola più del necessario.

    Le “speciali guide turistiche sovietiche” trasmisero durante il viaggio in Russia la loro disciplina ad Alvaro. Lo catechizzarono, facendogli capire con gli sguardi e i silenzi che non facesse domande inappropriate, che non si incapricciasse se l’itinerario prestabilito subisse delle modifiche improvvise e immotivate. Un rigore che possiamo immaginare assai indigesto per il viaggiatore, senz’altro curioso di posare gli occhi anche su un minuscolo frammento in più di quell’inafferrabile Paese. Di quel «rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma», per dirla con una celebre espressione di Winston Churchill.

    Da Mosca a Stalingrado, da Pietroburgo a Baku

    Tuttavia, la percezione dell’atmosfera illiberale vigente non condizionò la straordinaria inchiesta in Russia di Corrado Alvaro. Anzi, all’uscita de I maestri del diluvio un giudizio d’aria bolscevica si espresse dicendo che lo scrittore si era lasciato andare a «un nebuloso sentimentalismo».
    Il lungo viaggio di scoperta vide товарищ Alvaro soggiornare e visitare molte grandi e piccole città oltre a Mosca. Dimorò a Bolscevo, villaggio dell’entroterra della capitale, esplorò la grigiastra Gor’kij – l’odierna metropoli di Nižnij Novgorod, ribattezzata in omaggio allo scrittore Maksim Gor’kij, apprezzato da Stalin –, poi Kazan, Rostov – la più mediterranea delle città sovietiche –, Saratov, Samara, Stalingrado – oggi Volgograd ma interessata da un processo, in stato avanzato, volto a ripristinare il precedente nome.

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    Il palazzo di Caterina a Tsarskoye Selo, subito fuori San Pietroburgo

    Lo scrittore e intellettuale fece visita agli sfavillanti palazzi di Caterina e Alessandro a Carskoe Selo, poco fuori Pietroburgo – realizzati rispettivamente dagli architetti di origini italiane Francesco Bartolomeo Rastrelli e Giacomo Quarenghi –, luoghi che hanno segnato la storia del Novecento. Proprio da qua partì verso l’esilio degli Urali e la barbara esecuzione di Ekaterinburg del 17 luglio 1918 l’ultimo zar Nikolaj Romanov con la famiglia.
    «Sono belle le sere sul Volga. Dalle rive scendono gli armenti di pecore ad abbeverarsi alla corrente, bianche e luminose, e schiariscono dei loro riflessi l’acqua già violacea».
    Il sanluchese viaggiò per incalcolabili ore in treno e a bordo di vapori e battelli, lungo i tanti e multiformi scali della Madre Volga. Si spinse fino al Caucaso, a Baku – capitale dell’Azerbaigian dopo la dissoluzione dell’URSS –, la città del petrolio, «ossessione del mondo moderno» senza il quale “non è più possibile ormai né pace né guerra, né morte né vita», pensiero unico nelle piazze della città «del fuoco eterno».

    Corrado Alvaro e il desiderio di perdersi in Russia

    Lo scrittore coprì le enormi distanze sovietiche in uno stato di dormiveglia, trasognato, avvinto da un inedito stato d’animo russificante, quasi dimentico di sé e dell’immensità intorno, di una terra «troppo sperduta per essere umana».
    Il viaggio in Russia sortì un curioso effetto in Corrado Alvaro. In più di una circostanza, il calabrese si lasciò solleticare anche da inquiete fantasticherie e desideri d’oblio: «Penso di scendere dal treno, di perdermi in questo spazio che è tutta una strada, trovarmi in qualche luogo a lavorare la terra, nascosto agli occhi di tutti, fra gente remota, e di me non si saprebbe più nulla, via tutto quello che ero ieri, via il passato, via l’avvenire. Cancellarsi e perdersi in un’altra dimensione del mondo. Questo pensiero mi balena più volte durante il viaggio».

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    Un cavallo pascola nella sconfinata steppa russa

    I bisogni e le speranze del popolo

    Il lento e diversificato viaggio gli fu propizio pure per lasciarsi andare a descrizioni di paesaggi, di cieli, di atmosfere, ora europee, ora asiatiche. I lunghissimi prospekt delle città, contornati da grigi palazzoni identici fra loro e inframezzati dalle rovine delle case vecchie, i paesaggi remoti delle steppe e cinti dagli impenetrabili monti, le aree arse e scabre che gli ricordarono i villaggi d’Oriente o un paesello appena sconquassato da un terremoto.

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    Donne al lavoro in un gulag sulle isole Soloveckie

    Nei mesi in Russia, Corrado Alvaro visitò campi collettivi, fabbriche di trattrici, università e accademie, redazioni dei giornali delle fabbriche. Incontrò ufficiali dell’esercito, operai, “kulaki, i braccianti trasformati, dalla sera alla mattina, in operai per rispondere alle esigenze produttive del nuovo Stato – i pochi ancora non risucchiati nell’articolato sistema penale dei gulag che, dalle terribili isole Soloveckie ai campi lungo il fiume siberiano Kolyma, non risparmiava nessun presunto nemico del popolo. Nel solo biennio ’34-’35, secondo i documenti dell’NKVD, il commissariato del popolo per proteggere la sicurezza dell’Unione, il numero dei prigionieri nei vari campi sfiorava il milione di unità.
    E, ancora, vide pastori, artisti, ingegneri, cittadini di estrazione e cultura varia, tutti uniti dal comune sentimento, assai lungi dal lenirsi dopo lunghissimi secoli di fame e subalternità, di aperta ostilità verso la vecchia civiltà borghese. Ma tanto accecati da non vedere il mostro che gli si aggirava dentro casa.

    Memorie da un mondo in costruzione

    Corrado Alvaro parlò ma soprattutto osservò, ché «la vita quotidiana è scritta in viso a quelli che passano». Ascoltò i loro discorsi, le loro esigenze, le loro speranze. Tutto ciò senza cedere al giudizio, ma col solo intento di raccogliere «il maggior numero di memorie» e di incastrarle come tesserine di un puzzle di migliaia di pezzi al fine di consegnare una testimonianza oggettiva della Russia sovietica.
    Eppure, lo abbiamo intuito, di influenze esterne ne avvertì. Lo scrittore ravvisò tutta la precarietà di quel mondo in costruzione, ma pure una forma di pericolo imminente, indefinito ma constante, così vivo sui volti dei russi – già marchiati dal «segno degli anni tempestosi» della Rivoluzione –, così percepibile nell’aria che riportò alla mente del fine intellettuale le letture circa i moti italiani del 1848.

    Corrado Alvaro: La Russia? Atmosfera d’emicrania

    «Guardo dal finestrino le vecchie case di legno della campagna d’un tempo come resti di una vita antica. I boschi di abeti seguitano all’infinito orlando l’orizzonte pallido della lunga sera».
    Attraverso la visita ai vecchi villaggi punteggiati di isbe, alle nuove città senza acquedotti e fognature, ai kolchoz, i campi collettivi, e ai sovchoz, i poderi gestiti dallo Stato, nel suo prezioso resoconto di viaggio lo speciale burgiuà descrisse la vita socialista collettivizzata, il fermento culturale, le folle in piazza, nei teatri, nelle biblioteche, nei circoli culturali; una società viva, in movimento, in cui ogni angolo era buono per un comizio. Lo scrittore non poté non notare i discorsi e le urla, i congressi estenuanti e le disquisizioni interminabili – «un’atmosfera d’emicrania» – che si tenevano dappertutto: nelle piazze, nei salottini, nelle fabbriche.

