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  • Eranova, cronaca (e romanzo) di un assassinio di Stato

    Eranova, cronaca (e romanzo) di un assassinio di Stato

    Si può avere il coraggio di cancellare un intero paese, sradicare centinaia di migliaia di alberi per costruire un’acciaieria consci della crisi dell’industria siderurgica e, per giunta, che il progetto non sarà mai realizzato?
    Si può, purtroppo si può. Ed è il sunto della storia amara di Eranova, della truffa ordita negli anni Settanta del secolo scorso ai danni della Calabria, una terra fra le più povere del Continente, da sempre subordinata a forze superiori e spolpata dai massicci flussi emigratori; una storia che, se non fosse realmente accaduta, potrebbe apparire un romanzo a metà fra l’umorismo – tendente alla satira – e la distopia.
    Una storiaccia che, in effetti, proprio un romanzo ha riportato recentemente a galla, in un momento storico in cui tanto ci si interroga sull’opportunità di certi nuovi mirabolanti progetti pensati per la Calabria, per strappare i calabresi dalle secche dell’“insostenibile” sottosviluppo economico e infrastrutturale e schiudere loro inaspettati orizzonti di benessere.
    La vicenda di Eranova, il fu centro agricolo della Piana di Gioia Tauro, rivive nelle pagine di Un paese felice, l’ultima fatica letteraria dello scrittore Carmine Abate.

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    La Piana di Gioia Tauro

    Eranova, il paese profumato di zagara

    Prima che scoccasse l’ora fatale, Eranova era una frazione costiera del comune di Gioia Tauro, distinta dall’inebriante profumo di zagara e dalle distese di vigneti, uliveti e agrumeti che ne tingevano di colori il territorio parallelo alla spiaggia, dirimpetto alle Eolie.
    Un luogo paesaggisticamente meraviglioso che era stato fondato nel 1896 da un gruppo di braccianti stanchi di sottostare alla tirannia dei padroni della vicina San Ferdinando. Uomini e donne anelanti libertà, ché “la libertà è tutto nella vita di un uomo, come l’aria che respiriamo”.
    Un’aria fresca e pulita che d’un tratto, susseguentemente al famigerato Pacchetto Colombo (dal Presidente del Consiglio dei Ministri Emilio Colombo che lo annunciò) volto ad acquietare gli animi di parte dei calabresi dopo le rivolte di Reggio Calabria del 1970 – causate dalla decisione del governo di conferire a Catanzaro il titolo di capoluogo di regione –, venne inquinata dal limaccio e dai miasmi del denaro, della sopraffazione, del compromesso e degli intrighi politici in nome della parola-bestemmia degli ultimi cinquanta, sessant’anni della storia d’Italia: il progresso.

    I Moti di Reggio
    I Moti di Reggio

    Eranova: l’origine del disastro

    Moti di Reggio e successivo Pacchetto Colombo, dunque. Originano un po’ tutti da lì i mali della Calabria degli ultimi decenni.
    Il progetto del quinto centro siderurgico con annesso porto commerciale, di fatti, fu assegnato a Gioia Tauro nel 1972 come compensazione della rivolta reggina. Una assegnazione avvenuta senza una chiara programmazione ma indirizzata principalmente a placare gli spiriti inferociti e diretta a un settore, quello dell’acciaio, già in aperta crisi per via della stagnazione sia dell’edilizia sia della cantieristica – l’acciaieria di Bagnoli registrava perdite paurose e per quella di Piombino si pensava alla chiusura –; una crisi ampliata dopo l’apertura, nel 1965, dell’impianto di Taranto, che deturpò la città sullo Jonio e la sua piana punteggiata da ulivi secolari, da un giorno all’altro bollati come testimoni di un mondo arcaico, inutile cordone con una civiltà contadina da lasciarsi alle spalle senza troppi dispiaceri.

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    Quel che resta delle acciaierie di Bagnoli

    La bella Taranto, abbracciata dal mare e cantata nei secoli da poeti e viaggiatori – Pasolini nel suo viaggio in Italia del 1959 la definì “una città perfetta” –, sparì, lasciando spazio a un’area industriale che spianò per Taranto la strada verso il titolo di città fra le più insalubri del pianeta. Quel precedente, però, non fece squillare alcun allarme alle orecchie turate di una buona porzione dei calabresi e dei governi nazionali e regionali.

    Mille miliardi gettati al vento

    Appalesatesi presto i primi segni del prevedibile inganno, gli abitanti della città offesa dalla mancata assegnazione del capoluogo, nella cui provincia sarebbe ricaduta l’opera con tutti i suoi utopistici benefici, furono i primi a non mollare di un centimetro affinché il disegno del centro siderurgico della Piana non fosse rimodulato o accantonato. Già in quegli anni settanta, di fatti, era stata stabilita la antieconomicità del progetto dell’acciaieria e delle infrastrutture collegate, con quell’investimento statale monstre di mille miliardi di lire che sarebbe stato impossibile da recuperare, tanto che anche Finsider e Iri avevano consigliato di spostare l’impresa in zone più propense alla sua realizzazione, vale a dire Lamezia Terme e Crotone.

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    I lavori per la realizzazione del polo siderurgico, 1976 (foto Michele Marino)

    Titolò La Stampa, il 24 agosto 1973: “Reggio vuole a tutti i costi il 5° ‘Centro’ di Gioia Tauro”. Un fermo sostegno da parte della città più popolosa della regione per scongiurare un ripensamento, un cambio di rotta – il quale, chiaramente, sarebbe stato visto come di matrice politica – che, qualora fosse sopraggiunto, avrebbe condotto i reggini di nuovo in piazza per riaprire la tutt’altro che sopita polemica circa il capoluogo.
    Una posizione ferrea che assumeva la forma di un ricatto morale a cui lo Stato italiano si piegò ma che di vittime non ne mietette presso i palazzi del potere, bensì soltanto nella disgraziata Calabria.
    Soprattutto in quel piccolo centro di Eranova, il paese felice del romanzo di Abate, un libro testimonianza che si fa portavoce di tutte le ingiustizie subite dalla Calabria e dai calabresi, un’opera che, grazie all’incoraggiamento “di un coro di voci veritiere” – come afferma lo stesso autore originario di Carfizzi –, permette di fare emergere una storia drammatica seppellita dalla mala coscienza nazionale e locale.

    Il disastroso impatto ambientale

    Dietro la promessa da marinaio della creazione di circa 7.500 posti di lavori offerti ai calabresi – molti dei quali, emigrati in Alta Italia, in Germania, nelle Americhe, già pregustavano il sognato ritorno a casa: «Ci sarà il progresso finalmente! Non possiamo vivere solo di zappa e partenze» –, a Eranova si procedette allo sbancamento della spiaggia e all’esproprio di 500 ettari di terreno. Fu un sacrificio che il deputato socialista Giacomo Mancini, fra i maggiori sostenitori dell’impresa fallimentare, definì “minuscolo” considerati i cinquantamila ettari coltivati nell’area.
    Si assistette così all’abbattimento impietoso di circa 700.000 alberi – cifra abnorme che pure se non fosse corrispondente al vero dà comunque la misura dello spaventoso abuso perpetrato contro la natura – e della folta pineta marina che riparava dal vento e dalla salsedine i prosperosissimi uliveti, vigneti e agrumeti, quest’ultima coltivazione, ritornata col tempo un fiore all’occhiello della Piana, oggi nuovamente strozzata dalle politiche europee.

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    Andreotti, Mancini e l’allora sindaco Gentile posano la prima pietra del Quinto polo

    Una serie di azioni scellerate che estirparono per sempre il profumo di zagara che contraddistingueva quel tratto della Piana e stravolsero le vite di centinaia di famiglie.
    Il polo siderurgico di Gioia Tauro non è stato mai realizzato e il porto commerciale della città – costruito per dare supporto all’acciaieria fantasma inondando l’area interessata con due milioni e mezzo di metri cubi d’acqua – si staglia oggi come unica testimonianza tangibile di quella promessa che cinquant’anni fa illuse per l’ennesima volta i calabresi; un impegno puntualmente non mantenuto dalla Repubblica e che si trasformò in un imponente sperpero di fondi pubblici, nonché in un colossale affare per politici e mafiosi.

