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  • Bronzi di Riace: due statue, una sola persona?

    Bronzi di Riace: due statue, una sola persona?

    Sono trascorsi 50 anni da quel giorno del 1972 quando Stefano Mariottini, un appassionato subacqueo romano in vacanza in Calabria, riemerse dallo specchio di mare antistante Riace per annunciare una scoperta sensazionale. Aveva rinvenuto, adagiate sul fondale, quelle che si sarebbero rivelate due statue in bronzo. Ma, ancora oggi, c’è molta incertezza su chi ne sia stato l’autore o se provengano dall’Attica o dal Peloponneso. Buio pesto, poi, su chi o cosa raffigurino i due bronzi: non si è mai andati oltre il distinguerli come Statua A, quella con l’aspetto giovanile, e statua B, ritenuta quella di un uomo più anziano.

    Il Bronzo A all’epoca del ritrovamento. A sinistra, Stefano Mariottini

    Tante ipotesi sui Bronzi

    Su tutti questi aspetti, la ridda di ipotesi è davvero interminabile. Alcune sono più accreditate, ma le altre non sono state mai del tutto accantonate. Si è arrivati persino a sostenere che le sculture fossero opera di un bronzista reggino, Pitagora di Reggio, attivo dal 490 al 440 a.C., apprezzato per la sua capacità di rappresentare dettagli anatomici con verosimiglianza. D’altra parte, per avere certezze a riguardo servirebbe una macchina del tempo che permetta un balzo indietro di oltre due millenni. In mancanza di quella, ci si deve affidare alle fonti storiche e alla loro esegesi, farsi guidare da autori come Erodoto, Tucidide e Diodoro Siculo.

    Gli storici dell’epoca

    I primi due vissero entrambi nel V secolo a.C. e quindi c’erano negli anni in cui, presumibilmente, furono creati i Bronzi di Riace. E c’erano sicuramente all’epoca dell’alleanza tra Sparta e Atene in cui infuriava la guerra tra greci e persiani.

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    Una vecchia edizione de La Guerra del Peloponneso di Tucidide

    C’erano Erodoto e Tucidide e raccontarono, da contemporanei, storie di guerre ed eroi, ma anche di trionfatori caduti nella polvere. Come Pausania, uno tra i più giovani generali spartani, nipote del leggendario Leonida. Tucidide ne parla nel suo La guerra del Peloponneso. Pausania fu l’artefice della vittoria dell’alleanza tra Sparta e Atene sui persiani a Platea, ma era un uomo dall’irrefrenabile ambizione. Questo infastidiva gli alleati attici, che non lo ritenevano stratega affidabile. E ne erano consapevoli anche gli spartani, che ritennero di non affidargli più alcun ruolo nella guerra.

    Pausania, il generale che tradì Sparta

    Pausania era partito alla volta di Cipro al comando di venti navi, affiancato dalla flotta degli alleati. E dopo aver conquistato l’isola, si era diretto alla volta di Bisanzio strappando anche quella al dominio persiano. Ma la sua tracotanza e prepotenza indussero gli alleati a chiedere il comando ateniese nelle operazioni di guerra. Anche per Sparta il modo di operare del loro stratega assomigliava davvero troppo a quello di un tiranno. Il tempo trascorso dal giovane generale nelle varie campagne contro i persiani gli aveva consentito di approfondire le proprie conoscenze presso quei popoli.

    Nel Peloponneso c’era chi addirittura scorgeva negli atteggiamenti di Pausania un che di medismo. E, comunque, non era uomo che sarebbe rimasto fermo ad attendere una serena vecchiaia. Di propria iniziativa armò una nave per riprendere la lotta ai persiani, ma il suo fine si rivelò essere ben diverso: raggiungere accordi con i nemici e mettersi alla loro testa per marciare contro Sparta.

    Un’intercettazione ambientale ante litteram

    L’accusa mossa contro Pausania era pesantissima. Il suo destino era segnato, ma occorrevano prove davvero schiaccianti agli spartani per sostenere le accuse e giungere a una condanna. Quello che descrive Tucidide in merito alle indagini sembra essere il primo vero caso di quella che, ai giorni nostri, definiremmo un’intercettazione ambientale. Il giovane (ormai ex) generale spartano si rifugiò come supplice nel tempio di Atena “Calcieca” a Sparta e qui lo raggiunse un suo amico fidato.

    La conversazione tra i due avvenne in una sorta di capanna fatta piazzare appositamente dagli efori per carpirne, non visti, i contenuti. Pausania parlò delle pesantissime accuse di tradimento e della fondatezza delle imputazioni a suo carico. Era dunque un reo confesso, ignaro che ad ascoltarlo fossero proprio gli efori spartani alla ricerca di prove. Non occorreva altro per arrivare a una sentenza di morte.

    E l’oracolo disse: «Due bronzi per espiare il sacrilegio»

    Siamo nel 470 a.C,. Pausania ha 40 anni, la sua condanna è morire di fame e di sete all’interno del tempio di Atena. I carcerieri murano gli ingressi e scoperchiano il tetto dell’edificio. Contano di accorgersi in tempo del sopraggiungere dell’ora fatale ed evitare così che il prigioniero spiri tra quelle sacre mura, ma non fanno in tempo. Pausania muore, ancora quarantenne, nell’edificio dedicato ad Atena Calcieca, violando la divinità del luogo. Si stabilisce di gettare nel fiume le spoglie dell’ex generale.

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    La morte di Pausania (fonte Wikipedia)

    Ma – così racconta Tucidide – «il Dio, attraverso l’oracolo di Delfi, intimò agli Spartani di traslarne la salma nel punto stesso della morte (ancor oggi riposa infatti all’ingresso del santuario, come provano le iscrizioni di alcune stele). Ingiunse anche di espiare l’atto commesso, un sacrilegio grave, dedicando ad Atena Calcieca due corpi in cambio di uno solo. Furono così fatte erigere e consacrare alla dea due statue di bronzo, quasi a compenso di Pausania». Due statue in bronzo, dunque, erette per espiare un sacrilegio e per ripagare la divinità violata dalla morte di un uomo soltanto. Circa 2.500 anni dopo quei fatti due statue, finite lì a causa di un naufragio, affiorano dalle acque di Riace.

    I nomi più ricorrenti

    Chi raffiguravano dunque i due guerrieri in bronzo? I nomi più ricorrenti sono quelli di Eteocle e Polinice, fratelli, figli di Edipo, protagonisti della guerra contro Tebe, immortalati da una celebre tragedia di Eschilo. A seguire, nell’elenco dei probabili eroi raffigurati, vi sono Aiace e Oileo nonché Tideo e Anfiarao. Sull’identità dei Bronzi, ascrivibile a questi ultimi, il professor Paolo Moreno, docente di Archeologia e Storia greca all’Università La Sapienza si dice certo. Sostiene pure l’ipotesi che le due statue provenissero dalla città di Argo, nel Peloponneso.

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    Giovanni Silvagni, Eteocle e Polinice (1800 circa, fonte Wikipedia)

    Capolavori (e visitatori) a confronto

    I Bronzi custoditi nel museo di Reggio Calabria sono meravigliosi e questo potrebbe e dovrebbe bastare per attirare visitatori da tutto il mondo. Statue come quelle rinvenute a Riace nel 1972 se ne contano non più di cinque in tutto il pianeta, ma nessuna che possa gareggiare in bellezza con loro. Eppure la loro attuale dimora non è sicuramente tra le più visitate, neppure a livello nazionale, nonostante i Bronzi siano in ottima compagnia di reperti dal valore inestimabile. Il costo del biglietto per ammirarli è davvero irrisorio: si va dai 2 agli 8 euro al massimo.

