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  • Giangurgolo, il grande equivoco di un calabrese napoletano

    Giangurgolo, il grande equivoco di un calabrese napoletano

    Giangurgolo, la discussa maschera teatrale “del” calabrese, non ha origini calabresi ma nasce e racchiude l’arco della sua esistenza in scena nel secondo periodo della Commedia dell’Arte napoletana, dal 1615 al 1770. Fino a quando, nel ricostruito Teatro San Carlino, furono bandite le commedie non scritte.

    Giangurgolo falso Masaniello di quaggiù

    Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, sulla scorta di errate sovrapposizioni interpretative si riscopre Giangurgolo come emblema della tradizione teatrale della nostra regione. E si continua a creare intorno a questo feticcio tutta una letteratura romanzata con la sola regola del “verosimile”, che vorrebbe regalarci un novello Masaniello che si ergeva contro l’arroganza della società spagnoleggiante del ‘700.

    Colmare una mancanza

    La quasi mancanza di tradizioni teatrali di spessore pare si volesse a tutti i costi colmare con identificazioni incontrollate di maschere e personaggi nati inconfutabilmente in altri ambiti. Un vezzo che mortifica le poche, ma vere, tradizioni nate nelle nostre contrade, spesso reticenti e distratte nell’autoanalisi delle proprie origini.

    Anche l’Accademia Cosentina sbaglia

    Persino la nobilissima Accademia Cosentina registra una relazione dello stimato scrittore e storico Coriolano Martirano, secondo la quale la maschera di Giangurgolo sarebbe nata a Reggio Calabria nel primo Settecento. Martirano, riconoscendo una sua interpretazione verosimilmente logica di una sibillina affermazione del Bragaglia, il noto critico teatrale incaricato nel 1960 dall’allora Ente Provinciale del Turismo di Cosenza a redigere un trattato sul Teatro Dialettale Calabrese, individuava la maschera come nata dall’esigenza di contrastare con l’arma della satira la pseudo nobiltà spagnoleggiante. Una nobiltà che, cacciata dalla Sicilia dopo la firma del trattato di Utrech del 1713, dilagava e spadroneggiava pomposamente nella città dello Stretto facendo spagnare la popolazione.

    L'ingresso della Biblioteca in piazza XV marzo
    L’ingresso della Biblioteca Civica di Cosenza in piazza XV marzo, sede dell’Accademia Cosentina
    Il verosimile di Martirano su Giangurgolo

    Bello, se fosse vero. Ma non è così. Martirano ammetteva lealmente e con colta onestà intellettuale di utilizzare il metodo del verosimile nei suoi romanzi. Al contrario di altri che nei loro scritti individuano persino il domicilio di Giangurgolo, come il catanzarese Vittorio Sorrenti che nel suo “Giangurgolo – Maschera di Calabria” lo fa nascere addirittura a Catanzaro.

    Il senso giusto dell’affermazione del Bragaglia è che il tipo del calabrese ha dato lo spunto agli autori napoletani dei canovacci del Seicento per creare una maschera grottesca, variante di quella del Capitano sbruffone e vanaglorioso, dal nome composito altrettanto sinistro derivante dai maleauguranti uccelli notturni (gurgolo=gufo, civetta) quindi Gianni, lo Zanni nella Commedia dell’Improvviso, Gian-gurgolo.

    Il parere del glottologo John Trumper

    Come ha specificato nella sua dotta dissertazione etimologica il glottologo John Trumper intervenendo, tra gli altri, nel secondo convegno da me organizzato nel 1998 sul tema “Giangurgolo, maschera del Calabrese nella Commedia dell’Arte”, sottolineando l’evidente scostamento del gergo usato nei canovacci dal vero dialetto calabrese, e catanzarese nello specifico.

    John_Trumper
    Il professor John Bassett Trumper

    Registrazioni e documenti inconfutabili del mondo del Teatro nelle più prestigiose biblioteche di Napoli e di Roma datano la nascita di questa maschera molti decenni prima. Si conoscono persino i nomi dei primi attori napoletani, come Natale Consalvo e Ottavio Sacco, che la vestirono a partire dal 1618.

    La goffaggine del calabrese

    Andrea Perrucci asseriva già nel Seicento: «La diversità delle lingue suole dare gran diletto nelle comedie». L’accento calabrese, denominato catanzese, è utilizzato ancor più per irridere la goffaggine del provinciale inurbato, come appariva appunto il calabrese del tempo, abbagliato dal luccichio delle corti reali della “capitale” Napoli. La stessa tipizzazione dialettale dà infatti carattere ad omologhe maschere, quindi a personaggi, come Don Nicola Pacchesicche, un mimo primitivo, cioè chillo malaureio de lo stodente calavrese, piuttosto che il paglietta calavrese, deriso nel suo provincialismo.

    Giangurgolo capitano in commedia

    La maschera di Giangurgolo, variante di capitano in commedia, ha caratteristiche assolutamente negative, ubriacone, traditore, bugiardo, ladro, spione e infido, e ci sorprenderemmo di tanto masochismo se fosse nata nelle nostre contrade che, al contrario, non ne registrano nessuna traccia, nessuna memoria storica.  Questo già nell’800 il Lumini, e dopo anche Benedetto Croce, lo facevano rilevare inconfutabilmente.

    Ancor più evidenze documentali appaiono negli esaurienti due volumi “Giangurgolo e la Commedia dell’Arte” del calabrese Alfredo Barbina, direttore dell’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Italiano Contemporaneo in Roma, editi da Rubbettino.  Non meno esauriente è la “Storia del Teatro calabrese” del cosentino Giulio Palange. Le ricerche di questi intellettuali dovrebbero finalmente spronarci alla riscoperta di autori e maschere autoctone che, seppur minori, possono ambire alla rinascita di un vero teatro regionale.

    Gli autori locali in ombra

    Esistono tanti autori calabresi del Seicento come il Rossi da Cosenza, il Pugliese ed il Quintana da Castrovillari e tanti altri la cui opera è espressa in commedie e satire carnascialesche. Tutti meriterebbero una più ampia diffusione letteraria e rappresentativa. Anziché offuscarli col clamore di una maschera assolutamente minore, e assolutamente non calabrese, come quella del povero Giangurgolo.

    Malgrado questo scritto, si imporrebbe di non portarla più agli onori della cronaca con questa o quella tesi circa la sua provenienza. Da operatore teatrale non potrei comunque negarne l’utilizzo che, in quanto maschera, è facoltà e diritto dell’attore indossarla. Ed è facoltà del regista caratterizzarla, augurandoci che non se ne stravolga eccessivamente la tipizzazione originaria.

    Rino Amato

    scrittore e regista teatrale

  • I segreti dell’organetto alle pendici della Sila

    I segreti dell’organetto alle pendici della Sila

    Senti odore di mosto a Cozzo Carbonaro, piccola frazione di Lattarico, nel Cosentino. Tra quelle colline non è difficile incrociare la melodia di una fisarmonica o di un organetto. Spesso è il maestro Agostino Giuseppe Scavello a suonare. Classe 1933, ringiovanisce di colpo quando indossa i suoi strumenti musicali, quelli che con orgoglio ha costruito con le sue mani. Figlio d’arte, il padre accordava gli organetti, la tecnica l’aveva appresa da autodidatta.

    A vent’anni volevo imparare a costruire organetti

    «Me ne sono andato da Lattarico a vent’anni proprio perché volevo imparare direttamente dalla prima fabbrica italiana (la Paolo Soprani), ad accordare e riparare questi strumenti».
    Le fisarmoniche e gli organetti esplodono nella loro diffusione nell’Italia appena unificata. Le industrie si innestano nella produzione artigianale degli strumenti musicali. La popolarità di questi strumenti a mantice era anche dovuta alla facilità con cui si poteva imparare a eseguire una melodia. Senza necessariamente saper leggere la musica.
    «A Castelfidardo sono stato accolto dalla famiglia Soprani come un amico, mio padre era loro cliente da sempre e non si sono fatti nessun problema a insegnarmi i trucchi del loro mestiere. Tutte le fabbriche di fisarmoniche erano nate da dipendenti che una volta appreso il mestiere si sono messi in proprio e in parte questo era il mio sogno».

     

    Il maestro Scavello torna a Lattarico 

    Dopo cinque anni di apprendistato Scavello torna nella sua Lattarico, ma la difficoltà a trovare operai lo la fa desistere dal suo sogno. Nel frattempo si lascia prendere dall’insegnamento della musica, raggiunge i suoi discepoli a gruppi nelle frazioni e non per diffondere solo la musica, ma soprattutto la passione per l’arte. Quella di antichi mestieri che resistono nella Calabria di oggi.