    Un memento per i calabresi

    L’avanzare delle voraci gru, delle ruspe e delle draghe, la lenta e inesorabile cancellazione del paesino di Eranova, le proteste dei pochi eranovesi non lasciatisi incantare dagli unicorni delle favole e corrompere dal dio denaro, il blocco dei cantieri per i ritardi circa l’arrivo degli indennizzi per gli espropri e i trasferimenti verso i nuovi alloggi allestiti presso anonimi quartieri di Gioia Tauro e San Ferdinando.

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    Lo scrittore Carmine Abate

    Sono tutti aspetti e riflessioni che, attraverso la storia romanzata di Un paese felice, Carmine Abate ci racconta, risvegliando il ricordo di una cicatrice mai rimarginata e stimolando il popolo calabrese – cui sovente, nella storia, si è ritorta contro la sua acquiescenza e la sua proverbiale accoglienza – a tenere sempre alta la guardia dinanzi ai canti ammaliatori dei signori del “progresso” e ai nuovi piani di ripresa e “pacchetti” di varia forma e natura che oggi o domani potrebbero essere offerti come manna dal cielo.

  • Erano Perfect days e non ce ne siamo accorti

    Erano Perfect days e non ce ne siamo accorti

    Hirayama mon amour. No, quello di Alain Resnais era Hiroshima. Qui siamo nel recinto di Wim Wenders tornato a suo modo al vecchio amore per il maestro Ozu.
    Il protagonista di Perfect Days potrebbe essere un alienato di una città di alienati come Tokyo, oppure un monaco buddista (forse meglio shintoista) con la casacca “The Tokyo toilet”. Poi cosa cambierebbe? Nulla. Wenders costruisce un personaggio con un mondo dentro e un passato tenuto a distanza. Noi vediamo solo una vita minima, essenziale, senza troppi fronzoli.

    Un uomo che si sveglia al mattino, sbriga le sue pratiche igieniche, apre il portone di casa e guarda subito il cielo. Sorride. E noi con lui. Buongiorno Hirayama san. Inizia il giro dei bagni pubblici della capitale nipponica. Progettati da grandi architetti. E si vede. Chi non vorrebbe pisciare in quello trasparente che si oscura mentre sei in “servizio”?

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    Una vecchia Olympus a pellicola

    Hirayama è un homo analogicus in un mondo di zombie pronti ad essere plasmati dall’intelligenza artificiale. Ascolta musicacassette vintage di Lou Reed (Patti Smith e tanti altri). È un grande classico del cinema di Wenders tutta quella musica ignota ai millennial. Poi la nipote del protagonista gli chiede se troverà Van Morrison su Spotify. E allora capisci che non tutto è perduto. Chi può fermare la ruota del rock? Nessuno, dai.

    In questa corsa retrotopica Hirayama scatta foto con una vecchia Olympus compatta. Sviluppa le sue pellicole. Ne esce fuori sempre il cielo di quel parco, alberi e foglie. E luce. La storia della fotografia è piena di operazioni del genere. Se penso al cinema mi viene in mente Auggie, il tabaccaio di Paul Auster in Smoke di Wayne Wang.
    Wenders si è sempre interessato alla deriva delle immagini. Resta a futura memoria l’esplosione di telecamerine per filmare e firmare (che poi è peggio) tutto il filmabile in Lisbon Story. La story di questo ultimo film è negli occhi di Hirayama. Ci dice qualcosa da conservare con cura. Erano solo Perfect days e non ce ne siamo accorti.

  • Tutti insieme per l’Auser, parola d’ordine: Ubuntu

    Tutti insieme per l’Auser, parola d’ordine: Ubuntu

    Andrà in scena venerdì 26 gennaio alle ore 17.00, presso la Casa della Musica Luciano Luciani di Piazza Amendola a Cosenza, lo spettacolo di beneficenza Ubuntu, tra musica e parole a sostegno della attività dell’Ambulatorio Auser di Cosenza “Senza confini”.
    A promuovere l’iniziativa ci sono anche l’Auser di Rende, le associazioni Confluenze, La Terra di Piero, Methexis, spazio teatrale partecipato e soprattutto il Conservatorio di Musica Stanislao Giacomantonio. Quest’ultimo ha messo a disposizione la struttura e i musicisti per la realizzazione dell’evento.

    Ubuntu e Auser

    Da anni l’Auser si prende cura delle persone che vivono ai margini di una società in cui ogni progetto di inclusione, soprattutto sanitaria, diventa sempre più difficile. Per fare questo c’è bisogno di sostegno da parte delle istituzioni e dei cittadini.
    L’idea di un evento dedicato alla musica e al teatro nasce dal desiderio di creare un rapporto tra le persone e la comunità fondato sulla bellezza che educa ai valori di un’etica che guarda all’equità sociale. Il titolo della serata, invece, arriva dal termine Ubuntu, che nella filosofia sub-Sahariana indica la credenza di un legame che unisce tutta la comunità: «Io sono perché noi siamo». E una comunità che vuole unirsi attorno alla bellezza della musica e delle parole riesce a guarire dal degrado e dalla malattia chi la bellezza non l’ha mai incontrata.

    Odontoiatri volontari nell’ambulatorio dell’Auser a Cosenza (foto Alfonso Bombini 2023)

    Sul palco

    I protagonisti di Ubuntu saranno i musicisti Gottardo e Giuseppe Iaquinta. Al violino e al pianoforte eseguiranno le partiture di Fryderyk Chopin, tra i più importanti compositori del Romanticismo.
    Tra le note musicali si inseriranno i contributi teatrali di Lara Chiellino, Dario De Luca ed Ernesto Orrico, portando in scena storie di migranti, briganti, filosofi e di santi dai desideri spassosi.

  • Benvenuta al Sud, Angela Finocchiaro, però…

    Benvenuta al Sud, Angela Finocchiaro, però…

    La Calabria ha un nuovo teatro comunale, “inaugurato” il 30 dicembre, proprio sul finire dell’anno nella città di Vibo Valentia e a dirigerlo sarà Angela Finocchiaro. Questa è la storia di uno spazio pubblico iniziata nel 1999 con un finanziamento da parte del Ministero della Cultura e che, inevitabilmente, è andata avanti in un continuo alternarsi di forze politiche per quasi un quarto di secolo.
    Il taglio del nastro è sempre qualcosa che piace molto alla politica, solitamente funziona come una medaglia da attaccare alla giacca per un risultato frutto della semina di altri.
    Maria Limardo, prima cittadina di Vibo, durante la conferenza stampa insieme alla vicepresidente della Regione Giusy Princi e all’ Assessore allo Sviluppo economico Rosario Varì ha comunque ribadito quanto questo risultato sia frutto del lavoro di tutte le amministrazioni alla guida della città in questi anni.

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    Giusy Princi intervistata durante la presentazione del teatro

    In attesa della prima, prevista per metà gennaio, alcune considerazioni su quella che Giusy Princi ha definito «una bella pagina della Calabria, rappresentazione di quando la cultura diventa espressione di civiltà, di un popolo, di una città, in questo caso di Vibo», bisogna farle, però.
    Magari cominciando proprio dalla nomina del direttore artistico e poi in merito ai primi appuntamenti in cartellone a Vibo.

