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  • Nicola Longo, il Serpico calabrese che stregò Fellini

    Nicola Longo, il Serpico calabrese che stregò Fellini

    In meno di un’ora di conversazione Nicola Longo riesce a raccontare una serie di aneddoti che una sola sceneggiatura poliziesca non basterebbe a contenere. Può menzionare uno per uno i mammasantissima calabresi che ha arrestato a Roma, parlare dei traffici di cocaina in cui si è infiltrato tra night e salotti della Capitale, ricordare come ha sgominato i laboratori dei marsigliesi che fornivano eroina a mezzo mondo, oppure ridere della somiglianza che Gerard Depardieu sosteneva di avere con lui perché voleva interpretare il film sulla sua vita.

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    Nicola Longo con Federico Fellini e la sua immancabile sciarpa rossa

    Il film mancato di Fellini sul Serpico calabrese

    In realtà lui pensava di avere più tratti in comune con Sylvester Stallone e sognava di essere impersonato da Robert De Niro, ma Federico Fellini, che pure ci credeva, non è mai riuscito a girare quel film. Su indicazione di Tonino Guerra – poeta, scrittore e sceneggiatore che ne ha parlato anche a Tg2 Storie – il regista aveva letto la prima bozza dell’autobiografia di Longo, La valle delle farfalle: gli era talmente piaciuta da fargli firmare subito un contratto. Il progetto per portare al cinema la vita leggendaria di quel poliziotto di origini calabresi, definito da Fellini «un poeta con la pistola», non è però mai andato in porto. Adesso quel libro è stato pubblicato da Rubbettino con il titolo di “Macaone” e una postfazione di Vincenzo Mollica.

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    Nicola Longo con lo scrittore e sceneggiatore Tonino Guerra

    Il poliziotto infiltrato per conto dei servizi segreti

    Le cronache della Roma nera degli anni ’70 e ’80 riportano spesso le imprese spericolate del «Serpico italiano». Lavora ufficialmente per la Narcotici, ma ancora prima di iniziare a fare il poliziotto viene contattato dai Servizi segreti. Dopo anni da undercover, infiltrato prima tra gli hippie di Piazza di Spagna e poi tra i trafficanti della Roma bene, finisce per collaborare a più operazioni di portata internazionale con la Dea. Mettendo le manette a boss della ‘ndrangheta e di Cosa nostra, oltre che a leggende del crimine come “Renatino” De Pedis (uno dei capi della banda della Magliana) e il boss corso-marsigliese Jack Masia.

    Da bullizzato a lottatore

    La sua avventurosa vita inizia nella Piana di Gioia Tauro degli anni ‘50, tra Taurianova e Polistena. Il padre, sottufficiale dei carabinieri, arresta qualche parente di alcuni suoi compagni di scuola che, per questo, lo bullizzano in ogni modo. O almeno ci provano, perché lui reagisce scoprendo che i suoi pugni fanno parecchio male. Ne nasce la passione per la boxe – ma in seguito diventa anche una promessa olimpica della lotta libera – che lo porta, nel 1962, ai Campionati italiani novizi di pugilato. È tra i finalisti dei welter leggeri e si scontra con un certo Casamonica, membro di una famiglia di nomadi stanziali nel Lazio di cui, anni dopo, avrebbe arrestato un parente che aveva importato dal Pakistan un carico di eroina nascosto dentro un blocco di marmo.

    Nicola Longo voleva diventare un boxeur

    «Volevo fare pugilato, non la guerra»

    A 17 anni entra nelle “Fiamme Oro”, i gruppi sportivi della Polizia, ma quando lo convocano per il ritiro della nazionale di pugilato deve fare una scelta. È stato infatti ammesso alla Scuola Allievi Sottufficiali e una strada esclude l’altra: o lo sport o la divisa. «Amavo la boxe – racconta a I Calabresi – e prima di entrare in Polizia avevo fatto un corso speciale nell’Esercito per incursori arditi. Mi dicevano che avrei fatto sicuramente una bella carriera militare, ma io volevo fare il pugilato, non la guerra». Si rivela decisivo un colloquio con il professor Franco Ferracuti, psichiatra e criminologo del Sisde. «Mi convocò nel suo ufficio ancora prima che prendessi servizio alla Mobile. E mi disse: “Il tuo destino è qua, nei Servizi”. Negli anni è diventato il mio mentore. Anzi, la mia ombra».

    Il mio nome è Massimo Macaone

    All’inizio degli anni ’70 comincia il lavoro di infiltrato per la Narcotici. Come prima cosa gli dicono di scegliere un nome falso e lui opta per Massimo Macaone, un omaggio a un esemplare di farfalla che lo riporta alle sue radici, ai pomeriggi assolati della Calabria, e che richiama un eroe omerico. «Con i capelli lunghi, una camicia aperta sui jeans sdruciti, scarpe logore e al collo un laccio di cuoio con appeso un dente di pescecane, mi confondevo con i giovani hippie di piazza di Spagna. Sulla scalinata di Trinità dei Monti avevo sistemato un cavalletto sul quale dipingevo miniature di paesaggi che vendevo ai turisti».

    Quando fece scappare un ragazzo di Rosarno

    Come gli è già capitato nelle guerriglie urbane con studenti e operai «che non percepivo come nemici», anche nei tossicodipendenti non vede avversari da sconfiggere «ma vittime da salvare». Scopre proprio a Piazza di Spagna quanto sia difficile fare amicizia con persone che poi potrebbe far arrestare. E gli capita anche di far scappare, di proposito, un conterraneo di Rosarno che sarebbe poi diventato una presenza costante della sua vita. Si fa chiamare Schizzo e della sua vicenda personale, narrata nel libro con la tenerezza del ricordo, si sarebbe innamorato anche Fellini.

    Nobile siciliano e narcos capitolino

    In un altro incarico da undercover assume l’identità di un nobile siciliano, Nicola Paternò, proveniente dalla Colombia e arrestato in Germania con una grossa partita di cocaina da piazzare a Roma, probabilmente nei locali notturni. L’arresto non viene reso noto, così lui si può spacciare per il barone siculo infiltrandosi nel giro dei night. Per completare la trasformazione, da fricchettone a nobile playboy con la Mercedes messa a disposizione dal Ministero, si sarebbe reso necessario un passaggio dal barbiere. Ma anche un corso di galateo con madame Annie, nobile di origini austriache a cui qualche tempo prima avevano rubato i gioielli di famiglia. Che proprio lui aveva recuperato «arrestando due tossici mentre tentavano di rivenderli».

    La sparatoria e l’arresto di Vallanzasca

    Ha condotto sotto copertura diverse operazioni contro il riciclaggio di denaro sporco e il traffico internazionale di armi. È stato pure protagonista dell’azione che dopo una sparatoria per le strade di Trastevere ha portato all’arresto di Renato Vallanzasca e della sua banda. Nel 1978 è rimasto gravemente ferito, per la seconda volta, in un conflitto a fuoco. Durante la convalescenza scrive un racconto destinato alle scuole per la prevenzione della tossicodipendenza. È il suo esordio con la scrittura. E quando Guerra lo legge non può che incoraggiarlo a continuare.

    Il Serpico calabrese Nicola Longo con il maestro Federico Fellini

    Stregato da Fellini

    C’è un bel po’ di Calabria in “Macaone”, dall’infanzia nella Piana alla violenza delle faide, con le parole del padre che gli tornano spesso in mente: «Uno ’ndranghetista vale quanto una penna lasciata al vento o quanto l’oro di tutta Francia». Nel Cinema Italia di Polistena, dove aveva visto “La Strada”, è nata la sua passione per quel mondo. Di nascosto era riuscito a portarsi a casa delle lastre e aveva messo in piedi, con una scatola bucata e una pila elettrica, delle proiezioni casalinghe su cui ricamava storie inventate. «Quando lo raccontai a Fellini – confida – disse che ce l’avevo nel sangue e che avrebbe voluto insegnarmi a fare il regista».

    Il regista si fa portare da lui in moto in giro per Roma, spesso di notte, a scegliere i luoghi che avrebbero dovuto essere il set de La valle delle farfalle. Poi però tutto naufraga a causa di alcune divergenze tra Fellini e il produttore, ma si parla anche di pressioni arrivate dai vertici nazionali della Polizia. «Lui non ha mai smesso di pensarci – spiega Longo, e la lettera inviatagli dal regista nel luglio del 1989 lo conferma – e penso volesse fare qualcosa che richiamasse il neorealismo. Giulietta Masina, dopo la sua morte, mi confermò che ai piani alti del Viminale non volevano che il film si facesse, dicevano che era per non mettermi a rischio… mah».