    «Così già negli anni Sessanta era la fabbrica che mi contattava per fare le riparazioni per loro conto», un’abilità operativa riconosciuta non solo dalla casa madre, ma da tutti i clienti calabresi, che sanno che le piccole riparazioni il maestro le assicura in poche ore, permettendo a molti professionisti di non doversi rivolgere alle aziende produttrici a migliaia di chilometri e rischiare di non potersi esibire.

    Il primo strumento costruito 

    Il primo strumento costruito con le sue mani una volta a Lattarico è l’accordatore, ancora lì nel laboratorio. Operativo dopo sessant’anni, utile quando le ance di metallo non producono più il suono desiderato. Queste complesse lamelle in acciaio e alluminio hanno bisogno di un lavoro certosino a suon di lima e pinza, tutto rigorosamente a mano e a orecchio. Si registra la testiera, si accorda ogni singola parte, di ogni tipo di strumento «quelle più semplici sono quelle italiane, meglio le Soprani, quelle più complesse nella meccanica sono quelle polacche». Nessun problema per il maestro: «Ma io le riparo lo stesso». Nessuno strumento sembra avere segreti.

    L’accordatore del maestro Scavello (foto Tommaso Scicchitano)
    Le innovazioni di Scavello

    «Molti strumenti sono prodotti industriali, comunque hanno bisogno di una cura artigianale», spiega Scavello. E sottolinea: «Ora lo faccio di meno, ma ho realizzato alcuni strumenti quasi interamente a mano».

    Immagini sacre negli organetti costruiti da Scavello (foto Tommaso Scicchitano)

    L’orgoglio è anche di aver inventato qualcosa di innovativo: «Dieci anni fa ho avuto l’idea di inserire nel suono dell’organetto la zampogna, un prodotto molto apprezzato in provincia di Reggio Calabria». Dall’organetto esce anche il suono della piva, si possono sentire due strumenti contemporaneamente. Forse non sarà l’innovazione del secolo in ambito musicale, ma denota l’assoluta padronanza di uno strumento complesso, tale da poterlo ripensare.

    Una questione di famiglia

    Il maestro con orgoglio parla del legame che c’è con la ditta Soprani, una stima reciproca segnata da continui contatti. La musica per Agostino Giuseppe è una questione di famiglia. Tra negozio e laboratorio lavorano un figlio e un nipote. Con orgoglio puntualizza: «Mio nipote è laureato in pianoforte e un altro più piccolo sta imparando». il primo «è arrivato al mio livello, ha l’orecchio, la pazienza, la passione».
    Il know how di un’azienda di famiglia, quello che ti fa riconoscere e stimare per generazioni, non è solo conoscenza e abilità, è soprattutto passione e amore. In questo caso, per la musica.

    Tommaso Schicchitano

  • Musei, la Calabria cresce a dispetto delle istituzioni

    Musei, la Calabria cresce a dispetto delle istituzioni

    Qualche giorno fa ho letto un articolo dal titolo “Musei per tutte le tasche ma poco fruibili, il paradosso calabrese” a firma di Pietro Spirito. Tra i dati messi in risalto dalla puntuale presentazione delle statistiche ISTAT spiccavano la numerosità dei musei calabresi, la loro difficoltà di emergere (l’autore dichiarava che i visitatori stranieri «ne stanno alla larga»), la scarsa accessibilità al pubblico portatore di disabilità, il gap tecnologico, la ridotta presenza di attività didattiche e altro. Il che emergeva a prescindere dalla tipologia e gestione museale (statale, civica, diocesana o privata).

    I numeri non mentono. Eppure dietro i numeri risiede una complessa fenomenologia che vorrei brevemente raccontare al solo fine di denotare un cambio di marcia che negli ultimi tempi tenta di consolidarsi.
    L’attenzione ai musei della Calabria è fortemente aumentata – con conseguente avvio di un poderoso processo di allineamento degli stessi agli standard nazionali e internazionali– dopo l’emanazione del DM 113 del 2018 sulla “Adozione dei livelli minimi uniformi di qualità e i luoghi della cultura e attivazione del Sistema Museale Nazionale”.

    Tanto per le inaugurazioni, poco per la gestione

    In Calabria, come in molti altri contesti regionali “minori” o periferici, a determinare il proliferare dei musei dagli anni Ottanta in avanti è stata per un verso la volontà di conservare e (non sempre) di far fruire i numerosi beni presenti in ogni angolo di questa terra. Per un altro verso, evidentemente più pesante, fini di consenso politico.
    È vero infatti che in tante occasioni gli ingenti investimenti profusi per le inaugurazioni non venivano bilanciati, neppure in minima percentuale, da quelli per la gestione dei musei. Questi ultimi, anzi, molto spesso restavano chiusi, affidati a funzionari non adeguatamente formati e assolutamente distanti da qualsivoglia standard di qualità.

    Si contribuiva così non solo alla inibizione della conoscenza di quel patrimonio da parte delle comunità e forse anche alla sua denigrazione, ma anche alla fuga di centinaia di giovani studenti di svariate discipline (umanistiche, scienze della comunicazione, ingegneri ecc.) che continuavano a dire che in Calabria non c’è lavoro senza cogliere il portato economico che tali musei sottendono.

    La Calabria in prima fila

    È altresì vero che la Regione Calabria, istituzione cui è demandata la normativa in materia, fu una delle prime a dotarsi di Legge regionale sui musei (1995) emanando, a distanza di qualche anno dalla pubblicazione dell’Atto di indirizzo Ministeriale del 2001 sui criteri tecnico- scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei, la deliberazione del Consiglio regionale n. 63 del 13 dicembre 2010 recante l’Atto preliminare di indirizzo del Sistema Museale Regionale.

    Del 2016 era la DGR 248 sul “Sistema Museale Regionale. Disciplina delle procedure di riconoscimento dei musei della Calabria”. E, a poco più di un anno dal già citato DM 113/2018, la Regione pubblicava la DGR n. 11/2020 con la quale recepiva i livelli di qualità proposti dal Sistema Museale Nazionale assumendo la piattaforma di valutazione nazionale come sistema di accreditamento regionale.

    Che questa non sembri una mera elencazione di norme quanto piuttosto una disamina del percorso di presa di coscienza del ruolo dei musei che si è fortemente accelerato negli ultimi 3-4 anni.
    Il Sistema Museale Nazionale – episodio chiave a livello mondiale, che ha posizionato tutti i Musei italiani nella condizione di elevare i propri standard ed entrare in un cielo digitale di risonanza planetaria – ha lanciato una piattaforma nella quale tutti i Musei accreditati ai sistemi regionali (o in fase di accreditamento ad essi) confluiranno da qui a qualche mese.

    L’esperimento con la piattaforma

    Sono stati proprio i musei della Calabria (nella fattispecie il Museo del Codex di Rossano, il Museo Diocesano di Reggio Calabria, il Museo dei Brettii e degli Enotri e il Museo multimediale Consentia Itinera) a sperimentare la piattaforma AGID insieme alle regioni Toscana, Umbria e Lombardia. Ciò al fine di evidenziare la funzionalità del sistema, le criticità, l’agevolezza dei processi di compilazione oltre che nella direzione di fornire supporto agli altri musei della Calabria che avrebbero da lì in poi fatto istanza di accreditamento.

    Per ovviare alla sconfortante situazione dei musei calabresi ben fotografata dai dati Istat, il Settore Cultura della Regione Calabria, ha avviato una capillare azione di sensibilizzazione sul territorio. Ha istituito la Giornata Regionale dei Musei nel novembre 2018 (che ricorre ogni ultima domenica di novembre). Ha proposto momenti di aggiornamento grazie anche al Coordinamento regionale ICOM Basilicata-Calabria e per mio tramite, che rivesto il ruolo di consigliere regionale ICOM e componente della Commissione nazionale per il SMN.

    Se nei musei (non solo calabresi) permangono purtroppo ancora numerose difficoltà gestionali e professionali, è pur vero che si va verso il miglioramento dei livelli di qualità e l’allineamento dei musei del nostro territorio con gli standard nazionali. Nel Piano Cultura 2021 della Calabria sono tra l’altro previste già fonti di finanziamento per consentire ai musei riconosciuti dal Sistema museale regionale (attualmente 36) di conseguire alcuni requisiti minimi previsti da quello nazionale e accreditarsi ad esso.

    La solitudine dei direttori

    Se proprio dobbiamo continuare a evidenziare un problema, questo è la avvilente solitudine dei direttori dei musei calabresi, perlomeno quelli non statali rispondenti a norme, riconoscimento professionale e procedure nazionali. Sono le loro stesse istituzioni a lasciarli da soli nel quotidiano impegno per il miglioramento e la promozione dei rispettivi istituti. Quasi fosse solo “cosa loro”!

