La piccola storia vibonese che passa velocemente per le cronache locali è piena di episodi su tombaroli che, nascosti di giorno nei garage o nottetempo in qualche giardino, scavano buche e cunicoli in cerca di reperti archeologici da trafugare. Stavolta i resoconti di giudiziaria restituiscono invece una vicenda all’incontrario: un presunto factotum di potenti boss che nasconde, sotto una colata di cemento e collusioni, dei resti di epoca romana di grande valore storico. Per costruire in pieno centro a Vibo, in area vincolata, un palazzone in stile moderno con appartamenti e spaziosi magazzini da piazzare sul mercato.
Il palazzo costruito sui resti di una villa romana
Il cemento tra le pieghe di Rinascita Scott
L’episodio era quasi passato inosservato a dicembre del 2019 tra le pieghe dell’imponente mole di documenti dell’inchiesta “Rinascita-Scott” ma, di recente, l’ha riportato alla luce un investigatore dei carabinieri già in servizio al Ros di Catanzaro. Deponendo in aula bunker durante il maxiprocesso istruito dal pool di Nicola Gratteri, il maggiore Francesco Manzone – scrive il giornalista Pietro Comito su LaC raccontando l’udienza – dice che il suo reparto aveva allestito «un vero e proprio Grande fratello» attorno agli uomini di fiducia del superboss Luigi Mancuso. Uno di questi è il presunto faccendiere al centro della vicenda: Giovanni Giamborino, considerato uno ‘ndranghetista battezzato nella frazione Piscopio e cugino dell’ex consigliere regionale Pietro. Per la Dda è un elemento chiave dell’intera inchiesta: avrebbe un ruolo di primo piano negli affari e nelle strategie della cosca che da Limbadi domina il Vibonese e non solo.
La storia sotto quel cemento
Una parte dello stabile in costruzione sui resti di epoca romana
Il palazzone moderno è suo: ne avrebbe messo insieme la proprietà unendo più particelle, fin dagli anni ‘80, grazie ai soldi di tre fratelli ai vertici della famiglia Mancuso (Antonio, il defunto Pantaleone «Vetrinetta» e, appunto, Luigi, il «supremo»). Sotto quel cemento ci sono i resti di una strada e di una villa romana che Giamborino ha ricoperto, pur essendo un luogo sottoposto a vincolo archeologico, grazie ad una successione impressionante di presunte connivenze che passa per la Soprintendenza, coinvolge massoni di alto rango e, dal Comune di Vibo, arriva fino ai palazzi ministeriali. A raccontarlo, stavolta, non sono i pentiti, ma lo stesso factotum che, pur essendo un semplice impiegato comunale, dimostra di avere conoscenze ben addentrate nel mondo dei colletti bianchi. E non sapendo di essere intercettato, ne parla moltissimo.
L’incontro con il soprintendente
A partire da gennaio 2016 Giamborino si muove per ottenere dalla Soprintendenza archeologica l’approvazione di una variante «necessaria» per completare i lavori e poter vendere almeno parte del fabbricato. Il Ros monitora tanti contatti tra Giamborino e Mariangela Preta, archeologa «di fiducia dell’impresa» che effettua i lavori, e con un funzionario all’epoca in servizio alla Soprintendenza di Reggio, Fabrizio Sudano. Sia Preta che Sudano non sono indagati. La prima oggi dirige il Polo museale di Soriano e spesso ha collaborato da esterna con la Soprintendenza, il secondo dal 15 novembre scorso è il nuovo soprintendente per la città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia, mentre nei mesi precedenti era stato alla guida di quella di Cosenza e, ad interim, anche di quella di Catanzaro e Crotone.
Il rapporto tra Giamborino e Sudano
Dai brogliacci dell’inchiesta depositati agli atti del processo emerge quello che per gli inquirenti è un «rapporto di confidenza» tra Giamborino e Sudano, in una triangolazione di contatti che coinvolge quasi sempre anche Preta. A un certo punto serve una firma da parte di un alto burocrate del Ministero dei beni culturali che, in quel momento, ricopre anche l’incarico di soprintendente della Calabria. Si tratta di Gino Famiglietti. È Preta a spiegare a Giamborino che ruolo abbia, suggerendogli anche di chiamare Simonetta Bonomi – oggi soprintendente del Friuli Venezia Giulia – che «lo conosce».
I resti di epoca romana catalogati
«Vado e trovo Franceschini, il ministro proprio»
Il passaggio che va fatto con Famiglietti rischia però di comportare un’ulteriore perdita di tempo, allora Giamborino dice alla stessa Preta che «se ci sono problemi vado e chiama a Franceschini…vado e trovo Franceschini». Il presunto fedelissimo di Luigi Mancuso, quindi, non nasconde l’intenzione di rivolgersi «ad amicizie» non meglio specificate «in modo – annotano gli inquirenti – da poter raggiungere gli uffici ministeriali». Lo ribadisce parlando con il titolare dell’impresa di costruzioni: «Io faccio salti mortali, io se questo qua non me la firma giovedì, io in settimana salgo a Roma…ah ah io vado e trovo a Franceschini, il ministro proprio…non è che mi mancano le cose, o mi mancano le amicizie».
Serve un’autorizzazione per quel cemento
A un certo punto nei colloqui con Sudano spunta addirittura una relazione redatta da Giamborino, o da chi per lui, che il funzionario, garantisce, avrebbe fatto propria. «Allora ti mando quella carta – dice Giamborino – finta che l’hai fatta tu la relazione». Il funzionario risponde: «Questa mandamela che mi serve…». Aggiungendo: «Quella la faccio mia, che io faccio l’istruttoria come se ho notato la differenza del progetto e le cose positive sono queste…io più di quello…». In seguito Sudano ribadisce: «La relazione che ha fatto, che hai fatto tu, che ha fatto non lo so l’ingegnere, sulle cose positive rispetto al progetto vecchio, l’ho fatta già mia, che gliela spiego io, molte cose non gliele spiegherò neanche, comunque non ti preoccupare che faccio in modo da farti avere un ok».
Il FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano) ha eletto la linea Cuneo-Ventimiglia-Nizza “Luogo del cuore” per il 2021. Ovunque cresce l’interesse, anche turistico, per le ferrovie storiche. Nessuno in Calabria ha finora pensato che valesse la pena di fare sul serio qualcosa per salvare e ridare valore a quel che resta del tracciato dismesso dell’epica tratta Paola-Cosenza. Eppure ha una storia che richiama fatti, personaggi e circostanze che sono patrimonio comune e meritano di ritornare a fare memoria, per tutti.
La vecchia cremagliera
La Paola-Cosenza fu una straordinaria realizzazione dell’ingegneria ferroviaria dei primi del ‘900. Ai suoi tempi sfidò i limiti fisici e i vincoli geografici della vecchia Calabria preunitaria per creare finalmente il primo collegamento moderno tra la costa e l’interno. Rompeva così, col suo tracciato ripido e pericoloso, vinto con la potenza delle grandi macchine a vapore, una separatezza plurisecolare. Cosenza poteva vedere il mare che non aveva mai visto. La vecchia linea ferrata fu dismessa dalle Ferrovie dello Stato nel 1987. Cessò la sua vita a favore della nuova tratta veloce in galleria, la Santomarco, che buca ben 25 chilometri di Appennino calabro e unisce Paola e il resto d’Italia a Cosenza in meno di 25 minuti.
Passeggeri in attesa della littorina a Paola
La prima vaporiera
“Il treno speciale” cominciò solo il 2 agosto del 1915 a risalire la china tortuosa verso la costiera con tre carrozze e un bagagliaio. Il convoglio partito dal capoluogo era «folto di sindaci, deputati e autorità prefettizie, e reso più gentile dalla partecipazione di alcune distintissime signore del pubblico». Quel giorno «fu accolto in trionfo alla stazione di Paola, alle 18 e mezza, dopo appena due ore e mezza di comodo viaggio».
Prima dei treni si percorrevano i 40 chilometri tra Paola e Cosenza in non meno di 14 ore. Era un viaggio incerto e fortunoso su una scomoda vettura postale a cavalli, o un tragitto solitario a dorso di mulo o a cavallo. Chi non aveva fretta e denaro sufficiente per pagarsi la diligenza o non disponeva di un mezzo proprio (ed erano i più) non di rado si recava al capoluogo a piedi per sentieri di montagna. Non solo per il disbrigo di affari. Anche ogni giorno, a piedi, per frequentare le scuole d’avviamento o il liceo Telesio, come ricorda nelle sue memorie il medico paolano Francesco Ferrari.
Dai soldati agli emigrati
A Paola la stazione della tratta Battipaglia-Reggio Calabria, prima tra le “Grandi Opere” costruita dallo Stato unitario per il Sud, inaugurata nel 1895 dopo 20 anni di lavori, collegava già la costa al resto del paese. Scarsi i passeggeri, rarissime le merci movimentate. Questa prima grande strada ferrata per il Sud servirà per decenni, sin dalla guerra di Libia (1912) e poi oltre il primo conflitto mondiale, quasi esclusivamente, come le grandi strade dell’antichità romana, al trasporto di truppe nelle interminabili tradotte ferroviarie. Poi al deflusso umano di quell’altro immenso esercito in esodo che partirà dal Sud verso le due Americhe. E, dagli anni del boom in poi, per alimentare l’ininterrotta emorragia dell’emigrazione interna ed europea.
La morte corre sui binari
Questi binari ricordano anche l’orgoglio del lavoro dei ferrovieri, custodi delle ansimanti locomotive a vapore, e poi delle automotrici. Le eleganti littorine si arrampicavano un dente dopo l’altro su un percorso temerario e pendenze massime, solo grazie a tre tratte armate con “cremagliere speciali di tipo Strub”, dipanate per 23 chilometri sempre in salita tra boschi e burroni. Il convoglio solitario attraversava alti viadotti ad archi e gallerie buie e lunghe prima di aprirsi all’orizzonte chiaro e libero del Tirreno e alla vista liberatrice dell’agave.
In “Aurora”, un vecchissimo film di Murnau, c’era un treno a vapore che attraversava una di queste foreste minacciose come se avesse appunto fretta di uscirne. Su una cartolina inviata da Cosenza negli anni ‘20 la mano anonima di un viaggiatore di passaggio aveva aggiunto a penna, accanto alla legenda stampigliata sull’immagine della “Stazione ferroviaria di Cosenza”, la parola “liberatrice”. Da quei primi tempi per anni sulle carrozze di terza classe della Paola-Cosenza è sfilata un’anonima moltitudine umana. Di questi eventi minuti rimasti senza memoria le cronache restituiscono come sempre soltanto le tracce più spesse e rumorose. Come gli incidenti mortali, i viaggi fatali di cui purtroppo la vicenda della Paola-Cosenza non è mai stata avara. Sin da principio.
La vecchia stazione di San Lucido
Era la primavera del 1916 quando «una tradotta militare, percorrendo la tratta da San Lucido a Falconara Albanese, subì uno svio all’imbocco di uno dei ponti provvisori in legno gettati sul vallone di San Giovanni. Lo svio, dovuto al cedimento della sponda su cui poggiava il ponte, causò il ribaltamento di un paio di carrozze della tradotta affollata di militari e conseguentemente il precipitarsi delle stesse verso il fondo del vallone». Alla fine fra le lamiere sul fondo del burrone «si contarono 5 militari morti e il ferimento di numerosi altri». La tragedia si ripeté nel 1942, l’incidente fece allora 17 morti e 41 feriti.
Testimoni di un’altra epoca
La storia di questa ferrovia è anche storia della fatica degli uomini che giorno e notte, in condizioni spesso difficili e pericolose, vi hanno lavorato insieme lungo 72 anni. «Negli ultimi anni di servizio della tratta – mi raccontava un vecchio macchinista della Paola-Cosenza, Salvatore Manes (1923-2019) – il convoglio, stracarico di gente, per l’usura dei mezzi qualche volta scivolava sulle livellette. Oppure bisognava ripartire dopo una sosta urgente per riparazioni, sempre frequenti, che eseguivamo lungo la linea. Nel dopoguerra era ancora fresco il ricordo del disastro del ‘42 con tutti quei morti, e anche dei crolli sul vallone di San Giovanni, sempre lesionato e rabberciato alla meglio. Attraversarlo era un problema per tutti, per i viaggiatori e per noi ferrovieri. Ogni volta tiravamo un sospiro di sollievo. Mi è capitato di farlo finanche con le macchine a bassa velocità per le prove di carico, partendo dopo qualche scossa di terremoto. C’era sempre una nuova lesione. Ma quel ponte ancora sta lì».