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    Un congresso del PCUS, il Partito comunista dell’Unione Sovietica

    Attraverso le colonne della Stampa e poi le pagine del suo libro, Alvaro diede il polso di un Paese, la Russia, pieno di contrasti. Di una civiltà traboccante contraddizioni, in attesa di formare una propria identità, una terra d’illusioni e miraggi in cui era facile confondere realtà e finzione. Analizzò i diritti dei lavoratori e delle donne, rifletté sui problemi materiali dell’URSS, pesandoli di minore gravità rispetto a quelli morali e umani che già allora angustiavano l’Occidente. Rimase stupito e scosso dalla scarsissima reperibilità e dei prezzi esorbitanti dei generi di prima necessità – pane, burro, uova, farina, frutti di bosco –, e dell’arretratezza per quel che concerneva lo sviluppo delle infrastrutture.

    L’odio verso gli occidentali

    «I russi, dalla crudezza della loro vita, si raffigurano terribilissime le nostre condizioni; noi di lontano li stimiamo più progrediti; essi noi ingiusti e crudelissimi; ognuno secondo il carattere della sua civiltà».
    Da un lato la società russa concedeva ai turisti privilegi inimmaginabili per il popolo (a fini propagandistici, ovviamente, e frutto spontaneo ma avvelenato di una “stima diffidente” verso gli occidentali). Dall’altro denunciava «le condizioni del proletariato occidentale oppresso dai capitalisti», ché, scrisse Alvaro, «se con l’odio si fa poco nella vita, nell’arte è un buon concime come ogni sentimento forte».

    In vero, screditando il modello occidentale fascista – per i russi, dal lago dei Ciudi, al confine con l’Estonia, e fino alle sponde atlantiche di Lisbona, erano e sono tutti occidentali fascisti –, la monotematica comunicazione di regime della Terra dei Soviet provava a nascondere sotto il tappeto gli enormi problemi locali, esaltando le gesta di un Paese che non c’era, reclamizzando i cambiamenti di un Paese che nelle sue periferie – il Paese vero – non era cambiato per niente rispetto ai decenni precedenti.

    Dal sogno di Lenin all’incubo di Stalin

    Girovagando per l’Unione, Corrado Alvaro tentò inoltre l’impresa di indagare lo spirito dei russi, il loro inscalfibile patriottismo intriso di fatalismo. Ne cercò la fonte scavando, sempre più disilluso, i temi delle emigrazioni interne dagli angoli ultraremoti del Paese, dalla sconfinata steppa ai grandi centri, e del sistema giudiziario sovietico, nazionale e locale.
    Si imbatté nel distacco e totale disinteresse dei russi verso il denaro e il domani – tematiche così calde invece per l’uomo occidentale. Nelle pagine di di Alvaro si parla dell’industrializzazione forzata, dei salari da fame – “addolciti” con le tessere per il pane –, del potere d’acquisto pari a zero, dell’abitudine alle ore straordinarie di lavoro gratuite cui ogni buon Homo sovieticus era chiamato a beneficio della collettività.

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    Lenin e Stalin

    Denunciò a riguardo l’intenzione del governo di creare un novyj sovetskij čelovek, un uomo nuovo sovietico senza interessi privati, «spoglio d’ogni influenza di vita occidentale», sacrificato al fine ultimo del benessere collettivo che sarebbe un giorno giunto. «Se i russi hanno voluto abolire ogni segno della vita privata, vi sono riusciti pienamente».
    «L’arcangelo che liberi l’uomo dal lavoro duro non è venuto e non verrà mai, e le rivoluzioni che promettono il paradiso sono inebrianti per pochi giorni, il tempo in cui l’umanità si prende un’amara vacanza, prima di tornare alle sue leggi».
    Lo scrittore calabrese comprese che il sogno di Lenin di realizzare un comunismo globale era pressoché fallito, che «l’esperimento bolscevico», in mano a Stalin, si era oramai irrimediabilmente deformato. In una frase, riportò con largo anticipo tutti gli squarci di un disegno che sarebbe ufficialmente venuto meno svariati decenni più tardi.

    Russi e calabresi

    Quello di Corrado Alvaro per la Russia non va letto come un fatto così fuori dall’ordinario, bensì una passione che non poteva non accendersi, come ravvisa Francesca Tuscano nel saggio Alvaro tra la Calabria e la Russia. Tradizione e traduzione contenuto in Corrado Alvaro e la letteratura tra le due guerre.
    La cultura arcaica, etica e gerarchica – sotto certi aspetti e in taluni casi anche di stampo matriarcale – dell’Aspromonte di Alvaro, di fatti, era più vicina di quanto non si potesse immaginare a quella ortodossa russa.
    Aspromontani e russi uniti da una comune vita rurale, tradizionale fino all’immobilismo, dalla fierezza con cui affrontavano le difficoltà. Popoli abituati a soffrire, legati dalla visione fatalistica dell’esistenza, dalla capacità a resistere a tutto, alle invasioni, alla povertà, financo dalla loro inclinazione a inserire nei loro racconti particolari sempre un po’ cruenti, dal mescolare assieme vita e morte.

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    Contadini russi all’epoca del viaggio dello scrittore calabrese

    E poi la tradizione migratoria, «l’eterno nomadismo» dei sovietici e la “vocazione” all’emigrazione dei calabresi, popoli amabili e pittoreschi, ospitali e diffidenti, fedeli alla propria civiltà, entrambi.
    Due popoli e due culture così geograficamente lontane ma affini, per ingenuità e quella felicità primigenia che resisterebbe anche agli orrori più belluini, quelli che annienterebbero altri popoli.
    «Nei suoi viaggi Alvaro riuscì sempre a trovare ogni più piccolo segno di umanità in tutte le situazioni, a tutte le condizioni, per quell’amore verso l’uomo e la realtà che possiede chi sa di avere dentro di sé i segni di una civiltà alla quale sa di appartenere. E con civiltà si intende quella antropologica e sociale delle proprie origini».

    Contro i totalitarismi

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    Una vecchia edizione de “L’uomo è forte” di Corrado Alvaro

    Lo scrittore di San Luca non smise di interessarsi alle vicende russe e il mondo sovietico continuò a pulsare dentro il suo petto. Curò, assieme a Raissa Naldi, l’antologia Poeti russi del secolo XX. Tradusse racconti di Fëdor Dostoevskij e Lev Tolstoj. Tessé una collaborazione con Tat’jana, seconda dei tredici figli del grande scrittore di Guerra e pace, e di Sof’ja Tolstaja. Ridusse per il teatro I fratelli Karamazov. Nel 1937 iniziò una collaborazione con Omnibus di Leo Longanesi, incentrata sempre sul globo sovietico. E nell’anno seguente diede alle stampe uno dei suoi romanzi più conosciuti, strettamente legato al viaggio in URSS e ideale conclusione delle pagine russe del ’34: L’uomo è forte.

    Esplicita critica verso il totalitarismo dei regimi – in primis quello, toccato con mano, della Russia di Stalin – e in generale scritto di denuncia «delle condizioni dell’uomo sotto ogni oppressione», L’uomo è forte fu vietato in Germania, mentre in Italia, seppur visto con sospetto, venne diffuso ricevendo addirittura nel 1940 il Premio dell’Accademia d’Italia.

    Corrado Alvaro, la Russia e lo Strega

    L’esperienza in Unione Sovietica ritornò anche nel 1950 nel memoir Quasi una vita, vincitore l’anno successivo del Premio Strega. Alvaro, tutt’oggi unico calabrese ad avere ottenuto il più ambito premio letterario italiano, superò nella finale, cristallizzata come quella della “grande cinquina”, fuoriclasse della scrittura come Carlo Levi, Alberto Moravia, Mario Soldati e Domenico Rea.

