«L’investigazione condotta tra i vicini dimostra che è un individuo molto strano: si interessa soltanto di musica folk, è davvero poco affidabile e scontroso. […] Non dà alcun valore ai soldi, usa la sua proprietà e quella del governo con negligenza, praticamente non si cura del suo aspetto. […] Da una fonte confidenziale di informazioni è stato fatto sapere a questo Bureau che è un simpatizzante del Partito Comunista».
A molti di noi basterebbe anche meno per la voglia di averlo conosciuto, di averlo incontrato per caso, questo tipo indagato dall’FBI che negli anni ’50 girava la Calabria con un Bully, il mitico pulmino Volkswagen che da giovani ci faceva sognare la west coast e viaggi rapsodici alla Kerouac che l’importante è andare, finito pure sulle cover degli elleppì di Bob Dylan e Beach Boys.
Me lo immagino, stralunato, con quell’aria bonaria e un po’ fessacchiotta che a volte affibbiamo agli americani un nerd d’altri tempi, insomma. Uno dei più grandi etnomusicologi di sempre, mica un Carlo Verdone in Viaggio con papà, che faceva il suo lavoro con passione, fatta di racconti in cui perdersi a immaginare, se solo lo avessimo incontrato in una trattoria o sotto l’ombra di un albero. Alan Lomax da Austin, Texas, classe 1915, talmente innamorato del nostro Sud, dove gli rubarono persino i taccuini di appunti, da descrivere quell’anno in giro con il Bully, fra il 1954 e il 1955, come «l’anno più felice della mia vita».
Frase che ha dato il titolo ad un libro definito da Martin Scorsese nella prefazione «meraviglioso e delicato», che scorre al ritmo di quel blues italiano che erano i canti del sud: «Una donna era magra, con pazzi occhi marroni e capelli arruffati, distratta, non aveva avuto niente da mangiare per tutto il giorno; un’altra con la faccia scura da africana, la bocca larga, molti denti macchiati di nero. E cantarono per me la più commovente canzone che io avessi sentito in tutta Italia, una canzone che mi ricordò l’infinita pena dei neri del Missisippi e del Texas, che avevano cantato per me tanti anni prima», scrive Lomax accompagnando una fotografia presa fra le donne di Cardeto, dalle parti di Reggio Calabria.
Alcune di queste foto, scattate nellatonnara di Bivona nell’arco di quattro giorni, saranno in mostra presso l’ex Padiglione rotativa industrie Rubbettino, a Soveria Mannelli, in occasione dell’ottava edizione dello “Sciabaca Festival”: vernissage della mostra con Danilo Gatto e performance vocale di Felici & Conflenti giovedì 21 alle 18:30, con chiusura il 24 settembre. Un altro capitolo, fatto di un bianco e nero intenso quanto i volti di fatica antica, che si aggiunge al racconto dei tanti viaggiatori passati da qui, compresi quegli altri due americani, Mary Lee e Stanley Williams, che negli stessi anni ’50 girarono l’Italia in Topolino, una chiave narrativa più che un mezzo di trasporto.
PS: dopo la scelta esistenziale d‘u scienziato (dello scienziato) contemporaneo proveniente da Oxford, « l’anno più felice della mia vita» di un americano in Calabria è una dichiarazione che rischia di minare la sacrosanta litania quotidiana sulla valle di lacrime in cui ci è toccato vivere, al netto delle emigrazioni. Avanti così, e il Bar Sport, già orfano della Luisona, rischia di chiudere, eh!
Nel 1907 in Italia circolavano in tutto circa 4mila automobili. A Torino era da poco nata la Fiat, che aveva costruito la sua prima auto solo otto anni prima, nel 1899. In quello stesso anno la prima macchina stradale che toccò la mirabolante velocità di 100 chilometri l’ora sfrecciava invece su una strada della campagna francese.
Una Fiat 3½ HP
Otto macchine sulle strade calabresi
Sulle strade calabresi all’alba di quel secolo cruciale, il secolo della mobilità e delle strade, di “automobili e velociferi” se ne dovevano vedere in giro davvero pochi, pochissimi esemplari. Mosche bianche, arnesi favolosi e infernali. Roba da signoroni. In effetti i calabresi proprietari di un’automobile circolante erano pochissimi. Solo otto i veicoli a motore immatricolati e censiti dal Touring Club per quell’anno 1907.
Una, fieramente esibita in occasioni ufficiali e raduni mondani, era quella che apparteneva ad un vecchio colonnello garibaldino, il nobile catanzarese Achille Fàzzari. Figura tra l’eroe e l’avventuriero, dopo le imprese garibaldine, passato alla politica ed eletto deputato, titolare di fortune leggendarie, Fazzari si era fatto costruire sul modello delle ricche magioni rinascimentali delle famiglie fiorentine, un palazzo di lusso sul corso principale della sua città, Catanzaro. Non era la sua unica eccentricità. Occupato il nuovo domicilio, invece della solita carrozza a cavalli, il barone Fazzari, eliminata la stalla, nel palazzetto alla moda mise un’auto in garage. Una stravaganza passata alla storia.
Lo scrittore e viaggiatore George Gissing
Calabrie per stranieri e viaggiatori
Per il resto ancora in quegli anni di Belle Époque in giro sulle strade carrozzabili della Calabria, allora rare quanto le auto, spesso inservibili, sgangherate e polverose, andavano ancora le diligenze postali, carrozze di nobili e reparti militari, cavalcature di medici, carri agricoli e traini di asini, buoi e muli. La strada ferrata correva solo sul Tirreno, unendo col filo sottile delle sue lame di coltello Napoli a Reggio Calabria. Anche quello un viaggio incredibile. Undici ore filate di treno, dalle remote Calabrie alla bella Napoli, come quelle che impiegò lo scrittore vittoriano George Gissing nel 1897.
Sulle marine solo minuscole stazioncine isolate come oasi nel deserto, spiagge ventose, paesaggi mozzafiato e plaghe malariche e disabitate, intorno solo mare e montagne a perdita d’occhio. I paesini stinti e dai colori giallastri restavano arretrati, in alto, con la gente stretta intorno a chiese e castelli e alle case fitte come presepi, a debita distanza dal mare. La vita si rifugiava lontano dall’incertezza delle poche strade, dalle rare automobili e dalla novità della ferrovia.
Un altro mondo, lillipuziano, capovolto nel giro di un secolo. Tutte cose accadute sugli stessi luoghi slabbrati di adesso, impensabili con gli occhi di adesso. In quegli anni la gente minuta si muoveva poco, ancora prevalentemente a piedi, anche per viaggi molto lunghi e faticosi. A quel tempo nessuno in Calabria si doveva preoccupare delle auto, delle strade e del traffico, e nemmeno di cose come lo scempio delle coste, l’abusivismo, l’inquinamento, allora. Altri guai, ma non questi.
Addio Grand Tour
Il paesaggio era lì, quasi intoccato, lì come sempre. C’era e basta. Il paesaggio casomai esisteva solo per gli stranieri. Venivano apposta da lontano. Loro sì se ne accorgevano, ne parlavano, ne scrivevano, lo dipingevano con meraviglia a parole e a colori il paesaggio delle vecchie Calabrie. E la sua visione potente e aspra suscitava sempre una certa estenuata incredulità, una svenevolezza. Svenevolezza da cui sono affetti quasi tutti i racconti dei viaggiatori stranieri del Grand Tour, sempre alle prese con le sensazioni esotiche e primitive che avvincono certe loro visioni naturali e umane della selvatica natura calabra. Sarà l’avvento dell’automobile a mettere fine anche all’epopea del Grand Tour attraverso i rischiosi confini delle Calabrie, a quegli sguardi un po’ troppo estenuati e sdolcinati, carichi di uno stupore sempre misto a degnazione.
Ma c’è ancora qualche eccezione significativa, qualche pezzo buono, anche nel finale inglorioso di questa epopea letteraria sterminata per mano della tecnica, prima dell’avvento del turismo di massa, prima che arrivino le file di automobili di vacanzieri e pendolari a incasinare una statale rovente, così come adesso, in mezzo a un paesaggio calabrese scolorito e rotto al disincanto del turismo di massa.
La Guida Touring del 1940
Granturismo Calabrie
Accade proprio in quegli anni, su quelle stesse strade di Calabria ancora incerte e polverose. Immagini pur sempre sorprendenti, anche dal bordo di una delle prime automobili, nel corso di un viaggio al Sud effettuato nella primavera del 1908. Il diario di bordo è tenuto da due stranieri in viaggio per le strade della, ancora per poco, “vecchia Calabria”. I nuovi granturisti macchinizzati sono una curiosa coppia di ricchi ed eccentrici signori anglo-americani.
Assieme all’americana Mary Smith, una signora elegante e piuttosto avvenente, a bordo di una grossa berlina che arranca sballottata per le rare carrabili a macadam, sconnessi e spesso interrotti, tra curve e saliscendi polverosi, viaggia un uomo. Il suo già famoso e autorevole sposo è un uomo piccolo, con gli occhi vispi e la barbetta a punta. È il critico e collezionista d’arte più famoso al mondo, Bernard Berenson. Entrambi vengono giù da Firenze, dove hanno una magnifica villa sulle colline di Fiesole, “I Tatti”. Intorno a loro abita l’arte italiana del Rinascinamento. La loro è una vita raffinata e discretamente peccaminosa, che si svolge tra gli studi di storia dell’arte, i viaggi esotici e la frequentazione il bel mondo internazionale. Chissà perché la Calabria.
Bernard Berenson a “I Tatti” sulle colline fiorentine
Calabria, Berenson e il diario
Un viaggio faticoso, pieno d’imprevisti e in fondo senza grandi attrattive, interessa ancora a gente così ricca e bennata? Forse sì, a dispetto delle apparenze. Un certo gusto per l’esotico, il primitivo. Durante il viaggio in macchina sta di fatto che scrivono e annotano entrambi. La Calabria è stupore allo stato puro, anche per loro più abituati alla perfezione rarefatta delle forme e all’ingegno dell’arte che non alle visioni all’aperto, agli incontri rustici e inconsueti.
Infatti. Bellissimo paesaggio e quasi, nulla “nulla come Arte”, è la formula che il più volte chiude le loro note di viaggio. La natura indomita, per ora -fino ad allora-, l’ha avuta vinta sulla storia, sulla meravigliosa fragilità umana dell’arte, e anche sulla tecnica e sugli artifici umani, che con i ripetuti terremoti e catastrofi che da queste parti riportano di continuo e bruscamente indietro l’orologio del tempo. Per una singolare circostanza il viaggio dei Berenson accadeva pochi mesi prima del terremoto del 28 dicembre 1908, il cataclisma che rase al suolo Messina e Reggio, distruggendo anche alcune delle località e dei rari monumenti appena visitati dai Berenson in Calabria e nella città siciliana.