Il lungo addio
Poi ci sono i ricordi «di quegli anni Cinquanta così poveri, o degli anni Sessanta. Gli anni dell’emigrazione: ricordo le automotrici ogni giorno stracariche di gente, gli emigranti con le facce scure, le valige logore arrangiate alla meglio. Partivano tutti a cercare lavoro: Milano, Torino, la Germania, la Svizzera, la Francia, il Belgio, il Brasile, l’Australia. Ricordo quegli addii alla stazione fra pianti, baci e lacrime. La gente li salutava e li piangeva come morti quelli che partivano. In quegli anni noi ci sentivamo traghettatori di poveri e di dannati, non ferrovieri! Gente che portavamo via a migliaia dalle case di campagna, dai comuni del Vallo cosentino soprattutto, e della Presila. Li sbarcavamo a Paola sui lunghi marciapiedi della stazione da dove, i treni del sole si chiamavano, i direttissimi a lungo percorso, 12-15 carrozze e più, li avrebbero avviati come deportati, assieme ad altri calabresi, siciliani e lucani, nelle città del Nord o fuori dall’Italia».
Emigranti in attesa a Milano Centrale
Sulle littorine fino al 1981 il vecchio macchinista ha trasportato ogni giorno da Paola a Cosenza anche tanti giovani. Sul vagone che partiva ogni mattina per Castiglione Cosentino e l’Unical, nei primi anni ’80 c’ero anch’io, studente di Filosofia. Figlio di ferroviere. Anche dopo l’apertura della superstrada 107, con l’autoservizio sostitutivo delle FF.SS, i treni della cremagliera Paola-Cosenza non si fermarono. Spesso le vecchie e fedeli littorine restavano l’unico mezzo di trasporto utile a tutti, studenti, lavoratori, pendolari, per raggiungere Cosenza e l’Università.
Il treno per Ferramonti
Col fascismo e la guerra, alla Calabria più povera sulle carrozze di terza classe della Paola-Cosenza si mischiarono i deportati a Ferramonti di Tarsia. Accanto ai contadini di Falconara, ai braccianti poveri di S. Fili e del Vallo di Crati, agli studenti di Paola sedettero, sorvegliati e in catene, ebrei italiani, polacchi, greci, austriaci, ungheresi e tedeschi. Con i suoi 4000 internati Ferramonti divenne il più grande campo di concentramento per ebrei costruito in Italia. Poco lontano dai reticolati del campo, correva la diramazione del tronco ferroviario. Numerosi fra gli ex internati a Ferramonti hanno conservato un ricordo vivido di quei viaggi carichi di angoscia e poi schiusi alla speranza.
L’ingegnere cecoslovacco Erik Novak con altri 300 ebrei stranieri, dopo tre settimane nel carcere di Poggioreale, era stato condotto verso la fine del settembre 1940 alla stazione di Napoli e da lì avviato con un treno sorvegliato verso una destinazione ignota: «Il treno viaggiò molto a lungo costeggiando il mare finché non si fermò alla stazione di Paola». Giunti a Paola, gli internati furono fatti salire a gruppi sui convogli a vapore diretti a Cosenza. «Lì a Paola – prosegue Novak – ci fecero trasbordare su un altro treno che in mezzo alle rotaie aveva una cremagliera. A me pareva di andare su una funivia, come quella del parco Petrìn, di Praga. Salimmo col treno molto in su, verso le montagne, attraverso bellissimi castagneti».
Internati a Ferramonti
A Cosenza gli internati cambiavano nuovamente per andare ancora più a nord, verso quel «un campo che sembrava costruito da poco». Molti ebrei in fuga da Ferramonti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 ricordano ancora il trenino come un’immagine liberatrice: «Dalla collina dove presto ci trovammo si vedeva la ferrovia per Paola e si sentiva il treno che passava sotto il tunnel». Il 6 settembre 1945, «ultimo giorno di vita del campo», un convoglio partito dai binari di Mongrassano avrebbe riportato i profughi rimasti fino a Paola e da qui verso la libertà.
L’ultima cremagliera della notte
Anche nella letteratura il fato ha inciso indelebilmente la storia della cremagliera da Paola a Cosenza nell’ansiosa geografia dei viaggi dei fuggiaschi. Un giorno d’estate del 1938 il destino si compie per Nora Almagià tra le pagine de La Storia di Elsa Morante. La scrittrice narra nelle prime pagine del suo romanzo sul destino dei vinti la triste vicenda di questa donna ebrea che per paura delle persecuzioni perde il lume della ragione.
La scrittrice Elsa Morante
Da Cosenza, dove abita insieme al marito, il maestro elementare anarchico Giuseppe Ramundo, fugge via con «l’ultima cremagliera della notte». Va a togliersi la vita lasciandosi annegare nel mare di Paola. «Qualcuno ricorda vagamente di averla vista, nel suo vestituccio estivo di seta artificiale nera a disegni cilestrini, sull’ultima cremagliera serale diretta al lido di Paola. E difatti è là in quei dintorni che è stata ritrovata. Lungo quel tratto della costiera, di là dalla ferrovia, si stendono dei campi collinosi di granturco, che ai suoi occhi vaneggianti nel buio con la loro distesa ondulante potevano dare l’effetto d’un’altra apertura marina. Era una bellissima notte illune, quieta e stellata».
Della vecchia tratta Paola-Cosenza, della piccola stazione di fronte al mare, c’è ricordo anche in un’altra pagina del romanzo. Giuseppe sale ogni dì sul trenino e si reca a Falconara: «Qualcuno, in passato, m’accennava – scrive la Morante – che per arrivarci bisognava prendere una tranvia suburbana, se non forse proprio la cremagliera che sale da Paola su per il fianco della montagna. E io mi sono sempre immaginata che nel suo interno scuro e fresco all’odore del vino nuovo si mescolasse quello campestre dei bergamotti e del legname, e forse anche l’odore del mare, di là dalla catena costiera».
I binari a Falconara Albanese
Il progresso divenuto rudere
Un miracolo d’ingegneria, uno scrigno di storie e paesaggi mozzafiato che, come il trenino di Harry Potter, potrebbe richiamare ancora oggi turisti e appassionati di ferrovie storiche da tutto il mondo. Invece ruggine, macerie, depositi dismessi, stazioni disabilitate lungo la linea sono tutto quel che resta del pathos di quella ingenua illusione di progresso. Oggi quei treni non ci sono più. Materiale da fonderia. Le vecchie stazioni sono ruderi scorticati, ricettacoli sfondati di rifiuti e rottami arrugginiti. Tracce di ricordi seppelliti nella fretta del presente.
Scavalcata l’ultima cresta verde della costiera, quelli che una volta erano i chilometri finali percorsi in piano dai binari adesso svaniscono arruffati sotto il sole senza scampo di una periferia urbana. Auto incolonnate e traffico intenso a tutte le ore. Centri commerciali esagerati, capannoni di concessionarie di lusso e palazzoni pretenziosi dove una volta erano distese di olivi, campi verdeggianti di fichi, gelsi, tabacco e granturco che ombreggiavano accanto allo sbuffo delle locomotive. Accanto si alzano gli enormi cubi dell’Università disegnata dall’archistar Vittorio Gregotti.
Un treno nella vecchia stazione di Cosenza
Siamo alle porte di Rende. Poi i binari soffocati dall’asfalto diventano viale Parco, fin dentro Cosenza, al capolinea della vecchia stazione cancellata, accanto al municipio. Tutt’intorno la conurbazione ingigantita dagli steroidi dall’edilizia intensiva dei quartieri nuovi e dalla crescita aggressiva della speculazione più distruttiva d’Italia. Al posto della ferrovia, sul lato dove più fiorisce il cemento, adesso scorre un filare quasi ininterrotto di costruzioni ecletticamente assiepate sul bordo della 107. La strada trafficatissima per il mare, che dal caos della Statale 18 risale da Paola fino alla Sila. Una vetrina ininterrotta di crescenti orrori urbanistici e di misero sfarzo provinciale. La Calabria di adesso.
Smascherare chi ha devastato la sanità pubblica in Calabria, garantire a tutte e tutti il diritto alla salute. Era una delle ultime volontà di Gino Strada, medico senza confini e fondatore di Emergency. E vuole farlo anche C’era una volta (la sanità pubblica) in Italia. Il lungometraggio propone, tra le tante, anche le voci del regista britannico Ken Loach e del cofondatore dei Pink Floyd, Roger Waters, che incorniciano gli abissi della sanità calabrese in una tragedia dalle dimensioni globali. La negazione delle più elementari prestazioni sanitarie nella nostra periferica terra è inserita nel più vasto fenomeno della privatizzazione predatoria, imposta dal neoliberismo in tutto il pianeta.
Dopo il successo del film PIIGS, che nel 2017 ha ricostruito le nefaste conseguenze delle politiche economiche di austerità europea, a suo tempo realizzato insieme a Mirko Melchiorre e Adriano Cutraro con la voce narrante di Claudio Santamaria, il regista crotonese Federico Greco torna nella propria terra per evidenziare una delle sue piaghe peggiori. A I Calabresi, lui e Melchiorre narrano in anteprima contenuti e retroscena della loro inchiesta sullo sfacelo sanitario. Al centro del film, la vicenda emblematica dell’ospedale di Cariati, chiuso per effetto del commissariamento della sanità in Calabria. Da più di un anno è occupato dagli attivisti dell’associazione Le Lampare e da migliaia di altri cariatesi in segno di protesta.
Striscioni di protesta davanti all’ospedale di Cariati (foto Alfonso Bombini) – I Calabresi
Raccontare il mondo partendo dalla Calabria
«Tutto nasce nel novembre dell’anno scorso – spiegano Greco e Melchiorre -, quando Gino Strada fu chiamato in Calabria per l’emergenza Covid. Abbiamo lavorato con lui un paio d’anni fa. Quello era solo l’inizio di un progetto più ambizioso: raccontare la devastazione della sanità pubblica in Italia e nel mondo, a partire dalla Calabria. Ottenuto l’OK da parte di Gino, Simonetta Gola e tutta Emergency ci hanno anche sostenuto finanziariamente, oltre a starci molto vicini. Dopo aver seguito Gino a Crotone, abbiamo proceduto con un approfondimento. Un giorno, tornando a Roma, ci siamo fermati a Cariati per conoscere gli occupanti dell’ospedale. All’inizio pensavano che noi fossimo della Digos ed erano molto straniti. Non gli piacevamo. Poi hanno capito che eravamo persone sincere e volevamo davvero fare ciò che dicevamo. La loro storia ci è piaciuta tantissimo. Siamo stati insieme in quest’ultimo anno almeno una volta al mese per tre o quattro giorni, quindi abbiamo seguito tutto l’arco narrativo».
Come PIIGS, anche questo documentario si basa su due binari paralleli. Uno è la microstoria de Le Lampare, l’altro focalizza il macrolivello, cioè l’analisi di quel che succede nel mondo nella privatizzazione della sanità. Intervengono nomi autorevoli, come l’epidemiologo inglese Michael Marmot (OMS) e il sociologo svizzero Jean Ziegler (ONU). «Abbiamo l’aspettativa di portare il lavoro nei festival internazionali nella prossima primavera. Poi – proseguono gli autori – sarà nei cinema, in Tv e sulle piattaforme. Dobbiamo fare i conti con la chiusura delle sale cinematografiche a causa della pandemia. Quest’anno abbiamo un calo del 45 % degli spettatori nelle sale. Un’ecatombe! Se continua così, nel 2022 non riaprirà il 30 % dei cinema».
Epoche a confronto
Il titolo C’era una volta (la sanità pubblica) in Italia propone un sottotitolo: Giakarta sta arrivando. Mirko Melchiorre e Federico Greco spiegano che «questa frase minacciosa apparve nel 1970 in Cile sui muri di Santiago e in alcune lettere recapitate ai militanti del Partito comunista cileno dopo l’elezione di Salvador Allende. Si riferiva al massacro di circa tre milioni di comunisti, avvenuto a Giakarta, in Indonesia, nel 1965. In precedenza, il presidente indonesiano Sukarno aveva espresso la volontà di proteggere il suo Paese dalla predazione delle multinazionali statunitensi e londinesi. Ma nel ’66 ci fu il golpe militare di Suharto, durante il quale furono uccise da 500mila a tre milioni di persone con modalità atroci. Quindi, quando fu eletto Allende, la CIA avvertì che in Cile sarebbe accaduto quanto era già avvenuto in Indonesia.