    Documento illuminato e di grande valore storico sulla società russa alle porte della Seconda guerra mondiale – o Grande guerra patriottica come viene chiamato, da loro che ne sono usciti vincitori, il conflitto dai russi –, il reportage seguì quelli realizzati negli anni Venti in Francia (Lettere parigine) e nel 1931 in Turchia (Viaggio in Turchia) e confermò la statura di scrittore e intellettuale universale di Corrado Alvaro, reporter cosmopolita, viaggiatore umanista, acuto intuitore delle trasformazioni della società e attento esploratore sempre nel rispetto di realtà antropologiche e culturali trasversali e “altre”; uno scrittore non dimentico delle sue radici e al contempo orientato sempre più in là, alla ricerca di interrogativi e risposte validi a ogni latitudine, per ogni civiltà.

     

  • Il reale senza reality: il mio Marc Augé

    Il reale senza reality: il mio Marc Augé

    Era il 2006. In quell’anno recensivo su Diario della settimana il primo romanzo scritto da Marc Augé. L’antropologo e pensatore francese era già noto in tutto il mondo per il successo del suo libro più famoso, quello sui non luoghi. Non un saggio dei suoi più fondamentali quindi, ma un’opera di narrativa, apparentemente eccentrica. Una storia anarchica e antiretorica, lieve e profonda, intessuta d’ombre, gentile e libertaria, come era lui. Il libro fu tradotto e pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri (2005). Si intitolava La madre di Arthur. Era un romanzo teso come un noir che in realtà era un apologo sulla libertà e l’immaginazione, temi molto cari e sfondo ideale di tutto il pensiero di Augé.

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    Un giovane Arthur Rimbaud

    L’amico (non) ritrovato

    Vi si raccontava di un antropologo parigino scapolo impenitente e in crisi col proprio lavoro, con i viaggi, le relazioni, la vita quotidiana – Jean, lo stesso Augé – che cerca ad un certo punto di risalire alle ragioni dell’intricata sparizione di Nicholas. Nicholas è suo amico dall’infanzia ed è scomparso. Docente universitario come lui, alter-ego e compagno di lotte politiche giovanili, Nicholas fa perdere le sue tracce in una fuga improvvisa e misteriosa come quella di Rimbaud in Africa. Jean si mette allora sulle poche impronte lasciate in giro dall’amico, convinto che il suo «complice di sempre» gli abbia intenzionalmente consegnato degli indizi da decifrare.

    Marc Augé, il cui talento letterario e narrativo era già godibile nei suoi testi più noti, assumeva in quel libro forme più originali e persuasive, fuori dal classico armamentario di servizio del lessico oggettivo proprio della scrittura argomentativa da studioso sul campo. Dal saggio al romanzo, dall’analisi al plot, è il salto di genere che Augè compie con gustoso e partecipato divertimento. L’amico Nicholas, acuto studioso di Rimbaud e autore di un’eterodossa quanto misconosciuta biografia del poeta, decide improvvisamente e senza apparenti ragioni di non dare più notizie di sé alla moglie Isabelle e alla signora Duprez, la tirannica madre di lui. La moglie allarmata si rivolge a Jean, ex sessantottino, libertino, ex docente universitario di etnografia, amico e complice del marito, perché la aiuti a ritrovare Nicholas.

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    Gli aeroporti sono tra i non-luoghi descritti da Marc Augé

    Un’odissea minore tra aeroporti e metropolitane

    La madre di Nicholas indispettita dalla fuga del figlio fornisce a Jean la traccia di pochi indizi criptici che orientano le ricerche lontano da Parigi, verso l’amore per un’altra donna e una seconda vita in un eden caraibico. Inizia così una sorta di Chi l’ha visto? la cui trama gialla si aggrappa agli specchi simbolici di una realtà diffratta, tra chiose autobiografiche e bizzarrie che intrecciano le ipotesi sulla fuga di Jean a un ricalco della spericolata biografia di Rimbaud.

    Ruminata nel ventre surmoderno di una Parigi che appare agli occhi dei suoi protagonisti una metropoli ormai troppo ovvia per essere vera, e che invece Augè sa raccontare ancora con crudele e svagato acume antropologico, la fuga dell’amico apre sulla realtà uno sguardo a giro d’orizzonte. Jean si sposta avanti e a ritroso. È l’occasione per ricapitolare le proprie vite, mescolate alla quotidianità etnografica di un’odissea minore che si compie tra aeroporti e metropolitane, facce e incontri interrogativi, in mezzo a periferie e location turistiche colte nella banale e smagata visione di un contemporaneo anodino e dislocato.

    In fuga con Rimbaud

    La storia ordita da Augè resta leggera e narrata con stile e abilità. Mantiene nel suo sviluppo un profilo volutamente basso e antiretorico attraversato da un’ironia lieve e da uno spleen amarognolo, senza però rinunciare a colpi di scena e capovolgimenti di prospettiva piacevoli e imprevedibilmente letterari. La storia ancora una volta si chiarifica altrove, in un viaggio, esperienza chiave della scoperta di sé, ultima frontiera intima della lucida teoresi di un Augé che si immerge nella solitudine affollata del mondo globalizzato. La verità sulla sorte dell’amico cercato da Jean ritorna in luce rivelando una condizione sgradevole e spiazzante: «Rimbaud non ha mai smesso di fuggire, di scappare».

    Perché scappava Rimbaud? E perché scappa Nicolas?, l’amico-ombra di Jean, alter ego vicario dell’Augé narratore che ne segue le mosse? La domanda vale per tutti e la risposta e di quelle che oggi ci fanno problema: per evadere dalla “mediocrità soddisfatta” e dall’ipocrisia di un “eterno presente” senza più bellezza, senza speranze e senza miti. È già qui il succo anarcoide e sulfureo dell’etnografia del sé di cui parlava l’Augé di questi sui ultimi tempi di eclissi. Fine della società post-moderna, avvento del relativismo e della società “senza finalità”. Non resta che tagliare la corda come ha fatto Nicholas, sottrarsi, scompaginare i piani, sfuggire al conformismo, come in un verso araldico di Rimbaud: “Ho avuto ragione in tutti i miei sdegni, poiché io evado! Evado!”.

    Marc Augé

    Marc Augé contro ogni conformismo

    Con questo apologo Augé sembra dirci che brancoliamo ormai nella confusione, nel caos e nel pericolo del post-tutto. Neanche gli antropologi sanno più che pesci pigliare. Il diritto alla diserzione amorosa, l’altrove (persino l’esotico volgare dei turismi di massa post-tsunami) sono forse l’ultima frontiera che resta per immaginarci diversi da un mondo oscuro e «de-realizzato», avvolto da quell’angoscia «apparentemente priva di oggetto» che avvelena il nostro senso del tempo.

    Il rimedio è uno solo, etico: «Strappati al collante della storia, che ti coinvolge in azioni cretine o cruente, menzogne, apparenze, sproloqui». Anche se in fondo «non è possibile sfuggire alle proprie origini e tutto sommato è più facile allontanarsi fisicamente che col pensiero». Ma resta sempre la libertà, la scelta estrema: «Una volta messa la propria vita a distanza… ritirarsi, assentarsi». Contro ogni conformismo: «Si doveva, si deve essere screanzati. Senza delicatezza. E scappare. Scappare via, sparire, rimanere lì forse, non tanto distante, ma invisibile, testimone sarcastico e stupito della propria scomparsa».

    Etnofiction

    In questo libro divertente e pensoso l’antropologo si trasforma in un autore narrativamente e umanamente atipico. Augé infatti smesso armamentario di servizio dello studioso sul campo e il lessico depurato dei taccuini di ricerca, con questo libro, aggiungendo più gusto di verità e il suo amore per il paradosso, ha saputo testimoniare in altro modo la perdita di predittività delle scienze umane e smonta dal di dentro le argomentazioni presuntamente oggettive e non falsificabili dell’antropologia classica. Augé ha coniato per questo suo modo di raccontare il termine di etnofiction, per definire le narrazioni ibride come quelle apparse successivamente in Diario di un senza fissa dimora e La Guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction.