Sei giorni da Lagonegro a Reggio Calabria
Compiono un lungo itinerario stradale, che inizia in Sicilia, a Messina (nella cui università insegnava allora Gaetano Salvemini, amico dei Berenson) termina poi a Napoli alla metà di giugno, col favore della bella stagione. Poi per i coniugi Berenson è poi la volta dell’aspra Calabria. Sarà un’impresa. L’attraversamento automobilistico della regione segue la traccia delle poche strade carrozzabili a disposizione. L’unica strada da e per la Calabria è sempre la vecchia Nazionale delle Calabrie, tortuosa come un filo imbrogliato, non ancora afsfaltata. Un solco stradale solitario e spesso impervio che anche rimontato a bordo di una grossa auto resta un’avventura molto molto faticosa. Sei giorni, da Reggio Calabria a Lagonegro.
Piazza Parrasio nel centro storico di Cosenza in una foto d’epoca
I Berenson in cerca d’arte e di vestigia, in Calabria, a parte qualche eccezione di rilievo, dicevamo, ne vedranno ben poche. Anche se passano per località segnate dalla storia e dall’arte come Gerace, Monteleone (Vibo Valentia), Serra San Bruno, Stilo, Squillace, Santa Severina, San Giovanni in Fiore, Cosenza, Sibari. Il viaggio dei Berenson si chiude in gloria solo al loro ritorno a Napoli, con lo sbarco mondano a Capri, hotel “La Floridiana”. L’intero viaggio per le strade della Calabria si era svolto a bordo di una grossa automobile, una pesante berlina, che i Berenson non guidano e che pur servendosene, amabilmente detestano. La loro è ancora la condizione elegante ed elitaria del viaggiatore colto, non del semplice turista, a cui si rende “intollerabile l’esibizione personale” e gli strepiti del “mondo meccanico”.
L’amico di Marcel Proust
Li accompagna per un tratto un amico fiorentino molto intimo di entrambi i Berenson, personaggio bislacco, prefuturista fanatico dell’automobile, il giornalista Carlo Placci. Sempre spazientito da curiosi e abitanti che si fanno intorno nei paesi e nelle contrade più isolate per osservare con meraviglia il nuovo prodigio meccanico: l’automobile. Questo Placci ogni volta sbotta altezzosamente: «È un martirio arrivare in quei posti ed essere alla lettera aggrediti dalla folla. Non se ne può più». Dell’equipaggio dei Berenson fa parte anche il giovane nipote francese di Placci. Lucien Henraux, giovane amico di Marcel Proust, che guida anche lui l’automobile – di cui è di fatto il propietario – è giunto appositamente da Parigi per l’impresa. Insomma uno strano quartetto di eccentrici perdigiorno percorreva la Calabria del 1907.
Il diario tenuto da Mary Berenson è assai scarno: spicca per l’attenzione alle atmosfere dei luoghi. C’è il fascino dei paesaggi mutevoli, ci sono i silenzi degli attraversamenti in mezzo al magico e tormentato paesaggio calabrese, sensazioni da angina pectoris. Poi un’interesse divertito più per i pigri e difficoltosi collegamenti stradali che per il valore artistico e culturale delle mete locali così faticosamente raggiunte. L’automobile viene usata dai Berenson senza frenesia, come nei lenti viaggi a piedi o in carrozza passati alla storia della tradizione classica del Grand Tour. È così che Mary e Bernard attraversando lentamente le strade delle regione possono assaporare quello che appare loro ancora «l’aspetto più incantevole del viaggio in auto, le lunghe ore di sogno in un panorama di meravigliosi scenari incontaminati».
Old Calabria
Un viaggio indisturbato, unico, dato che dove passa la loro auto ancora non passa nient’altro. Per i Berenson l’automobile con cui attraversano nel 1907 le contrade più impervie e spettacolari della vecchia Calabria, è ancora un mezzo elettivo, una specie di cocchio di gala. Ed è così che la usano, come una carrozza di lusso. L’automobile posseduta da pochi eletti consente ancora in quegli anni di ritrovare la libertà del viaggiare da soli sulla strada e in luoghi sconosciuti. Un nuovo privilegio meccanico che già appariva perduto, compromesso dalle ferrovie e dalla nascita dei viaggi organizzati. Una libertà effimera e in fondo illusoria, che per un breve intervallo motorizzato fa ritrovare ai viaggiatori più eccentrici il gusto esotico del Grand Tour.
Sono gli ultimi spiccioli del viaggio di formazione che in Calabria i Berenson affidano ad un’estetica delle suggestioni sensuali e alla sensazioni energetiche del paesaggio, più che alle sparute e non molto sensibili prove dell’arte. Non immaginano che, immersi come sono in un miracoloso intervallo di tempo e di luogo, faranno appena in tempo a godersi dai sedili di pelle capitonné della loro scoppiettante e voluminosa berlina a motore quegli stessi panorami intoccati della Calabria dei primi del ‘900, presto colmati anche qui proprio dalla diffusione di massa dell’automobile fordista e dai guasti raccapriccianti del cemento, continuata sino ad oggi nell’apocalisse dagli stupri infiniti del contemporaneo.
Le bandiere blu ante litteram
Da buona americana Mary Berenson, attribuisce un punteggio a ogni cosa che vede dalla macchina. A ogni paesaggio assegna un punteggio. Il gradimento per i luoghi attraversati nel suo tour automobilistico calabrese è espresso con gli asterischi. La signora Berenson in fondo mette asterischi come si farà più tardi con alberghi e ristoranti consigliati da guide e gourmet, come noi oggi mettiamo bandierine blu e verdi che pretendono di assegnare meriti ecologici e di indicare le mete del turismo sostenibile consigliato ai vacanzieri più responsabili. La differenza sta nel fatto che all’illusione di pulizia e di bellezza a un tanto al metro di adesso, corrispondeva l’oggettiva visione del bello segnata allora da una signora americana di buon gusto.
I Berenson da giovani
Comunque risultava vincitrice di questa hit list dei paesaggi calabresi del 1907, con tre asterischi, «la vista sulla piana di Sibari, bagnata dal Coscile e dal Crati”, ammirata dalle colline di Terranova. Una visione panoramica vasta e nobile, “degna dell’in¬tero viaggio”, dice Mary. E c’è sicuramente da crederle.
Se la signora Berenson li rivedesse adesso questi posti di magia ridotti a voragine autostradale, magari da un bordo trafficato della 106 gremita dai mostruosi villaggi-vacanze che grandi come caserme ingombrano la piana vicino ai laghi di Sibari, o dalle parti del bivio di Cantinella di Corigliano, con i supermercati, i ristoranti per banchetti e le case abusive piantate tra le rovine del parco archeologico di Sibari, con le puttane nigeriane e i braccianti rumeni sfruttati che vivono alla macchia negli aranceti e tra le casupole di lamiera delle piantagioni di clementine, chissà che orrore, che offesa per il senso del bello della povera signora Berenson. Noi invece ci stiamo facendo l’abitudine. Vivere nel brutto, dentro case brutte, sulle strade del brutto, senza accorgersi del brutto, è possibile, eccome.
Il reportage di Berenson sulla Calabria
Il vecchio Berenson allo scrittore Guido Piovene, altro venerabile custode dellle memorie belle del fu paesaggio italiano, appariva come un nume, a cui «si direbbe che l’età, consumando tutto l’inutile, abbia portato in lui l’estremo della perfezione. È uno dei pochissimi uomini nei quali la lucidità della mente anziché corrompersi si definisce, e ritorna a una specie d’intatto carattere verginale». Forse ancora con quegli stessi occhi e con lo stesso acume, molti anni dopo, nel 1955, ormai novantenne, il celebre storico dell’arte -sorprendentemente- a sorpresa decide di affrontare un nuovo un viaggio in Calabria.
Berenson è così davvero l’ultimo dei grandi viaggiatori ad aver visto la Calabria. L’intero reportage esce sulle pagine del Corriere della Sera, proposto dal giornale in tre puntate. Siamo alle soglie dell’Italia del Boom, il miracolo economico è alle porte e anche la mutazione antropologica e fisica del paese sta per compiersi, finanche in Calabria. Quando ho riletto le brevi e veloci note dei diari di viaggio per il Sud dei Berenson, davvero mi sono chiesto cosa potesse spingere un uomo originale, ricco e appagato come il vecchio e aristocratico Berenson, già vecchissimo e infragilito, ad affrontare nel 1955, per giunta da solo, nuovamente un viaggio in Calabria.
La Calabria che non c’è più
Ad eccezione di una breve visita a Reggio negli anni ‘30, Berenson non era infatti mai più tornato a mettere piede nella regione. Forse una certa magia dei luoghi e delle atmosfere che durava, e doveva aver funzionato intatta a distanza di quasi mezzo secolo sulla sensibilità del vecchio esteta, come una calamita. Alla fine della vita, alla vigilia del suo secondo viaggio per la Calabria, si chiede, alla stregua di un mistico: «Mi ritroverei forse a sopportare fatiche, scomodità, e talvolta a soffrire di tedio, se non fossi incalzato dalla spinta di compiere, a mio modo, un pellegrinaggio?».
Fascino esotico e misticismo ben ricompensato, se è vero che Berenson ha avuto la fortuna, come pochi altri grandi viaggiatori del passato di vedere in tempo la Calabria che davvero non c’è più. Le ultime bellezze, ormai quasi cancellate. Restava vivo il ricordo dei panorami vasti e ammalianti, e di strade incerte e polverose. Ma per il ricorso alle taverne «neolitiche» dall’ospitalità grossolana ben sopportata nel 1908, teme invece di aver progettato il viaggio «durante un accesso di ottimismo».
L’esteta edoardiano troverà la regione rivisitata dopo il tour di mezzo secolo prima, profondamente cambiata nel paesaggio, modellato proprio dall’avvento della mobilità e dal tracciato di nuove strade. Resterà sorpreso dall’opera incipiente di una modernizzazione già molto spinta, persino efficiente. Ci sono «belle strade asfaltate», costruite e finanziate della Cassa per il Mezzogiorno, istituita cinque anni prima. Strade vere al posto dei tratturi sconnessi del suo primo giro in macchina per la Calabria, fatto nel 1908 assieme alla moglie Mary.
Tempi di mezzo
Sono ancora tempi di mezzo ma la strada e già protagonista di quella modernizzazione post-bellica. Dopo quasi mezzo secolo, due guerre mondiali, il fascismo e la prima la veloce e disordinata ricostruzione del dopoguerra, la Calabria è già un’altra cosa. La Calabria già scende dal lungo medioevo dei vecchi paesi-presepio e si raduna sulla strada. E la strada, il nastro d’asfalto, che raccoglie e incammina già un popolo eterogeneo e sciamante, «gente venuta da più parti: i vecchi cavalcando gli asinelli, gli altri inforcando biciclette, motociclette, vespe e lambrette».
Accanto alle strade nuove, spuntano le prime marine per i turisti, gli alberghi nuovi, i primi casermoni appena costruiti, che pure gli apparvero «alti e portentosi, in quella campagna senza abitanti». Il vecchio studioso è sorpreso dalle nuove comodità conquistate, si compiace dei nuovi alberghi. Erano gli anni dei Jolly Hotel, la prima catena a basso costo di hotel per il turismo e il commercio che l’industriale veneto Gaetano Marzotto aveva sparso nei principali capoluoghi di provincia del Sud e nei maggiori centri di snodo, anche in Calabria.