    La lettera inviata da Federico Fellini a Nicola Longo

    Da poliziotto a scrittore

    Di certo il pericolo, dopo una vita di adrenalina e storie folli che oltre al fiato sospeso custodiscono anche una certa sensibilità, non sarebbe stato una novità per Longo. Come non lo è l’ennesima trasformazione, la sua seconda vita: da poliziotto a scrittore. «La Polizia è come il resto del mondo, al suo interno c’è il bene e c’è il male. Ma io ora mi sento uno scrittore, è questa la mia nuova strada». Così, prima di salutare il cronista «paesano» con altri episodi degni dei polizieschi di Enzo G. Castellari o di quelli con Tomas Milian che lui stesso ha ispirato, spiega che sta già lavorando al seguito di “Macaone”. Le storie non gli mancano. E sa anche come raccontarle.

    Nicola Longo ha ispirato persino Tomas Milian (a destra)
  • Pasolini 100 anni dopo: la Calabria, i banditi di Cutro e quella ragazzina di Crotone

    Pasolini 100 anni dopo: la Calabria, i banditi di Cutro e quella ragazzina di Crotone

    Nell’estate 1959, a Roma, Pier Paolo Pasolini 37enne non era ancora l’autore di successo che sarebbe diventato di lì a poco grazie al cinema. Scriveva qualche sceneggiatura, aveva appena pubblicato il suo secondo romanzo e collaborava sporadicamente con delle riviste. Per Successo, il mensile milanese diretto da Arturo Tofanelli, accettò di realizzare un reportage da pubblicare a puntate sui litorali italiani in piena stagione balneare.

    Il reportage di Pasolini

    Al volante della sua Fiat Millecento, accompagnato dal fotografo Paolo di Paolo, iniziò il suo periplo partendo dal confine franco-italiano, Ventimiglia, e da quello contrapposto, Trieste. Poi passò per le spiagge liguri e toscane (San Remo, Portofino, Santa Margherita, Forte dei Marmi, Viareggio, Tirrenia), le spiagge e le balere dell’Emilia-Romagna, arrivò a Roma (dove a Fregene incontrò gli amici Moravia e Fellini intenti al lavoro). Infine, prima di fare ritorno al nord, affrontò la parte del viaggio che più doveva attirarlo: il sud d’Italia.

    Napoli, Ischia e Capri, Maratea, Taranto, Gallipoli, Santa Maria di Leuca, Rodi Garganico, e quindi la Calabria e le sue spiagge. Pasolini non è un cronista turistico, è un poeta, e come tale descrive ciò che vede ma tende anche a idealizzare (le città biancheggianti, i grandiosi lungomari, i villini liberty incrostati d’ornamenti, le rotonde scrostate), a volte va oltre, ricorre al tipico immaginario pasoliniano, usa il linguaggio metaforico.

    Sulla strada per Crotone

    Sulla strada per Crotone incontra, illuminati dal sole, due uomini che gli fanno segno di fermarsi. Gli è stato consigliato di non farlo, ma lui, figuriamoci, si ferma e li fa salire a bordo: la curiosità dello scrittore è più forte della prudenza. Nei discorsi di quelle persone emerge la durezza della loro vita, il lavoro precario, i mezzi di trasporto che mancano (ogni giorno devono fare venti chilometri ad andare e tornare). Gli dicono anche che quella è una zona pericolosa, di notte è meglio non passarci, fermano le macchine e rapinano, qualche tempo prima c’è scappato pure il morto. Forse un po’ suggestionato da quelle parole ecco che Pasolini arriva a Cutro, che spicca in una specie di altopiano.

    Cutro, il paese dei banditi

    E scrive così: «Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il lungo viaggio. È, veramente, il paese dei banditi, come si vede in certi western. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano dal lavoro atroce, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia».

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    Pasolini a Crotone in occasione del premio conferitogli per Una vita violenta

    In realtà, nel suo testo, Pasolini precisa che il “paese di banditi” deve intendersi alla maniera dei western, poi ha anche parlato del fervore che precede la cena, l’omertà che in quel luogo ha una forma lieta, vociante. Ma non basta, non basterà. Sarà lo scandalo, abbastanza devastante, anche perché il sindaco di Cutro querelò Pasolini per diffamazione a mezzo stampa, e questo avvenne, non a caso, proprio nei giorni in cui il suo romanzo Una vita violenta riceveva il Premio Crotone per la narrativa.

    La Calabria non si tocca, il sindaco querela Pasolini

    Nell’esposto del sindaco, si difendeva: «La reputazione, l’onore, il decoro, la dignità delle laboriose popolazioni di Cutro… le dune gialle, altro termine africano usato da Pasolini, sono punteggiate di centinaia e centinaia di casette linde, policrome, gaie, dell’Ente di Riforma dove la laboriosa gente del Sud, della Calabria, di Cutro, fedele al biblico imperativo, guadagna il pane col sudore della propria fronte». Una penosa questione ingigantita non solo dall’orgoglio e dal campanilismo, ma anche da un’astiosa polemica politica (il sindaco di Cutro era democristiano, l’amministrazione comunale di Crotone era comunista) e da una serie di interventi istituzionali (le aziende di soggiorno locali, il prefetto di Reggio Calabria).

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    Pasolini a passeggio con alcuni giovani di Cotrone

    Poi per fortuna tutto rientrò, la querela fu archiviata e soprattutto ci furono le spiegazioni. Pasolini scrisse lettere aperte e accettò incontri chiarificatori con intellettuali e studenti cutresi. Per lui – spiegò – «il termine “banditi” voleva dire “emarginati”, uomini banditi dalle classi dominanti che li sfrutta e spinge al crimine».

    Uno scandalo tra i tanti

    Era dunque uno spiacevole equivoco ma lo scandalo rimase e andò ad aggiungersi ai tanti scandali, più o meno gravi e dolorosi, che hanno accompagnato la vita privata di Pasolini (le denunce per corruzione di minori, addirittura un processo “per rapina a mano armata”) e la sua opera (da Accattone, suo esordio nel cinema, a Salò e le 120 giornate di Sodoma, uscito postumo, tutti i suoi film hanno avuto censure e sequestri). E questo fatto può spiegarsi solo con il modo di Pasolini di vivere il suo ruolo e il suo personaggio nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta.

    Cento anni dalla nascita

    Amato o odiato, lodato o rifiutato sempre sull’onda del pregiudizio, a cento anni dalla sua nascita (che ricorre il 5 marzo)  e a quasi mezzo secolo dalla sua morte tragica, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) è ancora con noi con le sue prese di posizione spiazzanti, le sue provocazioni, le sue anticipazioni quasi tutte avverate: la globalizzazione, il consumismo dell’effimero, lo sviluppo senza progresso, l’ecologia, le nuove forme di sfruttamento. Ma al di là dei giudizi di merito su un’opera così vasta e proteiforme (poesia e narrativa, cinema e teatro, saggistica politica, pittura, musica, danza), c’è una cosa che resta indiscutibile: la vera rivoluzione operata da Pasolini riguarda proprio la figura dell’intellettuale.

    Con lui si realizza per la prima volta quella che Tullio Kezich chiamò «l’integrazione dell’intellettuale italiano con la società contemporanea». Una figura, quella dell’intellettuale, fino allora chiusa nell’isolamento editoriale e accademico, e che solo con Pasolini si aprirà, in maniera violenta e irresistibile, ai mezzi di comunicazione di massa.
    Fuori dagli agi e dai comportamenti borghesi, intempestivo e provocatorio, agendo senza calcoli e cautele, c’era in lui certamente una voglia di protagonismo, quasi una spinta masochistica a “venire alle mani” con il giudizio corrente e nel mettere in discussione i valori di quella borghesia italiana da lui giudicata “la più ignorante di Europa”.

    Di qui, conseguentemente, l’infinita serie di scontri e scandali, di volta in volta con gli studenti del Movimento studentesco (quando prese le parti dei poliziotti “figli del popolo” dopo gli incidenti di Valle Giulia a Roma), con i radicali e le femministe (quando si schierò contro la legge sull’aborto), contro i comunisti (quando li sfidava sul piano della moralità e del conformismo), contro la DC (i famosi articoli-invettiva pubblicati sul Corriere della sera, poi raccolti in Scritti corsari).

    Pasolini e la Calabria: poca sintonia, tanto amore

    In questo contesto può apparire quasi secondario l’incidente di Cutro “città di banditi” e invece è significativo per comprendere la difficoltà di Pasolini a entrare in sintonia con la cultura del suo tempo e anche con una regione come la Calabria da lui sicuramente ammirata, come avrebbe dimostrato più volte con i fatti e con le opere. Tornò infatti a girare spesso in Calabria, proprio a Crotone e nelle vicinanze, alcune parti di Comizi d’amore (1963) e Il Vangelo secondo Matteo (1964, le scene del lago Tiberiade). Era di famiglia calabrese Ninetto Davoli, che accompagnò a lungo la sua vita e partecipò a gran parte della sua filmografia, erano calabresi la Madonna giovane de Il Vangelo (Margherita Caruso) e San Tommaso (il partigiano Rosario Migale).