    Angela Finocchiaro prima di Vibo

    La nomina di una donna alla direzione artistica di un teatro calabrese non si può trattare come una questione di genere, si rischierebbe di scadere nella faziosità riduttiva delle tifoserie maschi contro femmine. Angela Finocchiaro è sicuramente una grande artista che ha alle sue spalle una carriera di alto profilo e il suo volto è noto al grande pubblico. Il cinema e la televisione l’hanno resa famosa molto di più del suo impegno in campo teatrale. Questa non vuole essere una critica, ma una semplice constatazione. Che diventa un po’ più amara quando, a garanzia della sua professionalità, qualcuno ricorda che ha vinto due David di Donatello come attrice non protagonista nei film La bestia nel cuore Mio fratello è figlio unico.
    Bene! Anzi, benissimo! Però…

    Teatro, questo sconosciuto…

    Però forse sarebbe stato più appropriato se avesse vinto un Premio Ubu. O, più banalmente, forse più che le sue apparizioni sullo schermo – ricordiamo, tra le tante, La Tv delle ragazze e l’esilarante Benvenuti al Sud – a Vibo qualcuno avrebbe fatto meglio a ricordare l’impegno teatrale di Angela Finocchiaro negli anni ’70 con la compagnia sperimentale Quelli di Grock.
    Ma ancora una volta la politica calabrese che si vuole occupare di cultura fa confusione sui diversi livelli. Scambia il piano della spettacolarizzazione con quello della cultura, quasi come se stesse sponsorizzando un prodotto televisivo.
    Ecco in risalto le caratteristiche più commerciali e quelle conosciute dal pubblico più vasto. E il teatro? In qualche scantinato della cultura, come un reperto destinato all’oblio ed esposto alla mummificazione.

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    Finocchiaro sul palco del Teatro Cilea di Reggio Calabria qualche anno fa con lo spettacolo Ho perso il filo (foto Aldo Fiorenza)

    Tv o palcoscenico?

    A conferma di questo orientamento consumistico troviamo i primi appuntamenti del cartellone della stagione teatrale: niente di più che spettacoli cabarettistici.
    Nessuno si perderà nulla, chi non riuscirà ad occupare la platea potrà tranquillamente sintonizzarsi sulle reti Mediaset.
    Niente contro Paolo Ruffini, Ale & Franz o il truccatore Diego Dalla Palma, ci mancherebbe. Ma lo capiamo immediatamente che non stiamo parlando di teatro, quanto di spettacoli che cambiano location: dagli studi televisivi alle tavole di un palcoscenico.
    Non si tratta di dire cosa sia meglio o peggio,  è che una stagione di un teatro pubblico appena inaugurato non dovrebbe esordire con degli spettacoli televisivi.

    Vibo: Angela Finocchiaro e Parioli sì, Calabria no

    Possiamo chiederci perché nessuno abbia pensato di inserire delle produzioni di compagnie calabresi. Oppure perché non si inauguri la stagione con il sei volte Premio Ubu Saverio La Ruina, soprattutto in virtù dell’ultimo riconoscimento ricevuto solo qualche settimana fa. Potremmo anche chiederci perché non si è pensato di coinvolgere il fondatore della Compagnia Krypton, Giancarlo Cauteruccio, tornato a vivere in Calabria dopo molti anni di direzione artistica del Teatro Studio di Scandicci e un’esperienza in campo teatrale tale da farlo annoverare tra i maestri delle avanguardie del ‘900.

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    Saverio La Ruina in scena con il suo Via del popolo (foto Angelo Maggio)

    Forse si potevano invitare Francesco Colella o Marcello Fonte, giusto compromesso tra popolarità ed esperienza in campo teatrale. Infine mi viene in mente Manolo Muoio, la sua collaborazione con Julia Varley e con Eugenio Barba.
    Chissà se a Vibo o Germaneto ne hanno mai sentito parlare.
    Non è finita: per l’allestimento della prima stagione c’è un accordo con il Teatro Parioli di Roma. Come se in Calabria nessuno sapesse allestire una stagione teatrale. Come se il nome Parioli potesse bastare a garantire un buon successo di pubblico.

    Cultura e globalizzazione

    Non è una questione di campanilismo, quanto una rivendicazione di un’identità culturale ripetutamente calpestata da parte di una politica proiettata costantemente verso l’erba del vicino, cieca verso un patrimonio culturale che merita di essere valorizzato.
    Nell’epoca della globalizzazione a qualcuno potrà sembrare riduttiva una critica verso la scelta di affidare la direzione artistica a una professionista del Nord. Ma c’è un aspetto da non sottovalutare: le diseguaglianze culturali all’interno di una società, proprio a causa della globalizzazione, sono suscettibili a maggiori accentuazioni. La situazione è chiara a livello economico per quanto riguarda i paesi industrializzati e i Sud del mondo. E lo stesso concetto si può applicare a livello culturale tra Nord e Sud. O, meglio, tra Nord e Calabria.

    2024, fuga dalla Calabria

    Sì, proprio la Calabria, perché le altre regioni del Sud hanno solo da insegnarci in materia di gestione delle politiche culturali. In una terra come la nostra, in cui nessuno investe in cultura, trovarsi nella situazione di essere “colonizzati” da professionisti provenienti da altre regioni, senza nessuna possibilità di fare rete oltre il nostro territorio, significa rimanere schiacciati sul piano culturale, continuare ad assistere inermi alla fuga di cervelli e di maestranze artistiche.
    Alla fine sul nostro territorio non rimarrà nulla, perché l’identità culturale di un luogo può essere costruita, recuperata e valorizzata solo da chi in quel territorio c’è nato o da chi ha deciso di viverci.

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    Il nuovo teatro di Vibo vuoto

    Benvenuta a Vibo, Angela Finocchiaro

    Di certo non abbiamo bisogno di esperti a tempo determinato e neanche di “missionari evangelizzatori”. Abbiamo un patrimonio e promesse culturali per poterci porre sul piano della sinergia con altre regioni e non di certo su quello dell’occupazione intellettuale.

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    Leonida Repaci

    Il teatro comunale di Vibo Valentia non è stato ancora intitolato a nessuno. Allora vorrei ricordare che il calabrese Leonida Repaci, oltre che scrittore e critico teatrale, è stato anche drammaturgo, i suoi drammi li ha rappresentati tutti a Milano tra il 1925 e il 1930.
    Nella speranza di un giusto riconoscimento al nostro teatro, quello di ieri e quello di oggi, ad Angela Finocchiaro auguro buon lavoro a Vibo: benvenuta al Sud.

  • Il “caso” Nello Costabile: così Catanzaro vince anche il derby della cultura

    Il “caso” Nello Costabile: così Catanzaro vince anche il derby della cultura

    Il 18 dicembre, nell’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, il regista cosentino Nello Costabile è stato insignito della laurea honoris causa in Cinema, Fotografia e Audiovisivo. Prendendo in prestito il gergo calcistico, potremmo dire che è il secondo derby tra Catanzaro e Cosenza che hanno vinto i giallorossi quest’anno. Certo non parliamo di una partita di pallone quanto, se così possiamo definirla, di una competizione culturale. E l’ABA ha prevalso sull’Università della Calabria, che pure può vantarsi di aver istituito in Italia il secondo corso di laurea in DAMS dopo quello di Bologna. Restando alla metafora calcistica potremmo dire che qualcuno, per comodità o poca lungimiranza, gioca a Subbuteo mentre altri guardano a sfide internazionali, dando i giusti riconoscimenti alle nostre eccellenze.

    Perché una laurea a Nello Costabile

    La laurea honoris causa è arrivato per l’impegno profuso dal Maestro Costabile per l’affermazione del teatro professionale in Calabria e per il lavoro svolto a livello nazionale ed europeo. Il titolo accademico onorifico trova, infatti, riscontro nella seguente motivazione: “Per gli studi e le ricerche sulla regia contemporanea, sul gesto come elemento trasversale tra i generi, sulla maschera di Giangurgolo e sul suo ruolo nella Commedia dell’Arte. Per la sua instancabile attività a favore della ricerca e della formazione teatrale che da oltre 40 anni lo vede impegnato nella creazione di un teatro d’arte per le giovani generazioni e l’area della disabilità non solo nella nostra terra, ma in un più ampio contesto europeo con rapporti di collaborazione con network teatrali di rilevanza transnazionali”.
    Eppure questo riconoscimento poco spazio ha trovato sulle pagine dell’informazione regionale, a conferma di quanto il nostro teatro e le sue maestranze vengano marginalizzate, ignorate e sottovalutate.