Di fronte ai mutamenti in atto negli anni ’50 Berenson in Calabria è convinto di avere sotto gli occhi «un esempio di come la spola vada avanti e indietro sul telaio del tempo». Se povertà, emigrazione e disagi avevano respinto per secoli le popolazioni lontano dalle coste, ora la ferrovia, le strade e il turismo richiamavano di nuovo gli uomini in riva al mare, il mare della storia mediterranea.
Prima della cementificazione
E tuttavia, allo stesso tempo, Berenson resta compiaciuto da un paesaggio che negli anni ’50, a lui che è un esteta raffinato, sembrava – tutto sommato- ancora integro, lontano dalle compromissioni e dalle brutture insanabili di adesso. La poesia e la forza suggestiva della Calabria, per lui, risiede ancora nel paesaggio, la cui forza magnetica restava sostanzialmente intatta, pur dal veloce sguardo del suo nuovo attraversamento automobilistico. Percorrendo infatti verso Nord «la strada che da Reggio volge a settentrione», la medesima strada che oggi si accompagna allo spettacolo del caos affastellato lungo la statale 18, Berenson si trova ancora ad ammirare «una riviera bella quanto quella la ligure o la francese».
Una sensazione che dura con certi tratti più belli riparati della riva tirrenica calabrese, che sembrano anticipare ai suoi occhi la più famosa costiera che va da Amalfi a Ravello fino a Sorrento. Berenson osserverà, persino compiaciuto, che buona parte del territorio costiero tirrenico era all’epoca ancora miracolosamente indenne, lontano dalle aggressioni e dagli abusi rovinosi della modernità: sarà l’ultimo a poterlo affermare. «La Calabria sfugge, per ora, ai guasti di un’edilizia con caratteri suburbani, non soffre la contaminazione delle cartacce e degli involucri da sigarette buttati per ogni dove, né subisce l’onta di affissi pubblicitari contro l’azzurro del cielo e del mare, come avviene in molti tratti della strada litoranea da Marsiglia a Livorno».
Una parte della spiaggia nel territorio di Praia a Mare
Praia a Mare: fine del viaggio
L’ultimo tratto è il percorso che dal Pollino scende a Mormanno, e poi verso la costa tirrenica che appare luminosa «attraverso una stretta gola di montagne». Sulla costa tirrenica, a Scalea, la strada apre ancora a «un teatro di bellezze magnifiche», paesaggi e sensazioni degne del viatico di un esteta appassionato al suo ultimo viaggio. L’addio alla Calabria viene dato dal vecchio Berenson, in una giornata di completo riposo, dalle sponde di Praia a Mare. Praia a Mare degli anni ’50, in una cartolina che – oggi – sembra incredibile e nostalgicamente evocativa: «Un prospero luogo di villeggiatura, con un’isola omerica di fronte e l’incantevole veduta dei monti che cingono il golfo di Policastro». La strada SS 18 ha stravolto e ridisegnato quei luoghi della costa tirrenica sino alla nemesi, rendendo irriconoscibili le tracce “omeriche” di quel paesaggio, che Berenson contemplò, seduto «all’ombra di rocce favolosamente romantiche».
Un’oretta di un giorno qualsiasi sulla statale 18 di adesso, in mezzo al traffico, tra le casette tirate su alla brava ai lati della strada, in mezzo al caravanserraglio degli alberghi vuoti e delle pensioni di mare, e il vecchio e sofisticato allievo di Walter Pater si sentirebbe catapultato in un girone dell’inferno dantesco. Una catastrofe del paesaggio che a lui, esteta incantato dalla poesia di una Calabria ruvida e frugale, il tempo a venire risparmierà di vedere. Quella inevitabile e corriva che invece resta a noi, sulla nostra strada.
Nel tentativo di realizzare una carrellata estiva di figure della musica calabrese che mi sembrano particolarmente significative e che ancora non tutti conoscono, mi viene in mente l’iniziativa di un noto quotidiano locale, che nel 2008 accolse l’idea magnifica di Franco Dionesalvi – indimenticato poeta e innovatore delle politiche culturali calabresi – di invitare cultori, specialisti e appassionati a scrivere con intento divulgativo, una Storia dei Musicisti calabresi. Ne venne fuori un volumetto intensissimo di informazioni. Non c’erano solo Mia Martini o Rino Gaetano, la cui popolarità aveva già raggiunto confini planetari, ma nomi poco noti o addirittura ignorati dal pubblico, persino quello locale.
Franco Dionesalvi
I lavori di specialisti, musicologi e storici, che pure esistevano, erano ancora noti solo al livello accademico degli studi. L’idea di Dionesalvi, così, restituì una più vasta popolarità a musicisti come Stanislao e Giuseppe Giacomantonio, Emilio Capizzano, Maurizio Quintieri, Alessandro e Achille Longo, Paolo Serrao. E, ancora, ai più lontani Giandomenico Martoretta, Leonardo Leo, Michelangelo Jerace, Leonardo Vinci, Giacomo Francesco Milano. Era un elenco senz’altro incompleto: mancavano Giorgio Miceli e un adeguato approfondimento del lavoro di Armando Muti o Osvaldo Minervini e altri ancora). In quegli anni era, però, uno sforzo atteso dai lettori. Che infatti lo apprezzarono assai.
Saverio Mattei e la Filosofia della Musica
Tra tanti musicisti riuscimmo a inserire un intellettuale del ‘700 che alla Musica tanto diede di cuore, di mente e di non infeconda attività. Un personaggio singolarissimo, che coi suoi natali calabresi onorò anche il nostro mondo della musica (in un modo singolare anch’esso), fu Saverio Mattei, andreolese, nato a Montepaone nel 1742 e morto a Napoli nel 1795. Quella del 1742 pare essere oggi la data di nascita più accreditata, ma per lungo tempo si è pensato al 1741. Gli studi continueranno senz’altro, anche rispetto all’attribuzione della residenza.
Quest’ultima è, per così dire, un fitto mistero. Esistono i ruderi di una villa di campagna, abbastanza nascosta, sulla strada verso S. Andrea Ionio, che molti abitanti attribuivano ai Mattei, e che dovrebbe essere stata la sua abitazione in Calabria. Vedremo dove ci condurranno le ricerche.
Saverio Mattei fu un intellettuale ed erudito, giurista, ebraista, grecista e filologo, consigliere di Ferdinando IV di Borbone. Fu il primo calabrese ad occuparsi in modo sistematico di Filosofia della musica – ma il primato si potrebbe estendere a tutto il Regno di Napoli -, avendo pubblicato proprio una Filosofia della Musica e altri scritti dedicati all’estetica e alla critica musicale. Naturalmente, tutto (o quasi) nella capitale.
Leggende e repliche sospese
Giovanissimo, si spostò – dopo il matrimonio con Giulia Capece dei Baroni di Chiaravalle – vivendo un frenetico viavai tra Napoli e S. Andrea Ionio, almeno fino a che i suoi studi e le traduzioni dei Salmi (I libri poetici della Bibbia tradotti dall’ebraico originale) non convinsero i due letterati Galiani e Tanucci a offrirgli una cattedra a Napoli, intorno al 1768. Poi venne chiamato a corte come Consigliere. E, forse, è lì che potremmo far sorgere la leggenda del Saverio Mattei paludato, pomposo, affettato al limite del comico, sempre dedito allo studio, con la testa fra i libri, con una risposta per ogni domanda e in continua lite con la moglie (la prima, in verità: la seconda, Orsola, arrivò nel 1784).
Duetti Sacri Sopra i Salmi Tradotti in poesia Dall’Avvoc[ato] Il Sig.r D. Saverio Maei […]: Frontespizio (Napoli, Biblioteca del Conservatorio “San Pietro a Majella”)Così lo dipinge il Socrate immaginario, commedia per musica in tre atti, un’opera rispetto alla quale si tramanda l’idea che il personaggio principale fosse ispirato a Saverio Mattei. Un Socrate, in fondo, già presente nelle Nuvole aristofanee, ma molto simile all’erudito le cui abitudini erano note al librettista (Lorenzi, con il contributo di Galiani) e al compositore (Paisiello) che erano suoi amici. D’altra parte accadde che le recite dell’opera, rappresentata nel 1775, fossero sospese improvvisamente.
Scene da un matrimonio
Il pubblico attribuì la decisione al fatto che le stravaganze del protagonista e le sue baruffe con la consorte fossero troppo simili a quelle di casa Mattei per poterlo considerare estraneo: si disse che l’opera faceva il verso nientemeno che al consigliere del sovrano e che dunque quest’ultimo aveva pensato, in un primo tempo, di vietarne le repliche in segno di disappunto. In realtà l’opera fu poi rappresentata anche nel Teatro del Palazzo Reale il 23 ottobre dello stesso anno.
Il colore farsesco e buffo della musica, ma anche la modernità comica e brillante della vicenda furono restituite dalla sapientissima revisione della partitura operata da Roberto de Simone per il teatro San Carlo nel 2005.
Musicisti suo palco del Teatro San Carlo di Napoli
Saverio Mattei e gli epistolari con Metastasio
Ma il legame di Saverio Mattei con la musica è davvero stretto se si considera che a musicare le sue traduzioni dei Salmi furono Piccinni, Jommelli, Hasse (un tedesco napoletano), lo stesso Paisiello. Insomma, tutti i più noti compositori della grande Scuola partenopea del secondo Settecento.
Per non contare gli epistolari con Metastasio, specialmente quelli sul rapporto tra poesia e musica che cambiano in modo radicale l’approccio critico con il tema dell’aderenza dell’una all’altra nell’azione scenica cantata. E poi l’Elogio del Jommelli in cui le sue tesi sul nuovo Teatro per musica si scontrano con la più nota e decisiva riforma di Christoph Willibald Gluck. Tutto riportato da una ristampa anastatica dell’edizione Forni che resta un riferimento fondamentale assieme ad un volume di Renato Ricco e Milena Montanile del 2016 dall’evocativo titolo Saverio Mattei, tradizione e invenzione, (quest’ultimo è la raccolta degli atti di un convegno tenuto a Salerno nel 2014).
Pietro Metastasio
Prima curatrice in Italia del volumetto intitolato Filosofia della Musica fu la stessa Montanile nel 2008, per Editoriale Programma di Padova, da lì gli studi su Saverio Mattei musicologo, critico e addirittura musicista si sono intensificati in modo esponenziale, chiarendo alcuni dubbi e lasciandone intatti altri come, per esempio, le effettive competenze strumentali possedute dal Nostro.
Sbirciando tra le lettere vediamo che per una pervicace convinzione si accostava con curiosità agli strumenti “greci” come l’arpa e il flauto, cioè la cetra e l’aulòs, tralasciando quelli moderni
Il musicista come legislatore dell’arte
E sempre dalla corrispondenza (con padre Martini, lo stesso Metastasio e altri eruditi dell’epoca) pare che le sue conoscenze in materia di contrappunto e tecnica strumentale non fossero profondissime (era un giurista, in realtà, il resto era passione e curiosità). E tuttavia sembrano sufficienti a comprendere le idee estetiche e le trame del teatro napoletano, il rapporto tra musica e verso, tra cantanti, librettisti, impresari e musicisti tanto da difendere uno di loro (il Maestro Cordelli) con totale devozione nella Probole Se i maestri di cappella son compresi fra gli artigiani. Una specie di arringa in cui difende l’arte della concertazione e della composizione come arte liberale e, implicitamente, pone la figura del musicista come legislatore dell’arte.