La scritta apparsa sui muri di Santiago del Cile – I Calabresi
Noi riteniamo che Giakarta metaforicamente stia arrivando in Italia,e in Europa grazie alla globalizzazione. L’operazione ha avuto un momento di svolta nel 2011, con l’avvento del governo di Mario Monti; oggi grazie a chi all’epoca a Monti conferì pieni poteri. È ovvio che non parliamo di golpe militare in Italia. Gli obiettivi però sono gli stessi: la predazione dei servizi e degli asset pubblici, la privatizzazione non solo della sanità, ma anche dell’acqua pubblica e di tanti altri settori nevralgici della nostra società».
Dall’Inghilterra di Ken Loach alla Lombardia
Nel documentario è Ken Loach a ricostruire l’analoga storia del sistema sanitario pubblico inglese, nato nel ’48 già con il verme delle privatizzazioni. «Successe la stessa cosa negli anni Ottanta in Italia – proseguono i due film maker -. Nel ’78 il primo ministro della sanità fu Renato Altissimo, un liberale, appartenente a uno dei partiti che il sistema sanitario pubblico non lo avrebbe voluto. Oggi, prendiamo per esempio la Lombardia: la narrazione dominante sostiene che questa regione sarebbe sempre stata un’eccellenza, ma noi abbiamo intervistato Maria Elisa Sartor, docente universitaria a Milano e autrice di un libro di 800 pagine, che racconta la privatizzazione della sanità lombarda. Guarda caso, la pandemia ha provocato più danni nella regione in cui il sistema pubblico non esisteva, perché quasi tutto in precedenza è stato privatizzato.
Ken Loach chatta con gli autori durante la lavorazione del film – I Calabresi
È una regione che ospita un sesto della popolazione italiana, ma ha fatto registrare un quinto dei contagiati e un quarto dei morti per Covid. Questo è dovuto al fatto che il sistema sanitario, dopo essere stato privatizzato dai Formigoni e dai Maroni, è indecente. I proprietari dei grandi gruppi che investono sull’oro delle Residenze Sanitarie Assistenziali, focolai del contagio, hanno comprato testate giornalistiche in perdita. Per esempio, De Benedetti, tessera “onoraria” numero 1 del PD, con la KOS Spa è un grandissimo proprietario di strutture sanitarie private. Viene spontaneo chiedersi a cosa gli siano serviti giornali in perdita come la Repubblica. E non solo a lui.
Tanti sono gli editori di giornali che da anni producono articoli di aspra critica del sistema sanitario pubblico, a favore di quello privato. Ciò accade in Calabria, ma ovunque. Negli anni Ottanta in Italia avevamo più di 500mila posti letto, oggi meno di 200mila. L’emergenza pandemica non sarebbe stata così devastante se avessimo avuto il numero dei posti letto tagliati dalle riforme del ’92, dalla cosiddetta sinistra: prima Monti, poi Renzi. La responsabilità ricade soprattutto sulle scelte del PD negli ultimi 20 anni».
Davide contro Golia
Nelle loro inchieste, i due registi cercano di andare sempre alle origini dei problemi: la globalizzazione, il Washington consensus, il filantrocapitalismo. «Tocca lottare – concludono Mirko Melchiorre e Federico Greco – contro un mostro che è ciclopico, sta ad altezze siderali e non sappiamo nemmeno di preciso chi sia. Eppure, come dice Ken Loach, a volte colui che sembra Davide, può divenire più potente di Golia. Il vero gigante, se riesce a estendere le lotte e intrecciarle, è Le Lampare di Cariati, la sua occupazione dell’ospedale. Con Gino Strada realizzammo due interviste, una a Crotone e l’altra a Milano. Parlava con entusiasmo de Le Lampare. Aspettava solo un cenno per andare a gestire un ospedale in Calabria: quello di Cariati mi sembra il più adatto, disse».
Gino Strada, medico e fondatore di Emergency
La Calabria come set
Tra le immagini scolpite nella memoria visiva dei due film maker, la terapia subintensiva a Crotone: «Emergency la ha gestita per alcuni mesi. Abbiamo vissuto situazioni emozionanti nella tragicità come nella speranza. Una su tutte? La gioia di persone in età avanzata, quando gli infermieri annunciavano loro che il tampone era finalmente negativo e potevano tornare a casa».
Un momento delle riprese a Cariati – I Calabresi
Federico Greco è così riuscito a fare i conti con la propria terra: «Ci torno ogni estate, da 50 anni. Non avevo mai visto, però, Crotone da un punto di vista professionale, non ci ero mai sbarcato con la telecamera in spalla. E questo mi ha fatto vedere Crotone e la Calabria come non le avevo mai osservate. Così ho sciolto le resistenze verso tutto ciò che non va. Adesso ci verrei a vivere e a morire. Con tutte le persone che abbiamo incontrato, gli attivisti de Le Lampare, Mimmo, Cataldo, Michele, Mimmo Massaro, Ninì Formaro, siamo diventati fratelli. È nata un’amicizia per tutta la vita. Come dice Michele Caligiuri, Cariati è il posto più bello del mondo».
«Noi crediamo fermamente che la Calabria possa uscire dallo stallo del basso indice di lettura solo se le istituzioni scolastiche si impegneranno una volta per tutte a creare dei percorsi di lettura tra gli studenti. Bisogna coinvolgere autori e editori locali. Ci stiamo muovendo in questa direzione sensibilizzando l’Ufficio scolastico regionale e le istituzioni. Confidiamo nell’attenzione della vicepresidente della Regione, Giuseppina Princi, della quale conosciamo le grandi capacità manageriali e la sensibilità verso il mondo della cultura».
Così spiega il suo punto di vista l’editore Franco Arcidiaco in relazione al fatto ormai consolidato per cui in Calabria, in media, si legga poco o nulla. Nel 1997 Arcidiaco ha deciso di coltivare la sua passione per la lettura e ha fondato Città del Sole Edizioni con la moglie Antonella Cuzzocrea. La casa editrice è presente, con propri stand, nelle più importanti fiere di settore, dal Salone del Libro di Torino alla Fiera Più Libri Più Liberi di Roma.
Covid e lettura
«I dati rilasciati dalle associazioni di editori – aggiunge Arcidiaco – non riguardano certamente la Calabria, che rimane sempre fanalino di coda (a livello mondiale) per indici di lettura. Sono più le persone che scrivono di quelle che leggono e comunque anche quelle che scrivono non comprano i libri degli altri». Poi l’editore continua: «La lettura in tempo di Covid si è sviluppata sui social, non certo sulla carta stampata. Noi da 5 anni abbiamo affiancato all’attività di produzione vera e propria, un’attività “sociale”. Abbiamo aperto in pieno centro a Reggio, lo “Spazio Open” che è un luogo dove ha sede la nostra casa editrice. Lì si possono anche comprare i nostri libri e si possono organizzare eventi culturali con una capienza di 80 posti in osservanza alla normativa vigente per la pandemia. Inutile dire che siamo stati fermi oltre un anno…».
Come funziona la filiera di vendita? «Il principale canale – dice Arcidiaco – è il nostro distributore che ha sede a Torino, poi vengono i grandi siti di e-commerce. Per fortuna abbiamo la vendita diretta nel negozio e nel nostro sito che ci consente di andare avanti. Le librerie on line comunque hanno il pregio di essere puntuali nei pagamenti e di garantirci una buona visibilità. La distribuzione assorbe il 60% del prezzo di copertina. Se aggiungi che il 10% va agli autori (come diritti) e il 30% non è nemmeno sufficiente per la lavorazione del prodotto, ecco che razza di business è il nostro… ci guida solo la passione».
La regione in cui si legge meno
Il punto è che non c’è nessuna politica regionale seria, secondo la critica letteraria Maria Franco, per favorire la lettura di qualità. Qui avremmo un numero di librerie tuttora alto rispetto ad altri territori. Lo stand che rappresenta la Calabria e i suoi editori alle giornate del Salone internazionale del libro al Lingotto di Torino, invece, è stato considerato non all’altezza. E importanti eventi storicizzati, che puntano sull’avvicinamento dei giovani calabresi a questo mondo, sono pure rimasti fuori dalla partita dei fondi per la cultura.
Lo scrittore Mimmo Gangemi – i Calabresi
Secondo l’Istat, quattro calabresi su 100 vanno in biblioteca almeno una volta l’anno(la media nazionale si attesta a 14 su 100) e i dati sulla lettura ci confermano anche nel 2020 in fondo alla classifica delle regioni italiane in termini di lettori di libri e quotidiani cartacei e online. «È molto triste che siamo ancora ultimi nonostante il presunto risveglio culturale», afferma sconsolato lo scrittore tra gli altri de La signora di Ellis Island, Mimmo Gangemi.
I numeri sulle vendite in libreria, infatti, in termini assoluti sembrano buoni e arriverebbero anche incoraggianti segnali di crescita dal mercato nazionale del libro. «Trovo interessante – afferma con sarcasmo il giovane scrittore Daniel Cundari – il tema affrontato dal vostro giornale. Dopo tutto la Calabria resta sempre la regione più magica del pianeta, in tutto il suo realismo tragico. Dovremmo farci annettere da qualche Repubblica caraibica».
Il poeta Daniel Cundari – I Calabresi
I libri che cambiano la vita
È ottimista sullo stato delle cose, invece, il libraio Nunzio Belcaro, quando spiega il suo punto di vista sulla nuova vita del libro, che appare rinato con la pandemia come hanno evidenziato negli ultimi grandi eventi le associazioni di settore. In un quadro regionale, invece, come abbiamo visto, caratterizzato da tendenze negative e mancate politiche di settore per aumentare i lettori. A Catanzaro Lido, da dieci anni, è iniziata la sua nuova avventura in una catena di librerie indipendenti: «Mi ha cambiato davvero la vita», ammette.
«Ho iniziato a lavorare con i libri nell’autunno del 2006. In verità tutto è cominciato a giugno dello stesso anno, quando decisi di dimettermi dal lavoro precedente e di aprire la mia prima piccola libreria indipendente, che, data la portata della pazzia, decisi di chiamare Don Chisciotte». Le cose sono andate meglio del previsto: «Siamo una sorta di catena ibrida formata da librerie indipendenti. Abbiamo un nostro supporto di vendita online che si chiama IoLettore, è una app in forte crescita. Tuttavia, è in libreria che ci giochiamo la nostra sfida principale ed è lì che sappiamo di poter offrire quel valore aggiunto che nessun canale online esistente e futuro potrà mai offrire».
La rivincita degli indipendenti
Secondo Belcaro, 43 anni, le vendite di libri nel 2021 e i comportamenti nati nel lockdown, fanno ben sperare, soprattutto, in una regione come la nostra in cui, in media e in termini assoluti, si legge poco e ancor meno si frequentano biblioteche e musei. Dunque, ai numeri diffusi sulla crescita nazionale, per comprendere meglio si deve affiancare una dimensione umana fatta di fatica e impegno. E originalità.
«È diventato un casino il mondo del libro, abbiamo una sola certezza per fortuna: il libro non morirà», ci dice Francesca Londino di Ferrari editore. Non è un caso che a crescere oltre all’online, siano state proprio le librerie indipendenti e di proposta. Quello che non funziona più è la libreria in stile supermercato, con commessi al posto di librai.
Sopravvivere all’e-commerce
«All’inizio è stata una scelta dettata dall’incoscienza. Unire una grande passione, quella dei libri, alle competenze commerciali che avevo accumulato dai precedenti lavori. Nel 2006 però tutto ciò che ruotava intorno al mondo del libro appariva nefasto. L’avvento degli ebook si pensava potesse far accadere la stessa cosa che era accaduta nel mondo della musica, dove i supporti fisici per ascoltarla venivano sostituiti dal digitale. E poi i grandi sconti della grande distribuzione, l’avvento dei primi e-commerce. Oggi posso dire che è stato giusto seguire quel sentimento, investire in una grande passione. Tutto ciò che appariva un incubo si è rivelato inconsistente. Eil libro e le librerie indipendenti e di proposta come la nostra, hanno vinto», sostiene Belcaro.
Nunzio Belcaro sulla sua Vespa, pronto a consegnare libri – I Calabresi
Dopo la pandemia, per una serie di concomitanze favorevoli, ha visto la situazione «decisamente migliorare». La grande visibilità avuta dal libraio calabrese grazie all’idea delle consegne a domicilio in vespa durante il lockdown, la nuova legge del libro che ha equiparato gli sconti dell’e-commerce a quelli che possono fare le librerie, l’avvento del fenomeno dei manga che ha riportato fra gli scaffali gli adolescenti e, in generale, il riavvicinamento al libro in un periodo difficile delle esistenze di tutti consegnano una dimensione in continuo rinnovamento.