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    Margherita Caruso ne Il Vangelo secondo Matteo

    Ma con Pasolini non si smette mai di avere sorprese. Gianni Scalia, scrittore e suo amico affettuoso, avvertiva: «Su Pasolini bisogna essere sospettosi e interrogarlo nell’unico modo possibile. Dovremmo forse essere cattivi interpreti, non prenderlo alla lettera, e prendendolo alla lettera, trascinarlo nelle nostre contraddizioni, mescolarlo alla “nostra” vita». In molti casi la “nostra vita” erano le beghe politiche, i pregiudizi culturali, le ritorsioni. Tradurre Pasolini, interpretarlo, è quindi necessario, mai imbalsamarlo. Che è un’indicazione di lavoro utile e, insieme, anche la conferma della particolare attualità di un’opera che a distanza di anni continua a parlare al cuore e all’intelligenza delle persone.

    Ma che cos’è questo onore?

    A me è capitato, facendo la curatela di un libro dedicato all’opera omnia di Pasolini, di rivedere tutti i suoi film e rileggere tutti i suoi scritti. Le sorprese non sono mancate, e una riguarda proprio la Calabria e i calabresi. All’inizio degli anni Sessanta, Pasolini girò il film-inchiesta Comizi d’amore, ancora una volta in anticipo sui tempi, dedicato all’educazione sessuale degli italiani. Quella era l’Italia del “miracolo economico” (tassi di crescita quasi del 6%, indici di produzione e consumi costantemente positivi), ma sulla cultura e sul sesso il risultato è di un’arretratezza spaventosa. E questo dato riguarda il nord esattamente come il sud, gli operai delle fabbriche di Monfalcone come i frequentatori delle discoteche romagnole, come i bagnanti delle spiagge meridionali.

    Pasolini interroga intellettuali (Ungaretti e Moravia), psicoanalisti (Musatti), cantanti famosi (Peppino Di Capri) e calciatori del Bologna (Bulgarelli e Pascutti), ma soprattutto gente comune. Ai bambini chiede se sanno come sono nati, agli adulti l’importanza data alla verginità nelle donne, l’infedeltà coniugale, il divorzio, l’omosessualità. Un po’ si diverte, un po’ provoca, un po’ s’indigna per il maschilismo di certe risposte, per l’arrendevolezza complice delle donne.

     

    Anticonformismo a Crotone

    In uno stabilimento balneare di Crotone intervista soprattutto le donne, e le risposte sono di un’incredibile chiusura: la sacralità della famiglia unica e indivisibile, la supremazia del maschio, il dovere della donna a non dare scandalo.
    Ma ad un certo punto Pasolini si trova di fronte una ragazzina che davanti alla madre scandalizzata e furente dice che no, che secondo lei è giusto separarsi quando l’amore finisce. Pasolini l’inquadra a lungo in primo piano, il sorriso, la sicurezza.

    E per la prima e ultima volta nel film, lascia il suo ruolo di intervistatore neutro e con la sua voce fuori campo, un po’ emozionato, le dice: «Senti, treccina, voglio proprio dirti che la bella sorpresa della mia inchiesta è una ragazza come te, nel generale conformismo voi ragazze siete le uniche ad avere idee limpide e coraggiose». Questo accadeva sessant’anni fa a Crotone.

    Piero Spila
    giornalista e critico cinematografico

  • IN FONDO A SUD | Una Diamante non è per sempre

    IN FONDO A SUD | Una Diamante non è per sempre

    Diamante ha davvero un bel nome. Ma non è bastato. Non sarà capitale della cultura italiana nel 2024. Finisce così l’inseguimento del “grande evento” che avrebbe potuto cambiare la storia non solo del paese – spopolato d’inverno con meno di 5.000 abitanti, che d’estate diventano 50.000–, ma forse anche di un intero comprensorio che sogna da sempre di diventare meta del turismo che conta. Resta la realtà recente, luci e ombre, di questo piccolo centro della Riviera dei Cedri. Scosso anche, non molti giorni fa, da preoccupanti episodi di cronaca nera.

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    Diamante è nota anche per i suoi murales (foto pagina Fb Diamante Murales 40)

    Diamante da D’Annunzio a Cetto la Qualunque

    Diamante è un bel paese di mare, di quelli col mare sotto. Sorto intorno al 1630, colonia penale di galeotti trasferiti dai viceré spagnoli là dove c’era un tempo il porto dei Focesi, si dice che già ai tempi della Belle Époque da queste parti venissero in gita D’Annunzio e Matilde Serao. Palati fini, e strana coppia a volerci credere. Oggi è decisamente un altro vedere. Centro storico minuscolo e ancora bello. Il resto è un assedio di villette standardizzate stile immobiliarista à la Cetto La Qualunque, tutte assiepate sui bordi sbaraccati della Statale 18. Gli anni in cui Diamante è diventata quella specie di Positano dei poveri che si vede adesso, sono stati gli anni del debutto del cemento armato sulla SS18, la città-stradale della Calabria. E qui chi poteva ha fatto grandi affari.

    La giornalista e scrittrice Matilde Serao

    L’estate dei cosentini

    Adesso d’estate c’è il chiasso del turismo dei grandi numeri del Peperoncino Festival, l’inquinamento, la smania di apparire. Diamante è da sempre la scena estiva dei cosentini-bene e di tutti gli autoconvocati del generone politico di sopra e sottogoverno, che qui hanno villa e tengono corte. La sera sul lungomare è una sfilata di yachtman di provincia col Paul Picot al polso, sfoggio di soubrettine glamuor e completini Henry Lloyd.

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    Riccardo Scamarcio ospite della ventinovesima edizione del Peperoncino Festival

    Il paesino ad agosto si trasforma in un labirinto di club privè che accoglie quelli che da queste parti vogliono, fortissimamente vogliono, champagne e posto-barca a Diamante. Anche se quella del porto turistico da costruire proprio sotto la bella passeggiata a mare è una vicenda che va avanti da anni tra inchieste, scandali sugli appalti, stop e proroghe. Un porto delle nebbie che non c’è, e quel poco che c’è è abusivo, brutto e molto malmesso.

    La Diamante di Matilde Serao

    Pare invece che la definizione di “Perla del Tirreno” attribuita a Diamante sia una stima d’affezione proprio dalla spiritosa Matilde Serao (come, un ‘diamante’ che diventa una perla?). Lei che fu la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, il Corriere di Roma, candidata al Nobel per la Letteratura per ben sei volte, scoprì questo tratto di costa e restò stupita che ci fosse spargimento di tanta bellezza anche più giù di Sorrento, Positano e Capri. Così fuorimano, nelle vecchie Calabrie. Pezzi di paradiso, e la Serao si innamorò di Diamante. Meglio dire, di quel Tirreno d’altri tempi, limpido e profumato che allora si vedeva sotto la balaustra del costone della vecchia camminata a mare che dava riparo alle piccole case e alle barche da pesca del borgo marinaro.

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    Alla giunonica Donna Matilde, la Diamante limpida, cenciosa e odorosa di pesce degli anni della Belle Époque piacque. Era un posto più saporoso e bello della solita Costiera amalfitana, una variante marinara del suo Paese di Cuccagna napoletano. Oltre l’affaccio sul mare c’era la bellissima scogliera, ampia come un enorme acquario, da cui era possibile vedere “pesci di ogni genere, ricci di mare, patelle, capelli di mare”. Una peschiera naturale, ghiottonerie e un vero spettacolo all’aperto. I polpi con le tane nella scogliera si pescavano con il “coccio”: bastava immergere in mare una vecchia “lancella”, la brocca di terracotta che teneva in fresco l’acqua da bere. Poteva farlo anche uno scugnizzo, che da sopra gli scogli tirava su con lo sagola il coccio con il polipo dentro, già pronto per andare in pentola.

    Un mare di cemento (e non solo)

    L’acquario della Serao ora è morto da un pezzo. Pescatori non ce ne sono più. I paesi di mare sul Tirreno, adesso che pure loro si fanno chiamare borghi, hanno accecato il mare con il cemento. Come a Diamante, hanno perso il mare e i pescatori, hanno perso l’amore degli occhi delle amate alla finestra.

    La scogliera naturale con l’acqua bassa e trasparente – così ancora fino a qualche anno fa – è destinata tra breve a far posto ad un nuovo scempio. Il progetto prevede che sia ricoperta da un sarcofago di cemento. L’interramento servirà a fare di quello che resta della bella scogliera di Diamante il piazzale dell’ennesimo porto turistico. Una rastrelliera di acqua morta per lasciarci a mollo un po’ di barche da diporto e i motoscafi dell’upper class locale a caccia di status. Al posto degli scogli, dei pesci e dei polpi, le barche e gli yacht che dovrebbero risolvere la crisi del turismo e la moria di lavoro post-covid.