Le sue intuizioni musicologiche ed estetiche, organizzative e didattiche erano, per l’epoca, straordinarie. La riforma dei Conservatori napoletani, cui collaborò attivamente meriterebbe una trattazione a parte. E profondissimo fu il suo legame diretto – ma anche implicito – con la Biblioteca del Conservatorio S. Pietro a Majella che deve a Saverio Mattei la propria esistenza ed è, giocoforza, a lui intitolata. Una storia complessa fatta di lungimiranza e caparbietà che mette oggi a disposizione degli studiosi partiture e parti delle opere del Settecento di tutta la scuola napoletana. Dagli autori più noti ai minori. Un presidio di cultura musicale riconosciuto immediatamente anche dai musicisti francesi che inviarono copisti diversi per apprendere l’arte del contrappunto napoletano.
La biblioteca del conservatorio S. Pietro a Majella intitolata a Saverio Mattei
Nell’epoca in cui Diderot e gli enciclopedisti fissavano l’attenzione sulla critica musicale, Saverio Mattei, con le sue riflessioni e intuizioni estetiche talvolta ingenue, talaltra abbaglianti, fissava nel Regno di Napoli i termini di una Critica del teatro musicale emergente che avrebbe avuto ricadute cruciali anche sulla stampa dei decenni successivi.
Secondo i dati Istat del 2023 sui fenomeni migratori, sia interni alle regioni italiane sia dall’Italia verso paesi esteri, il tasso di emigrazione più elevato si registra in Calabria. Oltre il 7% dei residenti, nell’ultimo anno, ha abbandonato la regione.
Agosto, però, è il mese dei rientri per le vacanze. Gli emigranti si confrontano con le proprie nostalgie, misurano il benessere che può dare il ritorno alla casa natale. Anche gli aspetti peggiore della propria città di partenza si osservano attraverso un “filtro bellezza”, che ne minimizza i difetti. È successo anche a me e mentre la vocina nostalgica cantilenava nella mia testa mi sono imbattuta nell’articolo di un sito locale che annunciava l’uscita di un nuovo brano a firma Zabatta Staila e Solfamì: Mo.
Era la risposta a quel sentimento nostalgico. L’uso del dialetto, le espressioni idiomatiche e l’ironia sul cosentino medio, i suoi piccoli vizi e le sue manie avevano teletrasportato il lato più comico di Cosenza fin all’altro lato d’Europa.
Tra le varie canzoni, però, una su tutte può essere il manifesto della persona calabrese emigrata: Ohi Ma. È la dichiarazione d’amore di un figlio lontano alla madre rimasta a casa. Oltre i luoghi comuni sul prosciutto spedito assieme ai “pacchi da giù” traspare il disagio che si prova in una città non tua, in cui si parla una lingua che ancora non ti appartiene del tutto e in cui fai fatica a trovare il tuo posto. Ma, oltre quell’inadeguatezza, c’è la speranza di avere la propria occasione e la propria rivalsa. Non importa quale sia il sogno, che sia grande o piccolo: le luci delle altre città ci promettono che una chance possiamo averla, a prescindere da chi siamo.
Da lì l’idea di intervistare la crew cosentina.
Una band così radicata al territorio cosentino dove nasce geograficamente?
«L’embrione è nato a Casali, il quartiere in cui siamo nati. Poi l’idea un po’ più studiata, quindi le maschere e il resto, forse è arrivata a Londra».
Com’è che da Cosenza vi siete ritrovati lì?
«Per quanto riguarda Zabatta – risponde Solfamì – è stato un caso, non è stata una decisione andare lì. Io mi trovavo a Londra per altre cose, poi lui mi ha raggiunto. Dopo un po’ di tempo e un bel po’ di pressing da parte sua abbiamo iniziato. Zabatta aveva già fatto uscire un brano anni prima, per questo ti dico Casali come embrione. Poi, quando ci siamo trovati a Londra, dopo quattro o cinque mesi di convivenza, mi ha proposto di scrivere, fare musica e lavorare al progetto insieme».
«Di base – continua Zabatta –abbiamo sempre avuto la fissazione per la tradizione popolare. Soprattutto io, che ho nel mio background musicale la tarantella. La fissazione per il dialetto, gli accenti, le usanze o i costumi l’abbiamo sempre avuta. Poi, vivendo fuori, inizi a vedere le cose da un altro punto di vista, a riflettere su cose a cui stando qui non pensi. Sembrerà un po’ banale, ma è stato davvero così: lavoravamo da Starbucks e nelle pause scrivevamo le strofe. Tutto parte da una base di Eminem, perché li non avevamo neppure tutti gli strumenti per poter arrangiare. Non c’era nemmeno l’idea di fare delle canzoni una dietro l’altra o un progetto da proporre nei live. L’idea era quella di rimanere nei pixel del computer e fare una canzone ogni sei o sette mesi: buttare la bomba e sparire di nuovo»
Vivendo fuori, quali sono state le differenze culturali maggiori che avete sperimentato?
«Il rapporto con lo sconosciuto: qui fai amicizia in un attimo, lì c’è diffidenza. Ma questo è l’aspetto positivo di Cosenza, poi c’è l’aspetto negativo. Per esempio, l’assenza di opportunità. Questi posti lontani ti danno la possibilità di poterti perdere senza avere l’ansia di non ritrovarti», ci risponde Solfamì.
Una volta tornati, come è nata l’idea di fare dei concerti live?
«Sergio Crocco de La Terra di Piero ci ha chiamati per fare uno spettacolo allo stadio. Noi non lo conoscevamo, conoscevamo l’associazione però non ne facevamo parte. È “colpa” sua se abbiamo formato quella band live, perché ci ha chiamato e ci ha “imposto” di andare a suonare. Da lì siamo entrati a far parte della famiglia de La Terra di Piero».
Zabatta e Solfamì in concerto allo stadio San Vito-Marulla di Cosenza
Qual è il rapporto di Zabatta e Solfamì con la città?
«A Cosenza abbiamo suonato per un Capodanno, tra l’altro come headliner, ma abbiamo dovuto portare i nostri microfoni ed è stata una cosa un po’ così. Non mi pare ci sia gran voglia di chiamarci». A parlare è Solfamì, con Zabatta che ironizza sul fatto che nessuno sia profeta in patria e aggiunge: «La reazione del pubblico, invece, è ottima e si vede che ci vogliono bene fin dall’inizio. L’invito, infatti, è quello di venire ai live perché l’esperienza è totalmente diversa e la risposta del pubblico c’è sempre stata in questo senso».
Sotto le loro maschere di Zabatta e Solfamì, in fondo, si celano storie comuni a quelle di molte persone nate alle nostre latitudini. Racconti di emigrazione, di ritorni, di esperimenti per inventarsi qualcosa e trovare un proprio posto nel mondo. E la consapevolezza che, alla fine, più ci si allontana e più si scopre quanto i nostri posti di origine, nel bene o nel male, ci abbiano plasmato.
Quando, subito dopo la guerra, in una Germania sconfitta e divisa, Nina Weksler provò a far pubblicare il libro sulla sua personale esperienza di internata nel grande campo di internamento fascista di Ferramonti, si scontrò con il secco rifiuto del mondo dell’editoria tedesca perché, molto banalmente, il punto di vista delle case editrici era che nel lager di Tarsia non era successo niente, nessuno era stato ucciso o torturato, tutto era a dimensione umana.
Ferramonti non era Dachau, Buchenwald, Bergen Belsen e tanto meno Auschwitz, niente a che vedere con quanto succedeva nei campi di sterminio e di lavori forzati dell’Europa centro-orientale.
Il campo di internamento di Ferramonti
Mille giorni a Ferramonti
I mille giorni d’internamento di questa giovane donna ebrea non apparivano editorialmente seducenti, come se limitare la libertà delle persone, non fosse già, di per sé, un insulto a tutta l’umanità. Solo nel 1992, grazie alla casa editrice cosentina Progetto 2000, diretta da Demetrio Guzzardi, quei mille giorni raccontati da Nina diventano un libro, ripubblicato nuovamente nel 2020 per una seconda edizione.
Il libro dal titolo Con la gente di Ferramonti. Mille giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento, per volontà dello stesso Demetrio Guzzardi, è diventato uno spettacolo teatrale dal titolo Nina. Guten Morgen Ferramonti, presentato in anteprima nazionale al Salone Internazionale del libro di Torino nel maggio scorso, nello stand della Regione Calabria. Dora Ricca ha curato la scrittura drammaturgica e la regia, riuscendo ad adattare il testo, con tutta la sua moltitudine di dettagli e la complessità di emozioni, nello spazio e nel tempo della messa in scena.
Lara Chiellino in “Nina, Guten morgen Ferramonti”
Lara Chiellino diventa Nina Weksler
Ricca è riuscita a restituire sentimenti individuali di un dramma generale, ma anche immagini paesaggistiche, poesia e malinconia, gesti e parole, di quanti hanno sùbito la più violenta e cieca persecuzione della storia. Il racconto del popolo ebraico parla anche di un pezzo di Calabria, di una zona malarica divenuta, per la sua condizione di isolamento geografico, una salvifica Arca di Noè, grazie alla quale, migliaia di persone hanno trovato la possibilità di sopravvivere al genocidio messo in atto dalla furia nazifascista, intenzionata a realizzare la follia di quegli ideali di pulizia etnica, razziale e politica.
Lara Chiellino ha interpretato la protagonista Nina; un lungo monologo in prima persona il quale, attraverso digressioni che hanno consentito di andare avanti e indietro nel tempo del ricordo, ha saputo raccontare la moltitudine umana dei tanti internati, portatori di culture, lingue, religioni e costumi diversi. Il peso della storia è raccontato come un esercizio di equilibrio e di resistenza al dolore, la semplicità della gente di Calabria diventa elemento di somiglianza, quindi sentimento di empatia, da condividere con quel popolo perseguitato da secoli.
Illustrazione tratta dal libro “Con la gente di Ferramonti. Mille giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento” (edizioni Progetto 2000)
Da Leningrado a Ferramonti, storia di Nina
Nina, nata a Leningrado da genitori ebrei, si era trasferita con tutta la famiglia a Berlino dopo la rivoluzione bolscevica, a causa della guerra perde i contatti con la sua famiglia e, arrestata dalla polizia fascista a Milano, arriva a Ferramonti di Tarsia, il luogo in cui ha potuto imparare a guardare in faccia l’anima stessa delle persone, il loro comportamento e le relazioni umane, una università di vita in cui nulla è stato facile. Ricca ha portato in scena, grazie all’interpretazione di Lara Chiellino, una donna libera e indomita che, nonostante la sua condizione di internata, non ha consentito a nessuno di annientarla sul piano umano.
Proprio per questo, Nina, nei suoi mille giorni di prigionia, fatti di fame, freddo e malattia, ha continuato a coltivare la sua personale passione per la scrittura, ad apprezzare i libri, le albe calabresi, ma anche i profumi, in quelle piccole boccette di vetro ormai difficili da trovare. Quei profumi, quasi dotati di vita propria, nella loro capacità di apparire chiari, scuri, tristi e allegri, si presentano quasi come una metafora dell’esistenza.