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    I Bronzi nel Museo di Reggio Calabria

    Una volta l’accesso al museo era totalmente gratuito, omaggio alla logica dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, dove non si paga il pedaggio per incentivare i flussi turistici a venire al Sud. Detto ciò, si può fare un raffronto tra il museo calabrese e quello del Cenacolo Vinciano a Milano, celebre per la presenza di un affresco di Leonardo da Vinci raffigurante “l’Ultima Cena”. Lo spazio espositivo è ricavato in delle sale della basilica di Santa Maria delle Grazie. Per visitare l’opera occorre talvolta prenotare mesi prima, ci vogliono almeno 20 euro per un biglietto d’ingresso, mentre per un tour guidato ne occorrono quasi 45. L’accesso nella sala dove si trova l’affresco di Leonardo è fisicamente snervante: bisogna passare a piccoli gruppi attraverso camere stagne e comparti speciali dove si viene deumidificati. Ciononostante, il numero di visitatori è sempre in crescita e le attese, come detto, sono a volte lunghissime. Ma questa è un’altra storia.

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    Visitatori ammirano il Cenacolo Vinciano a Milano

    Esistono altri cinque bronzi?

    Dei Bronzi di Riace sappiamo tutto, tranne due cose: chi le ha create e chi rappresentassero. Abbastanza somiglianti tra loro la Statua A e quella B, quindi la tesi più accreditata circa la loro identità resta quella dei due fratelli Eteocle e Polinice. Ma perché solo due statue se i comandanti della spedizione contro Tebe erano sette? Da qualche parte, nelle profondità del mare, potrebbero dunque giacere altri cinque bronzi. Oppure soltanto Eteocle e Polinice hanno meritato il privilegio dell’immortalità bronzea per le loro gesta? Volendo tirare le somme, di elementi o, quantomeno di indizi, nel tentativo di dare una identità ai Bronzi di Riace, resterebbe l’episodio di Pausania raccontato dettagliatamente da Tucidide ne La Guerra del Peloponneso.

    Ma più in generale è utile soffermarsi sulla parte introduttiva di quel libro. Lì lo storico descrive il modo di vivere, di organizzarsi socialmente e persino di vestirsi dei peloponnesiaci. Ed ecco alcuni brani di quel racconto: “Furono i primi gli Spartani ad adottare un sistema di vestire misurato e semplice, moderno… Gli Spartani furono anche i primi a spogliarsi e, mostrandosi nudi in pubblico, a spalmarsi con abbondanza d’olio in occasione degli esercizi ginnici”.

    L’uomo che visse due volte

    Allevato per essere un generale, imparentato con Leonida, il leggendario condottiero delle Termopili; Pausania fu colui che un anno dopo quella disfatta ricacciò dall’Egeo i persiani, indeboliti nella battaglia navale di Salamina condotta da Temistocle. Lo scontro finale fra le truppe del giovanissimo generale spartano e quelle del re Serse avvenne a Platea nel 479 a.C. Neppure dieci anni dopo i trionfi, il generale Pausania, come abbiamo letto, moriva di fame nel recinto sacro del tempio dedicato a Atena Calcieca. Era spirato là dove non avrebbe dovuto, dove simile sacrilegio non sarebbe stato tollerato dalle divinità.

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    Gerald Butler interpreta Leonida nel film “300” di Zack Snyder

    Il morto aveva vissuto due volte: da eroe acclamato e da cospiratore, quindi da nemico. Non si potevano comunque trascurare i servigi che Pausania aveva reso alla patria infliggendogli dopo una fine terribile e miserevole riservata ai traditori. Due corpi da restituire alla dea anziché uno solo aveva dunque sentenziato l’oracolo per porre rimedio al sacrilegio commesso dagli spartani. Fusero il bronzo necessario e lo scultore modellò due corpi raffiguranti due guerrieri, nella medesima posa, ma con un atteggiamento diverso; più giovane uno, più in avanti con gli anni l’altro; olimpico l’uno; più terreno l’altro.

    Come il tesoro di Tutankhamon

    Potrebbe essere che le statue bronzee di cui Tucidide dà conto, raffigurassero una il giovane e brillante generale che gli spartani avevano conosciuto e l’altra l’uomo che questi era diventato. Chi fossero quelle due statue affiorate nel 1972 a Riace, da dove venissero, chi mai fosse stato l’abile scultore ad averle realizzate, così perfette ed emblematiche, son tutte cose racchiuse nel mistero di uno dei più grandi rinvenimenti della storia, quasi al pari della tomba di Tutankhamon in Egitto.

    Il loro valore, soprattutto per la Calabria, è ingente quanto i tesori rinvenuti nel sepolcro del re egizio nell’ormai lontano 1922. Trascorso un altro mezzo secolo potrebbe scoccare l’ora di una nuova grande scoperta, ma c’è poco da sperarci. Forse sarà molto meglio riscoprire quanto di più prezioso si possiede e metterlo a frutto. La Calabria ha le due statue di bronzo più belle del mondo, ma siamo sicuri che davvero tutto il mondo ne sia a conoscenza?

    Antonella Policastrese

  • Cinquant’anni e non sentirli: tutto quello che non è stato fatto per celebrare i Bronzi di Riace

    Cinquant’anni e non sentirli: tutto quello che non è stato fatto per celebrare i Bronzi di Riace

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    Il 16 agosto 1972 Stefano Mariottini, un giovane sub dilettante romano, si immerse nel mar Ionio a 230 metri dalle coste di Riace Marina e rinvenne a 8 metri di profondità le statue dei due guerrieri che sarebbero diventate famose come i Bronzi di Riace. Pochi mesi, quindi, e sarà il giorno del cinquantennale dello storico, incredibile, ritrovamento.

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    Uno dei Bronzi circondato dalla folla dopo il ritrovamento di 50 anni fa

    I Bronzi di Riace, capolavori unici

    Storico, incredibile. Due aggettivi utilizzati non per sensazionalismo. Né per essere didascalici. Ma l’impressione data dalle Istituzioni – da sempre – è quella della colpevole sottovalutazione del valore dei due guerrieri, esposti da anni all’interno del Museo Archeologico di Reggio Calabria. Dei Bronzi di Riace ci si ricorda raramente. Per spiattellarli qua e là in qualche cartellone aeroportuale. Oppure per il flyer o il trailer di (spesso poco riusciti) spot divulgativi delle bellezze del territorio.

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    I Bronzi protagonisti di uno spot della Regione di qualche anno fa

    Anche sul sito ufficiale del Museo, un’immagine di una delle due statue. Ma nemmeno un accenno alla ricorrenza che cade nel 2022. In qualunque parte del mondo fossero stati ritrovati e fossero esposti, sarebbero diventati un brand riconoscibile. Come il Colosseo per i romani. Come le Piramidi per l’Egitto. O, magari, come l’Acropoli di Atene.

    Il libro dei sogni delle Istituzioni

    E, invece, i Bronzi sono lì. Forse non valorizzati come si dovrebbe.  L’entrata al Museo è a pagamento: 8 Euro il biglietto intero, 3 Euro il biglietto ridotto per i visitatori dai 18 ai 25 anni. I visitatori di età inferiore ai 18 anni entrano gratuitamente. Mercoledì: 6 Euro il biglietto intero e 4 Euro quello ridotto.

    La Regione, ma anche il Comune di Reggio Calabria e il Museo Archeologico avevano promesso iniziative e celebrazioni speciali che andassero oltre la commemorazione del ritrovamento nelle acque del Mar Ionio. La stessa Regione Calabria ha annunciato, appena pochi giorni fa, lo stanziamento di 3 milioni di euro. Senza, tuttavia, specificare per quali attività.

    La presentazione (a Paestum) del logo, già oggetto di critiche, per l’anniversario del ritrovamento

    Anche i lavori del Comitato di coordinamento interistituzionale e il gruppo di lavoro per il cinquantesimo anniversario del ritrovamento dei Bronzi di Riace istituito dalla Cittadella non sembrano aver sortito granché.

    Il grande assente

    La vicepresidente della Regione Calabria, Giusi Princi, che ha anche la delega alla Cultura, ha l’obiettivo di «far arrivare a tutto il mondo un messaggio positivo della Calabria». Ma l’impressione è che, fin qui, si stia preparando un evento che dovrebbe essere di portata mondiale, come se si stesse organizzando una sagra.

    Anche nel leggere la composizione del Comitato – in Calabria i comitati e i tavoli tecnici non mancano mai – spicca l’assenza del Ministero della Cultura. O, meglio, una presenza molto marginale. Peraltro comparsa solo all’ultimo momento, quindi non già nelle fasi prodromiche all’insediamento. Nel corso della prima riunione, non solo non ha partecipato il Ministro competente, Dario Franceschini. Ma nemmeno un viceministro o un sottosegretario.