    Il precedente

    Nello Costabile ironizza dicendo che questo è un cerchio che si chiude e ricorda che all’inizio della sua carriera, nel 1977, proprio Catanzaro gli aveva conferito il IX Premio Nazionale di Teatro, Musica e Poesia per il miglior testo e la migliore regia per lo spettacolo “Maschere e diavuli- Frammenti di un teatro popolare”.
    Ma la carriera del Maestro tutto può dirsi meno che conclusa. Nello Costabile continua il suo lavoro di ricerca sulle relazioni trasversali tra le discipline dello spettacolo dal vivo, un lavoro artistico, di regia e di pedagogia che si sviluppa in un continuo confronto tra tradizione e nuove tendenze della scena, guardando al teatro di figura, alla maschera, alle arti visive, al nuovo circo, alla danza, alle nuove tendenze musicali, alla riscoperta della marionetta, tutto in  un possibile incontro con le nuove tecnologie.

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    Uno scorcio dell’ABA di Catanzaro

    Possiamo considerare la lunga esperienza professionale di Costabile come parte di un patrimonio immateriale della nostra cultura e in virtù di quanto afferma François Jullien, non dobbiamo pensare che si tratti di valori immobilizzati, quanto di un qualcosa che possa servire da trait d’union tra la tradizione e il futuro culturale da costruire. Il patrimonio culturale deve dialogare con il presente per costruire un futuro, questo è possibile a patto che le istituzioni ne favoriscano il confronto. Allora Costabile può essere quel ponte tra la storia del teatro fatta dai grandi maestri delle avanguardie europee degli anni ’70 del ‘900 con un presente non ancora storicizzato e difficilmente classificabile.

    Nello Costabile e la sua carriera

    Il direttore dell’Accademia, Virgilio Piccari, insieme ad un’ampia commissione di docenti e rappresentanti degli studenti, ha conferito il diploma al regista calabrese riconoscendo il valore della storia professionale del maestro. Ripercorrere le tappe di una lunga e proficua carriera risulta difficile nel ristretto spazio di un articolo, ma già una sintesi sottolinea la ricchezza di una vita dedicata al teatro.
    Tra i maestri di Costabile è doveroso menzionare la regista teatrale e cinematografica francese Ariane Mnouchkine e la sua conseguente formazione presso il Théâtre du Soleil, il maestro Peter Brook dal quale ha appreso i fondamenti della messa in scena, del lavoro con la maschera e l’importanza dell’uso del corpo per il lavoro dell’attore.

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    Jerzy Grotowski

    Nel 1975 l’incontro con Jerzy Grotowski nel Laboratorio di Wroclaw in Polonia, e per la Biennale di Venezia partecipò al “Progetto speciale Jerzy Grotowski, lavorando con Ludwik Flaszen, co-fondatore insieme a Grotowski del Teatro Laboratorio.
    Fu proprio alla Biennale Teatro di Venezia che avvenne l’incontro con il Living Theatre. Da qui l’amicizia e il lungo rapporto di collaborazione con Julian Beck e Judith Malina, tanto da rivestire il ruolo di delegato della compagnia all’organizzazione della tournée in Italia. Grazie al rapporto con il Living, nel 1976 organizzò a Cosenza il “Progetto di contaminazione urbana” al quale partecipò anche l’importante compagnia argentina la Comuna Baires.

    Gli anni di Giangurgolo

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    Nello Costabile nei panni di Giangurgolo in un’immagine d’epoca

    Due anni prima, nel 1974, per la Rai il regista Enrico Vincenti, che stava realizzando una serie di cortometraggi sulle maschere della Commedia dell’Arte, gli chiese di partecipare recitando la maschera del Calabrese, Capitan Giangurgolo, assente dalla scena dal 1650. Nello stesso anno interpretò la maschera nello spettacolo Bertoldo a corte di Massimo Dursi, sempre con la regia di Vincenti. Gli  studi e le ricerche degli anni successivi su Giangurgolo e sul suo ruolo nella Commedia dell’Arte fanno oggi di Nello Costabile il più importante studioso di questa maschera, come gli viene riconosciuto da due esperti internazionali di Commedia dell’Arte quali Arianne Mnouchkine e Carlo Boso.

    Nello Costabile è stato tra i fondatori della prima compagnia professionistica calabrese, la Cooperativa Centro RAT, che ha anche diretto fino al 1979. in quell’anno, poi, il Comune di Cosenza gli ha offerto la direzione del Teatro Comunale “Alfonso Rendano”, di cui è stato il primo direttore artistico.
    Con l’entrata in attività del Consorzio Teatrale Calabrese – Teatro Stabile Regionale ha ricoperto il ruolo di primo direttore. Dopo aver diretto compagnie, teatri e vari festival da oltre un ventennio si dedica, esclusivamente, alla regia e ad attività di educazione e pedagogia teatrale per le nuove generazioni e per ragazzi e giovani con disabilità e disagi sociali.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Nello Costabile e la Francia

    La sua solida conoscenza delle reti professionali, delle istituzioni e delle politiche culturali a livello europeo gli ha permesso di essere coinvolto anche in vari progetti e collaborazioni internazionali. In particolare con la École Supérieure Internationale d’Art Dramatique di Versailles, con l’Insitut de Teatre di Barcellona, il Théâtre de la Semeuse di Nizza e la FC-Produções Teatraidi Lisbona.
    È tra i fondatori e consigliere di amministrazione dell’Union Europèenne du Nouveau Théâtre Populaire, network europeo di festival, compagnie e scuole teatrali di Francia, Spagna, Italia, Portogallo, Finlandia, con sede presso il Comune di Versailles. Il network si occupa di cooperazione per la formazione, la programmazione e la creazione nelle arti della scena a livello internazionale.

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    L’edificio che ospita la Ecole Régionale d’Acteurs de Cannes/Marseille

    In Francia Costabile ha ottenuto importanti riconoscimenti accademici. Tra questi, la Laurea in Arti dello Spettacolo–Studi Teatrali dall’Università di Rennes; la Laurea magistrale in Arti della Scena e dello Spettacolo dal Vivo-Progetto culturale e artistico internazionale dall’Università di Parigi 8, Vincennes/Saint Denis; il Diploma di Stato di Professore di Teatro, rilasciato dalla prestigiosa Ecole Régionale d’Acteurs de Cannes/Marseille, sotto la tutela del Ministero dell’Educazione Nazionale Francese.
    Nel 2013, l’Ambasciata della Repubblica d’Indonesia in Italia gli ha conferito il riconoscimento ufficiale di Ambasciatore Culturale per la Promozione in Europa del teatro-danza balinese.

    Passato, presente e futuro

    Nella ristretta bibliografia sul teatro calabrese è triste constatare quanto nessuno, neanche a livello accademico, si sia occupato della storia del teatro dagli anni ’70 in poi. E se da una parte è vero che la Calabria risente della mancanza di una tradizione teatrale, dall’altra c’è tutta una storia, quella dell’incontro con le avanguardie degli anni ’70, che è stata completamente trascurata.
    Un colloquio con il teatro di quegli anni potrebbe raccontarci molto sui processi storici di un periodo di grandi rivolgimenti sociali e politici. Proprio per questo un dialogo con Nello Costabile potrebbe essere il nostro sguardo diretto su un passato che tanto potrebbe raccontarci su quello che siamo diventati. Gustav Mahler affermava che «la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri», noi invece semplicemente ignoriamo il passato, non guardiamo al presente. E difficilmente riusciremo a costruire un futuro culturalmente partecipato.   

                  

  • Vins Gallico, sullo Stretto c’è un dio ed è noir

    Vins Gallico, sullo Stretto c’è un dio ed è noir

    Senigallia. 15 settembre 2022. Mi trovo in città per dare il via a un’iniziativa a cui lavoro da mesi. Il cielo, carico di pioggia, è minaccioso. Mentre va in scena il primo evento, in sala fa breccia un messo comunale trafelato che inizia ad urlare di sgomberare: sta arrivando la piena del fiume. Di lì a poche ore il Misa strariperà rovinosamente. La mattina successiva, dopo una notte di inferno, ricevo una chiamata da un amico reggino che vive in zona e che decide di raggiungermi.
    Nonostante la città sia una distesa di fango e detriti, Giandiego arriva e, dopo un caffè stravolto e straniante, mi regala una copia di A Marsiglia con Jean Claude Izzo, invitandomi a contattare il suo autore Vincenzo Gallico, interessato all’iniziativa marchigiana ormai abortita per cause di forza maggiore.