Sono sempre le piccole azioni, i piccoli gesti, come quello di indossare una vestaglia, sistemare un cappotto sgualcito, rammendare un calzino, avvolgersi in una coperta, il movimento convulso nel letto cercando disperatamente di addormentarsi, le candele accese, a definire la tragicità della condizione umana.
Lara Chiellino e Dora Ricca
La regia attenta di Dora Ricca
La regia di Dora Ricca punta a mettere in scena delle azioni, ma anche gestualità, ritmo e sonorità; il corpo di Lara Chiellino diventa la costante fluttuante tra un dentro e un fuori, tra interiorità ed esteriorità. Azioni che parlano, divenendo, allo stesso tempo, enunciati performativi, frasi che accompagnando movenze producono un nuovo stato di cose, una nuova realtà. Parole e azioni che portano con sé, grazie alla forza dell’autoreferenzialità, il potere di trasformare la percezione di un universo delimitato da un filo spinato.
La Chiellino riesce, attraverso il suo sguardo e i suoi silenzi, a mostrare le espressioni degli altri internati, si riesce a far percepire la presenza di prigionieri in realtà assenti sulla scena, quasi come se il suo stesso sguardo divenisse lo specchio delle paure e delle trepidazioni di tutte le persone segregate e non solo a Ferramonti.
Baracca 62
Lara agisce in uno spazio definito dalla quarta parete, pochi oggetti di scena riescono ad evocare il senso di miseria, solitudine, freddo e sofferenza che si viveva nella baracca numero 62 così come in tutte le altre. Lo spettatore assiste allo sviluppo di una vicende in cui, i ricordi e gli incubi ricorrenti di Nina, accompagnati dalla sua stessa voce fuori campo, lo spingono ad interrogarsi sulla tragedia che sappiamo nascere sempre dalla perdita di Dio o dal sentimento di umanità. Dio non era ad Auschwitz, non era neanche in tutti gli altri campi di lavoro e di sterminio, sicuramente, anche se nascosto, era nel cuore di Nina che, indossato il suo tallit, assisteva alla preghiera del venerdì sera senza capire troppo il senso delle parole e, forse, non era neanche necessario capire, bastava la poetica delle parole stesse per sentire vicino una presenza sacra.
Soldati all’esterno del campo
Dove era Dio?
Ricordava benissimo di un Dio implorato e pregato da sua madre nel giorno del Kippur, ma in quei racconti non rammentava un Dio iracondo, quanto un padre benevolo verso i suoi figli. Ma Dio ora forse era assente e per questo bisognava invocarlo, ma la tragedia intanto si stava consumando.
Il suono del violoncello, i ronzii delle mosche, il rumore degli aerei diventano voce drammaturgica in grado di costruire immagini concrete, di una realtà interrotta solo quando la quarta parete si infrange. Lara Chiellino, spogliandosi dei panni di Nina e indossando i suoi, irrompe sulla scena, a quel punto non è più personaggio, ma un’attrice che narra quella storia che ha riguardato ognuno di noi, il nostro passato collettivo e, proprio per questo, parla del valore della memoria e soprattutto dell’umanità che non ha memoria, diversamente non si spiegherebbero le guerre e le persecuzioni alla quali assistiamo ancora oggi. Le ceneri dell’umanità non hanno insegnato nulla e rivolgendosi al pubblico, attraverso un dialogo diretto, lo costringe a prendere delle posizioni davanti alla crudeltà della storia e degli uomini.
Fino al 3 settembre Roccella Jonica e il jazz – con una puntatina di una sera a Martone – tornano al centro della musica con la 43^ edizione del Festival Rumori Mediterranei, seguita come sempre da Radio Roccella in diretta e con interviste a tutti i protagonisti. L’organizzazione, con la direzione artistica di Vincenzo Staiano, ha scelto di dedicare la kermesse al famoso crooner Tony Bennett, al secolo Anthony Dominick Benedetto, recentemente scomparso all’età di quasi 100 anni. Una decisione azzeccata, sia per la grandezza di un’artista con 70 anni di carriera costellata di enormi successi anche recenti, sia in ragione delle origini del cantante il cui padre John era emigrato negli USA nel 1906 da Podargoni – frazione collinare di Reggio Calabria – e la cui madre, Anna Suraci, aveva genitori anch’essi nati nella città dello Stretto.
Vinili e improvvisazione
Staiano ha anche il merito di aver dato un tocco di originalità alla rassegna, inserendo nel programma una produzione originale di Rumori Mediterranei, Jazz back to grammo, che, tra l’altro, sta riscuotendo un ottimo riscontro in altri appuntamenti del genere. Essa consiste, per come si legge nel comunicato stampa diramato dall’organizzazione, «nell’ascolto combinato di vinili di musica jazz, azionati da vecchi grammofoni, e musica dal vivo prodotta da tre musicisti».
Vincenzo Staiano
Il merito di aver custodito il materiale d’epoca va a Giuseppe Nicolò. È lui ad azionare la manovella del grammofono e illustrare i brani presentati, oggetto successivamente d’improvvisazione da parte dei musicisti. Essi sono stati, nella serata d’apertura, il sassofonista Carmelo Coglitore, il contrabbassista Pino Delfino e il batterista Francesco Cusa.
Il jazz “calabro-americano” a Roccella
Particolare attenzione per le stelle italo-americane del jazz, con un ovvio occhio di riguardo per Tony Bennett. È uno dei leitmotiv del Festival di quest’anno, e accentua e formalizza quanto accaduto in passato. I nostri emigrati hanno dato tantissimo al “jass”, come venne intitolato dal trombettista Nick La Rocca il suo primo album realizzato con la Original Dixieland Jass Band. E quando scriviamo “nostri” intendiamo anche i calabro-americani. Oltre a Bennett, Joe e Scott LaFaro, Harry Warren, Sal Nisticò, Chick Corea, John Patitucci, Michael Coscunà, Joey Calderazzo, Dave Binney, Jessica Pavone e George Garzone.
Un concerto delle precedenti edizioni del festival
Tribute ai paesani prevede produzioni originali con omaggi a Frank Sinatra, Scott LaFaro, Tony Scott, Henry Mancini, Sal Nistico’, Joe Venuti, Eddie Lang e Chick Corea da parte di famosi artisti quali Rachel Gould, Luis Bonilla, Riccardo Fassi, Mary Holvorson, Jessica Pavone, Jim Rotondi e Michael Rosen.
In cartellone anche un inedito documentario su Frank Sinatra e l’Italia a cura del Master in ‘Editoria e produzione musicale’ dell’Università IULM di Milano.
La settimana del jazz di Roccella prevede poi:
due serate dedicate alla Turchia;
una parte, “Next generation jazz”, riservata alle esibizioni di giovani musicisti;
master class di strumento e voce;
presentazioni di libri e CD;
incontri con protagonisti del jazz internazionale.
Roccella suona il jazz: una settimana, 18 concerti
Inoltre, spazio significativo, come da tradizione, alle produzioni originali. Esse saranno nove su un totale di 18 concerti. Quattro le prime nazionali.
Tra i partecipanti particolarmente atteso Lino Patruno, alla sua prima apparizione a Roccella. Personaggio musicalmente molto eclettico, ha il merito di offrire all’ascolto il jazz più tradizionale. E, non per caso, consegna agli amanti del genere la teoria secondo la quale all’origine del dixieland, e quindi del jazz, ci sarebbero i musicisti italo-americani, più specificatamente con radici in Sicilia.
Sergio Cammariere
Altra partecipazione italiana di spicco quella di Sergio Cammariere, di nuovo al Festival a parecchi anni di distanza dall’ultima apparizione all’apice del successo. Quest’anno proporrà i brani del suo album di recentissima pubblicazione.
Tutti a Roccella, dunque, ad ascoltare il jazz. Con una particolare punta d’orgoglio per i calabresi che, anche in questo campo, possono affermare a ragion veduta di aver fatto, partendo da zero, qualcosa di positivo per il mondo intero.
L’Aspromonte ha avuto un suo Rinascimento. Qualcuno direbbe che ha contribuito in modo sostanziale allo sviluppo di quello italiano.
Pochi sanno infatti che i borghi della Montagna Lucente ospitano un vero e proprio patrimonio diffuso di beni storico-artistici, spesso celati, comunque poco conosciuti. O addirittura sequestrati perché all’interno di immobili inaccessibili o a rischio crollo.
Che i beni artistici italiani non siano valorizzati a dovere è noto. Ma che l’Aspromonte nasconda opere scultoree di rilevanza nazionale e mondiale, lo sanno in pochi. Anzi pochissimi Pasquale Faenza, storico dell’arte e già direttore del Museo Rohlfs della Lingua Greca di Bova, ha aperto a me e a molti questa finestra.
Partito con l’intento di scandagliare il cosiddetto modello Bova e di inserire il suo museo in una più ampia narrazione della capitale della Calabria greca, avevo sondato qualche conoscenza per ampliare lo spettro della mia ricerca.
Tra i contattati c’era Pasquale. Con lui il discorso è caduto sui beni culturali che rendono l’Aspromonte di per sé opera d’arte, quasi un museo a cielo aperto.
L’arte d’Aspromonte: dal Rinascimento al Barocco
È una torrida mattina di luglio. Il sole è già implacabile e l’aria comincia a rarefarsi. Seduto davanti a una tazza di caffè troppo calda, tra il vociare degli astanti, ascolto Pasquale.
«Proprio dall’Aspromonte sorge il Rinascimento. Boccaccio e Petrarca imparano il greco attraverso Barlaham di Seminara, padre dell’Umanesimo, e Leonzio Pilato, tra i primi promotori dello studio della lingua greca nell’Europa occidentale e traduttore di Omero.
È il tempo in cui la Calabria con il suo monachesimo è très d’union tra Costantinopoli e l’Europa cristiana.
In questo contesto l’Aspromonte ottiene un ruolo di primo piano. Grande contenitore di legname e pece e sito di produzione della seta, è una terra florida per commerci e interscambi, sede di cenacoli culturali pari a quelli del Centro Italia.
Fioriscono botteghe, vengono prodotte e fatte circolare opere d’arte di pregio per arricchire i moltissimi luoghi di culto che insistono su quei territori. Tutto questo ci porta a comprendere il ruolo che ha avuto questa montagna non solo per la Penisola, ma per l’intera area mediterranea».
Un passato eterno tra riti e simbologie
Pasquale si riferisce al periodo tra ’400 e ’600. In questa epoca la Calabria ha un ruolo centrale nella crescita demografica ed economica del Paese.
È un momento in cui «esisteva un’economia che oggi non c’è più, ma che è stata fondamentale per la nascita di questi movimenti culturali». Le tracce di questo passato, oggetto di una devozione popolare estremamente radicata, si riflettono nei culti mariani e nella rappresentazione dei santi guerrieri e degli elementi che li corredano.
Ad esempio, San Leo con la palla di pece in mano, o le varie Madonne che ostendono le mele, ’i pumiceddhi, tipiche di queste latitudini. O San Teodoro e San Michele, miliziani, emblema di difesa dalle invasioni saracene.