    Il comunicato ufficiale menziona solo un delegato. Forse troppo poco per un patrimonio come quello rappresentato dai Bronzi di Riace: «Ne nascerà a breve un programma collettivo, unitario, un unico brand con logo condiviso e comunicazione congiunta», è scritto nel comunicato ufficiale.

    Bronzi di Riace, 50 anni in sordina

    A meno di cinque mesi dall’anniversario, quindi, non esiste nemmeno una bozza di programma delle attività. Che, peraltro, avrebbero potuto coinvolgere anche altre città. Proprio per incentivare quel turismo che, nel politichese più stantio, è da sempre considerato un “volano di sviluppo”.

    E, invece, a Reggio Calabria non si vede alcun simbolo che possa far presagire un anno così particolare. Né la città percepisce l’aria che precede una grande festa, come un evento culturale del genere dovrebbe innescare. Addirittura, probabilmente, in pochi, esclusi gli addetti ai lavori, se interrogati potrebbero dimostrarsi informati circa la storicità di questo 2022.

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    Il monumento a Giuseppe De Nava nell’omonima piazza di Reggio Calabria (foto Aldo Fiorenza, fonte Wikipedia)

    Sembra appassionare di più la disputa, arrivata anche in consiglio comunale, sui lavori di Piazza De Nava, immediatamente antistante al Museo. Eternamente discussi, ma mai iniziati. E, infine, proprio nell’ultimo consiglio comunale aperto, la mozione approvata all’unanimità per «richiedere che l’inizio dei lavori per la riqualificazione dell’area di Piazza De Nava sia posticipato all’anno 2023 al fine di rendere fruibile la stessa area a tutto il 2022 per le celebrazioni del cinquantesimo anno del ritrovamento dei Bronzi di Riace».

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    Cannizzaro e Princi

    Proprio nel giorno dell’insediamento del Comitato voluto dalla vicepresidente Princi, il deputato di Forza Italia, l’onnipresente Francesco Cannizzaro (che della Princi è cugino e, secondo le malelingue, dante causa) ha annunciato, in pompa magna, di aver incontrato il ministro Franceschini. Non per parlare dei Bronzi. Né delle tante tematiche delicate che riguardano il Museo e il patrimonio archeologico. Ma di Piazza De Nava. Per perorare, la causa degli «oppositori più fermi al progetto così come è stato pensato e approvato dalla Soprintendenza», riporta il comunicato di Cannizzaro.

    I problemi del Museo di Reggio Calabria

    A proposito del Museo Archeologico di Reggio Calabria. Anche nella “casa” dei Bronzi, si respira tutto tranne che un’aria di festa. Qualche tempo fa, il professor Daniele Castrizio, uno dei maggiori esperti sui Bronzi di Riace, autore di alcune ipotesi identificative delle due statue tenute in grande considerazione, ha anche rivelato, nel corso di un webinar, il clima che si respira all’interno del Museo: «Il direttore non mi saluta da novembre». Salvo poi chiarire, nelle ore successive allo scoppio della bufera: «Grazie alla amicizia e alla stima reciproca che ci lega, stiamo cercando, insieme, di trovare soluzioni comuni a problemi e di contribuire in armonia a portare avanti le iniziative relative ai Bronzi».

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    Daniele Castrizio

    Proprio nelle ultime ore, lo stesso direttore Carmelo Malacrino, che aveva esultato per il finanziamento di 3 milioni annunciato dalla Regione, ha affermato: «Il Museo soffre di una drammatica carenza di personale, al punto da rendere difficile, se non impossibile, la normale gestione e programmazione delle varie attività. Complice il mancato turn over e alcuni distacchi presso altre sedi, da anni stiamo lavorando in regime estremamente ridotto e con affanno. Ormai siamo arrivati a soltanto un terzo del personale previsto in pianta organica, poco più di 30 unità su 95». E poi, il monito: «Con tale carenza di personale, però, in alcune giornate potrebbe diventare necessario chiudere al pubblico alcune sale». Lo stesso problema avuto a Sibari con un altro tesoro archeologico calabrese, insomma.

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    Carmelo Malacrino

    Il profetico Giorgio Bassani

    Insomma, la “casa” dei Bronzi di Riace non sembra neanche lontanamente pronta ad ospitare gli eventi per il cinquantennale del ritrovamento delle due statue. Anche se, c’è da dire, con i preparativi fin qui non di certo in pompa magna, sarà difficile prevedere folle oceaniche.  Perché il senso dei calabresi per i Bronzi è proprio questo. Lasciarli lì, al sicuro. E indignarsi solo quando, ciclicamente, qualcuno vorrebbe spostarli, renderli itineranti.

    Sul punto risuonano, a distanza di oltre 40 anni, le parole pronunciate nel 1981 da Giorgio Bassani, per anni presidente di Italia Nostra, uno degli intellettuali che maggiormente si è battuto per la tutela del patrimonio artistico nazionale: «I Bronzi di Riace non sono il prodotto di un’opera d’artigianato sia pure sommo, bensì autentici fatti d’arte, di poesia e, come tali, unici e irripetibili». E si schierò contro una delle tante ipotesi di trasferimento dei Bronzi (in quel caso, in America), rivendicando che tali opere debbano rimanere lì, ferme, ad attendere i visitatori come in un pellegrinaggio: «La poesia dev’essere considerata un fatto religioso, perché lo è».

  • Antonio Vaglica, 18enne di Mirto Crosia vince Italia’s got talent 12

    Antonio Vaglica, 18enne di Mirto Crosia vince Italia’s got talent 12

    Si chiama Antonio Vaglica, ha 18 anni, è originario di Mirto Crosia – piccolo centro del Cosentino – e grazie alla sua voce è il nuovo vincitore di Italia’s got talent 12. Il giovanissimo calabrese si è imposto ieri sera nell’ultima puntata dello show in onda su Sky, superando altri 11 concorrenti e aggiudicandosi così la finalissima. Antonio Vaglica ha saputo convincere i giudici Federica Pellegrini, Mara Maionchi, Frank Matano e, soprattutto, Elio. È stato proprio il cantante milanese a puntare più di tutti su di lui, consegnandogli il successo in questa dodicesima edizione del programma.

    Antonio Vaglica batte tutti: Italia’s got talent 12 va a lui

    Dopo aver superato le audizioni grazie a una cover di Sos d’un terrien en détresse di Dimash, Antonio Vaglica si è fatto strada di puntata in puntata. E così è arrivato alla finale live dagli studios di Cinecittà World a Roma. All’appuntamento decisivo – che ha visto come ospiti in studio anche Pierfrancesco Favino, Miriam Leone, Valerio Lundini, Edoardo Ferrario e Guido Meda – Antonio Vaglica ha sbaragliato la concorrenza con la sua interpretazione di I Have Nothing di Whitney Houston. È nata una stella?

  • Totò, il punk ucciso a Bovalino per un debito di 300mila lire

    Totò, il punk ucciso a Bovalino per un debito di 300mila lire

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    Luglio 1986, Arena Lido di Reggio Calabria. Gli ambientalisti hanno organizzato un concerto contro il nucleare dopo il disastro alla centrale di Chernobyl di aprile. Sul palco i CCCP e i Gang: un evento. Ad aprire la serata c’è una band di esordienti, gli Invece. Sono quattro musicisti poco più che ragazzini – Salvatore Scoleri, Mimmo Napoli, Totò Speranza e Peppe De Luca – vengono dalla Locride e, come loro stessi ammetteranno anni dopo, quel giorno sapevano a malapena accordare gli strumenti.

    Il pubblico li guarda perplessi, ma è questione di pochi istanti. Gli Invece hanno energia da vendere, uno sguardo originale sul mondo e cantano in dialetto le loro canzoni punk-reggae. Un mix vincente.
    È l’inizio di una ribellione impossibile, di una piccola grande storia di passioni e rabbia, libertà e ingiustizie, dolore e morte vissuta nella Locride degli anni ottanta, terra di rapimenti, faide e tradimenti.
    Decidono di chiamarsi Invece per questo. Meglio, contro tutto questo.