    Se in Calabria la parola “museo” fa ancora paura (più agli adulti che a bambini e ragazzi) è perché non tutti  conoscono le profonde trasformazioni che i musei hanno vissuto e maturato negli ultimi 20 anni, da quando furono ritenuti “invisibili”. Se ancora la opportuna dotazione organica dei Musei non viene considerata negli organigrammi di Comuni, Diocesi e istituzioni private è perché troppo spesso il museo è considerato “cosa facile”. Ma lasciarlo senza professionalità è un po’ come lasciare l’ospedale senza medici.

    Lo sviluppo delle comunità

    Eppure è noto che i Musei sono organismi complessi e in costante trasformazione. Oggi affrontano temi diversificati quali la difesa dei diritti umani, la sostenibilità, la legalità, l’innovazione tecnologica. E non è un caso se la Convenzione di Faro (2005) le dichiarazioni del Parlamento che li ritiene “servizio pubblico essenziale” e, ultima in termini cronologici, la Dichiarazione dei Ministri della Cultura del G20, hanno veicolato un messaggio forte e chiaro: i musei sono luoghi strategici per lo sviluppo delle comunità – specie quelle più complessa come quella calabrese – e parlano il linguaggio della contemporaneità e dei giovani attraverso il digital humanism e i percorsi di educazione al patrimonio.

    I musei combattono l’isolamento delle persone, sia sociale che quello determinato dalla malattia. Favoriscono l’abbattimento delle barriere fisiche, sensoriali e cognitive (se messi dalle rispettive istituzioni nelle condizioni di farlo con dotazioni organiche e strumentali permanenti e non solo in occasione di sporadici progetti e bandi). Promuovono il dialogo interculturale.

    Pensiamo a cosa sono stati in grado di fare durante i vari lockdown reinventandosi e partecipando attivamente alla crisi delle comunità durante la pandemia al solo fine di intercettare – pur se chiusi, pur senza aiuti – il cittadino in difficoltà. Hanno cercato, con numerose attività, di diffondere un sentimento ed uno sguardo positivo verso il futuro evidenziando il loro impatto e ruolo sociale.

    Più attenzione verso i musei

    Grandi passi in avanti sono stati fatti per adeguare le strutture in termini di accessibilità. Evidente e in costante aumento è l’inserimento delle tecnologie nei percorsi espositivi e nella comunicazione. Costante è l’aggiornamento dei professionisti. E caratterizzanti delle attività dei musei sono la formazione, l’internazionalizzazione e la cooperazione strategica con il comparto produttivo e industriale. I numeri sono importanti, eppure dietro i numeri ci sono persone e soprattutto sforzi che spesso non emergono all’onore della cronaca.

    Parlare di musei significa in prima istanza visitarli, porre loro dei quesiti, mettersi in ascolto delle necessità dei professionisti che se ne prendono cura. In Calabria questo, purtroppo, accade ancora poco. La cultura non è un privilegio bensì un diritto. Pertanto gli amministratori pubblici e i privati in possesso di siti culturali sono chiamati ad anteporre i musei in agenda, poiché essi costituiscono la cabina di regia nei progetti strategici per lo sviluppo del nostro territorio (PNRR docet), per il welfare e la qualità della vita.

    Anna Cipparrone
    Commissione Nazionale per il SMN

  • Da Pertini a Bearzot, Vincenzo Grenci e le sue pipe mundial

    Da Pertini a Bearzot, Vincenzo Grenci e le sue pipe mundial

    Le mani toccano il legno, lo girano tra le dita, il pollice passa piano sulle righe e le linee, quasi a decidere cosa farne. Quelle mani sono del maestro Vincenzo Grenci e conoscono la perduta arte della lentezza. Oggi la moda consegna ai fumatori strumenti tecnologici che al pari a uno smartphone hanno bisogno di ricarica, design avveniristico, materiali che li fanno somigliare di più a un accessorio per il pc portatile che a una sigaretta, un sigaro o una pipa.

    Brognaturo, piccolo centro delle Serre vibonesi, ha già i tratti dell’inverno, «questa notte abbiamo avuto appena sei gradi». Vincenzo passa le sue giornate nella sua bottega artigiana che odora di legno. Di tanto in tanto Enrico, ara gialloblù, urla richiamando l’attenzione. Non vuole più stare sul suo trespolo e desidera salire sulle spalle del suo proprietario.

    Dalla medicina alla stampa su ceramica

    «Sono sempre stato legato a questo paese, ma me ne sono andato per studiare medicina a Padova. Mio fratello è diventato medico, ma io non ero interessato allo studio. Mi sono dedicato alla fotografia, che negli anni Settanta era molto redditizia. Col tempo mi sono specializzato nella stampa su ceramica, sono tornato in Calabria proprio aprendone un laboratorio: era il primo in tutto il meridione».

    La storia della sua arte comincia lontano, in America. «Prima di me, mio padre, Domenico, aveva iniziato questa attività negli USA negli anni Cinquanta. Aveva fatto la fortuna di una rivendita di pipe perché i passanti erano attratti da lui che faceva questo lavoro, così aveva portato questa attività qui a Brognaturo. E io quando sono tornato mi occupavo in parte delle ceramiche e in parte del laboratorio delle pipe».

    Vent’anni di attesa

    Grenci racconta quanto tempo occorra prima che una sua creazione sia pronta, lo stesso impiegato da suo padre a metà del secolo scorso. «Oggi non è cambiato nulla di quel lavoro. Scelgo ancora personalmente le radiche di erica, le faccio bollire per ventidue ore in modo da estrarre tutto il tannino, infine le lascio stagionare per almeno vent’anni, mentre l’intaglio e le rifiniture finali sono solo una giornata di lavoro. Vedi queste pipe sulla finestra, intagliandole è emerso qualche difetto, ma non le butto, ormai fanno parte di questo laboratorio».

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    Le pipe difettose che Grenci conserva ancora nella sua bottega (foto Tommaso Scicchitano)
    Pertini, Lama, Bearzot

    La passione per la fotografia però è rimasta. Così come i ricordi di tanti clienti illustri passati dalla sua bottega. «Ma non ho mica smesso di scattare foto. Ne ho anche una con Pertini, c’è anche mio padre, io stesso l’ho scattata; il presidente aveva ricevuto in dono da alcuni senatori calabresi le nostre pipe, le aveva molto apprezzate e quando è venuto a Catanzaro ha chiesto di salutarci. Riconosceva un bouquet di aromi che le nostre pipe sprigionavano tanto da farne un vanto davanti a intervistatori inglesi che gli chiesero un confronto con le loro. Non solo lui amava le nostre pipe, tra i nostri clienti abbiamo avuto Luciano Lama ed Enzo Bearzot». Con orgoglio mostra il video messaggio di un cliente su whatsapp: aveva comprato da lui una pipa da trecento euro, ora non poteva più tornare a quelle ben più famose.

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    Sandro Pertini ed Enzo Bearzot confrontano le loro pipe
    Un segno di pace

    «Chi fuma sigarette non può capire, si fuma lentamente per assaporare e per odorare. Fumare la pipa è come prendersi cura di un sentimento. Devi curare la pipa e lo scopo è rilassarsi, nulla a che fare con il fumare nervoso delle sigarette. È così importante che gli indiani d’America ne fanno un segno di pace: se fumiamo insieme la stessa pipa tra noi c’è armonia».

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    Vincenzo Grenci mostra alcune delle sue creazioni (foto Tommaso Scicchitano)
    Di padre in figlia

    Ha qualche suggerimento per un giovane che vuole fare l’artigiano in Calabria?
    «Di lasciar perdere, è il periodo sbagliato. La situazione economica causata dalla pandemia è molto limitante, senza parlare di cosa comporti oggi aprire una partita Iva».
    A chi lascerà la sua bottega se ancora oggi raccoglie le radici che verranno intagliate fra vent’anni?
    «Mia figlia studia economia e commercio, conosce tutte le fasi della lavorazione e saprà coniugare le abilità artigiane con quello che ha studiato».
    Quindi un suggerimento c’è: restare innestati nella tradizione e volare sulle ali dell’innovazione.

    Tommaso Scicchitano

  • Musei per tutte le tasche, ma poco fruibili: il paradosso calabrese

    Musei per tutte le tasche, ma poco fruibili: il paradosso calabrese

    La cultura di un territorio è determinata da molti fattori convergenti: il grado di scolarizzazione, la diffusione della lettura, la conoscenza e le competenze che si esprimono anche nelle attività economiche e sociali.
    I musei costituiscono una cartina al tornasole che racconta il radicamento nelle proprie radici, la capacità di illustrare le origini ed il presente della propria storia, il meccanismo di attrazione culturale verso un turismo della conoscenza che si è molto sviluppato nel corso degli ultimi decenni in tutti i Paesi che dispongono di un patrimonio culturale di adeguato livello.