    Il mio dialogo con Vincenzo Gallico, per gli amici e i lettori Vins, inizia così. Scambiamo qualche messaggio, gli passo alcuni dei miei scritti da cui parte un confronto virtuale che entro qualche mese approderà alla vita reale.
    Scilla, 24 giugno 2023. Ci incontriamo per la prima volta dal vivo in occasione della presentazione de Il Dio dello Stretto. Reggino, trasferitosi a Roma, ammiratore di Paul Preciado, un passato come ricercatore in Germania, Vincenzo “Vins” Gallico è ormai un autore di lungo corso e già finalista al Premio Strega. Concordiamo un’intervista che si concretizzerà solo diversi mesi dopo.

    Come sta andando?

    «Il libro sta andando bene. Sono contento. Rispetto all’andamento della narrativa italiana non ho di che lamentarmi. Siamo già in fase di ristampa. E, a considerare il numero di inviti che sto ricevendo in giro per l’Italia e l’accoglienza che mi viene riservata, devo considerami fortunato. È successo quanto mi aspettavo».

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    La copertina de Il Dio dello Stretto, ultimo romanzo di Vincenzo “Vins” Gallico

    In che senso?

    «Ritornare al romanzo per me non era così scontato. Quando te ne allontani, alcuni posti vengono rioccupati, altre voci vengono dimenticate. Invece vedo che c’è stato parecchio affetto e calore intorno a questo libro».

    Mi hai detto «ritorno al romanzo». Perché?

    «Dopo Portami Rispetto del 2010 e la commedia Final Cut, avevo scritto La Barriera, un romanzo a quattro mani uscito nel 2017. Poi era stata la volta di due volumi, due saggi, A Marsiglia con Jean Claude Izzo e La Storia delle librerie italiane. Di fatto non scrivevo un romanzo da solo dal 2015. Sette anni. E non ne scrivevo uno noir da circa tredici. Quindi mi sembra di poter parlare di ritorno».

    Il tuo romanzo non è una semplice storia di fantasia. C’è dietro uno studio sul contesto italiano politico e giudiziario, sulla guerra di mafia che negli anni Ottanta ha insanguinato Reggio Calabria e sui nuovi equilibri raggiunti negli anni Novanta. C’è dentro tutto lo Spirito del Luogo: dai tramonti mozzafiato del lungomare alla decadenza umana e urbana…

    «E non sarebbe potuto essere altrimenti. Sono cresciuto al Gebbione (quartiere dell’area Sud di Reggio Calabria, n.d.r.) e mi porto dietro tutto quello che le mie origini comportano. Reggio è un luogo complesso e stratificato dove una bellezza struggente si accompagna a una ferocia senza scrupoli. Camminano insieme in un ossimoro. Non riesco a non parlare di queste mie origini, legate a un territorio che già parte da una evidente condizione di svantaggio in cui anche il contesto della borghesia cittadina non è certo paragonabile a quello del Centro-Nord. In più, porto un cognome che può ingannare: nonostante non abbia parentele di un certo tipo, mi rendo conto che a volte questo cognome abbia una ricezione scomoda. Raccontare certe storie e certi territori è il mio modo di affrontare il trauma di nascita, che è mio e di tutti i calabresi per bene».

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    Case popolari nel quartiere Gebbione di Reggio Calabria

    Una lettera scarlatta?

    «Un qualcosa che è assieme prigione, spinta evolutiva, bisogno di affrancamento. È chiaro che certi luoghi, specie se natali, ti segnano: sono la tua sventura, ma anche il tuo trampolino. Essere cresciuto a Reggio mi dà maggiore sicurezza nella mia vita odierna e nella gestione di situazioni critiche. Un punto di forza, non di vanto».

    Nel tuo noir racconti una storia di passioni, malaffare, maschilismo in cui l’eroe – il giovane magistrato Mimmo Castelli – si trova a indossare le scarpe dell’antieroe e antagonista, il malavitoso Logoteta…

    «Mimmo Castelli è il protagonista della vicenda. E lo è in due direzioni e dimensioni: sia per quanto riguarda il motore esterno della storia – l’eventuale risoluzione dell’indagine – sia per quel che concerne il motore interno – i dubbi etici, i rapporti con la moglie, gli amici, il gruppo, la religione. Di fatto si tratta di una storia che si sviluppa su questi due pilastri. Meglio: due tiranti. Due elastici. Entrambi ispirati agli stilemi del romanzo di detection. Sul versante esterno: riuscirà il nostro eroe a risolvere il caso? E, nel caso, riuscirà a sconfiggere l’antagonista? Su quello interno: riuscirà a sciogliere i suoi crucci interiori?».

    Tra le recensioni che ho letto c’è chi ha sottolineato la tua capacità di non perdere il ritmo. Che è un aspetto essenziale per il gradimento dei lettori.

    «L’aspetto ritmico è complicatissimo nella scrittura. I miei editor mi hanno più volte contestato che corro troppo, che c’è troppa storia. Per cui ho molto lavorato su questo aspetto: ho provato a evitare troppi colpi di scena e a entrare un po’ più nei personaggi. Anche perché trovare un’intimità con chi ti legge è un’operazione complessa. Non so quanto mi sia riuscita, ma ho provato a farlo: per cui ho corso un po’, mi sono fermato un attimo, ho ripreso fiato e sono ripartito nella corsa».

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    Vincenzo “Vins” Gallico durante una presentazione del suo ultimo libro

    Un ritmo che accompagna dubbi, inquietudini e turbamenti di Castelli con un capovolgimento che rasenta il coup de théâtre: da giudice integerrimo a uomo troppo umano.

    «A me la roba delle stanze chiuse interessa parecchio. Mi riferisco all’aspetto non manicheo per il quale “quello è una-bravissima-persona”. Vero! Ma anche la-bravissima-persona combatte i suoi demoni. Che spesso sono tappati, o repressi, ma possono venir fuori da un momento all’altro. Mimmo Castelli è un personaggio che è convinto di essere buono ma deve arrendersi di fronte alla verità che la bontà tout court non esiste. Nemmeno nei santi. Il retro-pensiero fa parte di qualsiasi essere umano».

    Che è un po’ il tema principe trattato con cruda lucidità da Rocco Carbone in “L’Assedio”: la dimostrazione plastica di come la pretesa assolutistica dell’etica abdichi di fronte alla relatività di certe circostanze legate all’emergenza o alla sopravvivenza. Un tema che tu enunci chiaramente nelle citazioni che introducono il tuo romanzo.

    «Con Rocco ho un legame speciale, che tu conosci, e che inevitabilmente, in maniera conscia o inconscia, mi riporta a lui e alla sua poetica. A margine de Il Dio dello Stretto cito Aristotele: per lui la giustizia – in qualità di virtù prima – rappresenta il Giusto Mezzo per antonomasia. Può essere padroneggiata solo al compimento di un processo di ricerca incessante che oscilla tra sentimenti, esperienze, incontri e riflessioni. Una Giustizia che può anche smarrirsi tra le pieghe di verità giuridiche che non sempre coincidono con le realtà dei fatti. Senza dimenticare – come ti ho detto – che i nostri natali calabresi e il processo di crescita vissuto a certe latitudini ha influenzato molto la nostra visione dell’etica».

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    Rocco Carbone

    Ossia?

    «Trattare il tema del bene e del male a volte può voler dire fissare il limite tra l’eroismo e la scelta di vivere. Nel nuovo romanzo che sto preparando, il sequel de Il Dio dello Stretto, viene ucciso il fratello di Patrizia, amica di Miriam (moglie di Mimmo Castelli, n.d.r.). La stessa Miriam viene da una famiglia complicata. Mimmo allora inizia a interrogarsi su quale sia la normalità: quella della sua famiglia che lo ha cresciuto nella bambagia o quella dei contesti di degrado da cui è circondato?».

    Che Calabria racconta Vins Gallico?