    Il mare, la risorsa primaria del turismo delle spiagge e delle seconde/terze/quarte case. Pure su questo fronte poco di buono da dire. La stagione ormai anche qui non si schioda dal pienone le due settimane-due. Tanto che gli immobiliaristi ormai non vendono più neanche una villetta, pure se le danno via a prezzi d’inflazione. Lo stato delle acque di balneazione. Una situazione folle che ormai non si nasconde più neanche con il rito delle promesse e con le rassicurazioni pelose di amministratori e tecnici. Ogni fine primavera, puntuale come il destino, una macchia di schiume marroni larga e limacciosa viene a galla a pochi metri dalle spiagge.

    Teatro di chiazza

    Resta lì a fare compagnia ai bagnanti e ai pendolari delle vacanze low cost che traghettano qui per il poco che restano. Ogni anno è uno psicodramma. Con l’acqua che diventa sempre più torbida e sospetta e i turisti, sempre di meno, che invocano l’intervento della magistratura e poi scappano via. Naturalmente i sindaci si discolpano, la Regione pure, i giornali strillano allo scandalo e poi ospitano lamentele e accuse bipartisan. Insomma un teatrino. Nessuno fa niente. A volte la Procura interviene e sequestra qualche depuratore arrugginito. Troppo tardi, con i turisti e i bambini già a mollo nella mota, a stagione balneare in corso, quando picchia il sole, suscitando l’ira degli albergatori, le proteste convenienti degli amministratori, lo stupore dei cittadini e l’indignazione degli stessi poveri turisti implacabilmente fottuti.

    A parte qualche commendevole episodio giudiziario, la fabbrica di merda che ogni anno ammorba Diamante e il resto del Tirreno Cosentino continua a girare indisturbata, a pieno regime. Ed è un peccato, perché tra Praia a Mare, Diamante e Amantea, sulla bella costa luminosa del Tirreno non si vivrebbe affatto male. Sono luoghi ospitali e naturalmente ricchi di bellezze e di benedizioni, nonostante il demente ingolfamento edilizio. Insomma, se rivedesse adesso Diamante pure Donna Matilde si dispererebbe. Invece gongolano il ricco farmacista cosentino, l’esotico diportista napoletano, il commercialista e l’avvocaticchio rampante. Tutti con la barca a mare. Questi i turisti, il turismo che avanza: tra gli avanzi.

    La chiesa di San Biagio a Diamante

     

    Diamante d’inverno, voci nel deserto

    Dopo il casino rutilante delle ferie d’agosto, scomparse le folle in fermento dei vacanzieri napoletani, in posti come questo dipendenti dall’agitazione psicotica del turismo estivo, resta da smaltire la noia mortale degli inverni di 10 mesi.

    Inverni che coi capricci climatici sembrano, un giorno sì e uno no, quelli delle coste atlantiche del Mare del Nord o quelli del Nordafrica. Variabilità che anche potrebbe tornare utile ad un turismo ben fatto, che tiri fuori davvero dall’ombra la natura violata, il mare, le bellezze del paesaggio, qualche discreto attrattore cultuale e non forzi esclusivamente il suo appeal su peperoncino, discoteche e murales. Nessuno qui pensa a un parco marino, a un’area protetta. Nessuno vuole salvare quello che resta del mare, della natura, delle risorse archeologiche. Neanche qui a Diamante, la riviera dei cedri, la “perla del Tirreno”.

    Qualche voce nel deserto da queste parti resiste e testimonia per l’impegno culturale e il cambiamento. Fabrizio Mollo docente universitario e archeologo di fama , scopritore di importanti siti archeologici e allestitore dei pochi, e purtroppo trascurati, musei archeologici sparsi su questa costa; Enzo Ruis vignettista talentuoso che racconta con dolente ironia la sua Diamante, i matti del paese, i personaggi più iconici e coloriti di chi se ne va; Francesco Cirillo, ambientalista riottoso e da sempre contrario a speculazioni e abusi edilizi; Francesco Minuti, giovane pittore che a Diamante realizza con successo la sua pittura raffinata e iconica come quella di un artista rinascimentale, imprimendola però sugli scafi e il fasciame scrostato delle vecchie barche oramai arenate e inservibili.

    Un bar che si chiama Desiderio

    Vicinissime a Diamante e al suo prossimo porto, si stagliano le uniche due isole calabresi, Cirella e Dino. Sono ancora belle, sulla costa massacrata del Tirreno, davanti al mare di tutte le storie. Ormai vicine, vicinissime a questi paraggi di costa incasinatissimi e trafficati, zeppi di albergoni vuoti, discoteche, gelaterie, pizzerie e ipermercati. Se ne stanno lì solitarie e tristi a poche bracciate dalle riva, tonde come carcasse rigonfie di capodogli spiaggiati. Due mucchietti di rocce e di terra calabra ammonticchiati in acqua. Appena un’ombra sotto la linea ininterrotta dell’orizzonte del tramonto immenso che cala senza ombre sul Tirreno.

    I ruderi di Cirella e l’isola omonima

    La scogliera di Cirella verso l’imbrunire è un mare grigio di scogli appuntiti. Irti come spuntoni di bottiglie rotte da ubriachi che si lasciano dietro vetri scheggiati e una spiaggia scorticata dal maestrale. A Cirella anni fa c’era un bar che fu a lungo uno dei luoghi dell’estate: una fermata obbligata. Il bar si chiamava “Desiderio”, come il tram della pièce di Tennessee Williams o forse più banalmente era il cognome del proprietario. Non saprei dirlo, suonava bene però. Adesso anche il bar Desiderio non c’è più. Chiuso, per una brutta storia.

    Mentre vado via in auto sulla 18 trafficata, i monti aguzzi e seghettati che sovrastano Diamante all’imbrunire sono come le guglie e i pinnacoli di un solenne duomo di pietra. Per un attimo tolgono di mezzo gli spropositi del cemento, tutta la fatua noncuranza e la prepotenza che si agita di sotto, sulla strada delle vacanze. «Cosa mi rimane? L’azzurro là in alto, e l’inquietudine, da niente, proprio da niente domata, che la vita, nonostante tutto, sia poi vasta, precaria e insieme inesplicabile: che sia romanzo, anzi una prigione, questa, dove tutto si rispecchia e irrimediabilmente abbacina». Diamante, Enzo Siciliano (Mondadori, 1983).

  • Non solo Bronzi, i tesori da scoprire sotto i nostri mari

    Non solo Bronzi, i tesori da scoprire sotto i nostri mari

    La Calabria ha 800 km di costa, da queste acque sono passate navi dei Greci e dei Romani, di Garibaldi e degli Americani. Ma il mare per i calabresi ha anche un significato più ampio. È una minaccia sin dai tempi delle incursioni saracene e, al contempo, è anche una importantissima risorsa, un fattore di sviluppo. A proposito di mare, nel 2022 ricorrono 50 anni dalla scoperta dei Bronzi al largo della costa di Riace nell’ormai lontano 1972. «Si è discusso molto senza trovare un accordo su una questione che resta fondamentale: la possibilità che la coppia di statue costituisse in origine un gruppo più ampio. In realtà nulla sappiamo sulla composizione del carico», scrive Maurizio Paoletti nel libro, edito da Donzelli, Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace.

    Vestiti come dei Bronzi per Sandro Pertini

    Considerati il simbolo per antonomasia della Calabria, utilizzati a volte con esiti poco felici, hanno fatto scatenare più volte polemiche a livello nazionale. Le due statue bronzee – con particolari in argento, calcite e rame – sono tra le testimonianze più significative dell’arte greca classica. Secondo l’Istituto centrale per il restauro di Roma, furono prodotte direttamente ad Argo in Grecia nel V secolo avanti Cristo. Sandro Pertini, rimase folgorato dalla loro straordinaria bellezza e nel 1980 decise di farle esporre al Quirinale. Oggi i Bronzi sono la principale attrazione del Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria e si poggiano su basi antisismiche progettate dall’agenzia Enea.

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    La Testa del filosofo

    Il museo più visitato in Calabria

    I numeri del museo dal 2016 al 2020 parlano chiaro: qui sono arrivati quasi 900 mila visitatori. Corrispondono alla metà delle persone che negli stessi anni hanno visitato tutti i luoghi culturali gestiti dallo Stato in Calabria. Dal rimanente fasciame del relitto di Porticello (datato tra il 470/440 ed il 420 a. C), nello stretto di Messina, arrivano gli altri tesori esposti ora nella sala con i Bronzi: la Testa del Filosofo e la Testa di Basilea. Cosa c’entra la Svizzera con una scultura greca trovata in fondo al mare? Semplice: la Testa era conservata in un magazzino del museo di Basilea, dopo essere stata trafugata. Solo in seguito ritornò allo Stato italiano.

    Archeologia amatoriale

    La cosiddetta archeologia subacquea qui in Calabria nasce negli anni ’70, proprio con questi due rinvenimenti fortuiti: il relitto di Porticello e i Bronzi di Riace. «Se il rinvenimento del relitto di Porticello fu effettuato nel corso di scavi clandestini, la piaga dell’archeologia subacquea dalla quale nemmeno la ricerca terrestre è esente, quello dei Bronzi di Riace si verificò durante lo svolgimento di un’attività amatoriale, anch’esso un caso classico in questo campo di indagine», ci spiega l’archeologa Maria Teresa Iannelli.