    L’indagine dell’Istat

    L’Istat, l’Istituto Nazionale di Statistica, conduce da diversi anni una indagine sui musei del nostro Paese, mettendo a disposizione una serie di indicatori che specificano le caratteristiche di offerta, a livello nazionale ed in ciascun territorio regionale.
    Possiamo in questo modo verificare il grado di armonizzazione o di scostamento tra il modello museale nazionale e la singola realtà territoriale.

    Proprio per questa ragione abbiamo messo a confronto per gli indicatori presi in considerazione dall’indagine i risultati che emergono dalla realtà museale nazionale rispetto a quella calabrese, considerando per ogni indicatore il valore totale, oltre che la sua articolazione tra musei privati e pubblici.

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    Ne viene fuori un quadro a tinte abbastanza fosche. Soprattutto per quel che riguarda una serie di indicatori: l’accessibilità per i disabili, l’adeguamento dei musei alle nuove tecnologie, lo svolgimento di attività didattiche integrative e la capacità di attrarre turisti stranieri sui visitatori totali. I musei privati calabresi in qualche caso riescono a stare nei valori nazionali, mentre sono i pubblici a registrare i maggiori divari.

    I punti di forza

    Cominciamo con qualche dato nel quale la Calabria riesce a posizionarsi meglio della media nazionale. In tema di grado di apertura al pubblico dei musei pubblici l’Italia registra il 62,9%, contro il 64,3% della Calabria. Lo stesso indicatore per quelli privati a livello nazionale è pari al 57,9%, contro il 63,3% della Calabria. Nel valore totale di questo indicatore l’Italia raggiunge il 58,5% contro il 60,8% della Calabria.

    Anche quando andiamo a misurare il grado di diffusione di musei con ingresso gratuito verifichiamo che in Italia tale indicatore è pari al 41,7% rispetto al 48,8% della Calabria. Tale forbice si allarga in particolare quando andiamo a misurare i musei privati con ingresso gratuito, che in Italia sono pari al 46,1% mentre in Calabria si arriva al 61,2%. Nel caso di quelli pubblici tale indicatore in Italia è pari al 42,2%, mentre in Calabria raggiunge il 46,8%.

    Disabili penalizzati

    Le dolenti note cominciano ad emergere quando andiamo a confrontare il grado di accessibilità e fruibilità per persone con disabilità. Nel totale dei musei italiani è pari al 7,7%, mentre in Calabria si raggiunge il 6%. Nei musei privati la percentuale in Italia raggiunge il 5,9%, mentre in Calabria si attesta al 4,2%. Nei musei pubblici in Italia l’accessibilità per i musei pubblici è pari all’11,7%, con la Calabria che si attesta al 7,8%.

    Pubblico e digitale, il divario cresce

    Quando mettiamo a confronto il grado di offerta di servizi e supporti digitali, in Italia la percentuale complessiva è pari al 44,7%, mentre in Calabria si attesta al 36,1%. Nel caso dei musei privati il dato nazionale raggiunge il 41,9%, mentre in questo caso la Calabria è maggiormente performante, con il 46,9%. Se prendiamo in considerazione i musei pubblici, il valore di digitalizzazione nazionale è pari al 49,3%, contro il 33,9% della Calabria.

    Se analizziamo il grado di servizi digitali per visite virtuali sul totale dei musei la
    Calabria raggiunge il 18,6%, mentre i musei italiani arrivano al 24,3%. Tra i musei privati c’è maggiore parità sulla digitalizzazione per le visite virtuali, con la Calabria che arriva al 24,5 , mentre i musei italiani privati si collocano al 25,4%. Nei musei pubblici la forbice di digitalizzazione per visite virtuali è particolarmente rilevante, con la Calabria che arriva al 16,5% e l’ Italia che si attesta 25,3%.

    Poche attività didattiche nei musei

    Nella diffusione di attività didattica educativa la forbice dei musei calabresi rispetto al valore italiano è molto rilevante: 39,8% contro il 51,4% nazionale. Non è così per quelli privati, nel cui caso il grado di diffusione di attività didattiche è pari al 51% per la Calabria rispetto al 48,6% dell’Italia. Molto distante risulta invece la condizione calabrese nei musei pubblici per quanto riguarda la diffusione delle attività didattiche: 37,6% contro il 56,4% dell’Italia.

    Scarso appeal sugli stranieri

    Guardiamo infine alla percentuale di visitatori stranieri sul totale: in Italia è pari al 45,6% rispetto al 26,4% della Calabria. Nei musei privati stavolta la forbice non viene colmata (24,9% in Calabria contro il 48,1% dell’Italia). Ed anche nei musei pubblici si conferma una scarsa presenza di turisti stranieri in Calabria sul totale dei visitatori (26,7%) contro un valore nazionale pari al 44,6%.

    C’è insomma molto lavoro da fare per valorizzare il patrimonio museale calabrese, al fine di allinearlo alle performance nazionali. Soprattutto c’è da rendere queste strutture più vitali dal punto di vista della digitalizzazione, dello sviluppo di attività didattiche, della conoscenza e della apertura verso visitatori stranieri. Una storia culturale così ricca come quella della Calabria merita di essere valorizzata in modo adeguato.

  • Carmine Abate: «L’Arbëria è un miracolo di resistenza»

    Carmine Abate: «L’Arbëria è un miracolo di resistenza»

    Una nazione in un’altra nazione, un luogo dove il popolo albanese arrivato quasi seicento anni fa si è integrato con quello calabrese che abitava già lì, mescolandosi ma preservando cultura, lingua e valori della terra d’origine. È l’Arbëria e ha accolto la più grande minoranza culturale e linguistica d’Italia, che proprio in Calabria ha trovato la sua terra d’adozione con decine di paesini, specie nel cosentino, popolati dagli arbëreshë, eredi del condottiero Giorgio Castriota Scanderbeg e delle sue truppe che attraversarono il mare per sfuggire agli ottomani.

    La lingua del cuore e quella del pane

    «Un miracolo di resistenza» secondo Carmine Abate, lo scrittore arbëresh nativo di Carfizzi (KR) che dai tempi de Il ballo tondo (1991, ora Oscar Mondadori e in uscita negli Usa) ai giorni nostri ha fatto conoscere al grande pubblico questo mondo in cui per comunicare si usano due lingue: quella del cuore, gjuha e zemrës, ereditata dai propri antenati e quella del pane, gjuha e bukës, l’italiano che imparano a scuola tutti i bambini, siano essi albanofoni o litìri (latini).

    «Sono entrambe importanti, ma la prima è più radicata in noi. Gli arbëreshë non si sono chiusi a riccio cercando di difendersi da un mondo che voleva annullare la loro identità, si sono aperti all’esterno fin dall’inizio. È come se avessimo paura di perderci perdendo la nostra lingua e per questo – in modo più o meno consapevole – cerchiamo di resistere all’omologazione. La più alta forma d’integrazione è aprirsi agli altri restando se stessi. Lo facciamo da mezzo millennio, è la nostra forza».

    Ed è proprio dalle parole che partiamo con Carmine Abate alla scoperta dell’Arbëria, perché sono la chiave per comprenderne i valori tramandati nei canti rapsodici: la besa, che è il rispetto della parola data, o la mikpritia, l’ospitalità. «Da noi è davvero sacra, tant’è che si dice: all’ospite bisogna fargli onore, nder, offrendogli pane, sale e cuore. A San Demetrio Corone, la commemorazione dei defunti avviene tra febbraio e marzo ed è un rito antico che termina in un banchetto sulle tombe».

    Sapori che si fondono

    Diversi i piatti tipici: «A Carfizzi si prepara furisishku, una zuppa di fiori di zucca, zucchine, patate, fagiolini, pane e olio. Ma le pietanze tradizionali per eccellenza sono shtrydhëlat, un gomitolo di pasta filata fatta in casa, condita con fagioli bianchi, olio aglio e peperoncino e dromësat, che sembra un risotto ma è fatto da grumi di farina cotti nel sugo di carne. Altre portate sono simili a quelle calabresi, è normale che ci sia stata una mescolanza nel tempo; a Lungro, addirittura, si beve il mate, una tradizione importata dagli arbëreshë emigrati in Argentina. Io però per assaggiare la nostra cucina consiglio di andare a Firmo e a Civita. Quando erano piccoli portavo i miei figli alle gole del Raganello, un posto incantevole, e poi risalivamo in paese per mangiare in uno dei ristoranti tipici».