    “Diario di un senza fissa dimora”, un libro di Marc Augé

    Il reale senza reality

    Augè insieme a pochissimi altri grandi francesi, pensatori e scrittori eretici, come Victor Segalen, Michel Leiris e lo stesso Levi Strauss di Tristi Tropici, ha saputo a suo modo rinnovare la cifra di un genere ibridando sapientemente antropologia e letteratura. Ci lascia un narrare con metodo etnografico che affascina per intelligenza e sapore di verità, distante anni luce dal compiaciuto e ruffiano egotismo bellettrista di certi pensatori nostrani.
    Non resta dunque che raccontare. Ciò ci rende felici, come spesso accade, o infelici, succede sempre anche questo; ma raccontare è rifare la traccia umana di qualcosa che resiste e che regge come un fatto che non sopporta di essere ridotto a interpretazione. Come un reale che non ha voglia di svaporare in reality. «Oggi è grazie alla mescolanza dei generi che passa il consenso alla schiavitù».

    Ma questa non è più certamente un’etnofiction. Come profetiche e umanissime restano altre parole che Augé consegnava a questo suo libro confessione: «Anch’io ho paura… Capita che un nonnulla – una parola, un gesto – scateni uno stato di allerta, un’attesa tanto più angosciante quanto più è apparentemente priva d’oggetto».

    L’intera parabola percorsa da Marc Augé è stata illuminata da questa sua “disubbidienza” intellettuale trasformatasi via via anche in lezione civile. Per indicare infine l’antidoto non nel primato di una qualche scienza, ma in una sensibilità culturale neo-illuminista, che riarma il pensiero libertario, l’arte e la poesia contro il primato delle cosmotecnologie, contro una condizione che vede l’individuo e la sua libertà sottomesse e soccombenti in una società caratterizzata dall’eccesso, dal caos, dal pericolo, in un mondo ormai quasi del tutto «de-realizzato». Avvolto da quell’angoscia «apparentemente priva di oggetto» che avvelena il nostro senso del tempo.

    In Calabria con Marc Augé

    Per me che ho avuto l’onore di conoscerlo e di ottenere col mio lavoro le sue attenzioni di studioso e di amico, Marc Augé è stato un maestro insuperato. Non solo come etnografo e antropologo, come narratore anarcoide e controcorrente di storie umane lievi e profonde. Ma anche, e non certo secondariamente, come persona. Un uomo indimenticabile, sempre discreto, generoso, ironico, curioso e gentile. Scrisse per un mio libro una prefazione, un contributo al mio lavoro di studioso che per me fu e resta un riconoscimento sbalorditivo per generosità e acume critico. Fui due volte sua guida per altrettanti memorabili viaggi per convegni e scorribande etnografiche, immersioni divertentissime e profonde che facemmo insieme, in auto, sulle strade e sui luoghi della Calabria.

    Ora che è mancato, a distanza di anni, considerata la fuffa parascientifica e paraletteraria che circola oggi da queste parti, consiglio a maggior ragione una attenta rilettura di ogni suo libro e contributo intellettuale. Tutto il suo immenso lascito culturale, filosofico e scientifico è una miniera di intelligenza e originalità di pensiero, un patrimonio da compitare scrupolosamente. Ogni suo scritto è effetto e conseguenza di una caratura intellettuale assoluta, fuori dell’ordinario, che è caratteristica tipica della genialità unita alla più autentica disposizione umana. La stessa che illumina quel suo primo eretico romanzo, così penetrante e appassionato di umanità. Solo i grandi come lui hanno avuto l’umiltà di scrivere senza citarsi e la grandezza di saper rimanere dietro le parole.

  • Silvestra Sesini, dagli orrori nazisti all’amore per Siderno

    Silvestra Sesini, dagli orrori nazisti all’amore per Siderno

    Cum panis… condividere lo stesso pane: il titolo calzante per lo scritto di Antonella Iaschi e per la serata dedicata a Siderno alla memoria di una donna. Si chiamava Silvestra Tea Sesini e ha vissuto più vite, ma con una costante: la condivisione col prossimo delle sofferenze, delle lotte, delle vittorie e delle sconfitte. Da antifascista, da partigiana, da attivista nella politica e nel sociale dopo la débacle del regime. Fino agli ultimi anni passati, lei nata a Biella come Silvia Francesca Luigia Tea, a Siderno.

    L’incontro è stato voluto dalla sezione ANPI insieme alla Federazione Italiana Teatro Amatori e all’associazione Il Gabbiano, col patrocinio del Comune di Siderno rappresentato dall’assessora Francesca Lopresti. Dopo l’introduzione di Federica Roccisano, la scena l’ha dominata in modo sublime l’attrice Daniela Bertini, con la regia di Daniele Matronda. Grande merito va attribuito ad Antonella Iaschi, poetessa e scrittrice che, come Silvestra Sesini, ha scelto di lasciare il Nord Italia per venire a vivere a Roccella Jonica.

    Il marito, l’amica e i nazisti

    Il suo testo – liberamente tratto da scritti della stessa protagonista, di Rosalba Topini e di Domenico Romeo – si apre con lo sguardo di Silvestra che scruta il mare. Pensa al marito Ugo Sesini, ebreo antifascista che finì i suoi giorni nel 1944 a Gusen, dopo l’internamento a Mauthausen.
    «Padre del mio unico figlio, compagno di vent’anni della mia vita», così lo ricorda Silvestra nella versione di Antonella Iaschi. «Sapessi, Ugo, quanto è stato difficile, continua, (…) rapportarmi con un figlio orfano senza fargli mancare il padre, senza fargli sentire la mia solitudine».

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    L’ingresso del campo di Mauthausen

    Poi la mente di Silvestra si volge all’amica Anna Maria Enriques, chiamandola con il cognome paterno negatole dalle leggi razziali. «Compagna di studi, di stanza, di ideali, di conquiste, di paure e di dolori, donna e partigiana disarmata, lottatrice coraggiosa che nemmeno le più atroci torture naziste hanno piegato».
    Antonella Iaschi rende bene lo struggimento della partigiana Silvestra Sesini che scrive «sulla battigia due date: i giorni in cui vi ho perso per sempre fisicamente, ammazzati come bestie dai nazisti, ma un’onda più saggia le ha cancellate (…) quelle date non sono nulla nel calendario delle nostre vite. Il ricordo delle ore trascorse insieme è il campo che ho a disposizione per coltivare frutti buoni. Per la cancrena nazista ho perso il vostro corpo, i vostri sguardi, i vostri abbracci, la vostra voce, ma non la forza di portare avanti i NOSTRI valori».

    Condividere lo stesso pane

    Silvestra – Antonella è tormentata. Non è sicura che quello successivo alla Liberazione sia stato e sia un tempo di pace effettiva, o solo un’apparenza. «(…) in realtà quella Pace non è mai nata se ancora esistono la fame e gli stenti, l’ignoranza e la sottomissione alla violenza sia nelle case che nelle strade. Se ancora nel mondo esistono decine e decine di guerre altre. In realtà quella libertà è un’apparenza e lo sarà fino a quando un solo bambino, un solo essere umano dovrà patire sopraffazioni e stenti».

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    Silvestra Tea Sesini

    Solo la morte riesce a separare le due amiche. Silvestra Sesini, grazie a «un provvidenziale trasferimento all’infermeria di Regina Coeli» prima della fucilazione, si salva. «La tua sorte, invece, ha calato la sua falce arrugginita sui tuoi 37 anni (…). (Le SS) ti hanno ammazzata con la pistola insieme ad altri partigiani. Tu che avevi scelto l’Amore e la Resistenza disarmata».
    Per sopravvivere al dolore immenso della morte di due persone così care e vicine, Silvestra sceglie l’unica strada che sente sua fino in fondo, di fare ciò che può rinvigorirla e in parte consolarla: «Ogni giorno della mia vita è e sarà impegno, devoto agli ideali e disobbediente all’indifferenza. Come eravamo noi. Cum panis. Condividere lo stesso pane».