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    Il relitto di Capo Bianco a Crotone

    Tesori sommersi: Calabria seconda solo alla Sicilia

    In realtà già nei primi anni del Novecento a Punta Scifo nel crotonese, l’archeologo trentino Paolo Orsi, con l’utilizzo di palombari, aveva rinvenuto un relitto antico. C’è comunque ancora tanto da scoprire nei fondali del nostro Mediterraneo? Gli esperti dicono di sì. Secondo la piemontese Alice Freschi, che ha condotto anni fa una serie di indagini con la cooperativa Aquarius per conto della Soprintendenza calabrese allora diretta da Elena Lattanzi, «in Italia il mare della Calabria è secondo solo alla Sicilia in termini di reperti sommersi e antichi relitti». Dalle ricerche effettuate, basate anche sulle tracce lasciate da Orsi oltre un secolo fa, si è potuto ricavare molto. Lo testimoniano le varie pubblicazioni scientifiche e alcuni musei archeologici calabresi.

    I resti del passato sepolti nei mari calabresi

    Turismo sostenibile in fondo al mare

    Il turismo archeologico subacqueo è un fenomeno in forte espansione ovunque nel mondo. E rappresenta anche un tipo di turismo sostenibile in grado di generare nei territori in cui è possibile svolgerlo un elevato ritorno economico.
    Salvatore Medaglia, ricercatore di Topografia antica presso l’Unical, spiega che «in Italia sono aperti alle visite alcuni siti archeologici subacquei. Ci si può immergere con guide appositamente autorizzate e secondo modalità specifiche. Si tratta di parchi archeologici come quello di Egnazia in cui è possibile visitare i resti sommersi del porto romano. O come nel caso di Baia, in cui alcuni diving convenzionati, con il consenso del Parco Archeologico dei Campi Flegrei, organizzano tour subacquei di grande suggestione tra le rovine di sontuose dimore d’età romana».

    Esposizione dei reperti subacquei nel Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria

    Il sentiero marino di Capo Rizzuto

    Anche in Calabria è possibile visitare siti archeologici sommersi? «Nell’Area Marina Protetta “Capo Rizzuto”, con il supporto della Soprintendenza – aggiunge Medaglia, che è anche docente di Archeologia subacquea presso l’Università della Tuscia – è attivo da alcuni anni un sentiero archeologico subacqueo, fruibile sia con l’autorespiratore sia mediante snorkeling sul relitto romano Punta Scifo D. Nella stessa area marina è pure possibile, sempre accompagnati dai diving autorizzati, visitare il relitto delle colonne romane di Capo Cimiti».

    D’altra parte «le acque crotonesi serbano una straordinaria concentrazione di testimonianze, forse quella maggiore del Mediterraneo». Medaglia, che insieme ad altri esperti ne studia da quindici anni i relitti sommersi, ricorda le centinaia di tonnellate di ceramiche e marmi che ha ammirato. Compreso «il più grande relitto lapidario di età imperiale che si conosca» a Punta Scifo D. Senza dimenticare le ultime ricerche in ordine di tempo nelle acque di Capo Rizzuto. C’è quella sul piroscafo Bengala – della flotta della “Navigazione Generale Italiana”, una delle maggiori compagnie europee dell’epoca – che naufragò lì nel 1889. O le indagini su due relitti del XVII-XVIII che «ha evidenziato la presenza di nove cannoni in ghisa, di due enormi ancore e di una bellissima campana in bronzo».

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    Tecnologie all’avanguardia targate 3D Research, spin-off targata Unical

    L’impresa spin-off nata all’Unical

    Praticamente un paradiso sott’acqua ancora in attesa di essere portato a galla. E che è possibile vedere, dunque, solo grazie a strumentazioni digitali e immersioni autorizzate. In questo campo la tecnologia ricopre un ruolo rilevante. Siamo andati allora a trovare all’Università della Calabria l’azienda spin-off 3D Research Srl che ha progettato, tra l’altro, dei tablet subacquei utili ai divers e videogiochi per gli smartphone.

    Si tratta di una realtà con 15 dipendenti nata nel dipartimento di Ingegneria Meccanica, Elettronica e Gestionale che lavora nel campo della valorizzazione e della tutela dei beni culturali. Fabio Bruno, professore associato di Virtual and Augmented Reality, guida un team di tecnici e ingegneri provenienti dall’Unical che ha praticamente rivoluzionato il modo di intendere queste antiche bellezze. Un’eccellenza tutta calabrese che si sta facendo valere in giro per l’Europa, partecipando a progetti di rilievo internazionale. Ecco cosa ha raccontato al nostro giornale.

     

  • Ottocento anni insieme: Cosenza festeggia la sua Cattedrale

    Ottocento anni insieme: Cosenza festeggia la sua Cattedrale

    Ottocento anni. Una data importante, un compleanno differente, quello che si appresta a festeggiare la Cattedrale di Cosenza, il grande tempio della nostra città, cuore vivo e palpitante dell’intero centro storico e che porta con sé i segni di cambiamenti, di passaggi, di disfatte e di rinascite. Il 30 gennaio 1222, alla presenza dell’imperatore Federico II, veniva solennemente consacrata per opera del cardinale Niccolò dé Chiaromonti, vescovo di Tuscolo e delegato apostolico, la Cattedrale di Santa Maria Assunta a Cosenza.

    Il ruolo dell’arcivescovo Luca Campano

    Nel 1184, un rovinoso terremoto aveva distrutto molta parte della Calabria, tra cui l’antica costruzione medievale del Duomo di Cosenza. A partire dal XIII secolo, con la nomina ad arcivescovo del monaco cistercense Luca Campano, già abate della Sambucina in Luzzi, oltreché collaboratore e scrivano di Gioacchino da Fiore, iniziò un importante e fondamentale lavoro di ricostruzione della Cattedrale cosentina.
    Luca Campano, figura centrale nei rapporti tra impero e papato tra la fine del secolo XII e gli inizi del secolo XIII, contribuì a rendere la città di Cosenza un crocevia culturale e politico di primaria importanza, posizione culminata con la presenza in città dell’imperatore, arrivato con un solenne quanto nutrito corteo imperiale, in occasione della riapertura del nuovo tempio cittadino.

    Il tesoro più prezioso della Cattedrale: la Stauroteca

    In occasione della consacrazione, inoltre, si fa corrispondere il dono, da parte dello Stupor mundi al Capitolo della Cattedrale, della preziosa croce reliquario in oro, pietre e smalti, contenente una reliquia della croce di Gesù Cristo e perciò detta Stauroteca. Il reliquiario, realizzato nei laboratori del Tiraz palermitano a cavallo tra XI e XII secolo rappresenta un raro e concreto esempio della convergenza multiculturale presente nella corte normanna di Palermo. L’opera riformatrice dell’arcivescovo Luca, e la sua capacità di mediazione con le strutture dell’Impero, a partire dallo stesso Federico II, trova il suo momento di massimo splendore e di coronamento ideale nella consacrazione della Cattedrale.

    La Stauroteca donata da Federico II

    Sepolture illustri

    Il rapporto con gli Hohenstaufen fu sancito da un ulteriore quanto drammatico accadimento. Nel 1242 a seguito della morte nei pressi di Martirano di Enrico VII, figlio di Federico II e di Costanza d’Altavilla, fu deciso che fosse sepolto nella Cattedrale di Cosenza, all’interno di un antico e prezioso sarcofago romano, decorato con scene della caccia al cinghiale di Calidone.
    A questa sepoltura regale, sempre all’interno della Cattedrale, si aggiunse dopo il 1271 il monumento funebre della regina di Francia, Isabella d’Aragona, moglie di Filippo III l’ardito; la regina, incinta di sei mesi del quinto figlio, quando di ritorno dalla sfortunata crociata di Tunisi, trovò la morte nella Valle del Savuto.

    La Madonna del Pilerio

    Nella Cattedrale è inoltre conservata l’antica e miracolosa effige della Madonna del Pilerio, patrona della Città di Cosenza e dell’intera diocesi; si tratta di un’icona attribuita dagli studiosi al XII secolo, immagine a cui tutti i cosentini sono intimamente legati.
    Questi brevi accenni alla storia europea dimostrano come nel corso degli ultimi otto secoli, le tante testimonianze materiali e documentali, richiamino il passaggio della micro storia e della macro storia nella nostra Cattedrale; ma la Chiesa madre, così è conosciuta nel popolo, ha svolto sempre un ruolo centrale nella vita religiosa, sociale e politica della comunità.