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    Il ponte del diavolo a Civita si affaccia sulle gole del Raganello
    Donne e uguaglianza

    Civita, da anni nell’elenco dei borghi più belli d’Italia, con le sue case Kodra dalle facciate antropomorfe e i loro buffi comignoli è anche il posto migliore per gustarsi, nel cuore del Parco nazionale del Pollino, uno spettacolo arbëresh «assolutamente da vedere»: le vallje. «Sono le danze tradizionali di Pashkët, la Pasqua, e le donne arrivano da molti paesi dell’Arbëria per ballare indossando le cohe, costumi tipici che cambiano da paese a paese usati nelle occasioni più importanti. Abiti bellissimi, cuciti con fili d’oro e stoffe preziose. Un tempo venivano dati in dote a tutte le ragazze, c’era una sorta di uguaglianza nel paese».

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    «A Carfizzi – prosegue Carmine Abate – ne abbiamo ancora pochi, ma a Vaccarizzo, Santa Sofia d’Epiro e Frascineto ci sono dei musei in cui è possibile ammirarli in tutta la loro bellezza e varietà. I più belli una volta venivano considerati quelli di Caraffa, un paesino arbëresh del Catanzarese. Le cohe rappresentano un legame tra la donna e la sua patria d’origine e purtroppo quelle più antiche si sono quasi tutte perse per via di un’altra tradizione: già quando ero bambino erano sempre meno le zonje, le signore, che uscivano col vestito tradizionale perché quando morivano venivano sepolte con l’abito di gala indossato al matrimonio».

    Preti con moglie e figli

    Le cerimonie religiose in Arbëria, d’altra parte, si discostano di molto da quelle del resto d’Italia. «Il rito bizantino purtroppo si è perso in diversi paesi – tra cui il mio, alla fine del ‘600 – perché i vescovi costringevano gli arbëreshë ad abbracciare quello latino. Specie in provincia di Cosenza, però, si è mantenuto il rito di una volta. Le chiese dipendono dal Papa, ma vi si pratica ancora la liturgia greco-bizantina con la messa celebrata in arbëresh e i preti possono sposarsi e avere figli. Questi magnifici papàs sono figure di rilievo ed è soprattutto grazie a loro che in passato, oltre alle tradizioni, si sono mantenute vive la lingua e la cultura. Proprio per salvaguardare queste ricchezze abbiamo chiesto all’Unesco il riconoscimento della cultura immateriale degli albanesi d’Italia come patrimonio dell’umanità».

    Mosaici e oro

    La differenza tra le due forme di cristianesimo balza agli occhi entrando nei luoghi di culto. «Le chiese sono dei veri e propri capolavori artistici con i loro mosaici favolosi. A Lungro c’è la bellissima cattedrale di San Nicola di Mira, sede dell’eparchia, con i mosaici realizzati dall’artista albanese Josif Droboniku. E ad Acquaformosa incanta la chiesa di San Giovanni Battista con le pareti ricoperte da tasselli d’oro. Bisogna visitare anche quella millenaria di Sant’Adriano e il collegio, dove si sono formate generazioni di arbëreshë e non solo, a San Demetrio Corone».

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    La chiesa di San Giovanni Battista ad Acquaformosa

    O, se si passa di lì in estate, andare al Festival della canzone arbëreshe: «Anno dopo anno spinge i nostri musicisti a scrivere e cantare in arbëresh. Vi è anche un importante recupero dei canti tradizionali, alcuni famosi anche in Albania, e dei valori che ci accomunano. Ma davvero tutti i paesi arbëreshë meritano di essere visitati, da Cerzeto a Spezzano Albanese, da Vena di Maida a San Giorgio, per citare gli ultimi in cui sono stato».

    I luoghi del cuore

    Il percorso del cuore però, per uno che come Carmine Abate è profeta in patria – Carfizzi gli ha intitolato un parco letterario dove trovare, oltre alle opere di Abate in numerose traduzioni, molte informazioni sulla cultura arbëreshe – e non solo, non poteva che passare dai luoghi dell’infanzia. «Ne parlo nei miei libri: parte proprio dalla casa in cui sono nato, nel Palacco, e attraverso il parco conduce alla Montagnella, un luogo simbolo equidistante da San Nicola dell’Alto, Carfizzi e Pallagorio, dove da più di cent’anni questi tre paesi arbëreshë del Crotonese festeggiano il Primo Maggio. Poi dalla Montagnella si può attraversare l’omonimo parco e scendere alla cascata del Giglietto; da lì si segue una fiumara ai cui bordi si trovano i ruderi di antichi mulini in cui ho ambientato il romanzo Il bacio del pane».

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    Primo maggio alla Montagnella
    Mare nostro

    Proseguendo lungo la strada si arriva a Cirò Marina, un luogo speciale per Carmine Abate. «Lì da bambino vidi mia nonna baciare la riva del mare: su quella spiaggia, secondo lei erano sbarcati i nostri antenati, un gesto di grande valore simbolico che mi ha segnato. Quasi tutti i paesi arbëreshë sorgono, come il mio, su colline affacciate sulla costa. E io immagino i profughi albanesi che, arrivati dopo un lungo viaggio tra la piazza e l’attuale Largo Scanderbeg, hanno visto il mare e si sono voluti fermare lì, ripopolando il mio paese. Il mare per gli arbëreshë è una via di fuga, ma soprattutto la via da cui sono venuti. Lo Jonio per noi è deti jon, che vuol dire mare nostro: il mare nostrum degli antichi noi ce l’abbiamo pure nella lingua del cuore».

    Carmine Abate, scrittore arbëresh tradotto in tutto il mondo, ha messo l’incontro tra culture al centro della sua opera e del suo stile. È autore di romanzi e racconti di successo. Tra i suoi libri più noti: La moto di Scanderbeg, Tra due mari, La festa del ritorno, Il mosaico del tempo grande, Gli anni veloci, Vivere per addizione e altri viaggi, La collina del vento (Premio Campiello 2012), Il ballo tondo, Le stagioni di Hora, Il bacio del pane, La felicità dell’attesa, Le rughe del sorriso.

  • Il Buco di Frammartino e la farsa della calabresità

    Il Buco di Frammartino e la farsa della calabresità

    E così il baratro della cosiddetta “calabresità” da esportazione, ormai una specie di pozzo senza fondo di luoghi comuni, dichiarazioni strampalate di identitarismi metastorici e regressioni passatiste e rivendicative, si arricchisce di nuove immaginette e inghiotte anche le immagini dell’abisso del Bifurto. Il pretesto, allettante e di ovvio impatto mediatico, è stato offerto stavolta dal meritato successo del cineasta di origine calabrese Michelangelo Frammartino, che a Venezia 78 ha ricevuto il premio speciale della Giuria per Il buco, un bellissimo film che racconta l’impresa di un gruppo di speleologi piemontesi in Calabria al principio degli anni’60 del secolo scorso.

    Il regista Michelangelo Frammartino al Festival del cinema di Venezia
    Tutti sul carro del vincitore

    Il film, prodotto da Rai Cinema (e con un contributo dalla passata gestione della Film Commission della Calabria), è un autentico capolavoro. La corsa per intestarselo come al solito è partita due minuti dopo. Ed ecco che spunta, come sempre, puntuale come i comunicati dell’Isis dopo gli attentati, la rivendicazione della “calabresità” (per giunta stavolta “più autentica” dell’autentico, sic!) di autore e pellicola. Ci provano tutti, in testa politici in fregola elettorale, accompagnati da un corteo di figuranti e “dirigenti” di qualcosa che parlano sempre a nome della cultura di questa regione.

     

    Banalità identitaria

    Certune di queste affermazioni, more solito, si segnalano per la goffaggine, oltre che per banalità situazionistica: «Uno straordinario riconoscimento ad un talento purosangue calabrese, alla sua passione nel dare un nuovo volto a luoghi e persone del nostro territorio». Poi, «il prestigioso premio a Frammartino è la dimostrazione di quanto la forza delle nostre radici e il bagaglio storico e culturale calabrese rappresentino un patrimonio capace di rilanciare l’immagine e la reputazione della regione». Poi, il logoro e onnipresente richiamo alla «promozione del territorio, a rafforzare la visibilità del patrimonio naturalistico e artistico locale», che, ovviamente, integra «la giusta strategia da seguire per ribaltare, in termini positivi, la narrazione del nostro territorio al di fuori dei confini regionali». Insomma ammuina, pura retorica identitaria a palate.

    Una sequenza de “Il Buco”, una pellicola di Michelangelo Frammartino

     

    Le solite etichette

    Possibile che il giusto (e forse persino tardivo) riconoscimento al valore di un artista e a un’opera d’arte così originale non riesca qui da noi a evitare il dazio di etichette e rivendicazioni identitarie così spropositate e arbitrarie, così vistose e marchiane? Può un film diventare «una straordinaria storia in grado di esaltare la vera “calabresità”, con il suo cuore autentico»? E cos’è mai, se qualcuno può dirlo con cognizione di causa, la “vera calabresità” dei calabresi e della Calabria oggi, nel 2021? E perché mai il prestigioso premio a Frammartino, che è il riconoscimento a un artista e alla sua opera, sarebbe «la dimostrazione di quanto la forza delle nostre radici e il bagaglio storico e culturale calabrese rappresentino un patrimonio capace di rilanciare l’immagine e la reputazione della regione a livello nazionale ed internazionale»? Lo stesso Frammartino si è subito affrettato a smarcarsi da simili inciampi da strapaese dichiarando, ben oltre il suo amore per la Calabria («La Calabria, la regione più bella del mondo», certo, why not?), che il suo film è una personalissima esplorazione dell’umano e della natura, «è la storia di un abisso, e noi siamo speleologi del cinema underground».