Belcaro conclude così: «La nostra è una libreria generalista che prova a soddisfare le esigenze della comunità dei lettori a cui deve rispondere. Pensiamo sia la formula vincente per una piccola città di provincia. Promuovere e proporre libri per chiunque. Il futuro è fra i libri, di questo non ho dubbi».
La reale consistenza dell’élite culturale e politica di Vibo è nitidamente rappresentata da una recentissima polemica, ma anche da due distinti episodi del passato. La vicenda non riguarda una delle solite storie di sciatteria istituzionale a cui è abituato chi vive nella provincia più marginale della periferia d’Italia. Di mezzo c’è, invece, una realtà che è considerata un’eccellenza: il Sistema bibliotecario vibonese. Un’istituzione che rende un servizio essenziale ed è protagonista, tra le altre cose, dell’organizzazione del Festival Leggere&Scrivere, rassegna che ogni anno attira quaggiù i nomi più importanti del panorama culturale italiano.
Di padre in figlio
La polemica l’ha sollevata il Pd locale, che al Comune è all’opposizione e ha chiesto pubblicamente chiarezza sulla nomina a direttore del Sistema bibliotecario di Emilio Floriani, figlio del direttore storico, Gilberto. Il capogruppo del Pd, Stefano Luciano, ha sostanzialmente domandato delucidazioni sul passaggio del timone da padre in figlio, sull’eventuale pagamento del canone per i locali comunali occupati dal Sistema (un palazzo monumentale nel centro storico) e su quale tipo di rapporti ci siano con il Comune, anche in relazione alle iniziative di Vibo Capitale italiana del libro 2021.
Gilberto Floriani, direttore del Sistema bibliotecario vibonese, ha nominato come suo successore il figlio Emilio – I Calabresi
All’interrogazione, presentata due mesi e mezzo fa, non ha ancora risposto né il sindaco né l’assessore competente. Lo ha fatto invece Floriani (padre) su Facebook lanciando un «appello in favore del Sistema bibliotecario vibonese». Floriani senior ha parlato del «tentativo» di «danneggiare una grande realtà culturale che solo bene ha portato alla città nel corso degli anni». E annunciato che per «reagire democraticamente a queste strumentalizzazioni gli operatori e i volontari del Sistema intendono essere presenti ai lavori del Consiglio comunale».
Oggi gli attacchi, domani gli accordi
Per approfondire la controversia basta consultare pagine e profili social dei protagonisti e chi abbia torto o ragione, forse, non è poi così interessante. È significativa invece la dinamica e l’atteggiamento di chi l’ha innescata. Luciano, oltre che un affermato avvocato, è un giovane ma esperto politico che studia da sindaco da un pezzo. Ed è già passato da una parte all’altra dell’arco costituzionale con la stessa destrezza con cui Floriani da anni domina la scena culturale locale, dimostrandosi abile a coltivare rapporti con le amministrazioni pubbliche che spesso ne sovvenzionano, legittimamente, le attività.
La polemica non è direttamente collegata con i due episodi del passato – uno sull’élite politica e l’altro su quella culturale – che riportiamo di seguito. I protagonisti sono però in qualche modo il sottoprodotto di due mondi, o forse di un’unica aristocrazia, che da anni fa il bello e il cattivo tempo a Vibo. E tutto, la diatriba recente come le ombre del passato, c’entra molto con l’assuefazione alle pratiche del familismo, del consociativismo e con la consuetudine per cui tutto, a queste latitudini, debba muoversi attraverso guerre per bande e oscure alleanze. Oggi magari ci si attacca, ma domani probabilmente ci si accorderà. Il risultato è sempre lo stesso, fermentato in un unico brodo di coltura in cui germogliano solo corrispondenze inconfessabili mirate alla conservazione del potere.
«L’atto ufficiale di nascita della mafia a Vibo Valentia»
Il primo episodio riguarda un articolo, seguito da un processo per diffamazione a mezzo stampa. Uscì a dicembre del 1966 sui Quaderni calabresi, mensile politico-culturale del circolo Salvemini. Il pezzo denunciava ciò che gli autori definirono «l’atto ufficiale di nascita della mafia a Vibo Valentia».
Il fatto era questo: un uomo aveva avuto la concessione per installare un distributore di benzina in un luogo in cui il Piano regolatore prevedeva altro, cioè una strada pubblica. Il sindaco, solitamente rigido sulle concessioni, in quel caso non si era dimostrato tale. La maggioranza dei consiglieri comunali aveva poi ratificato la concessione. E quell’uomo aveva impiantato le sue colonnine «dove nessuno avrebbe osato neppure immaginare».
La decisione aveva destato scalpore. Il beneficiario aveva diverse grane giudiziarie e c’entrava con «una lunga e cruenta guerra mafiosa ingaggiata attorno ad alcune società petrolifere in Calabria e nel Lazio». Vibo era l’«epicentro» di quegli affari. E nelle paventate collusioni con l’alta borghesia politica della città gli autori dell’articolo individuavano il debutto palese del vero potere mafioso, il prodotto della presunta intesa segreta tra il crimine e l’élite.
Il sindaco e lo ‘ndranghetista
Il sindaco dell’epoca era Antonino Murmura, divenuto poi senatore Dc e rimasto per decenni assessore ai Lavori pubblici o all’Urbanistica. Artefice istituzionale della Provincia e politico vibonese più influente dai tempi del ministro fascista Luigi Razza, aveva portato in Tribunale i redattori della rivista. Che furono assolti 4 anni dopo con sentenza poi confermata in Appello.
L’ex sindaco e senatore Antonino Murmura – I Calabresi
L’uomo che, 60 anni prima dell’inchiesta “Petrolmafie”, aveva piazzato quelle colonnine era un Pardea. Detti “Ranisi”, fin dal Dopoguerra sono stati i custodi della tradizione ‘ndranghetista a Vibo. Poi altre famiglie si sono affacciate sul panorama criminale e ad avere il sopravvento sono stati i Lo Bianco-Barba, federati ai Mancuso. Dal gruppo Lo Bianco a un certo punto si è distaccato Andrea Mantella, killer ragazzino divenuto boss emergente che non sottostava allo strapotere dei Mancuso. Oggi è uno dei principali pentiti del maxiprocesso “Rinascita-Scott”. E in uno dei suoi verbali ha raccontato una vicenda vissuta al fianco di Franco Barba, un imprenditore edile che «ha costruito mezza Vibo».
Il killer e l’intellettuale
È il secondo episodio, quello sull’élite culturale. Nei primi anni 2000 Barba e Mantella sarebbero andati da «una persona importantissima» (non indagata in Rinascita-Scott, ndr), in una «grandissima casa antica, vecchio stile tipo castello, con mobili antichissimi e piena di libri», per parlare della compravendita di un terreno da un milione di euro. La persona che li aveva ricevuti subito, pur senza preavviso, secondo Mantella «sapeva benissimo che aveva a che fare con mafiosi e che i soldi venivano dai Mancuso».
Il pentito Andrea Mantella – I Calabresi
Lo stesso costruttore avrebbe raccontato di avergli portato uno «zainetto pieno di soldi con il quale lo ha “stordito” per cui l’affare è stato concluso». Mantella lo identifica in Luigi Lombardi Satriani, antropologo entrato a buon diritto nel gotha della cultura calabrese, eletto al Senato alla fine degli anni ’90 con il centrosinistra e all’epoca componente della Commissione Antimafia. Negli anni non ha fatto mancare il suo autorevole contributo di studioso ai Quaderni calabresi.
Epilogo. Il 28 ottobre 2021 il procuratore di Vibo Camillo Falvo, già pm nel pool antimafia dell’agguerrito Nicola Gratteri, è stato premiato, nel corso della seconda giornata del Festival Leggere&Scrivere, dall’associazione “Antonino Murmura”. Le motivazioni enunciate alla consegna della targa fanno riferimento al «suo fondamentale contributo alla giustizia», al «corretto e puntuale esercizio dell’azione penale», alla capacità di dimostrare che «non può essere veramente onesto ciò che non è anche giusto».
È tutta di ginestra: raccolta, filata, tessuta, dipinta a mano. È la hit bag prodotta in Calabria per il progetto di Silvia Venturini FendiHand in hand. I suoi disegni stile Longobucco, con i misteriosi codici bizantini della tradizione di quelle terre, hanno i colori del glicine, del mallo di noce, dell’edera, della liquirizia, della curcuma e finanche della cocciniglia, colorante ricavato dalla femmina dell’omonimo insetto parassita. È una storia di extra lusso e di paradossi.Un’avventura calabrese, di artigianato resistente e vuoto intorno. C’è tanta ginestra, ma non c’è manodopera.
Una borsa per pochissimi (e ricchissimi).
Filippelli e Bossio
È la storia del maestro tessitore Pasquale Filippelli, originario di Bocchigliero, selezionato con altri diciannove artigiani italiani dalla maison romana. Anche lui, come è stato per l’orafo trapanese Platimiro Fiorenza, che ha intessuto la baguette Sicilia di coralli, dovrebbe essere nominato dall’Unesco “tesoro umano vivente”. Filippelli ha partecipato a Hand in hand con la sodale fabbrica tessile Bossio di Calopezzati. Tessere di mano in mano, entrando nei piccoli scrigni delle botteghe delle regioni italiane, dove nascono meraviglie: questa la filosofia Fendi. Oggi la baguette Calabria è un oggetto d’arte per pochi eletti. La si può trovare esposta, insieme alle altre diciannove, al Palazzo della civiltà italiana di Roma, fino al 28 novembre (la mostra può essere visitata anche in modalità virtual)
Sono soltanto quindici i pezzi calabresi, per adesso. Raffinata e glamour, la baguette di ginestra è destinata a clienti speciali e segretissimi, perché costa diverse migliaia di euro e anche per quello che racconta il suo ciclo produttivo: realizzata senza elettricità, senza chimica.
Il maestro Filippelli al lavoro; nella teca la baguette Fendi
La Fendi per le dive green
Finirà nel guardaroba di una diva green stile Angelina Jolie, o forse della moglie di un tycoon orientale, di una Carrie della Sex and the city newyorkese.
Nella fabbrica tessile Bossio di Calopezzati, paese del cosentino, tra la Sila greca e il mare, poco più di 1300 abitanti, c’è tanto entusiasmo ma anche la cautela, saggia, paziente, pragmatica degli artigiani. Dalla capostipite Elisabetta alla figlia Elena, al genero Angelo, al nipote Vincenzo,in questo luogo di fili e macchinari, nato nel 1966, la vocazione è per i prodotti naturali. «Fai la qualità e stai tranquillo» è la raccomandazione tramandata da una generazione all’altra. «Fendi aveva richiesto venti baguette, ma noi siamo riusciti a realizzarne soltanto quindici, perché occorre tempo per creare i prototipi e ogni singolo pezzo e perché l’anello debole di tutto il processo – racconta Vincenzo Bossio, – è la filatura. Nella fase di produzione abbiamo anche provato a cercare sul territorio, senza successo, ginestra già filata».
Vincenzo Bossio, uno dei proprietari della fabbrica tessile di Calopezzati
Ma nessuno la fila
E pensare che non bisognerebbe neanche coltivarla la ginestra, pianta ribelle che cresce dove vuole. Robusta e così audace da rinforzarsi ad ogni potatura, materia prima per realizzare filati che resistono ai secoli. «Abbiamo tessuti – racconta ancora Vincenzo – che hanno anche settanta anni e che sono sempre più belli. È una fibra capace anche di regolare l’umidità, tanto che veniva usata dai romani per le vele delle loro imbarcazioni». La ginestra è lì, infestante come la liquirizia, fiorisce rigogliosa a ogni primavera, ovunque in Calabria, dalla costa degli Dei alla Sila greca, ma non ha avuto la buona fortuna delle altre fibre liberiane, il lino e la canapa, di cui è stretta parente.
«Ci troviamo in una situazione stimolante, ma difficile. Ci contattano molte aziende, sono incuriosite e affascinate da questo tipo di lavorazione, ma purtroppo non posso produrre il filato che mi viene richiesto».
L’antico telaio della fabbrica Bossio di Calopezzati
L’interesse dei giapponesi
Vincenzo Bossio mostra il suo cellulare. Gli è appena arrivato un messaggio dal Giappone. «Ci scrivono diverse startup. Un marchio di scarpe di lusso ci ha appena proposto di realizzare le tomaie con le fibre di ginestra. Internet ci consente di stare sui mercati mondiali, i social amplificano i nostri orizzonti, ma in questo caso abbiamo bisogno di mani sapienti più che di macchine e di tecnologia».