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    L’icona della Madonna del Pilerio, patrona della città di Cosenza

    Dai Telesio alle bombe

    Nella Cattedrale, insieme ad altre famiglie nobili della città, aveva il giuspatronato la famiglia Telesio, da cui nel 1565 divenne arcivescovo di Cosenza Tommaso, fratello minore del più noto filosofo Bernardino.
    In una cappella laterale hanno trovato iniziale sepoltura i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, unitamente ai loro gli eroici compagni; e poi le vicende che la videro protagonista durante la fine del XIX secolo, con una nuova e importate campagna di restauri, diretti dall’architetto Giuseppe Pisant; e ancora gli eventi bellici e i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale.

    La storia della città nella sua Cattedrale

    Nel corso dei secoli, la città ha sempre vissuto la piazza grande e la Cattedrale come un luogo centrale della propria vita nella fede, ma anche della sua esistenza sociale e culturale, lasciandosi attraversare.
    Gli 800 anni della cattedrale sono in qualche modo anche gli 800 anni della nostra città, sono la storia di Cosenza e dei cosentini. È nostro dovere celebrarne la memoria.
    L’azione programmatica non trova solo pieno riscontro nello specifico indirizzo religioso e teologico, ma vuole coinvolgere tutta la comunità e la cittadinanza, in quanto la conoscenza della storia, la conservazione del territorio e la sua tutela, oltreché la formazione alla loro consapevolezza, necessitano di una coscienza unitaria attiva e partecipata.

    Ottocento anni dopo: tanti eventi e un francobollo celebrativo

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    Il francobollo emesso per gli 800 anni del Duomo di Cosenza

    Il 2022 perciò deve essere anche, e soprattutto, un anno in cui iniziare, in cui partire dalla chiesa madre, e da li unirsi intorno a grandi progetti con uno sguardo di fiducia e speranza solida, un messaggio di vita: procediamo in questo anno giubilare e afferriamo la capacità di cogliere nelle nostre radici i valori che orientano il futuro, spesso meravigliandosi, e a credere con speranza in un progetto più alto cui guardare.
    Un anniversario, un anno di eventi, tra musica, arte, storia, esperienze immersive, circolazione di idee e di progetti, ma soprattutto la presenza di persone, nel riappropriarsi del tempo e dello spazio.
    L’anno di eventi pensato per celebrare questo ottocentenario si apre con un francobollo celebrativo e rappresenta un importante sforzo in tale direzione: trasversali e inclusive, le diverse iniziative si pongono infatti l’obiettivo concreto di fare della chiesa madre della città la casa di tutti, senza distinzione.
    Buon compleanno Cattedrale, e auguri a tutti i cosentini.

    Antonella Salatino
    Presidente Associazione 8centoCosenza APS

  • Galleria Nazionale, dove la cultura ha il weekend libero

    Galleria Nazionale, dove la cultura ha il weekend libero

    Gentile direttrice Rossana Baccari, gentile sindaco Franz Caruso, mi perdonerete per questa lamentela aperta, pubblica, ma sia sabato che domenica scorsa, ho tentato di fare visita alla Galleria Nazionale di Palazzo Arnone. Senza successo, perché ho poi scoperto, non senza rammarico e delusione, addirittura dalla pagina Facebook della Galleria, che sabato e domenica la Galleria è chiusa!
    A prescindere dallo stato di degrado e abbandono in cui versa l’esterno (non mi è stato possibile verificare l’interno), dai cartelli sbiaditi delle mostre, dalla (ex) segnaletica completamente illeggibile, sfido chiunque a rintracciare una qualsiasi minima informazione sul museo, sugli orari, sulle possibilità di accesso, su un telefono. Insomma, sull’attività di una istituzione pubblica regionale, di interesse nazionale. Ed è paradossale, ripeto, che si debba cercare, non senza difficoltà, tali notizie su un social, per l’unico museo pubblico importante di Cosenza.

    Tutti aperti, non la Galleria Nazionale

    Pertanto, sarebbe davvero un gesto civico, che apprezzerei non poco, se mi fosse spiegato perché mai i giorni di sabato e domenica, in cui ognuno di noi dispone di maggiore tempo libero (e in cui solitamente i Musei fanno il pienone), a Cosenza il Museo Nazionale invece è chiuso, contro la larga tendenza nazionale che prevede la chiusura il lunedì e l’afflusso maggiore nei weekend!
    Forse capisco da questo che i numeri risibili, circa 17.000 visitatori all’anno, per un Museo che contiene opere d’arte importantissime sono dovuti ad una scelta del tutto fuori dalla prassi consolidata. E per questo signor Sindaco, mi rivolgo a lei, per confermare il triste bilancio realistico che la cultura, l’arte, la bellezza, a Cosenza, sono Cenerentole di quella che lei si ostina ancora, con nostalgia, a chiamare l’“Atene delle Calabrie”!

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    Opere esposte alle pareti di una delle sale di Palazzo Arnone

    Un problema che va oltre i fondi

    Un Museo come questo, in una terra difficile e povera di spinte alla meraviglia come la Calabria, merita ben altra dinamicità. Merita di fare sistema, di essere guida di un modello diffuso di conoscenza su tutto il territorio. Merita di ospitare mostre ed eventi di livello nazionale, stimolare la conoscenza sulle Arti, ospitare con regolarità scolaresche, turisti, comitive di calabresi. E la sfida è proprio qui, ovvero sapere attrarre i visitatori in un’epoca in cui la competizione è sempre più tra reale e virtuale!
    Sono stanco e stufo, io come molti altri calabresi e meridionali, però di sentirmi rispondere che non ci sono fondi, perché non è questa la ragione. Temo invece non ci sia passione, entusiasmo, voglia di guardare oltre e cambiare un modello scontatamente perdente. Non c’è nemmeno cura, perché cambiare una sbiadita segnaletica, mettere su i paracarri, aprire i fine settimana costa pochissimo!

    Una proposta per la Galleria Nazionale

    Una proposta semplice: di recente, proprio il Ministero della Cultura ha stabilito che molte opere che giacciono nei magazzini dei grandi Musei, che non hanno spazio per esporli al pubblico, possano trovare luogo nei piccoli musei di provincia. Che possa essere questa la volta buona per un rilancio della Galleria Nazionale e l’apertura di altri spazi per l’arte? Per aprire un dialogo tra le città conurbate, tra enti pubblici e quel privato disponibile a investire e che gestisce spazi idonei, come il Castello di Cosenza, tra tutti, per offrire ai cittadini una scelta di selezione di luoghi da visitare, che contemplino secoli di storia dell’arte e non qualche brandello di mostre tra degrado e incuria?

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    La sede del Ministero della Cultura a Roma

    Sindaco, si faccia portavoce di una richiesta collettiva al ministro, e con la direttrice Baccari, arricchite le collezioni cosentine. Fate di questo Museo un luogo di eccellenze, attrattivo. Questo sì che sarebbe un bel segno di vitalità culturale, tanto semplice, immediato, ma di grande efficacia e lungimiranza, apprezzato dai calabresi e da chi ama l’arte e la bellezza!
    Con i più cordiali saluti e l’auspicio di stimolare una seria riflessione su temi dirimenti,

  • Un arcivescovo senza cattedrale lo trovi a Catanzaro

    Un arcivescovo senza cattedrale lo trovi a Catanzaro

    «Oggi mi costa non poter fare il mio ingresso sedendomi sulla sedia episcopale in Cattedrale, è un piccolo dispiacere. Vengo da una diocesi in Puglia in cui avevo la Cattedrale chiusa per restauri, ma con la differenza che erano restauri di qualche mese, mentre qui ho capito che servirà diverso tempo. Mi sono già affacciato dall’Episcopio: è una brutta visione, chiusa e abbandonata. La voglio prendere come una sfida. Non so per quali problemi sia chiusa, li posso immaginare, ma farò di tutto perché torni a splendere».

    Cinque anni dopo

    Domenica 9 gennaio era il giorno di insediamento di monsignor Claudio Maniago nella Diocesi di Catanzaro-Squillace. Il nuovo arcivescovo metropolita non si era nemmeno presentato alle autorità cittadine e già commentava con amarezza lo stato dell’arte sulla riapertura del Duomo, attesa ormai da un quinquennio. A seguito del crollo di parte del soffitto, infatti, l’edificio è chiuso da gennaio del 2017. Cinque lunghissimi anni che, dopo una serie di indagini tecniche sulla struttura e il suo interno, non sono bastati per veder partire i lavori di messa in sicurezza e di restauro. In compenso la piazza antistante e l’entrata del Duomo stesso, recintate da pannelli, sono diventate un parcheggio di auto affastellate l’una sull’altra.

    Auto in sosta nell'area recintata
    Auto in sosta nell’area recintata

    L’anniversario saltato

    Negli ultimi giorni del 2021 ricorrevano i 900 anni dalla costruzione della Cattedrale di Catanzaro, nessuno però ha potuto festeggiare. Era il 1121 quando Papa Callisto II la consacrò dedicandola a Santa Maria Assunta ed agli apostoli Pietro e Paolo. Numerose le stratificazioni di stili che, di restauro in restauro, nel corso dei secoli ne hanno modificato l’aspetto originario. La Cattedrale di Catanzaro subì poi una ulteriore trasformazione per i pesanti danni causati dai bombardamenti degli Alleati nel 1943. A inizio 2017 il crollo e la chiusura, con i lavori di somma urgenza per rimuovere l’impianto del campanile e l’area recintata e interdetta al pubblico.