Questa simbologia svela le ricchezze e le criticità di un intero territorio, fino ad arrivare al culto pagano della Grande Madre e della fertilità, cristallizzato nell’effige della Madonna di Polsi. O nelle Pupazze di Bova. Oppure nella raffigurazione di Sant’Anna e sua figlia.
La Madonna con Bambino di Giuseppe Bottone
Arte d’Aspromonte: capolavori nascosti
Insieme alla Fondazione Scopelliti, Pasquale promuove Capolavori d’Aspromonte. questo progetto, a sua volta, deriva da Rinascimento di Aspromonte, ideato e gestito qualche anno fa insieme a Giuseppe Bombino, allora presidente del Parco.
«Tutto è iniziato col restauro dell’Annunciazione di Gagini nella chiesa di Bagaladi condotto assieme all’antropologa Patrizia Giancotti e promossa poi con la realizzazione di contenuti digitali collegati a un QR code. È stato un grande successo». Capolavori d’Aspromonte, continua Pasquale, «parte da quell’esperienza e nasce per valorizzare il patrimonio storico-artistico poco noto e diffuso in tutto l’Aspromonte.
Ogni centro storico possiede un’opera d’arte databile tra ’400, ’500 e ’600. Da Gagini, a Montorsoli a Pietro Bernini, i nostri borghi traboccano di opere importantissime che ci consentono di creare percorsi di conoscenza e riscoperta per rileggere il Rinascimento italiano sotto una nuova luce. Attraverso una lente che esce dal seminato del toscano-centrismo.
La storia dell’arte è stata letta partendo dalle grandi capitali degli Stati italiani, ma quello che conosciamo è solo una parte».
Arte d’Aspromonte: un percorso tra i borghi
La lista dei siti dove sono presenti sculture marmoree databili tra XV e XVII secolo è lunga e articolata.
Passa dalle ultime colline che diradano verso il mare fino al cuore della montagna.
Sono cinquantadue borghi che vanno da Bova a Pentedattilo, da Scilla a Seminara, da Bagaladi a Roccaforte del Greco, da Gallicianò ad Africo Vecchio, da Caulonia a Stilo, da Oppido Mamertina a Terranova, da Sant’Eufemia a Palizzi. In alcuni di questi siti sono state già organizzate escursioni e molte altre sono già programmate.
In un luogo in cui germinano le proto-filiere del turismo lento, Pasquale ha un obiettivo: unire i percorsi e arricchire le escursioni naturalistiche con un’offerta più sfaccettata.
«La meta finale è potenziare la fruizione turistica coinvolgendo le guide turistiche. In particolare, le guide del Parco, che conoscono l’Aspromonte e lo battono quotidianamente. La Fondazione finanzierà la redazione della guida che sto compilando in due versioni, cartacea e digitale. Una volta tracciati i siti e individuati i percorsi, le guide diverranno veri e propri moltiplicatori di nuovi viaggi di senso. La creazione di sentieri della cultura attorno a percorsi naturalistici già battuti, apre scenari nuovi. Questi sono collegati a un Rinascimento aspromontano sconosciuto. Ciò rappresenta di per sé una notizia e, in seguito a studi dedicati, potrebbe riservare grandi sorprese», prosegue Pasquale.
La Madonna della Candelora di Giuseppe Bottone
Tutti gli ostacoli da eliminare
Proprio lo studio e la ricerca sono il primo ostacolo.
«Sul territorio mancano gli enti che se ne occupino. Non mi pare che le Università calabresi abbiano mai aperto un filone di studio e ricerca sul tema né che l’Accademia di Belle Arti di Reggio abbia prodotto pubblicazioni dedicate.
Guarda invece l’escursionismo naturalistico: molte tra le guide hanno solidi studi di agraria alle spalle e l’Università Mediterranea ha sempre fatto la sua parte.
La carenza di approfondimento scientifico sui beni culturali in Aspromonte intacca l’avvio di un percorso che punta alla valorizzazione e all’apertura di nuovi comparti del mercato turistico».
A ciò si aggiungono altre criticità non proprio secondarie: i siti che ospitano tale patrimonio artistico sono spesso inaccessibili.
Sono chiese secondarie, a volte fatiscenti, che soffrono la mancanza di parroci e personale.
«Nelle chiese dei territori più isolati, tutto va gestito con cautela. Ma l’indotto economico potrebbe diventare uno sprone per far riaprire quei luoghi. Basta vedere quello che è successo a Pietrapennata di Palizzi». Nella chiesa dello Spirito Santo è conservata la Madonna dell’Alica, un gruppo marmoreo cinquecentesco attribuito ad Antonello Gagini nel periodo della maturità.
«La chiesa era inaccessibile e pericolante. Con il coinvolgimento del Fai, della comunità e del parroco di Palizzi, abbiamo puntellato il tetto pericolante e abbiamo organizzato delle escursioni.
E poi, grazie al tramite di una guida, alcune donne del luogo hanno preparato e venduto le colazioni. Tutto molto alla buona, ma questo inizio ha fatto comprendere il ruolo di traino che un bene turistico può esercitare. Il web, poi, può fare il resto». Lo stesso meccanismo è stato avviato anche ad Ardore con la Madonna della Grotta di Bombile, o ad Oppido con le opere custodite nella diocesi, dove due parroci hanno incentivato la valorizzazione di questi patrimoni.
La Madonna della Grotta di Antonello Gagini
Etnografia e arte in Aspromonte: oltre il turismo lento
Alla base serve un lavoro amplio che va dallo studio alla catalogazione, dall’aggiornamento alla divulgazione.
Con incursioni che si spostano dalla storia dell’arte all’etnografia. Perché il patrimonio diffuso in Aspromonte non ha solo un valore artistico, ma soprattutto etnografico.
«Più che altrove, in Aspromonte sono rimasti una forte devozione popolare, un senso di comunità mai sopito e una ritualità che ancora si tramanda vividamente. Al valore storico-artistico del territorio si associa la devozione popolare che lo rende vivo e lo trasforma in vero e proprio bene immateriale.
Sul settore etnografico la Calabria è scoperta. A parte il lavoro svolto all’Unical da Vito Teti, oggi in pensione, c’è stato poco. In questo momento ci saranno uno o due etnografi presso le Soprintendenze. Da direttore del Museo Rohlfs ho dovuto realizzare in autonomia le schede di catalogo. È un vero peccato: l’aspetto che potrebbe avere maggiormente successo è anche quello poco studiato». Il passaggio verso la valorizzazione etnografica – che oggi è il grande richiamo all’arcaico o all’esotico – è un percorso lungo e non facile.
«Significa lavorare sulle e con le comunità, solitamente gelose e diffidenti se si sentono esautorate del ruolo di protagoniste assolute. È un lungo lavoro di preparazione, ascolto, confronto e persuasione.
Ma quando inizi a comprendere il valore dell’effige di devozione che caratterizza il tuo paese, il ruolo che ha avuto, ad esempio, il tuo antenato, quello della tua comunità, fino ad arrivare a quello della Regione in un contesto mediterraneo allargato, riscopri un tesoro. Il fatto che una nuova generazione possa conoscere il proprio Rinascimento o il processo di sviluppo della Calabria, arricchisce i centri storici e i borghi che rischiano di diventare contenitori vuoti, pieni magari di neonate botteghe, ma privi di contenuti. È questo percorso che crea il valore aggiunto di un brand autentico».
Arte: quale brand per l’Aspromonte
In una recente intervista, Francesco Aiello, docente di Politica economica dell’Unical, è stato netto: non è possibile mettere a punto un sistema turistico basato solo sul turismo lento.
In una breve conversazione telefonica con chi scrive, il prof di Arcavacata ha affermato: «Chi sostiene che il turismo lento possa arrivare a costituire il 13% del Pil regionale non dice la verità.
Oggi registriamo una forchetta che va dal 4 al 5% con margini di miglioramento. Ma il bacino di utenza del turismo lento non può spingere la quota parte del nostro prodotto interno lordo a una doppia cifra. Serve piuttosto lavorare su strategie in grado di caratterizzare il sistema montagna, differenziandolo dall’offerta presente in altri territori. Perché scegliere Camigliatello o Gambarie invece di Roccaraso?»
Questo induce una riflessione sul fatidico brand Aspromonte di cui avevo parlato con Tiziana Pizzati a Samo.
Anche Pasquale insiste molto su questo tema: «La nostra cultura (e la conseguente narrazione) si è sempre fermata all’archeologia, ad una Magna Grecia più raccontata che “resuscitata”.
Così quando arrivi in Calabria, in particolare nel Reggino, ti aspetteresti di vederla, ma non la trovi. Non puoi basare l’identità su un elemento commerciale, come sono vissuti i Bronzi di Riace a Reggio. Se a questo aggiungi che la popolazione calabrese, in media, ignora la propria storia, il cerchio si chiude».
Quest’esperienza, quindi, rischia di sconfinare nella mitopoietica. Certo, un percorso di promozione turistica è iniziato. Tuttavia, questa lenta operazione ha una grande lacuna. Spiega ancora Pasquale «Non puoi pensare di creare una crescita turistica di lungo periodo se non hai portatori autentici di quel vissuto, testimoni viventi, presenti, narranti e agenti di una storia cristallizzata in opere, rituali e costumi di cui ignori origini e sviluppi.
Non puoi permetterti di basare una strategia di sviluppo sull’idea del selvaggio e sul dramma dell’abbandono. Se invece lavori per potenziare questi luoghi, esaltandone la cifra culturale ed etnografica, puoi creare un modello autenticamente sostenibile con ampli margini di crescita. Puoi intercettare nuovi target e utenze: penso ad appassionati di arte, operatori del settore, e così via. Ecco perché è necessario insistere sulla formazione delle comunità e dei suoi membri. Solo questa riscoperta può scardinare un senso di inferiorità interiorizzato».
Domenico Guarna
La voce delle guide
Su tale aspetto concorda Domenico Guarna, giornalista e guida escursionistica Agae: «Il turismo è una scienza sociale ed economica e da tale va trattata. Ciò implica studiare operazioni scientifiche basate su dati, proiezioni, valutazioni di mercato.
Inoltre, occorre coinvolgere le comunità, altrimenti si rischiano danni. Resta il fatto che non conosciamo quello che abbiamo e quindi non siamo in grado di presentarlo».
Domenico si riferisce a un fatto accaduto a Montebello Jonico. Lì era in programma il restauro della statua marmorea della chiesa madre. La comunità era stata informata e coinvolta in modo troppo blando.
Ne scaturì una polemica, dovuta alla paura che l’opera fosse sottratta e mai restituita. Le posizioni si irrigidirono e, nonostante i tardivi incontri di mediazione, quel restauro non andò in porto.
Raccontare la montagna: la forza del sapere
«In territori come i nostri le guide hanno un valore specifico. Luoghi abbandonati, privi di elementi che ne facilitino la decodifica, hanno bisogno di un racconto competente. Serve un ripensamento del paradigma economico: oltrepassare il turismo lento o l’organizzazione di un evento culturale spot per costruire delle vere e proprie economie», continua Domenico.