    Silvestra Sesini e Siderno

    Ed ecco, infine, l’approdo di Silvestra Sesini a Siderno, nel 1958. Nelle parole che Antonella Iaschi attribuisce a Silvestra, tutto l’amore per questa terra. E certo non è un caso che, ispirandosi a Silvestra, a scriverle sia una donna che ha sperimentato la stessa emigrazione “al contrario”.

    «A inizio estate qui al Sud l’erba è già imbiondita ma ancora non è bruciata dal sole, i fichi d’India sono puntellati di fiori gialli, i gelsomini sbocciano per le mani veloci delle raccoglitrici mentre decine e decine di fiori spontanei crescono indisturbati. Se questa terra non fosse dimenticata dallo Stato, maltrattata da persone senza scrupoli, e tenuta nell’ignoranza da un sistema scolastico non sufficiente, le sue bellezze la farebbero diventare uno scrigno d’oro. Come d’altronde era un tempo.

    Qui il destino mi ha concesso di nuovo l’emozione grande di incontrare chi non avendo nulla, nemmeno i diritti primari, ti apre il cuore e si affida, senza sapere che sei tu ad affidarti a lui. La gente che si ferma a parlare con me per le strade, in piazza, al mercato, che mi racconta i propri problemi mi ha fatto diventare semplicemente e unicamente Silvestra, una di loro. (…) Questi cieli infinitamente blu, questo mare che sa essere piombo, smeraldo, ametista e turchese, questo arenile dove ogni orma mi dice “sei viva, vai avanti,” mi hanno regalato la consapevolezza di quello che ancora vorrei. È stato talmente facile innamorarmene e decidere di restare».

    Il testamento di Silvestra Sesini

    Ormai anziana, Silvestra Sesini esprime la sua volontà ultima, dando l’ennesima prova di come il nostro andrebbe conservato come mare di vita – non di morte come accade troppo spesso – per come riesce a penetrare nell’anima delle persone che gli si avvicinano: «Voglio che la mia tomba sia rivolta verso il mare. Sì, questo è il mio testamento. Affido ai Sidernesi il mio desiderio di guardare ancora una volta, anzi per sempre, il mare».

  • Le Invasioni degli ultraflop

    Le Invasioni degli ultraflop

    C’era La Niña (e non solo) e cantava anche bene: tanto di cappello alla sua virata finale sull’acustico, scelta intelligente vista l’esiguità dei presenti.
    C’era pure la pinta: con 5 euro potevi prenderne una di birra fresca in una Villa vecchia con quasi più bagni chimici che avventori, a pochi metri da una pleonastica distesa di forze dell’ordine intente a controllare il deserto.
    Ma nemmeno la Santa Maria avrebbe potuto compiere il miracolo di riempire piazza XV marzo a Cosenza venerdì per la seconda serata del redivivo Festival delle Invasioni. Non c’era riuscita, d’altra parte, nemmeno la laica quanto magica parola capace di attrarre a tutte le latitudini masse da ogni dove: gratis.
    Conferma inequivocabile che Cosenza e l’arte vivono da tempo una relazione complicata.

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    Polizia stradale, provinciale, municipale, Carabinieri, Finanza e ambulanza alla Villa Vecchia di Cosenza per Invasioni

    Top of the flop

    Il “dramma della solitudine” si era consumato già la sera prima, con una diserzione di massa epocale: meno di 30 biglietti venduti e Rendano Arena – così avevano ribattezzato l’area ai piedi della statua di Telesio per l’occasione – che, complici le temperature, ricordava più il Sahara che un concerto in piazza. Un risultato per Cosenza paragonabile in altri ambiti solo a successi come il primo viaggio del Titanic o al Mineirazo ai Mondiali brasiliani del 2014.
    Così da Palazzo dei Bruzi avevano provato a mettere una pezza a poche ore dal probabile secondo, tragico, vuoto: niente più biglietto da pagare e ingresso libero come in tante edizioni del passato. Toppa tardiva e, secondo molti, peggiore del buco. Comunque di dubbia utilità: queste Invasioni a Cosenza avevano fatto storcere il naso prima ancora che cominciassero, tant’è che gli spettatori sono sì decuplicati rispetto alla sera prima, ma sempre 2-300 (poliziotti, infermieri e artisti inclusi) in tutto saranno stati i presenti nei momenti di piena.

    Il Comune di Cosenza: Invadete Invasioni!

    Il primo a temere il fiasco era stato, su queste stesse pagine, il consigliere comunale di Cosenza che più si era impegnato nell’organizzazione di queste Invasioni, Francesco Graziadio. Avvertiva «una certa diffidenza per i nomi non proprio conosciutissimi» nei giorni scorsi e non si sbagliava. Impossibile non notarlo lì in prima fila, la birra mezza vuota, appoggiato alle transenne con sguardo sconsolato.

    Attorno a lui nessun big dell’amministrazione, soltanto quei pochi cittadini che avevano risposto al disperato appello sui social del Comune di poche ore prima seguito al flop di giovedì sera: «Oggi è importante che sia la nostra città ad invadere il suo festival, riscoprendo non solo le avanguardie musicali presenti in cartellone, ma soprattutto facendo proprio un appuntamento che acquista il suo senso solo grazie alla presenza e alla partecipazione».

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    Francesco Graziadio ai piedi del palco durante il concerto de La Niña

    Tutta colpa del biglietto?

    L’appuntamento con l’acquisizione di senso al momento è rimandato al 2024, presenza e partecipazione hanno optato per altri programmi serali. In compenso, non mancherà il tempo per riflettere su una serie di errori da non ripetere in futuro.
    Non tanto quello di aver chiesto di pagare un biglietto (con l’immancabile codazzo di polemiche a riguardo): a Cosenza i ticket per Invasioni non sono una novità assoluta, sebbene la stragrande maggioranza delle venti edizioni precedenti siano state interamente gratuite.
    E forse nemmeno quello di aver puntato esclusivamente su nicchie musicali di indubbio valore per gli appassionati del genere, ma non certo calamite di folle oceaniche. I grandi nomi a Invasioni ci sono sempre stati, ma a Cosenza si sono esibiti anche artisti meno noti eppure capaci di attirare e conquistare lo stesso il pubblico. E quelli di quest’anno non avevano nulla da invidiare ad altri colleghi passati dal medesimo palco in precedenza.

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    I Ghetto Kumbè a Cosenza sul palco di Invasioni 2023

    Cosenza, tu chiamale se vuoi… Invasioni (ma erano altro)

    Il vero problema, probabilmente, è che le Invasioni – e non da questa edizione – sembrano sempre più solo un brand per Cosenza. Un’etichetta da appiccicare a un concerto estivo qualsiasi– che la musica sia alternativa o commerciale poco conta – convinti che solo di quello si tratti. E che basti solo quello perché vada tutto bene. Tra i pochi in piazza ieri erano in tanti a ripeterlo, un motivo ci sarà.
    Non c’entra la nostalgia, è proprio lo spirito del festival a essere ormai un fantasma. Era successo con Mario Occhiuto sindaco, seppur a piazze piene, tant’è che si era affrettato a richiamare Franco Dionesalvi nell’organizzazione nel tentativo di rimediare. E si è ripetuto anche stavolta sotto Franz Caruso.

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    La Niña si esibisce di fronte a quattro gatti

    Una volta il Festival delle Invasioni si protraeva per giorni, tra iniziative (non solo concerti) disseminate per Cosenza: l’arte, il confronto, l’incontro con culture differenti invadevano, appunto, la città, la contaminavano in positivo. Ora l’obiettivo – rispettabile, certo, ma non altrettanto nobile – pare sempre ridursi al far lavorare i commercianti attorno alla piazza e al dire «da noi ha suonato il celeberrimo Tizio o Caio» perché fa figo.