    Adolescenti a Bovalino

    Salvatore, Mimmo e Totò vivono a Bovalino, un piccolo comune che si affaccia sul mare, dove l’aria sembra rarefatta e immobile. È forte l’oppressione della ‘ndrangheta aspromontana, così come il sentimento diffuso che nulla possa mai cambiare. È a questo orizzonte asfissiante che i tre ragazzi non vogliono rassegnarsi. Per questo in paese tutti li considerano gli strani e i disadattati, peggio ancora i drogati solo perché ogni tanto fumano erba. Si spalleggiano a vicenda, soli contro tutti. Diventano inseparabili.

    «Totò ed io passavamo intere giornate e lunghissime notti insieme, c’erano anche Mimmo Napoli e Ciccio Sacco, pochi altri», ricorda Salvatore. Il loro rifugio è la camera di Totò, nella casa sopra il negozio di fiori di famiglia. Il balcone si affaccia sulla piazza di Bovalino, «ma per noi che avevamo colorato le pareti con le bombolette spray, che ci avevamo scritto sopra le frasi di De André e Orwell, di Marley e Guevara e che consumavamo i 33 giri di Clash, Sex Pistols e Cure, quella piazza poteva essere a Londra, a Bologna o a Berlino». Avevano praticato «una rottura con l’ombelico del luogo madre».

    Così Bovalino li respinge, ma loro non fanno nulla per essere accettati. Totò, il primo punk della Locride, è quello che si fa notare di più. Indossa un giubbotto di pelle su cui ha disegnato una siringa spezzata per dire no all’eroina. Porta i capelli tinti e la cresta, usa borchie e anfibi. Facile immaginare che «tantissimi compaesani ci guardassero come fossimo degli alieni». Così Totò inizia a girare per strada con un binocolo al collo. E ai passanti che indugiavano troppo con occhi giudicanti chiede divertito: «Vuoi il binocolo per guardare meglio?». Altre volte, invece, ha raccontato l’amica Deborah Cartisano, estrae un pettine dal taschino, lo bagna in una pozzanghera e poi se lo passa tra i capelli. Ama stupire.

    Arriva la musica

    Ma presto le provocazioni non bastano più. Quel gruppetto di adolescenti sensibili e inquieti sente il bisogno di dare voce alla propria rivoluzione e sogna una band. Accade nella primavera del 1986 quando, poco più che 16enni, incontrano Peppe De Luca, che è più grande di loro e s’è laureato a Bologna in Scienze politiche con una tesi sul punk. Tornato a San Luca, trova naturale avvicinarsi agli strani di Bovalino, con cui condivide la rabbia per le ingiustizie e l’amore per la musica. È lui a far scoprire ai ragazzi la potenza del reggae.

    Gli Invece nascono così: Salvatore, che strimpella la chitarra e scrive poesie, ne diventa il cantante, Mimmo Napoli si accomoda alla batteria, Totò – che non ha mai imbracciato uno strumento in vita sua – si procura un basso e inizia a suonarlo, mentre Peppe fa da chioccia con la sua chitarra elettrica. In quei giorni, l’amico Ciccio Sacco scatta una foto alla band in una posa improbabile davanti a un muro scrostato da qualche parte tra Bova e Palizzi: diventerà la loro immagine storica. L’avventura può avere inizio. «Eravamo una cosa completamente nuova, eravamo all’avanguardia», rivendica fiero Scoleri. La loro musica viene definita “combat reggae”, le loro canzoni contro la guerra e le ingiustizie fanno presto il giro della Locride su nastri di fortuna.

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    Salvatore Scoleri alla chitarra

    Il concerto con i CCCP e i Gang a Reggio Calabria potrebbe essere il trampolino giusto. Tuttavia mentre in tutta Italia si afferma la nuova musica indipendente, gli Invece faticano. È sempre tutto più difficile in Calabria. Così i ragazzi si dividono ed emigrano. Mimmo trascorre alcuni mesi all’estero, Salvatore gira l’Europa come artista di strada (una passione mai sopita), Peppe sceglie il quartiere afrocaraibico di Brixton a Londra, Totò prima raggiunge la sorella Teresa in Liguria poi, dopo un periodo in Portogallo, si trasferisce da Peppe a Londra.

    Ma anche se sono dei giramondo, gli Invece trovano sempre il tempo di tornare a Bovalino e ogni volta è una buona occasione per scrivere canzoni e suonare. Nel 1988 la band organizza un tour calabrese e nei due anni successivi registra dei nastri promozionali. Ma la fortuna non gira e all’improvviso le cose precipitano: Totò finisce nell’inferno dell’eroina. Cade e si rialza molte volte, anche passando per una comunità. Nel frattempo continua a girovagare tra l’Italia e la Francia, la Spagna e il Portogallo dove, nel 1993, diventa padre di un bambino che si chiama Diego. Totò combatte contro i demoni e trova rifugio in paese, dove si unisce ai tanti giovani che animano il movimento antindrangheta “Pro Bovalino Libera” che si batte contro i sequestri di persona e chiede la liberazione del fotografo Lollò Cartisano.

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    Il bassista degli Invece, Totò Speranza, ucciso dal pusher

    Totò ci riprova

    Dopo quella stagione di impegno, si sente pronto per una nuova sfida e si trasferisce a Roma dove lavora come cuoco e si specializza in una paella in versione calabrese. Le cose vanno talmente bene che decide di investire con alcuni amici romani in un locale nel rione Trastevere, il Punto G. Ma il momento fortunato dura troppo poco. Nessuno sa davvero quali tormenti lo abbiano attraversato, ma per Totò sono mesi difficili. S’innamora di una ragazza che si fa spazio nel mondo della tv evocando messe nere e dicendo di far parte della famigerata setta dei Bambini di Satana. Scoppia uno scandalo e si apre un’inchiesta della magistratura.

    Totò, pur estraneo a quel mondo, finisce in carcere per avere difeso la compagna dalle pressioni della polizia, per lui ingiuste, durante un interrogatorio. Crolla, litiga con i soci del locale e all’inizio del 1997 fa ancora una volta ritorno in paese. Questa volta però non ha più voglia di essere considerato un corpo estraneo, dà una mano al negozio di famiglia e lancia lo slogan “Vogliamoci bene a Bovalino”, subito sposato dagli Invece che riprendono a suonare. I primi di marzo la band raccoglie l’affetto di tanti amici esibendosi nel bar dove i ragazzi spesso trascorrono le loro serate. Sarà l’ultimo concerto insieme.

    Il passato che ritorna

    Perché è vero che Totò è cambiato, ma non è facile chiudere con il passato. Soprattutto se hai accumulato troppi debiti con gli spacciatori. Per alcuni interviene la famiglia, l’ultimo, che risale al 1995, gli è fatale. Quella volta Totò aveva riempito la valigia con 200 grammi di marijuana per portarla agli amici romani – l’erba dell’Aspromonte è conosciuta in tutta Italia. L’aveva presa da un ventenne, diventato il principale pusher di zona, Giancarlo Polifroni. Totò gli deve trecentomila lire, ma il tempo passa e non riesce a pagare. Polifroni non vuole soprassedere – ne andrebbe del suo prestigio.

    Nella terra delle vittime di mafia

    Totò sparisce nel tardo pomeriggio del 12 marzo 1997, dopo avere bevuto una birra al bar con un amico. Il giorno seguente una telefonata anonima ai carabinieri segnala la presenza di un cadavere sotto un ponte della statale 106. Totò Speranza, 28 anni, è stato ucciso con un colpo alla tempia sinistra, il killer ha poi infierito sparandogli cinque volte alla schiena. Nel 2004 Giancarlo Polifroni viene condannato in contumacia a 17 anni in via definitiva. Sarà arrestato alcuni anni dopo, quando – rivelano le inchieste – è ormai un narcotrafficante capace di rifornire le piazze di spaccio di mezza Europa.