    In fondo al “Buco” raccontato dal film di Frammartino
    La Calabria di oggi

    È anche il caso di ricordare a tutte le anime belle che hanno a cuore questa regione a colpi di spot e proclami, che solo un paio di settimane fa piangevamo i roghi boschivi e gli incendi devastanti appiccati con dolo criminale che hanno annichilito le foreste calabresi in Aspromonte, in Sila, sul Pollino (il Monte Sellaro, la stessa montagna percorsa dal fuoco, non distante dal set del film di Frammartino). Che questa è la regione dove comandano ’ndrangheta e massomafie. Che la politica è quella che ne ha fatto la regione peggio amministrata d’Europa. Che i treni viaggiano ancora senza elettricità, che gli ospedali sono lazzaretti. Che qui si muore di malasanità, ma anche di noia e di conformismo.

    È ancora il caso di ricordare che molti di quei luoghi bellissimi che vorremmo buoni per viverci e prosperare sono oberati dal cemento, inquinati da discariche, da cumuli di monnezze abbandonate in ogni angolo e violati da abusi di ogni genere. Che il mare è sporco e che turismo tanto strombazzato è il trionfo dell’economia dipendente e di una monocultura consumista e massificata, pericolosissima. Che le nostre magnifiche montagne, buone per i film e per le cartoline per escursionisti della domenica, si spopolano ogni giorno di più e franano puntualmente dopo gli incendi dell’estate. Che i paesi chiudono perché non c’è più vita, che i giovani calabresi emigrano ogni giorno anche se adesso vanno via con laurea, ma sono tanti, troppi. Che le “eccellenze” calabresi diventano tali solo quando trovano opportunità fuori da questa regione, che espelle i migliori e mortifica chi resta.

    E che in fondo quel film di cui oggi molti fanno ruffianamente gli elogi, che racconta di una voragine senza fondo in cima a una montagna, è un po’ come noi, come la Calabria di adesso. Un enigma. È un film fatto di silenzio e di buio. Di pietra, di vento, e di abissi di pietra. E che l’unico calabrese che vi compare con una parte nella storia – gli speleologi che esplorano il buco sono ragazzi piemontesi dell’Italia del Boom – è un vecchio, un taciturno e certo ben poco arcadico pastore del Pollino (Frammartino predilige i vecchi pastori nei suoi film). E il vecchio è una figura scabra, antiretorica, solitaria, arcana, vuota e piena allo stesso tempo; uno che sembra muto, di pietra anche lui, come la voragine che sprofonda ogni cosa dentro l’ombelico del mondo che si spalanca nella fessura lì vicino.

     

    L’originale bellezza di Frammartino

    Come antropologo e scrittore seguo, e non credo di essere tra i molti, il cinema di Frammartino dagli esordi. Ritengo che i suoi film siano una delle poche cose davvero interessanti spuntate negli ultimi vent’anni nell’asfittico panorama della cinematografia italiana. Quello che fa vedere e racconta non assomiglia a nessun altro. Il suo è un cinema che prescinde dai condizionamenti di genere e dai retaggi ai quali la maggior parte dei suoi colleghi sembra oramai assoggettata (con l’eccezione, secondo me, di autori che recentemente hanno messo modernamente a tema un riflesso ambiguo e scivoloso come quello identitario, quali Pietro Marcello, La bocca del lupo e il recente Martin Eden, e Alice Rohrwacher, in Corpo celeste).

     

    Quando stupì Cannes con Le quattro volte

    Frammartino, 53 anni, nato a Milano da genitori calabresi originari di Caulonia, è regista non nuovo a importanti prove d’autore che mettono a tema con originalità e straordinaria potenza narrativa il rapporto con la terra delle origini. Prima che con Il buco lo ha già fatto con pellicole dal budget limitato ma intensamente poetiche e di grande impatto artistico, come Il dono (2003), la sua opera prima, un piccolo film ambientato nel paese natale dei genitori, che ristampato in una copia in 35mm fu poi proiettato al Festival di Locarno. Nel 2010 scrive e dirige Le quattro volte, un documentario etnografico, un film mimetico, magico e misterioso, sulle tradizioni dimenticate dell’Appennino calabrese. Un film che è anche una sorta di apologo, un moderno conte philosophique sul persistere delle credenze animistiche nelle civiltà rurali non ancora travolte e cancellate dalla modernizzazione omologante. Le quattro volte, presentato con successo alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, fu anch’esso girato in Calabria da Frammartino, che portò allora il suo set in tre luoghi differenti: Alessandria del Carretto, Caulonia e Serra San Bruno.

     

    Raccontare l’indicibile à la Werner Herzog

    Il buco è un film che ancora una volta sullo sfondo di magnifici e inquietanti scenari naturali e antropici calabresi affronta l’indicibile, con il mistero del mondo delle grotte e degli abissi della natura più indomita e inospitale e l’esplorazione del regno minerale, in cui la pellicola si immerge poeticamente quasi solo con l’ausilio delle immagini. Come in un suo film Werner Herzog, Cave of Forgotten Dreams (realizzato dal cineasta tedesco nel 2010) trattava dei misteri dei dipinti paleolitici sepolti nella Grotta Chauvet nell’Ardèche francese, qui Frammartino sprofondando il suo racconto per immagini nell’abissale inghiottitoio, mai prima esplorato, che si apre in una fenditura della roccia in cima al monte Sellaro sul massiccio del Pollino (una dolina che sprofonda nel vuoto vertiginosamente per quasi 700 metri, creduta a quel tempo una delle grotte più profonde del mondo), sonda nello stile del suo cinema l’esperienza dell’insondabile, il buio profondo, l’angoscia di conoscere, la paura e l’ansia di perdersi in questa stessa avventura.

     

    Non è un film sulla vera identità calabrese

    Nella storia, non a caso, il regista adotta il punto di vista alieno e spaesante dei giovani e ignari speleologi piemontesi che furono attratti in questo recesso della Calabria più isolata e impervia nel lontano 1961, per poterlo esplorare sino in fondo, con rispetto e ammirazione, non privi in partenza di pregiudizi e luoghi comuni. Vince su tutto la misteriosa e affascinante bellezza di luoghi che sembravano fuori dalla storia. Un salto nel buio che è anche un salto nel tempo, negli interrogativi del presente. Infine, alla stregua di un filosofo e antropologo dei giorni nostri, il regista ha manipolato il materiale così faticosamente raccolto per trarne una riflessione di straordinaria intensità e rigore sull’enigma dell’esistenza. Non quindi un film sulla presunta “vera identità calabrese”.

     

    L’insegnamento che risale a Pitagora

    La lezione di Frammartino ancora una volta sembra invece scandita da un insegnamento che risale a Pitagora, secondo il quale in ciascun essere ci sarebbero quattro vite distinte, ma unite nel passaggio dell’una nell’altra: minerale, vegetale, animale e razionale. Il film che ci getta tutti nell’esplorazione folle e meravigliosa che avviene dentro – ma anche intorno – a quel buco oscuro del Pollino ci lascia attoniti e senza fiato come in un viaggio nella maestà arcana di un luogo di natura essenziale. Un’immersione abissale attraverso questi stadi fisici e metafisici in cui tutto è avvolto dall’incertezza, dal pericolo, dal buio. E anche il vecchio pastore calabrese, che con i suoi silenzi, i suoi gesti arcani e misteriosi e i pochi verbi smozzicati fa da contrappunto ai giovani e temerari speleologi del nord, pare così antico e mitologico da sembrare una divinità primordiale, tanto da far dubitare che possa essere davvero sopravvissuto sino ai giorni nostri.

     

    La calabresità vera che non esiste

    Anche in questo caso, quindi, Frammartino tratta la “sua” Calabria come un archetipo, e affronta con un linguaggio poetico e congiuntivo la nostalgia di un’identità primordiale cancellata per sempre dal peccato originale della civiltà industriale. Ma formula anche un richiamo implicito alla ricerca di un nuovo equilibrio, semmai capace di ricomporre la frattura fra il genere umano e gli altri esseri viventi: piante, animali, rocce, polvere, luce, buio, acqua, vento. C’è di mezzo un abisso. Come quello del Bifurto sul Pollino. Poi c’è, ci sarebbe, la “calabresità vera”, appunto, che non c’è, che nessuno sa o può sapere davvero cosa sia veramente. E nel caso, francamente, ne facciamo pure volentieri a meno.