    Invasioni sui social? Brescia – Cosenza

    E poi c’è la questione della promozione. I nomi in cartellone sono usciti a pochi giorni dall’inizio del festival. Impossibile trovare al concerto qualcuno che confermasse di aver visto un manifesto sull’evento da qualche parte. Perfino sul palco non c’era il logo del Festival delle Invasioni, quasi quella serata a Cosenza vecchia non avesse nulla a che fare con la kermesse.

    Nemmeno una mezza foto su Instagram, sebbene servisse forse a poco, dato il numero di followers della pagina del Festival: 383. Poco più attiva la pagina Facebook/Meta: una decina di post dal 28 giugno a questo articolo, non esattamente un bombardamento mediatico. Twitter non pervenuto. Quanto a Tik Tok, se cerchi qualcosa su “Invasioni” e “Cosenza” trovi i video dei bresciani inferociti sul prato del Rigamonti dopo il goal salvezza del rossoblu Meroni ai playout di serie B.
    Son soddisfazioni, ma basteranno per lanciare un festival che inizia un mese e mezzo dopo quella partita?

  • Antonello Antonante: il sacro fuoco del teatro ritorna ad ardere

    Antonello Antonante: il sacro fuoco del teatro ritorna ad ardere

    Il 6 luglio scorso il quattrocentesco chiostro della chiesa di Sant’Agostino, oggi parte del polo culturale del Museo dei Bretti e degli Enotri nello storico rione Massa di Cosenza, si è trasformato nel luogo di un grande rito collettivo. Artisti, spettatori, istituzioni hanno saputo concretizzare in una festa l’idea di teatro cara all’attore, regista e drammaturgo Antonello Antonante, uno dei più importanti riferimenti culturali della città dei Bruzi.
    A un anno dalla sua scomparsa, il Comune di Cosenza – in collaborazione con Centro Rat-Teatro dell’Acquario e la Fondazione Attilio e Elena Giuliani – ha inteso rendergli omaggio con una iniziativa dal titolo Un nome, un racconto, una vita.

    Antonello Antonante: dall’Acquario al Rendano, una vita per il teatro

    Antonello Antonante è stato uno dei fondatori del Centro Rat-Teatro dell’Acquario e direttore artistico del teatro di tradizione Rendano dal 2007 al 2011. Ma, soprattutto, pioniere e visionario del teatro contemporaneo in una terra, la Calabria, in cui questa forma d’arte ha conosciuto il suo vero volto identitario grazie alla sperimentazione e alla ricerca promossa dagli anni ‘70 in poi dal gruppo dell’Acquario.
    È difficile raccontare i suoni, le vibrazioni e le emozioni di una serata che ha segnato un nuovo tempo in divenire di un’arte che, pur nella sua incessante metamorfosi, rimane sempre fedele alle sue pratiche artigianali, legata ad una ritualità che affonda le sue radici nei miti. Oggi lo fa nel mito di un uomo che ha dedicato al teatro la sua vita, riuscendo a penetrare sulla scena nazionale. Un uomo che ha portato a Cosenza, grazie all’attività svolta nel corso dei decenni dal Centro Rat, il prestigioso Premio Ubu nel 2019, per aver creato, inventato e organizzato il teatro in tutte le sue forme in una città complicata.

    Cosenza, via Galluppi: l’ingresso del Teatro dell’Acquario

    L’avanguardia nel Sud profondo

    Antonello Antonante ha accolto quel prestigioso premio dedicandolo «a tutti i teatranti delle periferie». E di questa periferia del Mezzogiorno ora lui è diventato figura di richiamo, l’idea con la quale confrontarsi quando si parla di teatro. In questo Sud Antonante è riuscito a fare del teatro un laboratorio vivo per molte generazioni, le stesse che oggi sono parte attiva dell’attuale patrimonio teatrale calabrese.
    Di Antonante si è affermata l’idea di teatro non come luogo o edificio, ma di arte, festa, canale comunicativo “tra gente e cose che prima erano incomunicabili”. Antonello è riuscito nell’intento di far dialogare la città con sperimentazioni teatrali d’avanguardia, portando tra le strade di una piccola città di provincia quell’esperienza di nomadismo comunitario della più radicale avventura teatrale del novecento, il Living Theatre.

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    Maurizio Stammati e Alessandro Parente raccontano le storie di Giufà

    Il sacro fuoco brucia ancora per una sera

    Una nuova e rivoluzionaria idea di teatro che Antonello Antonante aveva fatto conoscere alla sua città fin dai tempi del teatro Tenda di Giangurgolo, intorno al 1977. In quegli anni di forti fermenti culturali, artistici e rivoluzionari apparve in città una tenda da circo sotto la quale fare teatro insieme ad altri idealisti, o utopisti culturali, oggi troppo spesso dimenticati e trascurati dalle istituzioni.
    La serata del 6 luglio – ideata e coordinata in regia da Renata Antonante – rievoca le parole scritte da Peter Brook ne Il punto in movimento: «La storia è un modo di guardare le cose che a me non interessa molto; a me interessa il presente…». E così è stato: magia di un presente animato, un hic et nunc lontanissimo da ogni logica di vana retorica commemorativa; una serata che secondo le parole di Dora Ricca, con la quale Antonante ha condiviso la vita e la sua idea di cultura, si è svolta con la fiamma accesa de «il sacro fuoco del teatro».

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    Un momento dell’omaggio ad Antonello Antonante e il suo teatro

    Abitare la memoria

    Il teatro, con i suoi protagonisti e il suo patrimonio ha dimostrato di riuscire ad essere luogo di aggregazione, capace di «abitare la memoria». La sua valorizzazione, però, spetta anche alle istituzioni politiche che devono dimostrare con fatti concreti, al di là di ogni enfasi celebrativa, che la cultura oltre ad essere un valore fortemente distintivo, può e deve essere il primo laboratorio di nuove e libere identità sociali.
    Antonello Antonante è riuscito nel suo intento, vivere di teatro e per il teatro, capace di rimanere libero in una terra che di libertà avrebbe tanto bisogno.

    La serata è stata possibile grazie alla partecipazione di:

    • Maurizio Stammati, Anna Maria De Luca, Ernesto Orrico, Angelo Gallo, Paolo Mauro, Nunzio Scalercio, Gianfranco Quero, Ester Tatangelo, Stefania De Cola, Ricchezza Falcone, Lara Chiellino, Lindo Nudo, Mariasilvia Greco, Dario De Luca, Ciccio Aiello, Alessandro Parente
    • Checco Pallone, Piero Gallina, Carlo Cimino, Leon Vulpitta Pantarei, Enzo Naccarato
    • Dora Ricca
    • Geppo Canonaco, Eros Leale, Renata Antonante, Carlo Antonante Bugliari, Antonello Antonante Bugliari
    • Ivana Russo
    • Francesca Laudani – La grafica
    • Tonino Principe
    • Marilena Cerzoso
    • Antonietta Cozza e il Comune di Cosenza

  • Dionesalvi, Cosenza non dimentica la forza di un poeta

    Dionesalvi, Cosenza non dimentica la forza di un poeta

    Ha costruito un edificio prezioso con la sua poesia, i racconti, i romanzi, gli articoli, i saggi. Fino all’ultimo giorno della sua vita ha continuato a lavorare strappando ogni lembo di tempo alla malattia impietosa che lo metteva a dura prova. Coraggioso e generoso con i suoi lettori, Franco Dionesalvi. Una statura da gigante che con il tempo dovrà essere ricostruita, in modo limpido come i suoi occhi.