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    Gli Invece senza Totò Speranza

    Comu si faci

    Il dolore è insopportabile, per il gruppo la tentazione di mollare è forte. A riaccendere la fiamma è la ricercatrice tedesca, Eva Remberger, studiosa della musica dialettale italiana che insiste perché la band non si sciolga e si offre di sostenere le spese del primo disco. Durante quelle ore concitate Salvatore compone di getto una poesia per l’amico ucciso, si intitola Ma comu si faci – come si fa ad ammazzare ancora in Calabria, una terra che somiglia al paradiso – una struggente ballata, la canzone manifesto degli Invece. Tre mesi dopo l’omicidio, è un nuovo inizio: la band diventa il riferimento delle battaglie per i diritti in Calabria, arrivano le recensioni sulle riviste specializzate, i concerti oltre il Pollino, un memorial per Totò Speranza – che sarà organizzato per un ventennio. Anche per ricordare storie e nomi delle vittime di mafia.

    Nel 1999 escono due dischi da cui nasce un fortunato tour in Norvegia dove «creammo gli Invece in versione multietnica con musicisti di ogni parte del mondo», ricorda Scoleri. Tra una partenza e un ritorno, va avanti così per anni, poi forse la spinta si esaurisce, forse cambiano le priorità della vita e i concerti si fanno sempre più rari. La storia di Totò però è ormai un simbolo di ingiustizia e ribellione che trova alimento nei racconti delle associazioni antimafia, nelle parole del rapper Kento che al «sogno di Totò Speranza» nel 2016 dedica uno splendido pezzo, nelle testimonianze dei compagni di sempre che, 25 anni dopo quella morte assurda, conservano «nel cuore un ricordo che non sbiadisce». Non può.

    «Nascendo in un altro posto avremmo avuto più fortuna», ne è stato convinto Peppe De Luca. D’altra parte, si sa, la Calabria sa essere ostile e crudele. «Ma non avremmo potuto cogliere la quotidianità che si vive qua». E comunque, per dirla oggi con Scoleri, «non saremmo stati gli Invece». Quegli strani ragazzini, felici e disperati, che crescendo si sono battuti, che forse hanno anche commesso degli errori, ma che in fondo hanno solo desiderato essere liberi. Magari anche di cadere e di ricominciare. E che per questo hanno pagato – e pagano – un prezzo enorme e ingiusto. Nessuno mai avrebbe dovuto, nessuno mai dovrebbe.

  • IN FONDO A SUD| Reggio Calabria: mare, miti e cemento

    IN FONDO A SUD| Reggio Calabria: mare, miti e cemento

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    È un posto duro da raccontare Reggio Calabria. La più difficile tra le città e i luoghi che incrocio da anni in questa regione nei miei giri solitari da antropologo e narratore sul campo. Ci arrivo ancora una volta in auto seguendo il lungo spago della SS 18. Dopo aver attraversato traffico, agitazione e scompiglio, allacciando lungo il tragitto tutto quello che sorge sulla costa tirrenica calabrese da nord a sud, la lunga strada delle Calabrie si arresta qui, in riva allo Stretto. E poi si spegne quasi anonimamente, in un modesto vialetto che si perde tra le auto parcheggiate sotto le case del quartiere urbano di Santa Caterina.

    Gli stereotipi, la realtà e le sue contraddizioni

    E già guardandola oltre i finestrini dal nastro sconnesso della SS 18, ti accorgi che Reggio è un enorme geroglifico scarabocchiato sopra il mare dello Stretto. Un luogo di soglia, margine estremo del disegno confuso dello stato dei luoghi e delle persone in questa Calabria di adesso. Una sorta di documento/monumento concreto. La sigla più indecifrabile e ostica tra i segni della scrittura umana e della geopolitica incisa nella regione.

    Difficile innanzitutto sottrarne la descrizione dalle immagini stratificate nel tempo, dagli stereotipi che la precedono e che ne compongono il quadro, stigmatizzandola senza appello. Lo stesso accade se invece prendiamo per buone tutte le rappresentazioni più ravvicinate che all’opposto, e in parte, ne giustificano la realtà e le sue più paralizzanti e vittimistiche contraddizioni. Ancora più difficile è separarne la vicenda contemporanea dall’oscurità delle cronache che da decenni la raccontano non solo sulla stampa e sui media.

    Reggio, la capitale immorale della Calabria

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    Il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri

    Gratteri nel 2011 dichiarava che la densità criminale, con il coinvolgimento a vario titolo nelle attività illecite di una parte della popolazione, nella provincia di Reggio era stimata al 27% della popolazione totale. Perciò comincio a credere che, forse, solo sottraendola dalle narrazioni corrive e dall’inappellabilità della sua storia recente, riprogettandola nell’atemporalità e nella ricchezza solare dei suoi miti, rifondandola tra le suggestioni dei racconti e delle pagine che la nominano, a Reggio si può immaginare una via d’uscita per il riscatto e la costruzione di un futuro rinnovato.

    Reggio Calabria è infatti lo Scilla e Cariddi di tutta la Calabria contemporanea, la capitale immorale che ne assomma tutti i mali e le dismisure, la luce e l’ombra, il suo distillato di società disegnata – male, malissimo – su un territorio che un tempo fu abitato dalla bellezza e dalla sapienza degli antichi. «Reggio, città bella e gentile», si diceva una volta. Se la metamorfosi del moderno ne ha sino ad oggi imbruttito e mostrificato il volto, non ha però svuotato del tutto l’aura luminosa del suo sigillo originario. Qualcosa vi resta ancora impresso come un calco, oltre i dissidi e le contraddizioni del moderno, nella forza sommersa dei princìpi.

    Miti di ieri e di oggi

    La realtà che mostra oggi le evidenze e i contorni di Reggio è però, come in tutti i miti, intrappolata nelle opposizioni flagranti che ne costituiscono il senso. Miti di ieri e miti di oggi, che qui cozzano e lottano senza mai raggiungere un ragionevole punto di sintesi. Odisseo e le sirene, la Fata Morgana, lo Stretto e il panorama del chilometro più bello d’Italia, Eracle e la fondazione dei coloni della Ionia, la Magna Grecia, il culto dei Dioscuri, Aschenez, San Paolo e le radici cristiane.

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    Il fenomeno della Fata Morgana

    Sul lato opposto, la ’ndrangheta e la pervasività delle cosche, la corruzione diffusa, la città fascistissima e irredenta dei moti del 1970, la malapolitica e il famigerato “modello Reggio”, il Circolo del Tennis e il Circolo del Cinema, gli Amici del Museo e quelli delle logge coperte dei capi della massomafia e dei servizi deviati, i Boia chi molla! e le associazioni cattoliche, il pescestocco e i cudduraci, i ruderi greci abbandonati in mezzo alla città, il Calopinace interrato e pieno di detriti, i bronzi di Riace nel Museo Archeologico e il genio futurista di Boccioni, il colonnato di Tresoldi piegato dal vento, palestra per i topi che ci ballano sopra, la devozione alla Madonna e quella al Santuario di Polsi, il centro con le palazzine liberty da nobile decaduta e appena fuori i quartieroni abusivi senz’acqua, l’incuria, le strade sommerse di monnezza, l’urbanistica miserabile da gran bazar del cemento.

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    Una delle statue di Rabarama sul lungomare di Reggio Calabria

    Reggio Calabria sottosopra

    Ciò che di Reggio colpisce al primo colpo anche l’occhio di un profano è il suo aspetto sottosopra. Una città che sembra costruita a immagine e somiglianza del provvisorio che gareggia con l’eterno, del brutto che sottomette il bello, del privato che prevarica il pubblico. Il regno perfetto del geometra alla Cetto la Qualunque, che qui in anni e anni di abusi a mano libera ha deturpato il volto di Reggio in faccia al panorama più bello d’Italia. La città è oggi una colata di macerie del moderno dallo skyline barcollante e instabile, con costruzioni alte e basse spruzzate ovunque, sino ai recessi di una enorme retrovia periferica che ormai assedia quello che resta della città storica. Anche la vita che si volge in questi spazi in subbuglio ha un che di pericolante, un fondo tellurico che si nasconde nelle pieghe dell’ostentata indolenza caratteriale degli abitanti.