La ginestra, come dimostra Hand in hand, può essere un’alternativa green alle fibre sintetiche che infestano i mercati del tessile. Bassissimo costo della materia grezza (basta andare a raccoglierla, ce n’è tanta), il tessuto ottenuto non si deteriora, è resistente e versatile. Quindi? Quindi le lenzuola di ginestra continuiamo a trovarle solo nei musei etnografici, tra telai impolverati e ricostruzioni di ambienti rurali.
Nel Dna delle tessitrici
La produzione non può prescindere dal telaio di legno, come quello su cui Elena, figlia di Elisabetta e madre di Vincenzo, fin da bambina ha imparato a tirare la tela. Un’arte tramandata attraverso un codice orale fatto di parole e numeri, un lessico familiare che si traduce nei movimenti lenti e serrati che danno vita al filato, attraverso la griglia di trame e orditi su cui s’imprime il Dna. «E non per modo di dire – spiega Elena – ma perché si trascorrono ore e ore a lavoro sul telaio, concentrate nei propri pensieri, a scaricare la tensione, vedendo crescere il filato come una creatura a cui diamo la vita».
La ginestra crea economia
La filatura è la tessera mancante in questa partita della ginestra che potrebbe creare un indotto virtuoso nell’economia calabrese. È per questo che adesso l’azienda Bossio ha deciso di investire nella formazione: «Il settore tessile in Calabria è una nicchia e come talenon ha peso politico» è l’amara constatazione di Bossio. Ma non è rassegnazione perché ci sono grandi progetti in vista : «Non solo vogliamo formare nuovi filatori – annuncia – ma siamo pronti ad acquistare tutto ciò che viene realizzato». È ripartita proprio ieri una giovane allieva di una scuola di tessitura parigina che, nell’azienda di Calopezzati, ha svolto uno stage di tre mesi. Ha vissuto pure lei l’adrenalina del progetto Fendi, ma ha anche ascoltato le storie dei contadini che ammorbidivano i rami di ginestra nell’acqua del fiume: passato e presente dialogano e collegano mondi lontani.
Filo di ginestra
Con Fendi fino al 31 dicembre
Il contratto con la fashion house romana si concluderà il 31 dicembre. «Ancora non so se continueremo la produzione. Il primo contatto c’è stato nel gennaio 2019. Un messaggio, poi silenzio. Fino a quando insieme con Pasquale Filippelli siamo andati con le nostre opzioni di tessuti artigianali nella sede della maison. Quale hanno scelto? Tutti».
Ogni baguette è un puzzle di stoffe naturali. «Sappiamo che un esemplare lo ha riservato per sé Silvia Venturini Fendi, un altro andrà al museo della maison, il resto sarà acquistato dai clienti lusso. La griffe invia loro un video, mostrando come e da dove nascono le baguette artigianali. Il prezzo? Variabile, 25mila euro e oltre».
Il lusso si è affacciato in questa realtà, dove la metafora colorata dell’ordito e della trama racconta un pezzo della regione, con i campi di ginestra, i bozzoli di seta nei cesti e i gelsi nei giardini, il telaio meccanico fabbricato dalla Società Nebiolo Torino nel 1960, l’orditoio che sembra un mostro buono, enorme e variopinto con 5600 fili uno accanto all’altro.
Si è aperta una porta. Troppo piccola per adesso.
[…] Catanzaro è città complicatissima da raccontare in poche pagine, da fotografare in poche immagini. È impossibile tenerla ferma, costretta in posa. La sua dialettica è instabile, un’altalena di sensi opposti, oscillanti tra alto e basso, salite e discese. È un luogo sfuggente, molteplice, contrastante. L’intera fisionomia della città ha qualcosa di pericolante, sgangherato e diffratto. Sembra percorsa da una corrente alternata.
Fuggito da Catanzaro per diventare Rotella
Come la stessa ansia esaltata di una di quelle affiche cinematografiche fatue e sognanti sovrapposte alle vecchie pubblicità annonarie e alle belve circensi graffiate e strappate via in un gesto di sfregio carico di furiosa rabbia creativa, alla maniera iconoclasta di Mimmo Rotella. Mimmo Rotella, che fu il suo più grande e geniale artista-simbolo. Che da Catanzaro, per poter diventare Rotella, però, è fuggito, anche lui, prestissimo.
Un’opera dell’artista catanzarese Mimmo Rotella
Il Marc Augé che non ti aspetti
Qualche anno fa nel corso di un viaggio di studio in Calabria, a vedere Catanzaro c’ho portato in visita Marc Augé. Eravamo in macchina, guidavo io, lui guardava fuori: dopo un’ultima curva, sbucati dalla caverna buia del tunnel Sansinato, Catanzaro si parava improvvisamente davanti, alta fino al cielo: il suo skyline scosso da una specie di onda sismica di cemento e bastioni fatti di palazzoni in technicolor aggrappati a casaccio su una rupe a precipizio tra i due mari, in cima alla vertigine arcuata del ponte Morandi. E Marc Augé, l’antropologo inventore della nozione di “non luogo”, l’esegeta delle metropoli contemporanee e delle società post-tutto, davanti a questa sorprendente visione, ha esclamato, colmo di stupore: “et voilà Catanzaro!, c’est extraordinaire!”.
L’antropologo francesce Marc Augé
Non si sbagliava l’antropologo dei non luoghi, già a prima vista Catanzaro è un posto è sorprendente. La visione di quello che ti viene addosso dall’auto prima di infilare la bretella che sale fino al Ponte Morandi è senza scampo. Sbuchi fuori ed è un muro di palazzi e palazzoni, di case vecchissime e nuovissime, screpolate e compatte, alte fino al cielo, nude e malinconiche come l’azzurro allucinato dello Ionio.
Catanzaro è un inganno del tempo
La città nuova si rovescia ben oltre l’argine di creta grigia dalle colline di Germaneto, l’antico granaio del suo contado. I cantieri fervono, a ritmi folli, incessanti. Questo terreno incerto su cui avanzano le ultime propaggini urbane sfrangiate dalle ruspe dei cantieri e spellate da un vento proverbiale, è il lembo più stretto d’Italia. Oggi è la trincea fluttuante di una terra di confine. Eppure all’alba, da lontano, Catanzaro, la città capitale della Calabria di oggi, potrebbe ancora apparire a un viaggiatore sonnolento e svagato un antico caravanserraglio chiuso tra le dune di un deserto orientale. Un inganno del tempo. Catanzaro ha le sue stranezze, un’astuzia delle forme apparenti fissate nel suo carattere paradossale, è il suo contrassegno, il distintivo perdurante.
Un capoluogo con l’anima da strapaese
È diventata città e capoluogo nonostante la sua ristrettezza da strapaese, l’isolamento e l’incredibile discontinuità spaziale. La fame insoddisfatta di spazio contrapposta all’abitudine atavica alla separatezza e all’abbarbicamento, qui ancora contano molto. Specie oggi che ogni cosa è cresciuta a dismisura. Catanzaro non ha mezze misure, qui tutto pare da un momento all’altro frenetico o stagnante. Dopo l’agitazione folle del mattino, c’è la gora languente della controra catanzarese. La città si svuota. Certi pomeriggi d’estate il Corso rovente è divorato dai soffi riarsi dello scirocco. Circolano solo i matti e qualche furtiva ombra umana risucchiata dal caldo, fantasmi che slittano via attaccati ai muri.
Tra i cubicoli delle sua antica cittadella murata Catanzaro ridiventa provincia meridiana e orientale: i suoi cento caffè a tutte le ore (un rito: tu pijjhasti u’ ccafhhè?), i baretti sempre affollati, il sapido cibo di strada (c’è in città un’Accademia che celebra il culto interclassista del Morzello, la sua piccante zuppa di trippe e interiora), il discutere a crocchi, lo sfottò ferocissimo, il dialetto ostentato come lingua scettica e iniziatica, il lento passeggio sul corso.
Il Paparazzo di Fellini era un oste di Catanzaro
Catanzaro un tempo nota per la fiorente arte della seta e dei velluti ereditata dai fondatori bizantini e dagli ebrei della diaspora mediterranea, conserva uno spazio residuale per la storia e l’aneddotica. Qui vi sopravvivono le sue espressioni più ineffabili e vistose, i suoi linguaggi mischiati, le sue figure più umane paradossali. I “cathanzarisi”, con le loro posture sguincie, gli ammicchi teatrali, le sue stradine stravolte dal traffico che sale addosso ai pedoni. Questa città sta dentro il mondo contemporaneo con un suo certo particolarissimo stile. Come quel Coriolano Paparazzo, il “grumpy hotelier”, l’oste affettato e petulante proprietario dall’Albergo Centrale (sull’attuale Corso Mazzini), di Catanzaro, di cui lo scrittore vittoriano Georg Gissing, di passaggio da questa “cima ventosa” nel 1897, lascia una gustosa e memorabile descrizione nel suo diario di viaggio. Ritratto che non sfuggì a Fellini, che in crisi creativa, tra le more della sceneggiatura de “La dolce vita”, spostò il senso di quel cognome ruzzante così tipicamente catanzarese e ne fece il famoso nomignolo del suo reporter, fissando così l’appellativo che designa ancora oggi universalmente i fotografi d’assalto.
I paparazzi della Dolce Vita di Federico Fellini
Un altro risarcimento culturale che curiosamente, per l’eterogenesi dei fini così frequente nella vicenda catanzarese, la città del ponte e del vento ha regalato al mondo. Come ricorda anche una targa-memoriale apposta dal Comune nel 1999 sul luogo del fatidico incontro cittadino tra lo scrittore vittoriano e quel catanzarese doc.
Dopo un po’ sei “amicu meu” ma non troppo
Del resto a Catanzaro è facile sentirsi ospite. Fare amicizie e, pure, inimicizie durevoli. La gente ti vuole conoscere, ti annusa e accoglie, cordiale, manierosa, e circospetta e diffidente insieme. Non importa da dove vieni, dopo un poco sei “amicu meu”. Ma dopo anni qui non ti levi mai di dosso la sensazione che resterai comunque altro, separato da loro, come uno straniero tenuto sempre sotto osservazione, un avventizio in uno stato precario. È una città che dissimula e ti tiene in sospeso Catanzaro. Ti fa sentire di passaggio, in equilibrio sulla soglia, sempre un po’ indecisa sul da farsi.
Città dove contano le superfamiglie e i segreti indicibili
Catanzaro è resistente, fortemente identitaria. Basta a se stessa. Con poco meno di 89mila abitanti, Catanzaro è una città conservatrice, sfiancata dagli intrighi, da vizi strapaesani e da inossidabili e nostalgiche liturgie sociali. È chiusa in cerchie impermeabili, raccolta intorno a superfamiglie, consorterie sempiterne e a segreti non sempre dicibili.
Piazza Matteotti e via Indipendenza a Catanzaro
Cosa scrivono Strati e Alvaro
Un romanzo (dimenticato) dello scrittore Saverio Strati, “È il nostro turno”, pubblicato da Mondadori nel 1975, rappresentava una Catanzaro post-bellica attardata negli anni 50’ in un’atmosfera da ancien régime, esasperata da povertà e disagi materiali e dalle sue angustie provinciali da nobiltà decaduta. Il realismo di Strati metteva a nudo il carattere ipocrita, pavido e valetudinario dei piccoli burocrati e della classe media catanzarese. Prima di lui Corrado Alvaro, che a Catanzaro si formò e fu allievo del Collegio Galluppi, degli ambienti culturali e della vita cittadina a sua volta aveva scritto in modo acre e penetrante in “Mastrangelina” (uscito postumo nel 1960).
Città di burocrati bocciata da Pasolini
Le chiusure e l’ostinato narcisismo, “l’esasperazione rituale” di certi tratti del costume cittadino non sono sfuggiti neppure a un reportage di viaggio di Pier Paolo Pasolini, che in visita in Calabria, era di passaggio per le vie di Catanzaro nell’aprile del 1964, in compagnia di Elsa Morante, alla ricerca di volti interessanti per il suo “Vangelo secondo Matteo”. «Sono stato più volte a Catanzaro ed ho avuto sempre la stessa sensazione. Come tutte le città burocratiche, è una città un po’ triste e deprimente. Ha un aspetto un po’ caotico e confusionario, ma sempre grigio ed amorfo. Non credo che possa considerarsi vita e quindi vivacità quella che caratterizza un certo tipo di società medio borghese, in cui i problemi, le ansie, le attività, nascono solo dalle preoccupazioni individualistiche di una grigia classe impiegatizia».