    «E vivo e parlo e canto e innamoro e soffio bocca a bocca». I suoi versi hanno invaso Villa Rendano, Sulla scia dell’aurora il titolo della serata in suo ricordo a un anno dalla scomparsa – aveva 66 anni – il 6 luglio del 2022. A organizzarla il Comune di Cosenza e la Fondazione Attilio ed Elena Giuliani, con Antonietta Cozza, delegata alla Cultura della Giunta Caruso e giornalista, a condurla con grande professionalità.

    Franco Dionesalvi nel ricordo degli amici

    Nel pubblico, in prima fila, il professore dell’Unical Pierangelo Dacrema, che con lui ha scritto a quattro mani Conversazione tra un economista e un poeta, testimone e protagonista delle ultime giornate di Dionesalvi, dedicate alla scrittura. Il libro, prima pubblicazione postuma del poeta, è una bussola di carta nel mare magnum di influencer, algoritmi, economia spietata che generano solitudine e nonsense esistenziale.
    L’hanno ricordato le parole dei poeti Anna Petrungaro e Daniel Cundari, del suo amico Filippo Senatore, che ha inviato la sua testimonianza da Milano, dove lavora come bibliotecario al Corriere della Sera.

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    Da sinistra: Anna Petrungaro, Antonietta Cozza, Concetta Guido

    Anche io sono intervenuta, mi appare anomalo – è difficile che un giornalista scriva in prima persona – ma nello stesso tempo bello lasciare traccia della serata con questa breve cronaca. Con Franco abbiamo vissuto dialoghi intensi tra arte e vita, la forza dell’ironia disvelante che ti fa cogliere la sostanza delle cose e guardare negli occhi le cose più terrificanti per cercare di capirne il senso e poi tanti momenti creativi. Tra tutti, mi viene in mente, forse perché più vicina all’idea di cielo, una bizzarra e affascinante mostra sugli alieni e la Calabria, che lui intitolò Avvistamenti. La allestimmo nella Casa delle Culture di Cosenza (creata da lui stesso durante il suo assessorato), nel fatidico anno Duemila,  insieme a Michele Pingitore e agli artisti visionari Luca Scornaienchi, Tonino Iozzo e Raffaele Cimino.

    Le opere di Franco Dionesalvi: novità in arrivo

    I momenti musicali di Sulla scia dell’aurora sono stati curati, invece, dai Nimby. È una band rock che ha iniziato a collaborare con Dionesalvi nel 2006 e che, imbracciate le chitarre elettriche, ha reso un omaggio pregevole, musicando tre degli inediti dell’ultimissima produzione del poeta. La piccola raccolta che le contiene uscirà a settembre per le edizioni Erranti e sarà presentata all’interno del programma del festival Laudomia nella città bruzia.

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    Rossana Bartolo, moglie di Franco Dionesalvi e Antonietta Cozza

    A dare la bella notizia è stata la moglie del poeta, Rossana Bartolo. Nonostante la forte commozione per una perdita irreparabile, ha tracciato il percorso futuro: «Mi ha lasciato disposizioni perché rendessi nota la sua opera e la rendessi disponibile a chiunque l’avesse voluta studiare. Mi sto adoperando per questo: fra un anno uscirà la sua opera omnia poetica per la casa editrice Puntoacapo». E ancora: «Continuerò con il resto dei suoi scritti, raccoglierò i testi teatrali e i racconti inediti; raccoglierò i Sombreri, i suoi sferzanti elzeviri e altro ancora».

    «Siamo tutti collegati»

    È Anna Petrungaro a ricordare quanto scrive Edmond Jabès. « La morte è senza potere contro ciò che sta per germinare, crescere, espandersi. La poesia è un pensare contro l’oblio». Il pensiero di una conoscenza approfondita e di una diffusione più capillare delle sue pubblicazioni, è stato il nesso logico di ogni momento. E lui, il poeta, sembrava esserci tra i suoi affetti, i suoi amici, il pubblico, a reggere quel filo sottile e forte con il quale «siamo tutti collegati». Perché siamo «un po’ tutti uno la continuazione dell’altro», come ha scritto in lettere private e in frammenti, che sono bellezza poetica, pensiero e teoria di vita ed esortazione alla consapevolezza, alla gioia, all’attivismo culturale.

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    Il pubblico nel giardino di Villa Rendano per “Sulla scia dell’aurora”

    «Mi auguro – ha detto Anna Petrungaro riguardo all’opera di Franco Dionesalvi e alle prossime pubblicazioni – che riceveranno la giusta attenzione e diffusione, non solo dai singoli lettori ma anche dalle istituzioni amministrative e scolastiche, che ci sia l’impegno a programmare un lavoro che vada oltre la temporaneità dell’evento che è tale in quanto isolato dal resto, dalla consuetudine, che abbia la forza di permanere e di rifecondarsi».

    Da Cosenza a Milano, tra amore e amarezza 

    La poetessa, legata da un’amicizia ultraquarantennale a Franco Dionesalvi, con il quale, non ancora ventenni, condivise le esperienze teatrali della compagnia Nuova immaginazione, ha ricordato la «scelta amarissima» da lui fatta, a 60 anni, quando «dopo avere dato tanto e sperato incessantemente nella possibilità di un ulteriore radicamento di senso nella sua città, è emigrato a Milano».
    E poi ha ricordato che in un video girato pochi giorni prima di morire, «spese indimenticabili parole d’amore per Cosenza, nonostante tutto. Invocò la cura della memoria di amici poeti come Raffaele de Luca e Angelo Fasano» e «il dovere morale, ripetutamente sollecitato, di intitolare loro qualcosa».

    Nel corso della serata si è parlato anche della ricchezza dei contenuti di un romanzo dell’autore, L’ultimo libro di carta, pubblicato negli anni della pandemia. Un romanzo sulla guerra, sull’amore, sulla battaglia persa contro gli algoritmi che ci tracciano in ogni giornata, sulla perdita della memoria personale e collettiva.
    Il suo sito e il suo blog sono due finestre dell’edificio prezioso che ha costruito. Contengono un’utile mappa per orientarsi tra tutti i suoi lavori, gli articoli e le lettere da Milano, gli scritti sui suoi “ragazzi”, gli allievi di una nuova Barbiana «del riscatto della dignità», come ha detto Filippo Senatore, che stava costruendo in Lombardia.

    Parole che fanno bene al cuore

    I Nimby – Aldo Ferrara, Francesco e Tommaso la Vecchia – oltre ad esibirsi hanno testimoniato il legame che li univa. Negli anni passati hanno musicato un racconto tratto dalla raccolta Libro della morte e delle cento vite e poi realizzato, insieme a lui, lo spettacolo di musica e poesia Pianure.

    «Franco ci ha regalato la possibilità di metterci in gioco, di scoprire quanto è bello fare musica e innamorarsi delle parole; ci siamo divertiti, abbiamo scherzato, abbiamo sudato, faticato, lavorato insieme… ma, soprattutto, abbiamo passato momenti di intensa Felicità. Perché…”ci sono parole che fanno bene al cuore”». E altre che alzano muri, scrive Dionesalvi in una poesia intitolata la “Responsabilità”.
    Noi, con lui, preferiamo le prime.