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    Il quartiere Arghillà a Reggio Calabria

    Il fantasma del terremoto

    Il reggino inurbato di recente si nasconde in un dialetto limaccioso e sciovinista (che è già un orpello dell’isolanità siciliana a cui Reggio aspira), da cui spunta sempre un senso di fatalismo, di noia, di aggressività trattenuta. Tutta la città vive in una sorta di perenne stato d’emergenza, e l’inquietudine la scuote sotterraneamente come un’onda sismica. Il fantasma del terremoto è da sempre presente come attesa di un cataclisma venturo. Dilatata in “città metropolitana” Reggio è esplosa in un’interrotta colata di cemento solcata da un labirinto di strade anguste, scassate o troppo grandi e spesso senza nome, come quelle che portano tra vicoli e ridossi in cima al nuovo compound fuori scala delle torri dell’Università, verso il nuovo Centro Direzionale e il Tribunale.

    Quel che resta del bello a Reggio Calabria

    Quasi sparito il “panorama” naturale che ammaliò i viaggiatori del Grand Tour, con «la sera che scende sull’Etna ammantato di nubi e le tremule luci che balenano su Scilla e Cariddi» (spettacolo che ormai si coglie a sprazzi solo dal Lungomare intitolato al sindaco Falcomatà, il primo), nonostante la riproposizione del progetto di Waterfront dell’archistar Zaha Hadid, quello che resta della bellezza di Reggio oggi sono solo interstizi e sparuti frammenti.

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    Il Waterfront progettato da Zaha Hadid

    Il corpo della città è una accozzaglia deforme, interrotta solo dagli spazi residuali che si intravedono tra i palazzoni nuovi, con riquadri di terra e di mare sempre più striminziti e impolverati ai lati sfiancati delle strade, con le sponde dei fossi delle fiumare interrate e le antiche aree agricole abbandonate che presto saranno preda della nuova speculazione.

    Radici nel cemento

    Città apologo urbanistico dell’intero sfacelo ambientale che affligge tutta la Calabria, a Reggio si consumano gli ultimi suoli di quella battaglia ormai persa tra vuoti e pieni, tra natura e spazio costruito (male, malissimo), con la vittoria e l’estensione dell’abuso sulla misura, il trionfo incontrastato della cancellazione progressiva di ogni remora nella distruzione sistematica dei beni comuni e della salvaguardia della bellezza. È la legge della “crescita” illimitata inseguita da politici e amministratori, che qui continuano a legittimare il consumo di suolo e l’annichilimento di risorse irripetibili, quasi che tutto il territorio possa essere considerato “spazio in attesa di destinazione”.

    I paradossi di Reggio Calabria

    Uno dei paradossi di Reggio sta nel fatto che il saccheggio continua anche a dispetto dell’insediamento (risalente a più di 50 anni fa) della prima università calabrese, l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, il cui primo nucleo nel 1968 fu l’Istituto Universitario di Architettura, oggi DARTE diretto dal professor Gianfranco Neri.
    Dipartimento e università in cui anche Renato Nicolini insegnò architettura fino alla morte nel 2012. Reggio possiede dunque una brillante università che si occupa di architettura e pianificazione territoriale, di scienze agrarie e innovazione ambientale, di progetti di sostenibilità e di azioni di riqualificazione. L’ateneo sembra vivere però una vita a parte, con la scienza e un patrimonio di buone prassi che Reggio rifiuta.

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    La facoltà di Architettura di Reggio Calabria

    L’unica Città Metropolitana

    Nonostante il caos dal 2016 Reggio è l’unica città che in Calabria ha ottenuto statuto di Città Metropolitana. È oggi la più grande conurbazione della regione, e conta, nell’espansione incontrollata di un’area metropolitana simile nel disordine urbanistico a una new town asiatica, sparpagliati dalle cime dell’Aspromonte e spruzzati fin sulle rive dello Stretto, circa 200.000 abitanti. Con un aeroporto che funziona sì e no, un porto asfittico monopolizzato dal traffico dei traghetti, riemerge a tratti anche il mito sacrilego del Ponte sullo Stretto (incombenza retorica rievocata anche in questi giorni per fare un po’ di grancassa mediatica da un politico come Calenda).

    La sacralità dello Stretto

    La storia infinita del ponte è all’opposto del genius loci meridiano che dall’antichità prescrive l’inviolabile sacralità dello Stretto. Il mare tra le due sponde di questo Sud è stato mito, lingua, letteratura, spazio culturale e memoria. Sin da quando un responso dell’Oracolo di Delfi guidò su queste rive i fondatori greci di Reggio: «Laddove, mentre sbarchi, una femmina si unisce ad un maschio, là fonda una città; il dio ti concede la terra Ausonia» (Diodoro, XIII, 23).

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    L’Oracolo di Delfi

    Nella letteratura più recente il passaggio dello Stretto il 4 ottobre 1943, segna invece la scena tragica in dell’odissea minore del marinaio ‘Ndrja Cambrìa, narrata nell’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, romanzo-mondo che ha inciso un nuovo valore simbolico e figurale su questi luoghi. ‘Ndrja trova una terra stravolta e devastata dalla guerra, offesa dal degrado e dalla miseria. Non ci sarà un’altra Itaca da raggiungere. Dopo mille traversie nel «paese delle Femmine» (ritorna il mito fondativo di Reggio), ‘Ndrja non tornerà più a casa; mentre rema su una barchetta in mezzo allo Stretto e si avvicina a una enorme portaerei americana, nel buio parte un colpo che lo prende in mezzo agli occhi uccidendolo.

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    Il mare dello Stretto

    «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli… come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare». Il pathos di ‘Ndrja Cambrìa si è chiuso tra le pagine di quel libro magnifico, ma in riva al mare di Reggio un’altra guerra non è mai cessata. È la guerra dei tempi di pace che disprezza la storia, con il consumo per il consumo, l’abuso ininterrotto della bellezza e dei beni comuni. E siamo noi i veri invasori.

    «Un mondo che non è più riconoscibile»

    Se n’era accorto Pier Paolo Pasolini già nel 1959, quando la prima ondata modernizzatrice del cemento senza regole si abbatteva su questi paesaggi magnifici e su luoghi che nemmeno la guerra mondiale appena trascorsa aveva oltraggiato e sfregiato così irrimediabilmente come oggi. Di passaggio su queste sponde per il reportage La lunga strada di sabbia, dopo l’incanto del mare incontrava i primi avamposti della città nuova di Reggio. E scriveva: «Sui camion che passano per le lunghe vie parallele al mare si vedono scritte “Dio aiutaci” – mi stupiva la dolcezza, la mitezza, il nitore dei paesi, della costa… Poi si entra in un mondo che non è più riconoscibile».
    È l’impostura infinita che stiamo ancora vivendo.

  • Cosenza di culto, la cattedrale ritrovata anche grazie all’Unità d’Italia

    Cosenza di culto, la cattedrale ritrovata anche grazie all’Unità d’Italia

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    Il Duomo di Santa Maria Assunta ha da poco compiuto ottocento anni. Da otto secoli tra i “pileri” delle sue navate batte il cuore di Cosenza.
    Sostando sulla piazza digradante lungo corso Telesio per ammirare l’imponente facciata di pietra rosa di Mendicino, entrando nell’ampia aula dove i fedeli si raccolgono in preghiera, ci sembra che il Duomo sia lì da tempo immemore. Uguale a se stesso, incrollabile, saldo come roccia. Eppure, così non è. Nel corso dei secoli numerosi terremoti hanno colpito la Cattedrale danneggiandola talvolta in modo grave.

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    Celebrazioni in onore della Madonna del Pilerio, patrona della città, all’interno della Cattedrale (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Un immaginario da cartolina

    Nel Settecento un intervento barocco ha radicalmente trasfigurato la sua natura duecentesca. Infine, nell’ultimo scorcio dell’Ottocento è cominciato un paziente lavoro di restauro. È durato oltre cinquant’anni e ci ha restituito le linee architettoniche di una spiritualità priva di orpelli e colma di devozione. Così oggi, ci sembra che la facciata sia sempre stata lì, in attesa dell’ennesima istantanea del buon ricordo.
    Siamo talmente assuefatti al gesto automatico di immortalare in una foto ricordo le bellezze d’Italia – le piazze, le cattedrali, i palazzi e i castelli – che non ci chiediamo quasi mai: «Chi ha costruito, conservato e valorizzato l’immagine monumentale del nostro patrimonio artistico e morale?».