La parola chiave è mettere a sistema perché, ad esempio, ad oggi manca un circuito unitario dei beni storico-culturali: «L’inaccessibilità di certi posti non può più essere tollerata. Guarda cosa succede con l’area archeologica Griso Laboccetta di Reggio.
Perché per quest’area, come per innumerevoli altre in città o in Aspromonte, non è stato studiato un sistema di ingresso a ciclo unico?
E perché dopo la sentenza del Consiglio di Stato che ha annullato il bando guide emanato dalla Città Metropolitana, competente in materia turistica, nessuno è intervenuto per colmare il vuoto legislativo evidenziato? E dire che il numero delle guide turistiche in Calabria è talmente esiguo da necessitare un rimpolpamento», chiosa Domenico.
L’Epifania di Giovambattista Mazzolo
Aspromonte: il programma che non c’è
Che a tutto questo si sommi un deficit di pianificazione da parte degli enti pubblici non è una novità.
Così, al riguardo, Pasquale: «Le istituzioni non sono mai riuscite a creare itinerari fruibili. Pensa che sui parchi archeologici avevo iniziato un lavoro per fare riemergere la biodiversità archeologica.
Funzionava così: mentre si effettuava uno scavo, con il supporto di botanici e genetisti, venivano utilizzati i pollini rinvenuti per recuperare certe piante che poi dovevano essere coltivate.
Questo ti permetteva di ricreare l’ambiente originario e di mettere a punto diverse produzioni (fichi antichi, nocciole, ecc) da vendere all’interno del parco stesso o presso i circuiti museali. Il parco stesso diventava un’azienda. Avevo proposto l’idea al Parco Archeologico di Locri. In diversi mi avevano risposto che non era una strada percorribile. Oggi lo sta facendo Pompei…», chiude Pasquale.
Chiese Aperte
Per parte sua, la Diocesi di Reggio, attraverso l’Ufficio per i Beni Culturali guidato da Don Mimmo Rodà, ha promosso il progetto Chiese Aperte.
Dal 2012 al 2017 l’iniziativa ha formato circa 300 volontari nel quadro della valorizzazione degli edifici di culto di rilievo storico per farne operatori turistici delle loro stesse chiese di appartenenza.
Il tutto con un obiettivo finale: spingere i beneficiari di quella formazione a realizzare cooperative e associazioni in grado di dare impulso al settore del turismo culturale e religioso. Secondo Lucia Lojacono, direttrice del Museo diocesano di Reggio Calabria, «non si è riusciti ad avviare queste forme organizzate.
È necessario ripartire con forme di intervento diverse. Ad oggi restiamo una componente fondamentale nel sistema beni culturali: costituiamo la Consulta regionale in costante dialogo con Regione e Soprintendenza e siamo sollecitati a produrre elenchi dei beni su cui intervenire prioritariamente». Anche perché, spiega Don Rodà, «abbiamo una flessione importante dei proventi dell’8×1000, utilizzati per finanziare Chiese Aperte.
Il deficit di fondi ci impedisce di intervenire come vorremmo e non siamo in grado di coprire da soli le spese per il restauro delle chiese secondarie. A maggior ragione abbiamo bisogno di un cofinanziamento da parte delle comunità residenti.
Ma c’è una notizia: abbiamo sottoscritto un protocollo con la Regione che ci permette di partecipare ai bandi europei di finanziamento, impossibile fino a ieri perché, come enti ecclesiastici, non eravamo assimilati agli altri enti privati. Abbiamo aderito con convinzione al progetto Capolavori d’Aspromonte a cui partecipiamo attraverso le diocesi di Oppido-Palmi e Locri-Gerace».
Don Mimmo Rodà, il direttore dell’Ufficio Beni culturali della diocesi di Reggio Calabria
Le amministrazioni facciano la loro parte
Carenza di personale, poco coordinamento pubblico, esiguità di fondi, deficit di pianificazione, incapacità di promuovere sistemi di cooperative legate al privato sociale sono le principali criticità. Mescolare un approccio misto bottom-up e up-bottom potrebbe costituire una soluzione per rafforzare quanto già in atto e per cui è essenziale la regia delle amministrazioni pubbliche – Regione, Province, Comuni, Parco Aspromonte – soprattutto in termini di strategie e di processi a lungo termine di project financing.
Il ricordo è solo la costruzione di una realtà soggettiva, emozioni improvvise che agiscono costruendo, o ri-costruendo, un tempo oggettivamente inesistente, ma concreto nella percezione di impressioni dettate da una dimensione tanto sfuggente quanto radicata nella propria storia e nel proprio vissuto. In virtù di questo, Gaetano Tramontana, regista, autore, attore e direttore artistico di Spazio Teatro – associazione culturale nata a Reggio Calabria nel 1999 – costruisce la drammaturgia di Venuti dal Mare, un racconto nel quale si intreccia la storia di un giovane ragazzo e quella di una comunità entusiasta per l’arrivo in città di quei due misteriosi guerrieri opliti.
Venuti dal Mare, 50 anni dopo i Bronzi
Venuti dal Mare è uno spettacolo teatrale nato nel 2022. Un’idea che Tramontana coltivava già da molto tempo si è concretizzata in occasione del cinquantesimo anniversario del ritrovamento dei Bronzi di Riace, avvenuto il 16 agosto del 1972. Da circa un anno lo spettacolo teatrale calca con successo i palcoscenici italiani, cercando di restituire al pubblico una storia, quella del 1981, vista con gli occhi di un adulto, Tramontana, che posa il suo sguardo indietro, al ragazzo che era e a una città, Reggio Calabria, ancora socialmente provata per essersi vista negare la possibilità di diventare capoluogo di regione, rimanendo così relegata in una condizione di perenne marginalità.
Uno dei Bronzi circondato dalla folla dopo il ritrovamento di 50 anni fa
Un romanzo di formazione
Tramontana che in luglio ha replicato lo spettacolo a Torino e Frosinone, accompagnato da Ernesto Orrico che per l’occasione ha abbandonato il suo ruolo di attore per diventare Dj, riprenderà le repliche in autunno, riportando in scena le lancette indietro nel tempo, per il suo personale racconto di ex adolescente nella città della Fata Morgana.
Se è vero che Venuti dal Mare rientra in quel genere riconosciuto come Teatro di Narrazione, quindi quel tipo di drammaturgia costruita intorno a temi di attualità politica e sociale, in cui l’attore coincide con la figura di un narratore testimone dei fatti accaduti, risulta altrettanto vero che la performance di Tramontana presenta alcune peculiarità che lo collocano, azzardando un accostamento strettamente letterario, nella dimensione del romanzo di formazione, quindi una narrazione che segue la crescita del personaggio.
Tramontana e Orrico
In scena non c’è un narratore di cronache esclusivamente collettive, ma un attore che attraverso il suo monologo ci rende partecipi di un suo esclusivo flusso di coscienza. Ciò che affiora è il suo racconto personale messo in relazione con le aspettative di una città che, con l’arrivo dei Bronzi, si illudeva di uscire dalla sua condizione di periferia.
Il testo drammaturgico è concepito come un ipertesto, così una serie di eventi storici raccontati in ordine sparso, quasi come se fossero dei link di un’epoca pre-digitale sui quali cliccare, creano una narrazione tanto emozionante quanto incompleta. Ma è proprio nell’incompiutezza descrittiva, tipica dell’alternarsi dei ricordi, che si determina la sua originalità.
Viaggi paralleli
Una trasmissione radiofonica diventa l’espediente narrativo per dare inizio ad un racconto privato che inevitabilmente raggiunge un pubblico fatto soprattutto di giovani. È il racconto di un ragazzo degli anni ‘80 che parla con altri giovani che, diventano in quel momento, nonostante lo scarto temporale, suoi coetanei. Tramontana riesce a tenere lontana ogni forma di retorica paternalistica, scarta il senso di superiorità che si presenta quando si parla della propria giovinezza. Semplicemente, racconta delle cose successe in un momento in cui il mondo stava cambiando e ci riesce con ironia e leggerezza.
I Bronzi nel Museo di Reggio Calabria
I Bronzi di Riace, figure avvolte da un alone di mistero che ne rafforzava la popolarità, dopo il lungo intervento di ripulitura e restauro presso il Museo Archeologico di Firenze, finalmente nell’estate del 1981 stavano per tornare a casa, non prima di un passaggio a Roma per volere del presidente partigiano Sandro Pertini.
Il Museo Archeologico di Reggio Calabria era pronto ad accoglierli, una città intera lusingata dal fatto di poter essere visitata, come Pompei, Roma e Parigi, da persone di tutto il mondo, per l’importante scoperta delle antiche, preziose ed enigmatiche statue greche. Ma quello dei Bronzi non è l’unico viaggio. Parallelamente, in pullman, dopo una gita tra Francoforte, Londra e Parigi, la sera del 2 agosto 1981 un gruppo di giovani scout faceva ritorno a casa.
Reggio Calabria tra passato e presente
Attraverso il viaggio, Tramontana, traduce la sua esperienza interiore: una nascita come quella dei Bronzi emersi dalla profondità del mare, l’adolescenza fatta di esperienze nello spazio e nel tempo, la maturità fatta anche di disillusioni e, dopo il lungo viaggio, l’incontro con la morte, il primo lutto di un quindicenne che, per quella “mania, di dare ai nipoti il nome del nonno”, vedeva il suo nome scritto sul manifesto a lutto. Nel parallelismo tra il suo viaggio personale e quello dei Bronzi, Tramontana, non fa altro che restituire se stesso e il suo percorso di uomo inserito nella circolarità della vita.
Un altro momento di Venuti dal Mare (foto Marco Costantino)
Da maggio ad agosto una serie di eventi aveva segnato la storia non solo personale, ma anche quella della sua città e di un mondo sulla soglia tra un passato e un presente destinato alla digitalizzazione. La morte di Bob Marley, l’incidente mortale di Rino Gaetano, la tragedia di Vermicino con la morte in diretta televisiva del piccolo Alfredino Rampi, l’attentato a papa Wojtyla, sono le storie che si alternano ai ricordi personali di quei venti giorni lontani da casa e con pochissimi contatti con la famiglia, giusto qualche minuto per dire «stiamo bene, ci stiamo divertendo», tanto poi i genitori «si sarebbero sparsi le notizie fra loro», perché ci volevano molti gettoni per telefonare dall’estero e i soldi dovevano bastare fino al ritorno a casa.
Venuti dal Mare tra spazio e tempo
La musica che si alterna ai ricordi e ai racconti emoziona per la sua capacità di riportarci a quel 1981. I successi musicali diventano un ponte con il passato, trascinando il pubblico in una dimensione temporale accarezzata da successi come Enola Gay, Sfiorivano le viole, No woman no cry, Summer on a solitary beach, La costruzione di un amore e Quello che non ho. Un giradischi, i dischi in vinile, il cubo di Rubrik che in Italia diventa una moda proprio nel 1981, uno zaino, il modellino di una Volvo 343 per ricordare la tragica morte di Rino Gaetano, diventano oggetti capaci di superare la dimensione del monologo, imponendosi in una dimensione corale della scena.