  • La Guarimba, al cinema con zio Rocco e l’elettricista

    La Guarimba, al cinema con zio Rocco e l’elettricista

    La Guarimba è anche il cinema di zio Rocco e Clemente l’elettricista. Il primo decide che quel tombino deve essere tappato e con un po’ di cemento risolve il problema. L’altro consente al grande proiettore di funzionare.
    La gente operosa fa rumore in un posto come Amantea, in provincia di Cosenza, dove spesso l’indifferenza si abbina al sorriso appuntito degli scoraggiatori seriali. Oggi, però, è il giorno della Guarimba, il festival internazionale del cortometraggio ideato da Giulio Vita e Sara Fratini.

    Il calendario della Guarimba

    Ieri era l’anteprima con i corti venezuelani e la presentazione di A Sud del Sud, il libro di Giuseppe Smorto, ex vicedirettore di Repubblica. Stasera parte il festival. Ultimo giorno il 12 agosto. Sono 172 le opere in concorso, 94 dirette da donne, provenienti da 56 paesi e da tutti i 5 continenti. Una settimana di cinema all’aperto. Unico corto calabrese in concorso è Accamora di Emanuela Muzzupappa.

    Una Guarimba contro la rassegnazione

    «A Sud, ad Amantea, il cinema diventa una questione civile, non solo un atto sociale. Ogni anno una nuova sfida da dover affrontare non senza fatica. Qui l’ordinario si trasforma in straordinario per la rassegnazione». Giulio Vita spiega così il contesto della cittadina tirrenica. Il Comune è stato sciolto per mafia dal 26 febbraio 2020 e i tentacoli dei clan sulla cosa pubblica sono stati portati alla luce da inchieste come Nepetia, condotte dalla Direzione distrettuale antimafia.

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    Giulio Vita, co-fondatore della Guarimba
    Il cinema al parcheggio

    Una frana non può fermare la Guarimba. È solo un arrivederci quello alla scenografia naturale del parco della grotta.
    Ecco pronto un altro posto dove masticare cinema. Il parcheggio vicino all’ex arena Sicoli era pieno di spine, rifiuti. Puzzava soprattutto di abbandono. Diventa la nuova location del festival. È un luogo dove la comunità partecipa alla costruzione di questa edizione. I Guarimberi hanno vinto una sfida difficile con la forza della normalità, mobilitando un esercito transgenerazionale in missione per conto della settima arte.

    Ti premia Mattarella ma Spirlì ti ignora

    Strano ma vero. Come nella rubrica della settimana enigmistica. Ambasciate, Parlamento Europeo e Consiglio dei ministri danno patrocini alla Guarimba. Eppure in questi due anni Spirlì, il presidente facente funzioni della Regione Calabria, «ha preferito dare molti soldi a pochi, dimenticando tutti gli eventi che attivano il settore turistico e socio-culturale del territorio come nessuno». Lo ha scritto Giulio Vita su Facebook qualche settimana fa. Da lì a poco la Guarimba avrebbe ricevuto la medaglia del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

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    Il parco della grotta ad Amantea, vecchia location della Guarimba
    Desiderio di normalità

    Giulio Vita è un italo-venezualano tornato ad Amantea, luogo di origine della sua famiglia. Ieri sera ha chiuso l’anteprima del festival annunciando un’edizione «sempre più punk». Disordine creativo di uno che pratica «chisciotterie» seguendo il cavaliere di Cervantes. Sulla difficoltà di fare cose buone in questo pezzo di Sud, dice: «Noi aspiriamo alla normalità, invece tutto ciò che c’è di bello in Calabria si trasforma in un atto di resistenza, ogni evento culturale è una piccola rivoluzione». È un po’ come correre o pisciare controvento. Ci si riesce, ma quanta fatica.

  • Teatro e cultura, l’Atene della Calabria non c’è più

    Teatro e cultura, l’Atene della Calabria non c’è più

    «Bambole, non c’è una lira», diceva – a conclusione di una vecchia trasmissione della Rai – l’impresario di avanspettacolo rivolgendosi agli attori della compagnia in teatro. In modo più sobrio e burocratico, la stessa cosa dice il Comune di Cosenza riferendosi alla cultura. Lo dice con pochissime righe, quasi nascoste tra le molte pagine della “Nota integrativa al bilancio di previsione stabilmente riequilibrato”, recitando testualmente che per quanto riguarda il Settore delle manifestazioni culturali, «I capitoli di bilancio, nonostante l’importanza che la spesa riveste in una Città capoluogo di provincia come Cosenza, sono stati di fatto azzerati». In realtà queste laconiche parole certificano una Caporetto della cultura cittadina che è sotto gli occhi di tutti da almeno un decennio. Esattamente dall’inizio dell’epopea dell’amministrazione Occhiuto.

    Il teatro ridotto a scatola vuota
    Saracinesche abbassate al Morelli: il Comune ha disdetto il contratto d agosto 2020 per risparmiare dopo la dichiarazione di dissesto

    Il declino delle manifestazioni culturali e specificatamente delle attività tetrali, ha sempre fatto i conti con un problema di risorse economiche, ma anche con la mancanza di una visione culturale. Perché – come spiega Ernesto Orrico, attore, autore e regista teatrale – «se i luoghi dove fare cultura ci sono, ma restano privi di senso, sono sole scatole vuote di cemento». E di «scatole di cemento», ce ne sono almeno tre in città. La prima è il Teatro Tieri (ex Cinema Italia), chiuso per inagibilità e diventato all’esterno luogo di rappresentazione della povertà, accogliendo sotto il portico alcuni clochard. Poi c’è il Teatro Morelli, per il quale il Comune ha rescisso il contratto di affitto. Infine, il più celebrato Rendano.

    Un simbolo sbiadito
    L’ingresso del teatro Rendano

    Il Rendano è stato da sempre un simbolo della città di Cosenza e della sua borghesia che voleva rappresentarsi colta, illuminata, progressista. Negli album privati delle famiglie importanti si potrebbero trovare certamente foto in bianco e nero di platee e palchi gremiti, di signore in lungo e uomini in rigoroso abito scuro, in occasione delle attese inaugurazioni delle stagioni liriche. Era salotto dove apparire, ma era anche testimonianza di presenza culturale.
    All’inizio del decennio manciniano il Rendano è ancora in restauro e Mancini imprime una accelerazioni dei lavori per poterlo riaprire prima possibile. Inizia così una lunga stagione di successi, sotto la guida di Maurizio Scaparro e poi di Italo Nunziata. Il Rendano conquista un posto di rilievo nel panorama nazionale e diventa punto di riferimento per gli appassionati assieme al San Carlo di Napoli. Sono anni intensi, di attività di pregio e di premi, con il record di abbonamenti.

    La crisi degli ultimi anni

    Segue il periodo sotto l’amministrazione di Salvatore Perugini, che affida il teatro ad Antonello Antonante. Sono anni di lavoro, anche se si cominciano a sentire il peso della difficoltà a reperire fondi. Poi giunge l’ultimo decennio, la guida viene affidata ad Albino Taggeo, ma non dura molto, sostituito poi da Isabel Russinova e successivamente dal musicista cosentino Lorenzo Parisi, che poi sarà nelle liste a sostegno della candidatura di Occhiuto. Il declino è precipitoso, le stagioni musicali non reggono il confronto col passato. Alla fine il Rendano viene anche affidato ai impresari privati, che portano spettacoli buoni per il botteghino, ma senza pretese culturali.

    Dalla Fondazione all’illuminazione

    Il resto è una storia di mera sopravvivenza, soffrendo la «mancanza di progettualità», come spiega ancora Ernesto Orrico. La lirica è scomparsa, malgrado il passato prestigioso, perché il teatro non ha potuto partecipare ai bandi e dunque non ha attinto alle risorse. La ragione, secondo Orrico, è da cercarsi nell’inadeguatezza del Comune, l’ente che governa il Rendano senza visione e capacità organizzativa. «Servirebbe una Fondazione, agile, competente, con un progetto vivace», prosegue Orrico. La reputava necessaria anche Giampaolo Calabrese, all’epoca dirigente del settore Cultura a Palazzo dei Bruzi. E ne annunciò pure la nascita, cosa alla fine mai avvenuta come per la Biblioteca Civica.

    Luminarie natalizie a Palazzo dei Bruzi

    «Quel luogo non è mai stato una priorità», dice sconsolato il regista cosentino, lamentando l’assenza di attenzioni e interessi in grado di catalizzare fondi e risorse necessarie.
    Eppure in questo decennio di denaro ne è stato speso moltissimo, per esempio in luminarie. Segno di cosa questa amministrazione intenda per priorità culturali.