    Affascinati da un immaginario da cartolina pensiamo che le facciate del Duomo di Milano; di Santa Maria del Fiore e Santa Croce a Firenze; del Duomo di Amalfi; del Fondaco dei Turchi e della Ca’ d’Oro a Venezia; il campanile di San Marco; i Castelli della Val d’Aosta; Palazzo Madama a Torino; il Castello Sforzesco a Milano; Porta Soprana a Genova; nonché moltissime altre meraviglie d’Italia siano un lascito arrivato fino a noi nelle forme in cui le opere furono concepite e realizzate dagli antichi maestri delle pietre. La storia è ben altra.

    I meriti dell’Unità d’Italia

    Se non ci fosse stato, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e dall’Unità d’Italia, uno straordinario sforzo di costruzione e conservazione dell’immagine architettonica del Bel Paese, gran parte del nostro patrimonio identitario avrebbe oggi un aspetto molto diverso: incompiuto, quando non sfigurato o cadente.

    Dobbiamo alla lungimiranza del Ministero della Pubblica Istruzione – istituito con l’Unità e ai coevi Uffici Regionali per la Conservazione dei Monumenti – il privilegio di poter ammirare, con il naso all’insù, i monumenti di cui le città d’Italia vanno fiere. Grazie all’opera e al pensiero di uomini come Camillo Boito e Luca Beltrami a Milano, Alfredo De Andrade in Piemonte e Valle d’Aosta, Giuseppe Partini a Siena, Enrico Alvino a Napoli – per citarne solo alcuni – l’Italia può andar fiera della sua “grande bellezza”.

    Splendore che si mette in mostra in un’infinità di situazioni ideali per le fotografie che hanno i loro antenati nei cliché in bianco e nero delle vecchie e care caroline turistiche. Dobbiamo ad artisti che si sono formati nelle Accademie di Belle Arti (quando ancora le Facoltà di Architettura non esistevano) se l’Italia si è costruita un’immagine monumentale solida come il marmo e non solo di facciata. Un sodalizio fra il sacro e il profano in cui la cattedrale e il palazzo comunale sono quasi sempre gli interpreti di una narrazione civile e religiosa che sfida i secoli parlando di cultura, di storia e di ingegno.

    Le radici nella Storia

    Quegli artisti-architetti, prima ancora di dividersi e scontrarsi sotto le insegne accademiche del restauro filologico da una parte o della ricostruzione in stile dall’altra, erano accomunati da un profondo senso della storia. Le loro scelte estetiche scaturivano sempre da modi personali di interpretare il passato. Fermo restando che il progresso, per loro, era indissolubilmente legato al richiamo della storia patria.
    L’Italia cercava le proprie radici nella storia e i monumenti disegnavano l’albero genealogico della sua cultura. Il dibattito fu molto acceso. I concorsi per la ricostruzione della facciata di Santa Maria del Fiore o del Duomo di Milano, nella seconda metà dell’Ottocento, ne sono una vivace testimonianza.

    Unità d’Italia, un progetto (anche) culturale

    La modernità era interpretata studiando e ispirandosi a un passato ricco di significati non solo estetici, ma anche etici e politici. Un passato iniziato ben prima che l’Italia, negli anni della Riforma e della Controriforma, venisse contesa e spartita fra le corone di mezza Europa. Il Medioevo e il Rinascimento, in epoca risorgimentale, erano i simboli illustri di una italianità autentica, e come tali, alimento inesauribile dell’immaginario degli architetti. Per molti di loro l’Unità era innanzitutto un progetto culturale e politico che si richiamava alle sorgenti dello stile romanico e del gotico. L’uso politico dell’architettura fu dunque uno dei cavalli di battaglia nella costruzione dell’identità nazionale. La conservazione del patrimonio monumentale uno dei temi di costante negoziazione fra lo Stato e la Chiesa.

    Monsignor Sorgente e la raccolta fondi per il restauro

    Cosenza non fu estranea a tale dibattito. L’arcivescovo del tempo, monsignor Camillo Sorgente, insediatosi a Cosenza nel 1874, nel tentativo di contrastare il cosiddetto “patriottismo di pietra” che cercava di escludere le gerarchie ecclesiastiche da ogni decisione operativa, rivendicò il ruolo della chiesa e lanciò una campagna di sottoscrizione per ricostruire la Cattedrale gravemente danneggiata dal terremoto del 1870. Egli si proponeva di ricondurre la sua Chiesa alla spiritualità dello stile di transizione fra il romanico e il gotico voluto dal fondatore Luca Campano, monaco benedettino e scrivano di Gioachino da Fiore; a quella essenzialità delle linee cistercensi che l’enfasi barocca di metà ‘700 aveva trasfigurato nel conformismo stucchevole degli ori e delle volute.

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    Disegno pubblicato in Bollettino del Collegio degli Architetti e Ingegneri in Napoli, febbraio 1887

    Il progetto di ricostruzione fu affidato a Giuseppe Pisanti, allievo di Enrico Alvino, a quel tempo già impegnato con successo nel progetto di restauro della facciata del Duomo di Napoli. Constatate le condizioni di gravissimo degrado delle strutture – la cupola era crollata, le murature in parte lesionate e le volte delle cappelle pericolanti – e confidando nella veridicità di una lapide dove si leggeva che «il Cardinale Maria Capece Galeota a fundmentis restituit la Basilica», Pisanti elaborò un progetto di ricostruzione che la critica del tempo giudicò con grande favore.
    Così il 14 giugno 1886 Monsignor Sorgente circondato dal collegio episcopale e dal capitolo, alla presenza del prefetto e del popolo festante, pose la prima pietra dei lavori di restauro.

    Duomo di Cosenza, si torna al passato

    Quando iniziarono le demolizioni però, Pisanti scoprì che nella parte absidale, sotto gli stucchi e i pesanti intonaci, le strutture duecentesche erano pressoché intatte. L’arco trionfale, l’abside e gli imponenti pilastri avevano resistito alla violenza dei terremoti e allo zelo dei pomposi abbellimenti settecenteschi.
    Alla morte di Pisanti i lavori proseguirono sotto la supervisione del suo allievo Silvio Castrucci. Poi, dopo la pausa forzata della Grande Guerra, i lavori, fra non poche polemiche, furono affidati a Tullio Passarelli, un ingegnere romano che completò il restauro delle navate e della facciata nelle forme che ancora oggi possiamo ammirare, in particolar modo quando i raggi del sole animano i riflessi rosati della pietra di Mendicino.

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    Monsignor Aniello Calcara

    La data “1944”, scolpita sotto il rosone centrale, indica l’anno di fine lavori e, a ricordare la terza e ultima consacrazione celebrata il 20 maggio 1950 dall’arcivescovo e letterato Aniello Calcara, sta invece la lapide posta sulla parete di controfacciata.
    L’austero aspetto abbaziale che ben si armonizza nel contesto di piazza Duomo è dunque il risultato di un’opera di restauro e di integrazione le cui motivazioni estetiche affondano in una cultura della tutela del patrimonio intesa come salvaguardia del genius loci.

    Giuliano Corti

  • Cosenza, vedi Napoli e poi… risorgi

    Cosenza, vedi Napoli e poi… risorgi

    Reduce da un recente viaggio di lavoro a Napoli, nel muovermi per la città tra le bellissime stazioni della più originale metropolitana d’Europa e alcuni eccezionali Musei, mi torna ogni volta in mente quanto dobbiamo alla cultura napoletana nel nostro territorio, soprattutto a Cosenza e nella sua estesa provincia.

    Tra le cose che ormai da tempo mi colpiscono, la profonda differenza tra lo stato di degrado e illegalità diffusa di Cosenza, con la totale mancanza di rispetto di ogni minima regola civica, dal parcheggio in doppia/tripla fila, fino alla occupazione selvaggia di strade, marciapiedi, spazi pubblici ad opera delle automobili. Mentre scorgo che a Napoli, ancora di più oggi sotto la guida di Gaetano Manfredi, si torna ad osservare una città vivibile e ordinata, in cui i vigili urbani e polizia non sono chiusi negli uffici, ma si muovono in strada per garantire legalità e rispetto delle regole, soprattutto non fanno finta di non vedere la diffusa illegalità, ma la perseguono.