Una Metropolis da fumetto
Oggi Catanzaro incombe e svetta sui valloni quasi come una Metropolis da fumetto futuribile disegnata a mano libera sul canyon della Fiumarella, il profondissimo dirupo naturale che un tempo la separava dal mondo. Migliaia di veicoli che arrancano sulle corsie intasate e verso i ponti, risalendo come una corrente inversa la cima della città. Sembra la vecchia fotografia di un luogo arcaico simile a un forte medievale, un nido d’aquile o l’acropoli antica di una polis sorta a guardia dei due mari. Le vecchie mura del forte di San Giovanni e il suo centro storico fitto di piccole case costruite da arabi e bizantini resistono disperatamente aggrappate sul filo del precipizio, simili a naufraghi abbracciati agli scogli di un’isola.
Prova a trovare un parcheggio
Il traffico è impressionante, non c’è mai un parcheggio. Si continua a costruire negli interstizi, tra un vuoto e l’altro si elevano le gru. A Catanzaro ogni cosa si presenta in salita, stretta, cabrata verso l’alto. Puntualmente, ogni volta che ci arrivo, il colpo d’occhio mi sfrena verso certe sensazioni profonde e incontrollabili. Catanzaro scatena irrequietezze. Ha inquietudini erotiche e languori, qualcosa che mi ricorda sempre l’inizio e la fine di certe oscure e intricate storie d’amore.
Un emblema del Sud di adesso
Vista più da vicino ti accorgi che la Catanzaro che oggi si affaccia dal suo ponte sequestrato e malsicuro (ma dal traffico sempre ininterrotto) che spicca su questo panorama ondeggiante tra svincoli e flying bridges da far invidia a Los Angeles, è davvero, forse più di altre, una città-emblema del Sud di adesso. Caotica e annoiata, avvolta come un ottovolante dal traffico delle ore di punta e orlata da una spessa e screziata cortina di grandi edifici e palazzoni nuovi che si superano in altezza e tracimano passando come un’onda di cemento da un vallone all’altro, da un ponte all’altro. Uno spettacolo sempre impressionante. In uscita, verso il tramonto, un altro punto di vista cade sulla crosta ininterrotta di case e palazzi cresciuti ex novo a catasta, in un enorme intrico di vani, svincoli e anelli di circonvallazione, cubature e prospettive fuori scala, quasi a formare un vasto ed esteso termitaio umano.
C’erano una volta le aquile di Palanca
Altro che Magna Graecia delle migliori annate, come proclamano di queste contrade sconvolte le guide di un turismo nostalgico. Ma anche la Catanzaro del XXI secolo a suo modo resta tributaria dei miti. Un mito suo, araldico, nobiliare, da primatista, molto auto-costruito, sempre preteso e mai conquistato, che risorge ogni giorno anche come tema politico e civico. Un leitmotiv rinfocolato e respirato dai catanzaresi come tema identitario che si impone assumendo spesso le forme di un delirio collettivo piuttosto sconnesso. Dopo la crisi della politica, si pensi al tifo e alla squadra delle aquile giallorosse, che è dai tempi dello storico gol segnato nel 1972 da Mammì alla Juve e dalle gesta funamboliche del mitico bomber–tascabile “Massimé-pari-‘na-molla-Palanca” (tripletta alla Roma nel 1978) non riesce più a rinverdire i suoi allori calcistici, galleggiando con frustrazione crescente dei tifosissimi locali nelle sabbie mobili di una serie C molto maldigerita per le pretese di pubblico e dirigenti cittadini.
Un posto da antropologia del disordine
Passano gli anni e Catanzaro la osservo, come faccio sempre ogni volta che ci ritorno; resta lì come un geroglifico disegnato tra il ponte e il cielo meridiano. Sono un irrequieto, e il mio è mestiere che si fa in movimento. Ma Catanzaro si è infilata dentro il mio lavoro, e dentro la mia vita come un ospite. Sono quasi una trentina d’anni ormai. È qui, nella città capitale di quelle che una volta erano le vecchie “Calabrie” degli scrittori del Grand Tour, che faccio quella che Marc Augé chiama “antropologia della prossimità”, l’antropologia di quello che vivo e vedo da vicino, di quel che siamo, piaccia o no. Col tempo dentro questi sguardi incrociati Catanzaro è diventata così anche il luogo di molte pagine della mia scrittura. Dovrei dire, dopo tutto questo via vai, che la città dei ponti e del vento si è presa un posto, un posto non da poco, anche nella mia vita. È un luogo interessante per uno come me. È un posto da antropologia del disordine sudista. Anzi, per me, è la già a modo suo la capitale post-moderna del gran bazar calabrese.
La Calabria e la cultura non si incontrano. Neanche dopo che i fuochi fatui della propaganda elettorale si sono spenti. Restiamo ai fatti, a quelli di oggi. La politica non crede che il futuro di questa regione abbia a che fare con la “Cultura”. Che sarebbe anche quella cosa con la quale, in una democrazia degna di questo nome, si smette di essere sudditi e clienti e si diventa cittadini attivi e consapevoli. E non di rado, dato che la cultura «non è cosa libresca e astratta», ma appartiene «al mondo della vita ed è in grado di produrre effetti politici e di muovere l’azione storica» (A. Gramsci), è quindi anche “lavoro”, e col lavoro, persino in Calabria, si mangia. E invece no.
Nessuno si meraviglia se manca l’assessore alla Cultura
Dall’organigramma comunicato dal nuovo presidente della giunta regionale Occhiuto, a mancare è proprio un assessorato e un assessore regionale che nel nome in ditta abbiano proprio il sostantivo identificativo di “Cultura” (e non i suoi surrogati di marketing). Idem, è notizia di alcuni giorni fa, la scelta amministrativa fatta dal nuovo primo cittadino di Cosenza, Franz Caruso, che nella città di Bernardino Telesio, quella che un tempo ebbe fama di “Atene delle Calabrie”, ha pensato bene a sua volta, almeno per ora, di fare a meno di un assessore responsabile alla cultura a alle politiche culturali.
E questo in una città capoluogo, al centro di una vasta area urbana a cui risponde anche una popolazione universitaria, quella dell’Unical -la prima università- campus fondata in regione-, oggi seconda (dati Censis 2018) tra i grandi atenei statali italiani con circa 30.000 studenti e un migliaio di professori.
L’Università della Calabria
Una strategia bipartisan
Complimenti quindi per la scelta lungimirante e di grande efficacia strategica per il futuro della Calabria. Cultura: se ne fa a meno. Con accordo e spregio bipartisan che mette sullo stesso piano schieramenti politici, sulla carta, di diverso orientamento. La Calabria ha certo molte urgenze da risolvere. Altri problemi, molto compromettenti, si sono accumulati in decenni di malgoverno e di incuria. Sono sotto gli occhi di tutti, e tutti ne paghiamo caro il prezzo. Ma la crisi delle politiche culturali e lo stato di paralisi della cultura amministrata dai poteri pubblici in Calabria non può essere considerato il livello meno compromettente e preoccupante della crisi complessiva che attraversa da decenni la società regionale.
Lavoratori della cultura in ginocchio
Chi lavora nel teatro, nei musei, nello spettacolo, nella musica, nell’arte, nell’editoria e nell’associazionismo culturale, nelle attività di produzione di beni e servizi per la cultura, settori già colpiti e messi in ginocchio a causa della pandemia, spesso in Calabria si trova a combattere solo per la sopravvivenza, mentre si arranca da anni a colpi di immagine e di interventi spot privi di visione, tra indifferenze, favoritismi e inadeguatezze croniche e umilianti da parte di politica e istituzioni.
Protesta dei lavoratori dello spettacolo a Cosenza
Della cultura si può fare a meno qui
Fare a meno di assessori con deleghe specifiche (e dunque anche del sostegno di adeguate strutture amministrative) sancisce in fondo solo un dato di fatto, una realtà, che è nota e non da ora a chi è impegnato nel settore. Della cultura in Calabria si può fare a meno, senza troppi rimpianti.
Se non è questo il sottotesto, è dissimulazione pura. Perché anche quando un assessore e un assessorato in grado di programmare e decidere ci sono, quando si passa al confronto tra i designati di parte politica, amministratori ed enti pubblici – Regione in testa-, e i cosiddetti operatori accreditati (i famigerati stakeholders), nella prassi quello che accade in questo mondo, e tra le pieghe non sempre trasparenti del suo fitto sottomondo, riguarda cose che spesso hanno davvero poco a che fare con la cultura. Quello che normalmente capita da anni nella conduzione di questo settore e nella definizione di leggi, provvedimenti, regolamenti, obiettivi e strategie, volumi di spesa e destinatari, dimostra che l’intero settore viaggia da tempo in ordine sparso. Manca del tutto una politica per la cultura.
Troppe rendite di posizione
Quello che accade segue troppo spesso le traiettorie di convenienze, rendite di posizione e discrezionalità procedurali che non rispondono sempre, come si dovrebbe, a valori culturali solidi, a competenze e professionalità certificate, e men che meno da processi originati da conoscenze e da confronti di partecipazione civile e democratica alla vita culturale di questa regione.
La Calabria, come nella Sanità, nella scuola e nelle politiche del lavoro, con i suoi numerosi ritardi e tare, è una regione opaca, che ancora non favorisce processi fondamentali di elaborazione e sviluppo di politiche pubbliche per la cultura in grado di promuovere le libertà, il civismo, l’innovazione di qualità e quindi il cambiamento culturale necessario nella società. Pochi settori della vita regionale come quello della cultura hanno invece necessità e bisogno urgente, oltre che un decisivo impulso in termini di immaginazione, di competenze e professionalità, di essere anche urgentemente illuminati da criteri autentici di pubblica utilità e da azioni di legalità e trasparenza.
Capitali della cultura (per tre giorni)
Bisogna, per esempio superare, definitivamente la logica dell’evento, dei cosiddetti “Fiori all’Occhiello”, delle “Capitali della Cultura (per tre giorni)”, dei “Festival di Qualcosa” e dei “Premi Importanti”, che finora ha contraddistinto con inutile monotonia e indifferibile conformismo le politiche culturali di questa regione.
Una sequela di eventi, premi e festival, sovente dai contenuti culturali incerti, rigonfiati da risorse spropositate e rigorosamente sponsorizzati da politici regionali in cerca d’autore, poi i tanti festivalini che prosperano, con largo utilizzo di denaro pubblico, le effimere fiammate estive della premiopoli in cui fanno passerella i personaggi che vediamo ogni sera accendendo il televisore, a che (e a chi) servono? Gli strombazzati e alquanto incerti “attrattori turistico culturali”, i fantasiosi e misconosciuti “marcatori identitari”, gli eventi identitari al morzello e al sugo di capra, sono altrettanti cattivi esempi di intervalli pubblicitari che il giorno dopo, risolto il clamore mediatico, lasciano le cose come stanno e dove stanno. Il vuoto, il nulla.
Lo scrittore Corrado Alvaro
Parlano di Alvaro senza averlo mai letto
In Calabria la dimensione pubblica della cultura resta confinata in una dimensione di intrattenimento per escursionisti da riserva indiana, o peggio immersa nella fuffa di un baraccone itinerante con offerte da avanspettacolo televisivo per turisti da pro loco estiva. Nessuno pensa che la dimensione pubblica della cultura debba riguardare invece, più concretamente, i diritti che garantiscono l’accesso a beni e servizi fondamentali per i diritti di cittadinanza, a sostegno di studenti, anziani, giovani e famiglie, da destinare ad aree di crisi, a piccoli centri e a comunità fragili.
Per la salute di questa regione sarebbe urgente, piuttosto che indire l’ennesimo bando per alimentare la macchina festaiola dei “Grandi Eventi” (sic), potenziare il languente sistema delle biblioteche, dei sistemi bibliotecari e dei centri di lettura. Nella regione che a ogni piè sospinto si vanta di Alvaro senza averlo mai letto, (per non parlare poi di Strati, Perri, La Cava, Seminara, Repaci, Calogero, Costabile, De Angelis, Zappone ed altri, solo per restare al passato) siamo ben lontani da queste urgenze civili.
In fondo alle classifiche di lettura
E questo vuoto di politiche per la cultura a cui corrisponde il mancato adeguamento dei servizi primari per la cultura, è tanto più grave per le sorti civili e per il futuro prossimo di questa regione se solo consideriamo un punto di crisi che è di per se sufficiente a gettare una luce sinistra sul futuro prossimo della nostra collettività regionale: la Calabria è da anni invariabilmente in fondo a tutte le classifiche di lettura e di accesso al libro e ai consumi culturali (come teatro, musei, mostre e cinema).