    L’ultimo valzer

    Intanto i nodi della congiuntura e della distrazione della politica che dovrebbe accudire la cultura, stringono inesorabilmente la gola dello storico Teatro dell’Acquario. A dispetto della tenacia e della volontà di esistere, l’Acquario sembra ad un passo dalla chiusura, dovendo fare i conti con debiti e una procedura di sfratto. «Avevamo già programmato la stagione di Teatro per ragazzi, l’anno accademico 21/22 e la produzione di nuovi spettacoli. L’Acquario, finché sarà possibile, svolgerà la sua funzione in quest’ultimo giro di valzer». Queste le parole dei protagonisti di quello spazio teatrale nato dalle ceneri dell’indimenticato tendone del Teatro di Giangurgolo, che si trovava molti anni fa nello spazio ora occupato dall’edificio dell’Ubi Banca.

    Non restano intentate le ultime strade da percorrere, con interlocuzioni richieste presso chi al Comune si occupa di cultura, ma anche cercando di coinvolgere privati, ma la minaccia che un notevole patrimonio cittadino vada perduto è più che concreta, aumentando l’impoverimento di una comunità intera.

     

     

     

     

     

  • Civica, 10 milioni per salvare il tesoro di Cosenza dall’oblio

    Civica, 10 milioni per salvare il tesoro di Cosenza dall’oblio

    La Biblioteca Civica è uno scrigno prezioso che custodisce al suo interno un patrimonio librario a stampa e manoscritto di oltre 250mila testi. Difficilissimo riuscire ad avere un catalogo aggiornato. Perché? Non esiste, mai fatto per mancanza di personale specializzato. Un grande limite, che nel corso degli anni ha consentito la sottrazione di diversi testi senza che la direzione della Civica avesse piena contezza del maltolto. Un elenco in questi anni ha provato a stilarlo la giornalista cosentina Francesca Canino. Tra i titoli rubati figurano:

    • Telesio B., La Philosophia, Napoli, 1589;
    • Manilius M., Poetae clariss. Astronomicon ad Caesarem Augustum, Lugduni, 1566;
    • Tasso T., Le sette giornate del mondo creato, Venezia, 1608;
    • Tasso T., Il Rinaldo, Milano, 1618;
    • Galenus C., Ars medicinalis. Nicolao Leonicino interprete, Venezia, 1538;
    • Hippocrates, Aphorismi, cum Galeni. Commentariis Nicolao Leoniceno…, Venezia, 1538;
    • Galilei G., Dialoghi, Firenze, 1632;
    • Galenus C., De usu partium…, Lugduni, 1550;
    • Sallustio con altre belle cose. Volgarizzate per Agostino Ortica della Porta, Venezia, 1531;
    • Privilegi et capitoli della città di Cosenza, Napoli, 1571;
    La Civica custodisce secoli di cultura
    Alcuni corali di proprietà della Civica, restaurati di recente dal Mibact

    Fanno ancora parte del tesoro della Civica corali miniati del XVI-XVII secolo; testi manoscritti filosofici autografi del 1500, 1600 e 1700; carteggi privati; pergamene di epoche dal Rinascimento all’Illuminismo; incunaboli (tra cui un San Tommaso); una raccolta imponente della produzione tipografica italiana e straniera del Seicento.
    Al suo interno si trovano fondi monastici, opere antiche e rare a stampa di diversi ordini religiosi, sia cittadini che dei dintorni, oggi ormai soppressi.

    Tra i fondi religiosi anche uno liturgico, costituito da trenta codici musicali membranacei del ‘500 arricchiti da artistiche miniature fatte a mano.
    Presente anche un fondo diplomatico costituito da 54 pergamene, un insieme di bolle, atti privati, testamenti, costituzioni di date e censi, tutti di epoche comprese tra la fine del ‘200 e la metà del ‘700. Costituiscono per lo studioso un unicum nel loro genere.

    Le donazioni dei privati alla Civica

    Diversi i fondi privati, tra i più importanti quelli Salfi, Muzzillo, Conflenti e De Chiara. Il primo comprende circa 12.000 pezzi fra volumi anche di edizioni del ‘500 e del ‘600, opuscoli, riviste e giornali. Riguardano prevalentemente letteratura, storia, arti, viaggi, teatro. E contengono collezioni di classici antichi e moderni, grandi enciclopedie e trattati generali. Il fondo Muzzillo comprende oltre 5.000 volumi di letteratura, archeologia e storia dell’arte. Al suo interno, diverse edizioni di classici antichi e moderni, più numerose pubblicazioni periodiche e una ricca dotazione di opuscoli, in gran parte sulla Calabria.

    Il fondo De Chiara, ereditato sin dal 1929, consta all’incirca di 2.500 esemplari. Tra di essi, testi di letteratura italiana, di storia, di arte e di critica letteraria. Di grande rilevanza è anche una raccolta di opuscoli della critica dantesca.
 Si aggiungono le dotazioni dei fondi Guarasci e Muti e di quelli, più recenti, Rendano e Campagna, con molti libri e lettere autografe di pregio. È andato distrutto invece, durante la seconda guerra mondiale, il fondo Zumbini di circa tremila testi tra volumi e opuscoli. Tra i fondi speciali detenuti dalla Civica di fondamentale importanza è la sezione dedicata alla Calabria, ricca di libri, giornali e altri materiali riguardanti la storia, la cultura e la civiltà calabrese nelle sue diverse sfaccettature.

    Non ci sono solo opere antiche, però. Ai fondi di ricerca e conservazione si affianca infatti anche una dotazione libraria moderna di cultura generale di grande spessore bibliografico costantemente aggiornata, con una larga presenza di libri sulle scienze umane e sociali. La Biblioteca Civica dispone di una vasta emeroteca. Comprende oltre 2000 testate fra riviste e giornali, che spaziano tra storia, letteratura, filosofia, arte, scienze dell’educazione, teatro, cinema, diritto, economia, informazione.

    I cinque milioni per il Comune
    Alcuni dettagli del progetto per la Civica presentato al Governo da Palazzo dei Bruzi

    Le porte della Civica sono chiuse però da oltre un anno e mezzo, prima per la pandemia e ora per evidenti deficit strutturali. Per salvare quel che ne resta e renderlo finalmente fruibile si attendono i 10 milioni del CIS (Contratto Istituzionale di Sviluppo), parte dei 90 destinati al centro storico. Si prevedono due progetti di recupero e valorizzazione della biblioteca. Il primo, in capo al Comune di Cosenza, promette adeguamento sismico, efficientamento energetico e rifunzionalizzazione della Civica. Prospetta la riorganizzazione e il rinnovamento dell’intero sistema bibliotecario attraverso l’uso di tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC). Il progetto contempla inoltre la realizzazione di spazi di allestimento espositivi e di percorsi di visita accessibili a tutti. Parla di modalità innovative di fruizione e di realizzazione dei servizi per la gestione e cura del bene, integrati da un opificio di digitalizzazione, restauro e conservazione del libro e della pergamena. Il finanziamento complessivo ammonta a quasi 5,1 milioni di euro.

    Il polo pensato dal Mic

    Il secondo progetto, proposto dal Mic, implica restauro, conservazione e rifunzionalizzazione del complesso di Santa Chiara. Al suo interno si pensa di creare un polo orientato alla promozione della lettura e alla comunicazione culturale mediante la conservazione e valorizzazione del patrimonio cartaceo della Civica. Il polo in questione sarebbe destinato a interfacciarsi con quelli delle altre città beneficiarie di un Cis: Napoli, Taranto e Palermo. Il finanziamento, anche in questo caso, è di circa 5 milioni.

    Anna Laura Orrico, all’epoca sottosegretario ai Beni culturali, sigla il Cis a settembre del 2020
    La politica litiga

    Al ministero sono pronti a nominare il Ruc, responsabile unico del contratto istituzionale di sviluppo. Manca solo il via libera da Invitalia, che però per procedere attende parte della documentazione da Comune, Provincia e Segretariato regionale del Mic. Il più in ritardo pare essere Palazzo dei Bruzi, che non ha brillato per celerità nemmeno nella fase propedeutica alla firma del Cis. Un film già visto, dunque, col consueto corredo di polemiche politiche a riguardo. Le vecchie diatribe sui soldi in arrivo per il centro storico tra Morra e Occhiuto hanno lasciato il posto a quelle sull’iter burocratico tra Anna Laura Orrico e il vice sindaco Francesco Caruso. Quest’ultimo già l’anno scorso si era scontrato a lungo sui presunti ritardi del Comune con il democrat Carlo Guccione. Cambiano i nomi, non la sostanza. E mentre i partiti litigano, i dubbi sull’arrivo dei dieci milioni aumentano.

     

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