    «Cerco di tenermi lontano sia dallo sciovinismo, quindi dallo stereotipo di una Calabria favolistica dalle magnifiche tradizioni, sia dalla classica narrazione di ‘ndrangheta. In realtà non sono un “esperto” di Calabria, ma mi pongo come narratore dello Stretto. Sono più vicino a Carbone che a Corrado Alvaro: Gente in Aspromonte mi è più lontano rispetto a L’Apparizione. Più semplicemente ho cercato di raccontare i fermenti di un territorio all’alba di quella che si presentava come una stagione di speranza. Il Dio dello Stretto è anche un romanzo legato alla speranza.

    Corrado Alvaro

    In che senso?

    «Con la fine della seconda guerra di ‘ndrangheta, si era aperta una stagione in cui un po’ ci si credeva che qualcosa potesse cambiare».

    Questa speranza è finita?

    «Diciamo che in questi ultimi 20 anni ha preso un bel po’ di pugni in faccia».

    Chi è il Dio dello Stretto che vorrebbe Vins Gallico?

    Una nuova comunità di giovani che prova a cambiare Reggio. Recentemente sono stato al “Da Vinci” (uno dei due licei scientifici di Reggio Calabria, n.d.r.) e ho buttato lì una proposta agli studenti: perché non provate a diventare la prima scuola green in Italia? Lasciate auto e motorini e raggiungete la scuola a piedi. Nonostante si trattasse di una boutade, la mia speranza e il mio augurio riguardano la capacità ricettiva di Reggio: spero che prima o poi la città si svegli, recepisca e faccia proprie le istanze di reale cambiamento».

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    Il liceo Da Vinci di Reggio Calabria

    Cos’altro bolle in pentola?

    «Lo scorso 17 dicembre si è concluso il primo Festival dell’Ascolto promosso da Fandango, di cui sono responsabile. Abbiamo iniziato a lavorare in modo più strutturato su un format che coniuga podcast e nuove forme di inchiesta. La risposta è stata molto positiva e presto ci saranno delle novità».

  • Ubu a La Ruina: la Calabria che trionfa a teatro ma se ne frega

    Ubu a La Ruina: la Calabria che trionfa a teatro ma se ne frega

    Il 18 dicembre si è conclusa la 45° edizione dei Premi Ubu. Come ogni anno, in diretta streaming in staffetta con quella di Radio Tre, è arrivato l’annuncio con i nomi dei vincitori per la stagione 2022/2023 del Premio che Franco Quadri ideò nel 1977. Nell’elenco, anche l’attore, drammaturgo e regista calabrese Saverio La Ruina.
    Ancora una volta La Ruina porta a casa il più prestigioso e importante riconoscimento del teatro in Italia. Lo aveva già fatto nel 2007 con Dissonorata (Miglior attore italiano e Miglior testo italiano), nel 2009 (Premio speciale per Primavera dei Teatri), nel 2010 con La Borto (Miglior testo italiano), nel 2012 con Italianesi (Miglior Attore italiano). In quest’ultima edizione vince con Via del Popolo come Miglior testo italiano o scrittura drammaturgica messa in scena da compagnie e artisti italiani.

    La Ruina, l’Ubu e “l’Oscar dei poveri”…

    Saverio La Ruina è un vincitore seriale di premi Ubu, un irriducibile artigiano del teatro che non si lascia inglobare, assorbire e omologare nella cultura liquida della contemporaneità. Rimane fedele al teatro, arte lontana dalle logiche dell’evento che la società dei consumi impone trasformando la cultura in una merce destinata esclusivamente all’industria del divertimento.
    Con Via del Popolo, un testo drammaturgico di straordinaria semplicità, dimostra che la cultura è qualcosa di profondamente radicato nella memoria individuale come valore della storia collettiva, capace di definire percorsi di crescita, o di decrescita, spingendoci ad inevitabili riflessioni di natura sociale, culturale e anche politica.

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    L’ultima edizione degli Ubu

    Ma partiamo con ordine: quando parliamo di Premio Ubu c’è sempre la necessità, quasi a giustificarlo nel tentativo di attribuirgli autorevolezza e prestigio, di spiegarne il valore. E l’unico modo per farlo è l’inevitabile comparazione con gli Oscar o i David di Donatello. Già solo questo basta a raccontare il valore che nella nostra cultura assume il teatro, qualcosa che resiste ed esiste solo per una fetta di pubblico che spesso finisce per identificarsi con gli stessi addetti del settore. Un’isola sperduta, raggiungibile per strade poco percorribili e scomode. Allora il teatro diventa anche un fatto politico perché ci dice che le istituzioni, in barba ai dettami costituzionali, poco si occupano di valorizzare, diffondere e sostenere un’arte antichissima e strettamente connessa con le manifestazioni dello stesso spirito umano.

    Nemo propheta in patria

    Via del Popolo è un racconto autobiografico. Parla della realtà di una strada nel centro di Castrovillari, di quando era piena di negozi, di gente, ricca di relazioni umane in uno spirito del luogo ormai passato. Quanto tempo occorre per percorrere duecento metri di strada? La risposta è negli anni di chi la percorre, perché il tempo non ha lo stesso valore per tutti: c’è chi lo vive assaporandolo e chi lo consuma fagocitandolo, perché le catene della grande distribuzione hanno cancellato i rapporti tra le persone.

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    Saverio La Ruina in scena con il suo Via del popolo (foto Angelo Maggio)

    Via del Popolo parla la lingua del posto, uno tra i tanti dialetti calabresi che come tutti gli altri difficilmente è riuscito a varcare i confini regionali per diventare lingua di scena, relegato al ruolo di vernacolo per un teatro amatoriale, quasi una lingua da nascondere o da sbeffeggiare.
    La Ruina, che riesce a rendere comprensibile e universale anche quei modi di dire decifrabili solo per chi vive lo spirito dei luoghi, porta il suo dialetto e i tipi fissi della nostra realtà del Sud nei più importanti teatri della penisola. Non importa che sia a Messina, a Roma, a Trento o a Milano perché La Ruina trova consenso, applausi e successo ovunque, ma non in Calabria. Qui non c’è spazio.

    Meglio Muccino per la Calabria?

    A questo punto dovremmo chiederci perché l’immagine della nostra regione passa attraverso la promozione di quelle piste di ghiaccio davanti la stazione di Milano, negli spot con gli asini, le tovaglie a scacchi, i verbi coniugati male, i capodanni da milioni di euro. Tutto intriso da terribili luoghi comuni, come se i calabresi fossero solo mare, sole, nduja e soppressata. Invece non si valorizza mai il patrimonio culturale contemporaneo, costruito faticosamente da uomini e da donne lasciati soli da una politica troppo impegnata nella lotta quotidiana per i consensi elettorali.

    La Calabria trascura il passato e del presente culturale preferisce non occuparsi. Non si investe in progettazione culturale, in distribuzione. Se non fosse per le iniziative dei privati, a livello istituzionale, non potremmo che assistere a traslochi di spettacoli televisivi di dubbio gusto negli spazi pubblici delle nostre città.
    Abbiamo comunque una speranza perché esiste un movimento che potremmo definire di resistenza. Si tratta di tante piccole compagnie teatrali di elevato spessore professionale che ogni giorno combattono per preservare la cultura del teatro in un luogo politicamente ostile.

    L’Ubu a La Ruina e il teatro in Calabria

    Di questo si occupa anche Scena Verticale, la compagnia teatrale fondata nel 1992 da Saverio La Ruina e Dario De Luca, ai quali si unirà successivamente anche Settimio Pisano. Grazie a Primavera dei Teatri, il festival sui nuovi linguaggi della scena teatrale, riescono a trasformare ogni anno Castrovillari nel più importante avamposto del teatro in Calabria e in un punto di riferimento internazionale della scena contemporanea.
    Riescono in un’impresa grandiosa, una realtà che non riesce a costruire neanche il mondo accademico nonostante un corso di laurea in Discipline della Musica e dello Spettacolo, troppo chiuso in se stesso, autoreferenziale e incapace di creare sinergie con le compagnie teatrali del territorio calabrese.

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    Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano

    Il Premio Ubu a Saverio La Ruina è un premio che torna in una Calabria che ignora questo settore culturale. E allora è come se il brutto, panciuto e grottesco Ubu percorresse, in lungo e largo, le strade vuote di una via del popolo che attraversa tutta una regione abitata da istituzioni che, alla cultura, preferiscono l’educazione all’allineamento di quel pensiero unico che esclude ogni forma di partecipazione culturale e sociale.