Solo il 28,8% dei calabresi ha comprato un libro (1 libro!) nell’ultimo anno, non solo per effetto della pandemia. Una conferma. Dato che la Calabria con il 69,3% è terza (a contenderle il podio del non invidiabile primato solo Campania e Puglia) nella più alta percentuale assoluta dei “non lettori” in Italia. Gente che in 12 mesi non ha mai aperto un libro e che non avverte il bisogno di farlo, neanche nel tempo libero, e quel che è peggio si tratta di una fascia di popolazione che va dall’età scolare, i 6 anni (sic!), sino agli 85 (dati Istat 2018).
Il contesto sociale gioca un ruolo decisivo
Altra aggravante per la nostra regione è che l’insieme dei non lettori è composto in misura prevalente da persone con un basso livello di istruzione e che l’incidenza è maggiore nei piccoli comuni, e tra gli uomini e tra coloro che hanno ridotte disponibilità di reddito. La scarsa confidenza dei nostri corregionali con i libri è spiccatamente associata dunque al contesto urbano e sociale di appartenenza: l’incidenza di persone che non hanno mai letto negli ultimi 12 mesi raggiunge infatti il 63,2% nei piccoli centri e nei comuni fino a 2.000 abitanti.
La scuola e persino l’università non se la passano meglio: il 52,3% dei bambini di 6-10 anni e il 47% di quelli tra 11 e 14 anni non hanno letto altri libri al di fuori dei testi scolastici e non hanno praticato alcuna forma lettura se non per motivi di studio. E considerando anche il divario di genere, lo scarto maggiore tra i due sessi (ben 24,4 punti percentuali) si registra tra i 20-24enni, dove le “non lettrici” sono più di una su tre (il 37,2%) mentre i “non lettori” sono il 61,5%.
Verso il peggio
Quel che più allarma è l’inarrestabile tendenza al peggio: negli ultimi anni in Calabria si è registrato un calo progressivo di fruitori di libri e di centri di lettura. Nel 2016 la percentuale fu del 28,8, nel 2014 del 29,9 e nel 2013 del 34,5%. La quota di famiglie che possiedono libri nel 2017 erano l’89,4%, ma dal 2009 in poi il 10% di famiglie calabresi ha stabilmente dichiarato di non avere libri in casa. Commentando questo dato Guido Leone, dirigente tecnico dell’Urs (Ufficio scolastico regionale) ha stimato che «la Calabria è la prima regione italiana ad avere la percentuale più bassa di famiglie che non possiede libri in casa. Mentre il 16,4% ne possiede da uno a dieci, il 14,9% da undici a venticinque, e solo il 4,1% più di quattrocento».
La cultura non è un optional
Di fronte a questo dramma piuttosto che far finta di niente e tirare avanti con i soliti spottoni mediatici e gli eventi ad effetto “vacanze intelligenti”, è necessario che la politica prenda atto dell’insostenibilità del divario ormai profondissimo e del danno civile che ne deriva, provvedendo con urgenza ad allargare e riqualificare le politiche per la cultura e il circuito territoriale dei servizi culturali. Se vogliamo che il libro e una dimensione democratica e civile di cultura sopravviva e cresca nelle biblioteche pubbliche, nelle librerie, nelle case e nelle piazze dei calabresi. Tutto questo accadeva peraltro quando un figurante di assessore alla cultura ancora c’era.
Oggi si pensa addirittura di farne tranquillamente a meno. La cultura non è un optional, non è nemmeno divertimento circense o sagra estiva: è quello che siamo, ed è quello che, nel bene e nel male, possiamo diventare e diventeremo tutti, come individui, come società, come democrazia. Vale anche i politici e gli amministratori calabresi. Che sarebbe il caso che qualche libro in più, dando il buon esempio, lo leggessero. Un assessore ci vuole. Un Assessore alla Cultura. Bravo e competente. E occorre immaginare urgentemente buoni progetti e un futuro decente.
Marcatori identitari per le solite sagre
E occorre anche spendere e spendere bene per la cultura. Indipendentemente dalla crescita del Pil. Non per fumisteriosissimi “attrattori culturali” (doppioni, nel migliore dei casi, del marketing turistico), e non per definire in una sorta di menù à la carte fantomatici “marcatori culturali identitari”. Non per abboffare l’estate di inutili e costose vetrine, non per le solite sagre culturali copiate dalla televisione, ma per aiutare i calabresi, magari con un libro in mano, dentro a un museo, in una mostra, in un concerto di musica decente, davanti a un gruppo di attori che animano un teatro, a capire meglio a che punto sono della loro vita, e dello loro scelte.
È con i libri che si fa la cultura, non senza. E’ urgente e necessario, perché rende i calabresi cittadini più attivi, più democratici, più liberi, più consapevoli e persino felici. O invece non è proprio questo che si ritiene superfluo? Ed è forse per questo che meglio di un nuovo assessore alla cultura, c’è un nuovo, e tanto facebukiano, assessore agli “attrattori culturali”?
La sera del 7 novembre, domenica, il neoeletto sindaco di Cosenza, Franz Caruso, ha parcheggiato la sua Smart tra la biblioteca Civica e il teatro Rendano: è stato come appuntare una delle sue prime uscite pubbliche tra due simboli della decadenza culturale della presunta Atene della Calabria. Da un lato la sede della gloriosa Accademia cosentina, dall’altro il teatro di tradizione dove si celebrava Astor Piazzolla a cento anni dalla nascita: due dei tanti contenitori in cerca di contenuti, nel tempo dissestato in cui par di capire che di “contenuto” ci dovrà essere solo il budget dedicato alla cultura. Fine del prologo
Car* assessor*
O meglio, come sembra dovrà essere, car* consiglier* delegat*, il decennio di Occhiuto ha lasciato le macerie di un eventificio perpetuo di cui non resta alcuna traccia se non nelle lamentazioni social – anche postume – dei cosiddetti “odiatori” in modalità leoni da tastiera.
Il biennio della pandemia ci ha precipitati in un nuovo riflusso in cui in maniera direttamente proporzionale si sono ristretti gli spazi pubblici di incontro e confronto e dilatati quelli della fruizione domestica – serie tv ma anche musica e persino mostre.
Eppure Cosenza aveva iniziato a desertificarsi ben prima dell’emergenza Covid: ai lustrini dell’isola pedonale puntellata di opere d’arte e degli stand in centro o lungo il fiume ha fatto da contraltare il depauperamento dei simboli stessi di quella che si beava di essere l’Atene della Calabria, appunto, che per nemesi è stata scavalcata da Vibo capitale del libro, tanto per dirne una.
Caro assessore o consigliere delegato alla Cultura, fondi permettendo ci sarà da intervenire anzitutto sui teatri cittadini: Rendano, Morelli e Italia giacciono come pachidermi fiaccati da una lunga agonia giunta, per paradosso, proprio dopo la rinascita strutturale, e quasi bisogna ringraziare i privati che con stagioni mainstream quanto si vuole almeno li tengono in vita.
Al Rendano non si produce prosa dal 1990 – una volta decaduto il Consorzio teatrale –, lo stesso stallo riguarda la lirica ora che si è perfezionata la mutazione degli enti lirici in fondazioni lirico-sinfoniche (solo 2 su 14 hanno sede al Sud).
A un assessore o consigliere delegato – o consigliera delegata, come pare in queste ore più probabile – si chiede di mettere in campo un progetto fattibile con cui cercare di accedere ai finanziamenti statali (il famoso Fondo unico per lo spettacolo del ministero della Cultura), per cui è richiesto un periodo di attività continuativa che al momento latita.
Anche in questo caso converrebbe guardarsi attorno con umiltà, ispirarsi magari a esempi virtuosi nella gestione di strutture magari con meno storia ma più visione: dalla Fondazione che gestisce il Politeama di Catanzaro alla grandeur del nascituro (?) Museo del Mediterraneo impreziosito dal waterfront di Zaha Hadid a Reggio Calabria. Per ora un rendering magniloquente quanto il Museo di Alarico alla confluenza Crati-Busento.
Cosa c’era, cosa c’è
«A Cosenza (…) non c’è il problema di un assessore nuovo, manca invece il dibattito, la discussione politica e culturale e conseguentemente le scelte: quale cultura, quale arte, vogliamo per la nostra città?»: così Radio Ciroma nella lettera aperta “Per la cultura a Cosenza non serve un assessore ma una discussione”.
Si sa che, soprattutto a sinistra, il “dibbbattito” (no, il dibattito no!) finisce spesso per trasformarsi in una paludosa riunione di autocoscienza che si inviluppa, si invischia e involve fino alla produzione del Documento Finale; seguirà buffet.
Eppure per chi ricorda Petrucciani al Rendano, Ferlinghetti o Kusturica alla villa vecchia, i concerti di Lou Reed e Patti Smith o i tamburi del Bronxall’ombra dell’attuale ponte di Calatrava (nell’estate 1998 un totem più futuribile del planetario) fare un confronto con l’offerta culturale di oggi è alquanto desolante.
Non va meglio se si cercano luoghi di aggregazione.
Il grande Lou Reed, scomparso nel 2013
Dal momento che la neo eletta maggioranza non ha fatto mistero di rivendicare una impronta socialista e un legame con la rinascita manciniana – ben più della discutibile trovata grafica nel manifesto elettorale di uno dei candidati sindaco Civitelli –, al netto delle ristrettezze di cassa sarebbe allora il caso di ripartire da alcuni dei luoghi (pubblici) in cui il sindaco già ministro e segretario del Psi individuò altrettante opportunità di ripartenza, tanto più in questa fase post-pandemica.
Senza bisogno di scomodare le Invasioni – davvero un precedente troppo ingombrante benché recentemente brutalizzato come si sfregia un monumento – è il caso di citare almeno la Casa delle culture e la Città dei ragazzi: un non-luogo nel palazzo un tempo sede del municipio e un unicum che, nella zona nord della città, dopo vent’anni non riesce a trovare una identità per imporsi (tra i cubi di via Panebianco, di recente la lodevole iniziativa Bibliohub con le scuole).
La Città dei ragazzi su via Panebianco
Ora che si avvicina il primo Natale de-cerchizzato è forse il caso che dal dissesto locale e dalla crisi globale venga nuova linfa: crisi deriva dal greco krino, ovvero decido, ed è nei tempi peggiori che possono nascere le cose migliori.
Qualcosa in realtà a Cosenza non ha mai smesso di muoversi, e proprio nel centro storico che crollava sono nate nicchie di resistenza come Gaia, Arcired e Coessenza; ma altrettante premesse non sono diventate fatti: il Bocs Museum e la Casa della Musica forse sono gli esempi più lampanti di un torpore che prelude al fallimento pubblico.
L’interno del Bocs Museum a San Domenico
Conclusioni
L’impressione è quella di una città che non fa tesoro delle proprie potenzialità. A cinquant’anni dalla nascita, l’Unical resta un oggetto misterioso per la comunità eppure indicizzato tra le eccellenze accademiche italiane.
Altri fiori all’occhiello come il Conservatorio musicale “Stanislao Giacomantonio” continuano ad operare con non poche soddisfazioni e ricadute sociali oltre che culturali (con il decreto del Fus 2022 è stato peraltro annunciato dal ministro Franceschini un contributo straordinario per la nascita di orchestre stabili), così come alcuni premi (il “Sila ‘49” e quello per la Cultura mediterranea organizzato dalla Fondazione Carical) contribuiscono almeno ad ampliare lo sguardo oltre la dimensione strapaesana dei consumi culturali.
C’è una città che in questi anni ha continuato a lavorare nel silenzio e nell’ombra, ma con impatto e seguiti invidiabili, senza pietismi e lamentazioni: forse adesso chiede solo di ricevere, se non riconoscenza, almeno un po’ di ascolto.
Povera Catanzaro. Il suo destino sembra giocarsi di continuo tra le pretese di grandeur provinciale e suoi sogni di egemonia regionale, e i pesanti risvegli che puntualmente gettano la città capoluogo nel fango delle cronache. Molto spesso quelle giudiziarie. Come la recente inchiesta della DDA catanzarese, che dopo la tragedia del ponte di Genova ha fatto in tempo a far luce sugli appalti truccati del ponte di Catanzaro, inquinati da affaristi senza scrupoli e funzionari corrotti in combutta per lucrare sui finti lavori di messa in sicurezza del Ponte Morandi.