    Le indagini sulla Cattedrale

    La Cattedrale di Catanzaro
    La Cattedrale di Catanzaro

    Il segretariato regionale del Ministero della Cultura, diretto da Salvatore Patamia, ha commissionato una serie di indagini conoscitive. Prima di avviare il restauro, ditte specializzate, dipartimenti universitari, tecnici e professionisti hanno dato il loro parere tecnico e scientifico sulle condizioni della chiesa, predisponendo la documentazione ed effettuando i rilievi necessari a far sì che l’edificio riapra. Nel frattempo si è arrivati all’estate scorsa, quando Invitalia ha finalmente pubblicato un bando per i lavori di restauro. Solo che riguarda solo la loro progettazione per il momento.

    L’attesa si allunga

    A settembre sono scaduti i termini per presentare le offerte. Dall’ufficio stampa di Invitalia sostengono che «nelle prossime settimane» dovrebbe arrivare anche l’aggiudicazione definitiva, salvo ricorsi, con la scelta dei progettisti. Il soggetto vincitore avrà 135 giorni per consegnare gli elaborati finali, poi toccherà rimettersi in attesa. A quel punto, infatti, bisognerà aspettare un nuovo bando, quello per affidare i lavori di restauro veri e propri. In sostanza, sembra che nella migliore delle ipotesi i cantieri apriranno a fine anno, quindi per riaprire il Duomo al pubblico servirà altro tempo. A pagare gli interventi di restauro saranno la Regione e il Ministero della Cultura, che hanno stanziato oltre 6 milioni di euro. Il Vaticano, invece, non pare nutrire grande interesse per la questione, al punto che il nuovo arcivescovo si è sentito in dovere di alzare la voce. Chi vincerà la gara, insomma, avrà gli occhi di Maniago puntati addosso.

    Niente adeguamento antisismico

    «Perché ancora non abbiamo la progettazione finale? Stiamo terminando – dice Patamia – le offerte tecniche della gara. La Cattedrale di Catanzaro – continua – sta crollando e bisogna partire dalle fondazioni, è stato fatto perciò un grande lavoro di diagnostica. Per tre mesi è stato tutto bloccato perché sono state trovate delle ossa umane all’interno della chiesa. È intervenuta la Procura: si trattava di alcuni preti sepolti lì nell’800. Non sarà possibile l’adeguamento antisismico, la struttura presentava ricostruzioni abusive e non conformi. Ma ci sarà un importante miglioramento in questo senso: la reputo una grande soddisfazione perché questo sarà un caso scuola». E le macchine parcheggiate nel piazzale antistante il Duomo di chi sono? «Per motivi di sicurezza abbiamo fatto un accordo con la Guardia di Finanza e ci mettono le loro auto».

    Quando riaprirà la Cattedrale?

    La piazza sarà probabilmente più sicura così, ma lo stesso non si può dire del destino dei fedeli che vorrebbero riavere la loro Cattedrale. La Catanzaro cattolica era già scossa dalle dimissioni, improvvise e senza alcuna spiegazione, dell’ex vescovo Vincenzo Bertolone nei mesi scorsi. I 5 anni – per ora – con il Duomo a porte chiuse non contribuiscono ad aumentare il buon umore nella comunità. Il crollo della struttura, dichiarata di interesse culturale e sotto vincolo, era solo un piccolo campanello d’allarme dei problemi attuali. Quanto tempo dovrà passare ancora prima di poter vedere riaperta al culto la Cattedrale?

  • Non solo cinema e libri nella cultura che diventa tik tok

    Non solo cinema e libri nella cultura che diventa tik tok

    Ma chi l’ha detto che cultura è solo il sapere ufficiale, pomposo, pesante e pedante. Di libri parliamo e di scrittori pure. Così come ci interessano le minoranze narrate nei libri di Carmine Abate. Elementi che facciamo convivere con le nuove forme di comunicazione delle giovani generazioni. Tik tok è cultura o meno? Noi non siamo così radicali e radical chic.  Abbiamo spesso riflettuto sul ruolo delle nostre università. Palazzi fortificati che non dialogano con il territorio. E la scuola? Non può essere cartografata da statistiche elaborate da un computer.

    Gli articoli che vi consigliamo di leggere. Clicca sul titolo:

  • L’archeologa scomoda che blocca il cemento sui ruderi romani

    L’archeologa scomoda che blocca il cemento sui ruderi romani

    Gli epiteti che Giovanni Giamborino le riserva, parlando con altre persone, non sono riferibili. E guardando a cosa emerge da questa incredibile vicenda – raccontata da I Calabresi in altri due articoli – si capisce anche il perché. Lui è una delle figure chiave dell’inchiesta “Rinascita-Scott” perché è considerato un faccendiere del superboss Luigi Mancuso. Lei è un’archeologa oggi in pensione che, fino a quando e come ha potuto, ha tentato di impedirgli di ricoprire di cemento i resti di una villa e di una strada romana nel centro di Vibo Valentia. Il cemento della ‘ndrangheta, almeno secondo la Dda di Catanzaro, alla fine ha però avuto la meglio sulla gloriosa storia di cui la città che fu Hipponion e Monteleone fa vanto. E che è stata calpestata nell’indifferenza di quasi tutti. Non di Maria Teresa Iannelli, rivelatasi un osso duro anche per chi, grazie ad amici e «fratellini», era abituato a vedersi aprire ogni porta.

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    Una parte dello stabile in costruzione sui resti di epoca romana
    Il maggiore del Ros Francesco Manzone ha spiegato in Tribunale che lei rappresentava un problema «insormontabile» per Giamborino. Perché? Cosa ha pensato leggendo le cronache di quell’udienza?

    «Non ricordo di avere conosciuto il maggiore Manzone, ma, a giudicare da quello che ha dichiarato, credo che abbia compreso appieno la vicenda dell’edificio realizzato da Giamborino. In effetti, già nel 1987, quando da tempo ero l’archeologo responsabile di Vibo Valentia, la Soprintendenza Archeologica della Calabria era intervenuta con vari provvedimenti di sospensione dei lavori.

    Nello stesso anno, alla luce degli importanti resti rinvenuti, è stato emanato un decreto di vincolo archeologico che, per quello che ne so, è tuttora in vigore. Per anni, nonostante il vincolo, Giamborino, e prima di lui la madre, hanno chiesto ripetutamente l’autorizzazione a costruire ottenendo categorici dinieghi. Evidentemente la fermezza e il rigore delle risposte hanno determinato la giusta convinzione dell’impossibilità di ottenere quanto richiesto».

    Avrà letto anche le intercettazioni che testimoniano il tenore dei contatti tra Giamborino e due archeologi, Mariangela Preta e Fabrizio Sudano. Se lo sarebbe aspettato?

    «Conosco da tempo la dottoressa Preta che, per qualche tempo, ha partecipato ad alcune campagne di scavo da me dirette. Come ho fatto con altri giovani colleghi, ho dato anche a lei la possibilità di introdursi all’archeologia. Ma successivamente ho interrotto ogni rapporto perché è venuta meno la stima necessaria. Il dottor Sudano è stato mio collega di Soprintendenza solo per pochi anni a ridosso del mio pensionamento. Con lui ho instaurato pochi rapporti formali. In ogni caso quanto ho appreso dall’articolo mi lascia profondamente sconcertata».

    L’incontro tra Giamborino, Sudano e Famiglietti monitorato dai militari del Ros
    In che modo aveva provato a fermare i lavori che Giamborino stava facendo su quelle antiche vestigia? Perché non ci è riuscita?

    «Fin dall’inizio dei lavori di sbancamento che hanno portato alla luce importanti reperti, la Soprintendenza era intervenuta con vari provvedimenti di sospensione dei lavori, che, però, il Comune ha ritardato a notificare, nonostante le mie sollecitazioni, consentendo così il parziale sbancamento dell’area. La presenza del vincolo e i dinieghi a costruire hanno, per molti anni, salvaguardato l’area.

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    Il palazzo costruito sui resti di una villa romana
    E poi cosa è successo?

    Nel 2015 il Soprintendente pro tempore mi ha informata della sua intenzione di concedere l’autorizzazione. Più volte le ho illustrato, anche con note interne, la notevole importanza archeologica di quell’area nell’ambito della città greco-romana, tant’è che l’autorizzazione è stata subordinata allo scavo delle pareti non ancora sbancate.

    Infine, il rinvenimento delle monumentali arcate medievali e del tratto di strada romana realizzata con grossi basoli, mi aveva fatto ben sperare in un ulteriore diniego a costruire. So che le attività di scavo sono proseguite anche dopo il mio pensionamento avvenuto il 1 maggio 2015. Quanto al non essere riuscita a fermare la realizzazione del fabbricato, mi sembra evidente che il mio parere di semplice funzionario sia stato superato a livello gerarchico».