  • Magia a sette note: si torna a comporre a Villa Rendano

    Magia a sette note: si torna a comporre a Villa Rendano

    Il nome sembra altisonante: Mf Songwriting Camp. In realtà la sigla iniziale sta per Mario Fanizzi, l’ideatore dell’iniziativa: un corso full immersion di tecniche compositive (songwriting, appunto).
    La manifestazione – una masterclass, per la precisione – si è svolta in tre densissimi giorni, dal 15 al 18 dicembre, a Villa Rendano, trasformatasi per l’occasione in un incrocio tra uno stage e uno studio di produzione.
    Vi hanno partecipato quarantadue musicisti di tutte le estrazioni artistiche e di tutte le parti d’Italia. «Ma per il futuro voglio internazionalizzare l’evento», spiega Fanizzi.
    Il Songwriting Camp ha già una presenza internazionale prestigiosa: Tommy Parker, il produttore di Britney Spears, Drake, Ariana Grande, Justin Bieber e tanto altro pop che conta (o sta per contare).
    Con questo popò di professori, la situazione è più che interessante. Cerchiamo di saperne di più.

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    A lezione con Tommy Parker e Mario Fanizzi

    Mario Fanizzi: artista internazionale e calabrese adottivo

    Pugliese d’origine, Mario Fanizzi è approdato in Calabria (per la precisione, a Rende, dove vive) dopo un percorso formativo bello tosto, culminato in un corso di studi al prestigiosissimo Berkleee college of music di Boston e in una intensa attività professionale a Los Angeles come compositore e produttore.
    Anche la vocazione di Fanizzi è internazionale: nel suo carnet di collaborazioni figurano Renato Zero, Tom Jones e Carlos Santana, per citarne alcuni… e scusate se è poco.
    L’idea alla base del corso è piuttosto semplice: «Ho circa seicento allievi in tutto il mondo, a cui insegno le mie tecniche di composizione», che si basano su un metodo intuitivo (e olistico, preciserebbero quelli davvero bravi).
    In parole più povere: «Tutti noi apprezziamo alcuni brani perché ci colpisce la loro struttura musicale. Io parto proprio da questo approccio estetico per insegnare le strutture compositive». Quasi l’esatto contrario dell’insegnamento tradizionale, che parte dagli schemi armonici per arrivare ai brani.

    Un primo piano di Mario Fanizzi

    Quarantadue virtuosi alla carica

    Tre giorni tutto incluso, quindi sale per esercitarsi e fare lezione, catering per pranzo e cena e albergo.
    C’è il batterista pugliese che cerca di addentrarsi nella composizione. E c’è il cantante marchigiano che prova a diventare cantautore. E ci sono le vocalist che cercano il salto di qualità culturale.
    In un modo o nell’altro, sotto la guida di Fanizzi e Parker, le sale antiche della sede della Fondazione Giuliani si riempiono di note e arte.
    Da una generazione di musicisti, di cui Alfonso Rendano fu capofila, a un’altra, nel medesimo segno della qualità e dell’internazionalità.
    Ciò che cambia davvero sono la comunicazione e l’interconnessione: quelle magie del web che diamo per scontante ma che consentono “miracoli” di questo tipo.
    «Normalmente svolgo i miei corsi online, ma stavolta ho reputato importante un contatto diretto e, a giudicare dai risultati, sono soddisfatto».
    Fanizzi ipotizza il bis dell’iniziativa, anche in tempi brevi. Come dire: l’appetito vien mangiando. O meglio: la musica vien suonando.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Un po’ greco, un po’ beat: l’Ulisse on the road sulle strade della Calabria

    Un po’ greco, un po’ beat: l’Ulisse on the road sulle strade della Calabria

    Il tema del viaggio richiama da sempre alle avventure di Ulisse lungo il ritorno verso Itaca. Poi, grazie a James Joyce, abbiamo spostato l’attenzione dal poema di Omero al viaggio interiore dell’uomo moderno: non più eroe, ma antieroe raccontato nelle sue inquietudini e debolezze. Su tutto rimane il valore del mito, di storie che, pur in una nuova narrazione attualizzata, suscitano profonde riflessioni alla stregua dei testi classici.
    Con i poeti della Beat Generation, poi, abbiamo imparato che il viaggio è una ricerca sfrenata di libertà nel più completo rifiuto delle convenzioni sociali. Jack Kerouac, nel romanzo On the Road del 1951, restituisce con la sua narrazione autobiografica l’immagine della gioventù ribelle americana. Lo stesso Lawrence Ferlinghetti – l’ultimo poeta beat, morto nel 2021 a 101 anni – è ricordato come l’Ulisse on the road, lui che trasformò il viaggio in una ricerca interiore di ciò che è umanamente eterno, in una poetica fatta di parole, incontri e paesaggi.

    Da un Ulisse on the road all’altro

    Ulisse on the road è anche il titolo della drammaturgia con cui Katia Colica porta in scena, oltre all’eroe omerico e il suo viaggio, anche Penelope, Circe e Poseidone. Impossibile non coglierne le influenze beat, così come le suggestioni di libertà nelle interpretazioni della compagnia Officine Joniche Arti, attualmente in tour nei teatri calabresi. I protagonisti sono Americo Melchionda, Kristina Mravcova, Maria Milasi – che oltre al ruolo di Circe ha curato la regia – e Andrea Puglisi.

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    Katia Colica

    La scena si apre durante una tempesta che coinvolge i protagonisti, tutti indistintamente. Ma le onde che si agitano mentre si sentono i rumori dei tuoni e si vedono i bagliori dei lampi, non colgono tutti in mezzo al mare. Ognuno è esattamente nel luogo in cui dovrebbe stare: il palazzo, la nave, l’isola, il trono. Una tempesta che più che investire i corpi, insomma, travolge stati d’animo. Le emozioni, così, diventano parole, monologhi o dialoghi illusori tra i personaggi.
    Circe parla con Penelope, quest’ultima con Ulisse che, a sua volta, non può fare a meno di rivolgersi alla sua seduttrice. Tutto mentre il terribile Poseidone si rivolge a Circe, ma in realtà dialoga effettivamente solo con Penelope.
    Tutti (o quasi) dialoghi che sono solo fenomeni della coscienza, flussi di pensieri che si alternano in un botta e risposta metafisico, parole spinte oltre la realtà in grado di raggiungere le dimensioni oniriche e surrealistiche tipiche della poetica di Katia Colica.

    Tutta colpa di Poseidone

    Il viaggio vede i personaggi fermi in ruoli definiti: un eroe valoroso che vuole tornare a casa dopo dieci anni in guerra a Troia; una moglie paziente che attende il ritorno del padre di suo figlio; una maga capace di rendere schiavi gli uomini, colpevoli di essere preda dei loro stessi istinti; un dio potente ostinato a smuovere le acque e la terra.
    A determinare le vicende in Ulisse on the road è proprio il temperamento di questo dio vendicativo, violento e irascibile. Poseidone rappresenta l’Olimpo, il mare e l’oltretomba, ma anche il passato, il presente e il futuro.
    È il bravo attore catanese Andrea Puglisi a prestare il volto al figlio di Crono. Lo fa attraverso un’interpretazione istrionica, in cui i comportamenti manipolatori e seduttivi che esercita (soprattutto verso Penelope) si mescolano a una certa ironia così da rendere il personaggio ancora più cinico agli occhi del pubblico.

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    Un momento dello spettacolo della conpagnia Officine Joniche Arti

    Ulisse on the road: un viaggio alla ricerca di se stessi

    Il Poseidone di Puglisi è un dio che parla, presenta il suo punto di vista, riportando alla contemporaneità tutti i personaggi nel loro rapporto con il mito.
    In realtà si potrebbe vedere Poseidone come il vero protagonista della storia. È lui a scatenare la potenza del mare mentre è seduto sul suo trono o detta il ritmo semplicemente battendo il tempo su una tanica militare di metallo.
    Il tridente in Ulisse on the road, con un chiaro rimando alla simbologia del pomo della discordia, ha ceduto il suo posto ad una mela che viene lentamente consumata, così come si consumano le vicende degli altri personaggi sulla scena.