    (Le foto all’interno dell’articolo sono opera di Ivana Russo, si ringrazia per averne concesso l’utilizzo)

  • Colto e popolare, quel prete veneto che leggeva Lombardi Satriani

    Colto e popolare, quel prete veneto che leggeva Lombardi Satriani

    Condidoni, Mandaradoni, Paradisoni, Potenzoni, San Costantino, San Leo, Sciconi, sono le frazioni del comune di Briatico, in provincia di Vibo. Sulla carta, in tutto, sarebbero 3.727 i suoi abitanti. Nel 1951 erano 4.826, ma non è un paese spopolato. D’estate poi si affolla non solo di emigrati in viaggio sentimentale. Tanti turisti scelgono le sue spiagge e amano visitare pure le frazioni, specie in occasione delle sagre e delle faste religiose. Molti i tedeschi, riconoscibili perché formano delle file ordinatissime per pagare il piatto di frittura o i fileja, che devono apparirgli veramente esotici. Esotici come gli italiani, che non riescono a rimanere in una fila.
    Prima dei turisti qui, in tempi più remoti e con motivazioni diverse, sono giunti viaggiatori e studiosi per osservare da vicino gli effetti spaventosi del terremoto del 1783. E missioni filantropiche costituite per portare finanziamenti per la ricostruzione, realizzata con innovativi piani edilizi, che prevedevano strade regolari e piazze ampie, edifici bassi e leggeri.

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    Un’illustrazione sugli effetti del terremoto del 1783 in Calabria

    Conoscere la Calabria e i suoi abitanti da sempre ha richiesto un notevole impegno, un grande spirito di sacrificio. I viaggiatori stranieri del Settecento e Ottocento sono stati davvero eroici ad affrontare i sentieri a dorso di mulo, per vedere da vicino le voragini in cui erano scomparse intere città, ma anche i luoghi evocati da Omero, le città mitiche come Sibari, misteriose già per gli antichi romani.
    Poi è stato il turno di antropologi, fotografi, ricercatori come Gerhard Rohlfs, impegnato a catalogare e analizzare i dialetti. Cercava le tracce del greco antico e di quello medievale. Il professor Rohlfs ha scattato anche molte foto, dove si vede che uomini e donne si prestavano volentieri a mettersi in posa per lo straniero curioso.

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    Gerald Rohlfs con un contadino calabrese

    Poi, con motivazioni diverse, sono arrivati a Briatico i padri scalabriniani. Giovanni Battista Scalabrini era un sacerdote veneto, nominato vescovo di Vicenza. Impressionato e addolorato dal fenomeno migratorio, che era imponente in Veneto, Scalabrini pensò di fondare una congregazione religiosa, con la missione specifica di aiutare e assistere le comunità di italiani all’estero, perché nell’Ottocento e fino al secolo scorso tanti veneti, lombardi e piemontesi dovevano emigrare. In ogni angolo del mondo gli scalabriniani hanno posto le loro basi, per stare accanto ai loro conterranei e così hanno incontrato le comunità di calabresi, pure loro arrivati fino agli estremi confini del mondo, per costruirsi un avvenire migliore di quello che avrebbero dovuto subire a casa loro, in Calabria.

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    Giovanni Battista Scalabrini

    I padri missionari scalabriniani si sono resi conto da subito che, per aiutare e sostenere queste comunità, era necessario conoscere le tradizioni, le culture, le abitudini dei luoghi di provenienza, i paesi a migliaia di chilometri di distanza. Così hanno fondato dei centri di studio, uno a Parigi, uno a Roma, un terzo, nel 1979 a Briatico, che oggi è in provincia di Vibo Valentia. E a Briatico arriva padre Maffeo Pretto, nato a Cologna Veneta, in provincia di Verona, nel 1929. Non arriva da solo, a Briatico, ma con altri confratelli, perché Briatico ha diverse frazioni, ognuna con la propria chiesa, a cui le piccole comunità sono molto legate.

    Padre Maffeo inizia a studiare tutti i libri che trova, sulla Calabria. Li acquista, li raccoglie nella casa parrocchiale. Negli anni costituirà una biblioteca di oltre 15.000 volumi, di storia, antropologia, tradizioni popolari, letteratura. Inizia dai testi di Raffaele e Luigi Maria Lombardi Satriani, che hanno il palazzo di famiglia a San Costantino di Briatico. Coinvolge i ragazzi del paese nella gestione e nella cura di questo patrimonio, almeno quelli che decidono di non andare via.
    Ma intanto assolve ai suoi compiti di parroco, conosce le persone, le ascolta. Comprende la difficile realtà di questi piccoli borghi, intristiti dall’emigrazione, con un’economia povera, precaria.

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    L’antropologo calabrese Luigi Maria Lombardi Satriani

    Quando l’ho conosciuto padre Maffeo aveva circa settant’anni, era da venti anni a Briatico e la sua biblioteca aveva assunto ormai proporzioni ragguardevoli. Mi raccontò qualche aneddoto, sui tentativi di mettere assieme le persone, farle collaborare per raggiugere piccoli obiettivi di interesse comune. Cercava di cogliere sempre il lato positivo di quella fatica. Apprezzava l’attaccamento delle persone a quelle minuscole chiese, l’attesa della festa annuale con le luminarie e la processione come un evento centrale per la comunità. Non guardava dall’alto in basso queste manifestazioni, come spesso fanno i sacerdoti, specie quelli non particolarmente colti.

    Aveva iniziato a pubblicare i suoi studi sul cattolicesimo popolare, le tradizioni, le devozioni delle comunità di cui era parroco. Si trattava di dispense per i confratelli, pubblicazioni ad uso interno dei padri scalabriniani. Negli anni della sua formazione si parlava molto degli studi di don Giuseppe De Luca, un sacerdote lucano, che a Roma aveva fondato le Edizioni di Storia e Letteratura e l’Archivio della pietà. Appunto per salvare questo patrimonio di cultura orale, messo in pericolo dalla laicizzazione della società, dall’abbandono dei paesi, dall’emigrazione.

    Anche in Calabria qualcuno aveva deciso di rimediare. Infatti ci fu l’arrivo, a Briatico, nell’ufficio parrocchiale, nel giugno del 1986, del già irrefrenabile e incontenibile Demetrio Guzzardi, che stava avviando i primi passi della sua casa editrice. Non lo ha convinto subito, padre Maffeo, perché quel giorno Guzzardi, pur prendendo nota mentalmente dell’enorme biblioteca, doveva sposarsi, per questo motivo era a Briatico. C’ero pure io e tanta altra gente, a Sant’Irene di Briatico, uno dei luoghi del cuore della comunità ciellina di Calabria.

    Ma un mese dopo l’implacabile Guzzardi era di nuovo lì a convincere padre Maffeo che i suoi studi meritavano una veste editoriale, che sarebbero stati benissimo tra le prime collane di Editoriale progetto2000. E così hanno visto la luce La pietà popolare in Calabria, nel 1983, Santi e santità nella pietà popolare in Calabria nel 1993. Nel 2005 Teologia della pietà popolare. Questo sacerdote veneto schivo, riservato e metodico, ha trascritto tutte le cantilene, le storie raccontate ai bambini, le leggende dei santi che non hanno trovato posto nelle biografie ufficiali, le litanie e le tradizioni che affondano le proprie radici nella notte dei tempi.
    Infine un ultimo regalo alla comunità di Briatico, Briatico nella storia, nel 2007. Due grossi volumi, il primo dedicato al periodo feudale, il secondo al tempo moderno, fitti di documenti, storie e personaggi. Una enciclopedia che custodirà la memoria di Briatico. Anche dell’antica Briatico distrutta dai terremoti e ricostruita, per le future generazioni, come devono fare i buoni libri.

    Padre Maffeo ha trascorso i suoi ultimi anni nella casa dei padri scalabriniani di Arco, in provincia di Trento. Le sue precarie condizioni di salute non gli hanno permesso di rimanere da solo in Calabria. Assistito dai suoi confratelli ha concluso la sua vita terrena il 9 giugno 2021.

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    La sede del Sistema bibliotecario vibonese, cui aderisce anche il Comune di Cessaniti

    Prima di andare via dalla Calabria ha cercato il modo di lasciare in regalo a questa terra la sua biblioteca. La ha accolta Favelloni, frazione del comune di Cessaniti, vicino ai luoghi della sua missione trentennale. Un segno concreto del suo legame con questa terra e la sua storia.