L’estate è il riferimento temporale delle vicende, ma il tempo più che indicare un periodo si avvicina molto di più a una condizione, una qualità di ciò che è stato. Non un tempo misurabile, quanto una esperienza pronta a comunicare valori condivisi e relazioni sociali. Per questo motivo il narratore si chiede:
«Quanto spazio è necessario, perché il tuo mondo cambi? Quanti metri, quanti chilometri Sì, spazio. Non tempo. Quello è facile basta un calendario… È nel tempo che siamo abituati a calcolare i cambiamenti, no? Ma lo spazio?».
Un tempo policronico
Non è il tempo a creare le relazioni sociali, quanto lo spazio. I 700 metri che separano la casa dal museo di Reggio Calabria, le strade percorse ogni giorno, gli angoli della città conosciuti a memoria, sono gli spazi che creano le relazioni sociali e allora il tempo diventa policronico, legato ai cicli della vita e delle stagioni, altro da quel tempo così come siamo abituati a conoscerlo, misurabile quantificabile e monetizzabile. La condizione dell’estate si scontrerà con quella dell’autunno che conoscerà la delusione per un tradimento e la fine dell’entusiasmo di una città che assisterà alla conclusione delle lunghe file davanti al museo. I due guerrieri venuti dal mare finirono per essere inghiottiti, insieme ai ragazzi degli anni ‘80, in uno spazio vuoto e in un tempo monocronico incapace di creare relazioni.
Il monologo di Tramontana (foto Marco Costantino)
Venuti dal Mare è una produzione Spazio Teatro. Scritto e interpretato da Gaetano Tramontana, con la partecipazione in scena di Alessio Laganà (Dj set live), la collaborazione artistica di Anna Colarco e, per luci e audio, di Simone Casile.
Tutte le celebrazioni dei centenari sono occasioni per scoprire luoghi, emozioni, oggetti nascosti, non solo figure importanti, che hanno segnato la storia di un Paese. Celebrare è di per sé retorico, ma ha un suo intendimento curioso, frizzante. Innesca la gioia della ricerca, dell’incontro, del confronto e del dibattito. A suo modo può essere una rinascita attraverso il caleidoscopio delle nuove prospettive con cui si indaga, attraverso i nuovi strumenti di cui si dispone. È ciò che accade per Stanislao Giacomantonio nel centenario della scomparsa.
La famiglia volle donare le sue carte alla Biblioteca Nazionale di Cosenza, un Fondo ricco di informazioni storiche, sociologiche e antropologiche, non solo musicali, per chi voglia leggerlo e studiarlo come affresco di un’epoca in fermento. Un’epoca mobile che prelude alla prima grande catastrofe militare ma che vede la Calabria subire anche due grandi catastrofi naturali tra il 1905 e il 1908.
Stanislao Giacomantonio e la città
Tra i musicisti cosentini a cavallo tra i due secoli Stanislao Giacomantonio occupa un posto molto visibile. In primis perché a lui è intitolato il Conservatorio della città. Poi, forse, perché ci appare come un personaggio tenero, appassionato, pieno di sogni, caparbio. Scomparve a 44 anni, quando era ancora in attesa di un riconoscimento solido e significativo nella temperie musicale che dal verismo passava ad altre espressioni del teatro d’opera.
Un concerto nel cortile del Conservatorio “Stanislao Giacomantonio” di Cosenza
La storia di Stanislao Giacomantonio mi sembra di averla sentita mille volte. Mi è capitato di leggere tesi accademiche sulla vita e l’opera. Ero presente alle selezioni del concorso lirico che gli hanno dedicato, alle più recenti rappresentazioni del suo atto unico che conosciamo col titolo La Leggenda del Ponte, o quando, nel ’78 eseguirono le sue due opere al Teatro Rendano con Ottavio Ziino a dirigere, sebbene fossi così giovane da non ricordare quasi nulla. Ricordo il pubblico, sì, assai numeroso, il libretto e il commento del Maestro Ziino: in fondo non si può dire che Stanislao Giacomantonio non abbia avuto attenzione e affetto dalla sua città, soprattutto dopo il lavoro costante del figlio Giuseppe.
Da Fior D’Alpe a La Leggenda del Ponte
La prima rappresentazione di Fior D’Alpe, un atto unico del 1905 dal racconto di Teresita Friedmann Coduri, e su libretto del noto avvocato Filippo Leonetti, fu un vero trionfo nel maggio del 1913, al Comunale di Cosenza. Ne parlarono con immenso entusiasmo non solo in città ma a Roma, a Milano, una fitta rete di giornalisti portò la notizia fin negli USA. A Cosenza il Fondo Giacomantonio della Biblioteca Nazionale conserva una messe di occasioni di ricerca e analisi davvero corposa, perché, a fronte di alcune opere pubblicate recentemente ci sono ancora molti fogli, soprattutto composizioni per canto e pianoforte, che attendono una revisione accurata e la pubblicazione.
Il racconto originale di Teresita Friedmann Coduri
Solo un esempio: nel primo faldone ritroviamo le varie stesure di Fior d’Alpe ma, già nel primo fascicolo, Giac. I/1 col n° 44350, ci sorprende una malinconica, dolente lirica per canto e pianoforte che rivela una forte capacità di adesione al testo -endecasillabi a rima alternata- databile a cavallo tra ottocento e novecento, e soluzioni armoniche semplici ma efficaci. Poi, oltre ai materiali che dispiegano la genesi della sua opera più nota, c’è una cospicua fonte di dati da cui accertiamo, tra l’altro, che con Fior d’Alpe il musicista aveva deciso di partecipare a un concorso (bandito dal Tirso di Roma), vincendolo nel 1910.
Spicco il volo sublime
Il motto, visibile sul frontespizio del manoscritto, celebra il sogno e la caparbietà di un giovane consapevole del proprio talento, in un modo che lascia trasparire il bisogno di superare i confini della provincia calabra: Spicco il volo sublime. Era una speranza, ma anche la consapevolezza implicita che uno come lui avrebbe dovuto spostarsi in ambienti culturalmente più ricchi e favorevoli alla promozione di giovani talenti. Fior d’Alpe divenne poi La Leggenda del Ponte e l’acclamarono, forse non con gli stessi entusiasmi, anche dopo la Grande Guerra al Carcano di Milano, nel 1922, dove andò in scena il 5 dicembre assieme a Pagliacci di Leoncavallo.
Spicco il volo sublime, motto per Fior d’Alpe, concorso 1910
Quelle Signore 70 anni nel cassetto
L’altra opera è un esempio della sua volontà di distinguersi: un romanzo scabroso, si disse all’epoca, divenuto un best seller di quegli anni, scritto da Umberto Notari che aveva trovato nel filone della “donna perduta” materia per una trama intrigante e drammatica. La “donna perduta” diventa il soggetto dell’opera in due atti Quelle Signore, espressione di una scrittura musicale ormai pregevole e di una matura sapienza scenica (così scrive il direttore d’orchestra Franco Barbalonga in una lettera indirizzata ai figli). Con il libretto dell’amico Leonetti, l’opera è conclusa nel 1908, ma non viene mai rappresentata fino al 1978.
Pagina autografa di Stanislao Giacomantonio conservata presso la Biblioteca Nazionale di Cosenza, Fondo Giacomantonio
La biografia del musicista, la più accreditata come punto di riferimento per gli studiosi, è quella dei due figli Aldo e Remo, un lavoro straordinario che però oggi può sembrare datato per almeno due motivi. Il primo è che scrivere la biografia di un genitore che sia stato anche una figura significativa dell’arte porta ad effetti talvolta celebrativi, sebbene la supervisione e la prefazione fossero stati affidati ad uno dei musicologi più prestigiosi e affidabili, Virgilio Celletti. L’altro perché il lavoro risale al 1990 con tecniche di ricerca che oggi potrebbero essere più avanzate e offrire dettagli più utili agli studiosi, specialmente per la ricostruzione e il ritrovamento di indizi utili, relativi ai numerosi materiali perduti durante gli eventi bellici.
Frontespizio, melodia per flauto e piccola orchestra, 1899
Stanislao Giacomantonio e Sonzogno
Stanislao Giacomantonio è una figura che merita nuovi approfondimenti: le vicende della Guerra, il rapporto complicato e poi il contenzioso con la casa musicale Sonzogno (per la rappresentazione della Leggenda del Ponte a Milano), e soprattutto quella specie di operosa solitudine cosentina che lo vide per anni in città quasi frenetico animatore e didatta, ma pressoché fermo nella sua attività di compositore, meritano ancora scavi e approfondimenti. Non solo dalle carte del Fondo, ma anche dal catalogo riportato nella biografia dei figli non sembrano esservi lavori compiuti, importanti, dopo il 1908 se non qualche abbozzo, qualche idea. Si tratta di ciò che è andato perduto o è come se il tempo cosentino e i dissapori con la casa musicale milanese avessero prosciugato la vena compositiva, la stessa motivazione a comporre? Una vicenda umana assai simile a quelle che molti studenti e giovani artisti vivono anche oggi nonostante le distanze accorciate dal web.
Anche quest’anno – dopo lo stop del recente passato – il Ministero della Cultura contribuirà alle attività del Teatro Rendano di Cosenza. I finanziamenti saranno due e ammontano a quasi 250mila euro.
Il primo stanziamento per il Teatro Rendano riguarda il Fondo unico per lo Spettacolo. Grazie a un decreto della Direzione generale dello spettacolo del Ministero appena pubblicato, il Comune di Cosenza otterrà poco più di 100 mila euro. Lo scorso anno il contributo ammontava a 90 mila euro. Si tratta, nello specifico, della seconda annualità del triennio Fus 2022-20024 e riguarda le attività liriche ordinarie.
Teatro Rendano: attesa per Puccini e Mascagni
Un altro piccolo passo avanti per ritorno ai fasti di un tempo del Teatro Rendano, dunque. Il sindaco Franz Caruso ha sottolineato come si sia «ripreso a programmare la stagione lirica dopo anni di fermo». Il Rendano tornerà davvero fiore all’occhiello della città grazie all’Opera? Non resta che attendere. Per il momento da Palazzo dei Bruzi informano che a curare la stagione sarà ancora il maestro Luigi Stillo. Due i titoli in programma: Madama Butterfly di Giacomo Puccini, del quale ricorrerà nel 2024 il 100° anniversario della morte, e Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni. Le due opere andranno in scena al Teatro Rendano tra novembre e dicembre prossimi.
I fondi per l’Orchestra Sinfonica Brutia
E gli altri finanziamenti romani? Riguardano l’assegnazione del contributo alle nuove istituzioni concertistico-orchestrali. Tra queste, nel medesimo decreto che assegna i soldi per l’opera al Teatro Rendano, figura anche l’Orchestra Sinfonica Brutia. Beneficerà quest’anno di un contributo di oltre 137 mila euro. L’OSB, attualmente in tournée con tappe previste anche al di fuori della regione, si conferma quindi un progetto di valore nonostante i timori sorti alla sua istituzione.
Caruso, nel sottolineare il risultato ottenuto, ha inteso spendere parole di ringraziamento per il dirigente del Settore Cultura, Giuseppe Bruno, e la funzionaria dello stesso settore, Annarita Callari. Senza il loro impegno nel seguire l’intero iter procedurale i finanziamenti ministeriali per il 2023 ministeriali rischiavano di finire altrove.
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