    Poseidone, figura mitologica di assoluta attualità, rappresenta i potenti, i dispotici, i prepotenti, tutti quelli che creano scintille pronte a scoppiare con le conseguenze inevitabili che conosciamo. L’atteggiamento di questo dio sopraffattore è determinante per lo sviluppo di una vicenda che si appropria dei destini altrui, spingendoli verso un viaggio fatto di insidie, ma capace di riportarli alla scoperta della loro stessa profondità.

  • Il domani di Paola Cortellesi ci sarà ancora per Sangiuliano e Valditara?

    Il domani di Paola Cortellesi ci sarà ancora per Sangiuliano e Valditara?

    Il grande successo del film con cui Paola Cortellesi firma il suo esordio alla regia fa ancora parlare di sé anche per il record d’incassi. Si stimano oltre 27 milioni di euro e il concetto dietro C’e ancora domani certamente apparirà molto più chiaro anche al Ministero della Cultura. Lo stesso che al film, giudicandolo come “opera di scarso valore artistico e di qualità non straordinaria”, ha negato finanziamenti pubblici collocandolo addirittura come ultimo nella graduatoria del bando. Poco importa che alla data del 12 ottobre 2022, il Ministro che nominò la Commissione colpevole della bocciatura non era Sangiuliano, ma Franceschini. Il danno d’immagine è fatto. E ora Sangiuliano, oltre che elargire consigli di letture come il libro di Alessandro Sallusti, La versione di Giorgia, dovrebbe preoccuparsi, in concerto con il ministro Valditara, di portare questo film in ogni scuola italiana e di promuoverlo anche a livello internazionale.

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    I ministri Valditara e Sangiuliano

    Paola Cortellesi batte Ridley Scott

    C’è ancora domani ha avuto il suo meraviglioso domani, unico film di produzione italiana ad entrare nella Top 10 annuale, vincendo il Biglietto d’oro 2023. Dopo la presentazione in anteprima alla Festa del cinema di Roma, ha già portato a casa il Premio del pubblico, la Menzione Speciale Miglior Opera Prima e il Premio Speciale della Giuria.
    Dal 26 ottobre il lungometraggio riempie le sale cinematografiche, occupa le prime pagine dell’informazione, battendo anche Napoleon di Ridley Scott. Una prova insomma, qualora ce ne fosse bisogno, che il cinema italiano gode di ottima salute, anche quando racconta la storia di una donna di borgata a confronto con il più grande imperatore della storia contemporanea.

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    Joaquin Phoenix interpreta Bonaparte nel film di Scott

    Per questa volta la fascinazione del grande condottiero nulla può contro il femminismo in bianco e nero di Paola Cortellesi. E mentre tutti ne parlano, le interviste ai protagonisti si moltiplicano. Nessuno sembra intenzionato a rimanere fuori dal dibattito su di un film che fa molto ridere e, ancor di più, riflettere. Certo, il rischio è quello di non aggiungere nulla alla discussione su un’opera che, nonostante qualche vano tentativo di critica, semplicemente è bello da vedere e, possibilmente, anche da rivedere.

    Il 1946 di Paola Cortellesi

    La Cortellesi per la realizzazione del film ha seguito un percorso che può definirsi teatrale: tre mesi di prove prima di iniziare le riprese, cosa che nel cinema raramente avviene. Il cinema è fatto di scene tra attori che, molto spesso, si incontrano sul set giusto il tempo di un ciak, nulla a che vedere con il lungo lavoro di condivisione di una compagnia teatrale.
    La scena iniziale, vale a dire lo schiaffo di Ivano (Valerio Mastrandrea) alla moglie Delia (Paola Cortellesi), sembra una sorta di presentazione di ciò che accadrà, un prologo che ironicamente fa pensare «iniziamo bene!».

    Sarà Delia ad aprire il sipario sulla narrazione, spalancando la piccola finestra del seminterrato in cui abita con la famiglia. Delia guarda fuori dal basso della sua casa e dalla sua condizione di donna, non diversa da quella di tante donne degli anni ‘40. Ma aprire le finestre al nuovo sole è necessario per far entrare i nuovi sogni. La primavera del giugno 1946 è arrivata: le donne non saranno più le stesse di prima.

    I protagonisti di C’è ancora domani

    La guerra è finita da poco, l’Italia è stata liberata, la miseria è ancora tanta e la famiglia dei protagonisti vive la condizione del proletariato romano. Delia è moglie, madre di tre figli, vive anche con l’anziano suocero, il Sor Ottorino (Giorgio Colangeli), alla quale la donna è costretta a fare anche da badante. La figlia primogenita Marcella (Romana Maggiora Vergano) spera di sposarsi in fretta con Giulio (Francesco Centorame), un ragazzo del ceto borghese, e liberarsi così da una famiglia per molti versi disagiata.
    Le giornate di Delia si svolgono tra la pulizia della casa, i lavoretti che svolge correndo da una parte all’altra della città per aiutare la famiglia, ma anche le botte e le umiliazioni del marito, quasi fossero uno dei compiti da assolvere quotidianamente.
    C’è Marisa (Emanuela Fanelli), la sua amica del cuore, con cui condivide confidenze e momenti di leggerezza. Ma c’è anche Vinicio Marchioni nella parte di Nino, il primo amore di Delia, capace di suscitare sentimenti di tenerezza che non possono essere ignorati.

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    Ritratto di famiglia

    Ricordi in bianco e nero

    Un giorno a Delia, che non aveva mai scritto nessuno, arriva una misteriosa lettera. E in quel momento comprende di avere una propria identità.
    Una storia semplice, un racconto come tanti. Non è una storia di donne, quanto il racconto di un momento storico in cui le donne sono protagoniste. Paola Cortellesi porta sullo schermo delle storie di quelle che raccontavano le nonne, di quelle che si ascoltavano nei cortili dei palazzi, dove tutti sapevano tutto degli altri e dove anche le botte erano una consuetudine.

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    André Bazin

    Il film è girato in bianco e nero, perché questo è il colore dei ricordi, di storie di cui abbiamo immagini grazie a quel neorealismo che, se da una parte non c’entra niente con la cifra stilistica della Cortellesi, dall’altra portava sullo schermo le storie della gente povera, frustrata, ma anche desiderosa di riscatto all’indomani del secondo conflitto mondiale.
    Il bianco e nero, come affermava André Bazin, trasfigura la realtà stilizzandola e rendendola evidente per sottrazione. E poi, proprio perché è il colore del ricordo, la soglia della coscienza rimane proiettata in quel tempo anche quando la colonna sonora ci riporta in un presente pop-punk-jazz.

    Cattivi che non seducono

    La linea dell’umorismo attraversa il film, soprattutto quella che ritrae i personaggi cattivi. Come ha affermato la stessa regista, solitamente la cattiveria rende i protagonisti affascinanti, quasi seduttivi. Cortellesi, invece, vuole sminuirli facendoli apparire ridicoli, quasi stupidi.
    La violenza tra le mura domestiche è resa come una sorta di rituale, un balletto grottesco che normalizza una situazione cancellandone immediatamente i lividi, incapaci di lasciare segni. Cortellesi voleva proprio evitare l’effetto volgare di un voyeurismo che osserva dal buco della chiave le botte in casa altrui. Trasforma così, con maestria, la brutalità in un effetto kafkiano, rendendo alcune scene ancora più intollerabili anche grazie ad un effetto di straniamento.

    E oggi c’è ancora un domani?

    Forse è proprio la capacità di straniamento che consente a Delia di guardare in faccia la propria vita, liberare la figlia da un destino già segnato, di indossare il rossetto e andare avanti in una rivoluzione che, anche se a bocca chiusa, le ha consentito di autodeterminarsi.
    Alla certezza di Delia di avere ancora un domani per portare avanti la sua rivoluzione aggiungerei un punto interrogativo: oggi c’è o potrà esserci ancora un domani per tante altre donne che, in altri paesi, nel nome dell’estremismo religioso, rischiano di trovare la morte ancor prima di aver realizzato la loro personale rivoluzione?