Ponte Morandi totem identitario di Catanzaro
Già, dici Catanzaro e ti figuri il ponte. L’opera pubblica-simbolo che di Catanzaro è diventata il totem identitario. La sua più grande celebrità. Era il 1963, appena pochi mesi dopo il taglio del nastro, e lo scorcio iconico di modernità raggiunta con il ponte, arditissima opera di ingegneria ammirata in tutto il mondo, entra eloquentemente in campo e conquista la scena in “La ballata dei mariti”, pellicola diretta da Fabrizio Taglioni, e interpretata da Memmo Carotenuto, Marisa Del Frate e da un calabrese di successo come Aroldo Tieri, protagonista di questa non indimenticabile commedia all’italiana, tutta di ambientazione calabro-catanzarese – anche molti interni furono girati in centro a Catanzaro, in quello che allora era l’elegante Albergo Moderno, altro vanto cittadino dell’epoca.
Il Grande Albergo Moderno di Catanzaro in una foto d’epoca
Vista dal ponte, bella o brutta che sia
Il viadotto sulla Fiumarella come fosse il suo ponte di Brooklyn, disegna ancora oggi il punto più alto e scenografico dell’inconfondibile skyline catanzarese. Vista da lì sopra, così com’è adesso, l’intera città, bella o brutta che sia (guai a sminuirla, Catanzaro per i catanzaresi è Parigi), è un museo all’aperto, il paradossale santuario di se stessa. Tutta la città trae identità proprio da questo suo simbolo identificativo, il brand sacrilego e universale del Ponte Morandi. Ancora oggi porta principale e unica via d’accesso alla città dal versante occidentale.
Questa è la più vera scultura concreta di Catanzaro, coessenziale alla città edificata in verticale dal calcestruzzo vertiginosamente innalzato come una ininterrotta torre di Babele dagli anni del boom fino a oggi. Il ponte che ancora oggi svetta sulla piccola Catanzaro storica è un’opera formato king size degna dell’enfasi impacchettatrice di un Christo, il monumento al presente in cui Catanzaro si celebra al suo meglio (e ora, stando alle cronache giudiziarie, anche al suo peggio).
L’unico ponte rimasto in piedi dei tre gemelli
Ogni volta che ci passo sfidando in auto il traffico delle ore di punta – qualche volta anche a piedi, esperienza, assicuro, da escursionismo no limits -, mi vengono i brividi pensando all’incredibile e inavvertita sottigliezza di quel lungo arcone in calcestruzzo armato, opera capolavoro degli anni del boom, universalmente conosciuta e celebrata. Costruito tra il 1959 e il 1962 su progetto dell’architetto Riccardo Morandi, quello di Catanzaro fu a lungo il primo ponte ad arco al mondo per ampiezza tra quelli a campata unica (l’unico rimasto in piedi di tre che gemelli che furono costruiti).
Il vento di Catanzaro
Il viadotto di Catanzaro, che un tempo sorgeva dal nulla tra i valloni coperti di ulivi e fichi d’india, si apre sulla città che oggi si disegna ininterrottamente da un capo all’altro dell’orrido spalancato sotto i palazzoni aggrappati all’orlo dei burroni in secca che scivolano verso le rive dello Ionio. È come una vertiginosa passerella tibetana, spaventosamente oblunga e tesa su una sola gettata di calcestruzzo che copre una luce di quasi mezzo chilometro.
Uno scenario astruso e indimenticabile che diventa ancora più impressionante in una giornata d’inverno. Quando una formidabile tramontana (il famoso vento di Catanzaro) soffia feroce come una bora e scuote le tre corsie automobilistiche e le due sottili fettucce pedonali che corrono ai lati del ponte infinito. Un vento così forte che imperversando sulla città cupa e infreddolita, culla il ponte e chi ci passa sopra per tutta la sua luce, accompagnando il transito con un sinistro dondolio.
I nuovi quartieri lungo la Statale 106
Sotto e intorno al ponte Morandi (poi ribattezzato “viadotto Bisantis”) la città dei due mari continua a riprodursi a soverchio più giù, avvampata dai rivoli di una colata di cemento che parte in alto dai colli della vecchia “Catanzaru”. Il centro antico raggomitolato intorno all’intrico di vicoli e vecchie case strette sulle mura del forte di origine araba e bizantina. Un riflusso ardente che si spegne solo quando il fiume di cemento tocca il doppio confine sull’orlo dei due mari dell’istmo, fino al lato della valle del Corace chiusa dalla grande borgata marina di Lido. Quasi 10 km più giù del ponte in riva allo Ionio, tra la Cittadella Regionale, l’Università Magna Graecia e la teoria dei quartieri nuovi cresciuti lungo la 106 ionica.
La Cittadella regionale
Sono i luoghi dispersi in cui tra grandi centri commerciali, raccordi trafficati e lungomari affollati, fermenta la vita dei “marinoti” catanzaresi. Qui vivono i nuovi abitanti di quella grande periferia che forma la Catanzaro del XXI secolo, che a quella vecchia sembra aver voltato definitivamente le spalle. Un vero e proprio centro sdoppiato che del corpo smembrato della città tra i due mari rappresenta già magna pars.
Capitale della Calabria
Ripassando a memoria molte delle vicende recenti di Catanzaro, capoluogo che ciclicamente reclama per sé il ruolo di “Capitale della Calabria”, anche invocando – accade proprio in questi giorni – una “legge speciale” che ne sancisca lo status, da antropologo e scrittore sono tornato ad interrogarmi, quasi in forma di apologo, sulla sua condizione sempre oscillante tra avvilimento ed esaltazione. A partire da una serie di storie e di circostanze rappresentative della sua avventura recente, ed esemplari anche della sua contrastata e contraddittoria immagine di città.
La felpa di Beppe Grillo
In una campagna pubblicitaria di molti anni fa, Beppe Grillo, allora in versione “solo comico”, si era prestato a fare da testimonial tv per una insolita serie di spot dello yogurt Yomo. Mentre gesticola e motteggia al suo solito modo, in questa buffa situazione (immortalata in sei o sette spot prodotti e andati in onda all’epoca), spicca un dettaglio dell’abbigliamento del comico. Grillo indossa una tipica felpa sportiva da college USA, che porta scritto, ben visibile e in un inglese a lettere cubitali, il logo “University of Catanzaro”.
Non ricordo se a quei tempi l’università a Catanzaro ci fosse già. Credo di no. Comunque la felpa “americana” indossata da Grillo era come se dicesse che nessuno in Italia poteva sognarsi che esistesse un ateneo con quel nome, in una città improbabile come Catanzaro. Il solo pensiero che all’epoca qualcosa come un’università potesse spuntare in un posto sgarrupato e arcaico come Catanzaro (questo era il sentiment di quel sottotesto) creava da solo un calembour così illogico e comico che quella felpa bastava a far ridere il pubblico di tutta Italia.
University of Catanzaro
In realtà anni dopo a Catanzaro la prima facoltà universitaria, distaccata da Napoli, fu quella di Medicina, mentre di sicuro c’era già l’Accademia di Belle Arti, anche quella popolata in origine da una colonia di docenti e artisti napoletani. L’Università di Catanzaro, quella vera, nel frattempo è nata ed è cresciuta assai. Nel 2012 finì nel mirino della Procura della Repubblica per un’inchiesta con 97 indagati, tra docenti, impiegati e studenti della facoltà di Giurisprudenza – eh, sono tradizioni -, per esami, lauree e carriere farlocche. Vicenda passata, che peraltro consolida l’immagine, non proprio amichevole, già fissata a futura memoria nell’immaginario proprio da quella prima agnizione comica di Grillo.
Lo spot è ancora lì su Youtube, che raccoglie sghignazzi per quella citazione politically uncorrect che motteggia e schernisce ferocemente la città del Ponte (Morandi) e delle tre V (Velluto, Vento, san Vitaliano), poi sede del chimerico ateneo catanzarese. «Ammè me piace! Troppo bella la felpa University of Catanzaro!». «Sì, troppo bella la felpa University of Catanzaro», scrive nel blog filogrilliano “lostinthesky”, un anonimo commentatore. Seguono numerosi cazzeggi e altrettante promesse di feroci vendette pronunciate da incazzatissimi utenti catanzaresi, ancora oggi feriti a morte dalla trovata comica di quella felpa derisoria di Grillo.
La Catanzaro sovversiva va a Cosenza
Fu invece l’Unical, sorta alla periferia di Cosenza, che divenne negli anni ‘80 il rifugio dell’intellighentzia protestataria e sovversiva di mezza Italia, guidata dal fisico Franco Piperno, nato catanzarese, come i filosofi Giacomo Marramao e il compianto Mario Alcaro, quest’ultimo, anche lui docente all’Unical, teorico che fu tra i fondatori del “Pensiero Meridiano”. Poi c’è, tra i testimoni di quella stessa generazione, il regista Gianni Amelio, che alla Catanzaro della sua non agevole formazione giovanile trascorsa al liceo Galluppi, e alla decisione della sua salvifica fuga dalle angustie e dai moralismi catanzaresi dei primi anni ’60, ha dedicato pagine intrise di nostalgica cattiveria nel suo romanzo “Politeama”
Il teatro Politeama di Catanzaro (foto Antonio Cilurzo)
Intitolato proprio come il vecchio e un po’ equivoco cinema-teatro cittadino. Politeama riesumato nelle linee eclettiche e zuccherose del nuovo monumentale teatro cittadino catanzarese, le cui forme ricordano per sovrabbondanza e discrezione gli strati di una sorta di enorme torta “gateau mariage”, opera pubblica firmata negli anni ’90 dall’archistar Paolo Portoghesi, divenuta in breve celebratissima gloria e vanto della Catanzaro dal look rifatto dei giorni nostri.
Il Tribunale controverso
Per secoli Catanzaro è rimasta, prima di quel fatidico ponte, una lontana città di provincia delle Calabrie, sepolta quasi in fondo a Sud. Un capoluogo minuscolo, scosso da un vento proverbiale, arroccato nella sua tradizione bizantina fatta di legulei, di prelati e massoni intriganti, di funzionari di governo e sottogoverno, di caserme, ospedali e distaccamenti militari.
La sede della Procura di Catanzaro
Il tribunale della città, ben prima degli scossoni prodotti dalle ultime inchieste di Gratteri, era noto per investigazioni fumose e processi nebbiosi, lentissimi e spesso controversi. Vi transitarono, per insabbiarvisi definitivamente, alcuni dei più scottanti processi politici, stranamente scivolati fin qui dal lontano Nord. Misteri italiani che vanno da Piazza Fontana ai tentativi di golpe destrorsi, dalle trame mafiose alle lobby politico-massoniche.
Tradizione durevole all’intorbidamento giudiziario, se scendendo per i rami si arriva fino al più recente affare “Why not” e alle indagini di Luigi De Magistris, che qui come magistrato inquirente finì defenestrato e dovette darsi alla politica. A Catanzaro, è risaputo, la giustizia aveva, e ha, secondo i gusti, vita facile o difficile, amministrata com’è tradizione da punti di vista e interessi piuttosto fungibili.
Effetti collaterali desiderabili
Ma la fitta cronaca giudiziaria e la lunga tradizione legulea catanzarese annoverano pure qualche risvolto diversamente utile e narrano anche di qualche effetto collaterale molto più fortunato. Fu infatti qui a Catanzaro che nel 1969 capitò per sbarazzare più agevolmente la pratica dei suoi esami di procuratore legale, a repentina chiusura di una svogliata vocazione di avvocato dalla carriera subitamente abortita, il non ancora cantautore Paolo Conte.
Il cantautore Paolo Conte ha fatto gli esami d’avvocato a Catanzaro prima di dedicarsi alla musica
Conte era uno di Asti che aveva fatto il militare come aviere a Cosenza. Seppe così che per diventare avvocato Catanzaro era la miglior piazza d’Italia, con ottime facilitazioni “ambientali” (lo sa pure la ex ministra Gelmini, anche lei generosamente transitata dagli esami di procuratore legale tra queste aule felpate). Mentre veniva giù in interminabili tradotte in treno da Asti, sapendo cosa lo aspettava a Catanzaro, città provinciale che ancora oggi non offre grandi distrazioni, aiutato dalla trance esotica del jazz e dalla noia di un alberghetto del centro, l’avvocato di Asti componeva da queste parti le sue prime stralunate canzoni.
Per l’eterogenesi dei fini così comune nelle faccende della Calabria e di Catanzaro, la città dei tribunali e delle caserme, dei ponti e del vento, può in fondo vantare questo suo accidentale e fortuito primato: aver causato un transito vocazionale, trasformando un procuratore legale di Asti scarso e frustrato in un immortale poeta della canzone d’autore. [CONTINUA…]
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