    Che valore storico poteva avere quel sito ricoperto dal cemento?

    «Per farne comprendere la valenza storico archeologica basta dire che nella realtà urbana di Vibo, dove lo strato medievale si sovrappone a quello romano e questo a quello greco, dopo anni di ricerche a cominciare dall’Orsi (1921) fino ai nostri giorni, non si era mai trovato un asse viario di età romana che consentisse di conoscere, anche se parzialmente, l’impianto urbano romano».

    In quegli anni sentiva la pressione di Giamborino e degli ambienti (politica, massoneria, burocrazia) da cui secondo gli inquirenti avrebbe tratto vantaggi?

    «Le pressioni dei vari ambienti sono state fortissime e costanti in tutto il periodo in cui sono stata responsabile di Vibo Valentia. Ma la mia personale risposta, sostenuta dal Soprintendente che più a lungo ha diretto l’Ufficio (dottoressa Elena Lattanzi), è stata sempre molto risoluta e convinta. Affermando la prevalenza dell’interesse dello Stato e la priorità della tutela».

    Lei ha passato anni ad eseguire scavi e a dirigere diversi musei calabresi. A Vibo ha trovato un ambiente diverso rispetto alle sue altre esperienze?

    «Purtroppo la situazione descritta per Vibo si riproponeva, talvolta anche con maggiore esasperazione, anche nelle altre località e sedi museali di cui sono stata responsabile (vedi Rosarno)».

    3/fine

  • Un palazzo sui resti romani? Nella Vibo dei massoni si può fare

    Un palazzo sui resti romani? Nella Vibo dei massoni si può fare

    La grande storia calpestata, ricoperta di cemento e connivenze, passa per i contatti imbarazzanti tra un presunto faccendiere del clan Mancuso, Giovanni Giamborino, e alcuni archeologi con cui avrebbe avuto una certa confidenza e da cui avrebbe ricevuto più di un consiglio per ottenere l’ok ai lavori di un palazzo costruito ricoprendo una strada e una villa di epoca romana [LEGGI QUI LA PRIMA PARTE]. Succede – è successo – a Vibo, piccolo capoluogo calabrese considerato da molti una capitale di affari e intrecci non proprio trasparenti. Se lo siano o meno quelli al centro di questa vicenda spetta ai giudici stabilirlo, ma ciò che emerge dalle carte di “Rinascita-Scott” è quantomeno sorprendente per tanti cittadini che conoscono per esperienza diretta le lungaggini e le pastoie burocratiche cui si va incontro, magari giustamente, quando si ha a che fare con vincoli e Soprintendenze.

    La firma mancante

    Per Giamborino non era così: il finale della piccola storia di cui è protagonista è noto e non è per niente lieto. È riuscito a ottenere l’autorizzazione che cercava dopo aver messo in moto conoscenze e «amicizie» che vanno anche oltre i rapporti intrattenuti con Fabrizio Sudano, all’epoca funzionario della Soprintendenza e oggi al vertice dello stesso organismo che ha competenza su Reggino e Vibonese, e Mariangela Preta, archeologa che ha collaborato da esterna con la Soprintendenza e che oggi dirige il Polo museale di Soriano. Né Preta né Sudano sono indagati, ma gli inquirenti osservano come si dedichino all’iter che interessa a Giamborino. Che a un certo punto rischia di allungarsi perché serve una firma di Gino Famiglietti, già alto dirigente del Ministero e per un periodo anche alla guida della Soprintendenza calabrese, che però non è sempre nella regione e ha tante cose di cui occuparsi.

    Cambio della guardia, progetto sbloccato

    «Ma cerco di arrivarlo io a questo, a questo pagliaccio … perché io lo arrivo, a Roma lo arrivo non è che non lo arrivo…», dice il presunto faccendiere riferendosi proprio a Famiglietti. Che poi riesce effettivamente a incontrare proprio nel suo cantiere dopo aver contattato, in una triangolazione che ricorre spesso nelle intercettazioni, sia Preta che Sudano. L’alto burocrate non rimane però alla guida della Soprintendenza della Calabria. E dopo la sua sostituzione Giamborino riesce ad ottenere, tramite «interessi nonché interventi criminali e di soggetti appartenenti alla massoneria vibonese – scrive il Rosquanto non potrebbe legalmente avere: lo sblocco del progetto e la prosecuzione dei lavori».

    «Mi hanno detto che è un fratellino»

    Preta gli dice al telefono di essere a conoscenza di tutto: «Io so tutto e so anche una notizia più bella … che Famiglietti si è levato dalle palle …(ride) … te lo dico proprio in francese…». La guida della soprintendenza passa a Salvatore Patamia (anche lui non indagato), la cui nomina viene accolta con una certa soddisfazione. Preta rassicura Giamborino dicendo che «la firma» è questione di giorni e che non c’è più bisogno di mettere in mezzo terze persone. Ma l’impiegato pensa comunque a una sua personale corsia preferenziale: «Io ho il modo perché è intimo amico di un mio carissimo amico Patamia». E per chiarire il concetto dice: «Adesso m’hanno detto che è un fratellino, capito, quindi io già mi ero mosso e non ci sono problemi». Aggiungendo: «Se tu hai bisogno di questo qua, non ci sono problemi hai capito?». Preta risponde ridendo: «Questo è il dato in più che ci serve».

    Il compasso, uno dei più noti simboli massonici
    Il Gran Maestro

    Quando un’altra persona gli chiede chi fosse il «carissimo amico» Giamborino risponde che si tratta di «don Ugo». Secondo gli inquirenti è Ugo Bellantoni, inizialmente indagato ma poi uscito pulito dall’inchiesta con un’archiviazione, già responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Vibo e Gran Maestro Onorario del Grande Oriente d’Italia-Palazzo Giustiniani. Secondo la Dda sarebbe lui a procuragli un appuntamento con Patamia al Parco Scolacium di Roccelletta di Borgia. Mentre ci va, Giamborino scherza con la persona che è con lui in auto: «Lo vedi quanto sono precisi la massoneria? Quanto conta… La massoneria è come la maffia … (ride) …». L’incontro viene in realtà rinviato all’indomani, ma ciò che conta è il risultato: in pochi mesi, da gennaio a maggio 2016, Giamborino risolve i suoi problemi e arriva l’agognata firma sul progetto di variante.

    Cemento sui resti romani

    Se ci fossero dubbi sulle intenzioni dell’impiegato rispetto ai resti di epoca romana è lui stesso a spazzarli via: «Una volta che io vado là… Con mezzi… E sopra mezzi… Che devo vedere di nascondere già quelle muraCon quella cazzo di strada… Buttare il solaio… Per fare i lavori là…». E ancora: «La getto là sotto e apparo con la brecciadi modo che non si veda la strada che siccome deve venire la Soprintendenza… di modo non la vede per niente quella strada (…) Una volta che togliamo la strada poi dieci cm di terra dobbiamo togliere e la gettiamo là dentro stesso e le pietre le buttiamo là dentro … li mettiamo da un lato no? E dall’altro lato riempiamo di terra … poi … e poi gli gettiamo 4 5 6 carrettate di breccia per completarlauna volta che gli metto la breccia glielo copriamo là sotto e non vedono niente poi … vedono tutto paro loro … hai capito?».

    I resti di epoca romana catalogati

    «Ho paura della Sopritendenza»

    Nella stessa proprietà, conferma Giamborino, ha trovato «quella strada del 300una strada del 300… oggi ho buttato un muro… se mi beccano mi fanno rovinato… mi rompeva il cazzo quel cazzo di muro mi stavano sui coglioni… e l’ho buttato… adesso ho paura della soprintendenza». Commentando le tante tracce di storia che emergono in quella parte di Vibo l’impiegato dice che lì «c’è il tesoro più importante del mondo… è documentato e tutto… e infatti questo qua… qua dovevano fare un palazzo è stato fermo… è fermo da cinquant’anni… il mio da trenta… questo da cinquanta… io sono riuscito a svincolarlo… nessuno gl’altri sono riusciti a svincolarlo…».

    L’archeologa scomoda

    Per lui, come raccontato dal maggiore del Ros Francesco Manzone nell’aula bunker, c’era solo un unico, grande ostacolo. Una professionista, Maria Teresa Iannelli, che allora era responsabile della Sovrintendenza. «Per 25 anni non mi ha dato retta, non mi ha neanche ricevuto», dice sdegnato. E lei fino a poco prima di andare in pensione si è sempre messa di traverso, non ha mai dato autorizzazione per consentire che il cemento ricoprisse le tracce della grande storia. Ma il presunto faccendiere dei Mancuso è riuscito lo stesso ad aggirare l’ostacolo risalendo le gerarchie dei Beni culturali. «Io tramite Roma … Tramite il ministero … Tramite tutti … Sono riuscito a parlare con loro …».

    2/continua