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    La stazione Toledo della metropolitana di Napoli

    Se ce l’ha fatta Napoli, perché non Cosenza?

    Mi chiedo, se ci sono riusciti a Napoli, che pareva luogo indomabile, perché a Cosenza, di gran lunga più piccola e controllabile, tutto questo non è possibile? Di chi le responsabilità? Perché non si agisce in direzione di un ripristino del rispetto minimo delle regole di vita quotidiana che peraltro paralizzano il traffico, non già a causa di qualche strada pedonalizzata, ma proprio per l’intasamento degli assi viari principali e secondari a causa di soste selvagge e illimitate e la enorme quantità di auto circolanti?

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    Cosenza, auto incolonnate in prossimità delle scuole su via Misasi

    Tanta Napoli a Cosenza

    La seconda riflessione, senza dubbio più di visione e prospettiva, mi sovviene per la lunga sequenza di storie, esperienze, collegamenti che la storia ci ha consegnato nel rapporto tra Napoli e Cosenza, a partire dal nostro dialetto e dalle evidenti influenze terminologiche napoletane, fino alla cucina e alle arti minori e maggiori, come i segni evidenti nell’architettura religiosa e civile in cui tracce di modelli e manodopera napoletana sono fin troppo palesi.

    Una collaborazione da ampliare

    Da qui sorge la mia domanda del perché con Napoli, nel recente passato, e da lungo tempo, nessuno mai abbia pensato, soprattutto in ambito pubblico, culturale, museale, economico, di costruire una solida collaborazione, che vada oltre il consolidato canale accademico tra le università, e si prefigga lo scopo di una sinergia di lunga durata, capace di garantire un sostegno a molte attività locali che pagano il prezzo di un isolamento geografico e strategico, anche per la mancanza di centri urbani competitivi in Calabria.

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    L’Università della Calabria

    Napoli è una delle più grandi città calabresi (come Roma del resto), a poche ore di treno, a poche distanze etniche, con una importante dotazione di attività a vario livello, dai centri di ricerca, al commercio, alle fiere ed eventi di richiamo nazionale. Napoli è la cruna dell’ago da cui passa, sta passando, passerà un riscatto del Sud, e senza un legame con questa realtà, locomotiva lenta ma robusta, il rischio, della parte alta del meridione in cui Cosenza ricade, è perdere di vigore e capacità dinamiche.

    Dai musei di Napoli a quelli di Cosenza e Rende

    Per queste, e ancora altre ragioni, penso, ad esempio, alla condivisione di importanti opere d’arte, con strutture museali di Cosenza, Rende, altrove possibile, non solo perché a Napoli i depositi dei musei traboccano di opere che non si possono esporre per carenza di spazio – e in questa direzione va una recente direttiva del Ministero della Cultura, che prevede il prestito a musei di provincia di opere chiuse in depositi – ma anche per stabilire circuiti espositivi e culturali dinamici e attrarre qui, grazie a opere di peso, un certo numero di turisti interessati a percorsi culturali e d’arte.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Penso inoltre alla ridotta estensione e qualità delle nostre stagioni teatrali, e a come si potrebbe collegare a quella di teatri napoletani, anche sperimentali, per avere opportunità di inserirsi in circuiti significativi, e rinnovare un rapporto speciale che ha interessato le due culture, quella napoletana e cosentina, calabrese in generale.

    C’è da preoccuparsi

    Per questo viene in mente che alla costante perdita di attrattività, a favore di altre realtà urbane, Cosenza potrebbe almeno tentare di opporre una robusta collaborazione con realtà che possano, anche solo in parte, sottrarla a questo progressivo impoverimento, tra cui senza dubbio Napoli, per evidenti ragioni storiche e culturali. Al contrario, la deludente sensazione di questa stagione di fallimenti, corroborata, purtroppo dalla quotidianità cosentina, è che in questa città, ora e in precedenza, non sembra emergere una preoccupazione, collettiva, pubblica e privata, nel fare leva sulle significative opportunità latenti e allontanare la realtà sempre più deludente.

    Vedi Napoli e poi risorgi

    Cosenza sembra essere passata da una presunta dimensione nazionale ad una paesana, ovvero dalla ricerca di consenso attraverso un effimero marketing urbano, alla soluzione di problemi spiccioli, ignorando e seguendo nell’abbandono del grande e prezioso centro storico, il quale, nella costruzione di una visione di cosa potrà essere la città di domani, dovrebbe avere un ruolo centrale. Restano solo gli eccessi trionfalistici di faraonici sogni urbanistici che si infrangono con la mancanza assoluta di uno sguardo progettuale concreto, tanto visionario, quanto fattivo.

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    La statua di Alarico ai piedi dei resti dell’Hotel Jolly, che avrebbe dovuto ospitare un museo dedicato al re barbaro (foto Alfonso Bombini)

    Se “vedere Napoli e poi risorgere”, quindi non morire, come recitava la famosa frase, nelle forme più significative auspicabili, potrebbe aiutare Cosenza a rinnovare il suo presente e futuro, i passaggi non sono poi così complessi e impossibili, ma ancora una volta la volontà potrebbe vincere sull’immobilismo e sulla minaccia, incombente, di fallimenti.

  • Con la cultura si mangia, ma la Regione non lo sa

    Con la cultura si mangia, ma la Regione non lo sa

    Nella Calabria delle aspiranti capitali deluse (Diamante e Capistrano), di quelle che ce l’hanno fatta ma si sono impelagate nelle polemiche (Vibo) e di quelle che sognano a occhi aperti facendo finta di non vedere la realtà (la Locride), la cultura resta una chimera. Per lo più se ne fa materiale da brochure o da programma elettorale, e a decretarne gli indirizzi sono spesso personaggi mitologici, metà direttori artistici e metà amministratori locali, in una promiscuità di rapporti e funzioni che prescinde quasi sempre dalle reali competenze.

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    La squadra fortissima di Primavera dei teatri: da sinistra Settimio Pisano, Dario De Luca e Saverio La Ruina

    Nell’attuale giunta regionale nessuno detiene la tradizionale delega perché se n’è scelta una più modernista («Attrattori culturali»). Il marketing però è un’altra cosa. E molto di ciò che si spaccia per arte e cultura è in verità commercio puro: nomi altisonanti usati per fare quantità, bandi discutibili e progetti di dubbia consistenza a drenare finanziamenti. Ma va anche sfatato il luogo comune della mancanza di risorse: i soldi, per la cultura in Calabria, ci sono. Lo conferma Settimio Pisano, che da anni si occupa di curatela nel campo del teatro e delle arti performative. È quello che si dice un addetto ai lavori (direttore generale e responsabile della programmazione internazionale del festival Primavera dei Teatri di Castrovillari, nel 2019 ha ricevuto il Premio UBU come “Miglior curatore/organizzatore”) e, per questo, gli abbiamo posto qualche domanda.

    Molto banalmente: in Calabria, con la cultura, si mangia?

    «Certo. Nel comparto lavorano migliaia di persone e intorno si genera un indotto importante. Bisognerebbe fare molto di più, non soltanto immettendo più denaro nel settore ma gestendolo meglio. Il punto non sono le risorse, ma come vengono impiegate».

    Che tipo di problemi riscontrano i lavoratori del settore nel rapporto con gli enti pubblici calabresi, in particolare con la Regione?

    «Bisogna prendere atto di una situazione evidente: la Regione Calabria non è in grado di gestire efficacemente il settore artistico-culturale e non potrà farlo finché non si doterà di specifiche competenze professionali. In oltre vent’anni di attività ho visto decine di assessori, dirigenti e funzionari. Molti sono stimati professionisti e si sono spesi con rigore e sensibilità per svolgere al meglio il proprio lavoro. Tuttavia i problemi permangono, anzi si aggravano col tempo».

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    La sede della Giunta e degli uffici regionali a Germaneto

    Perché?

    «La scarsa considerazione di cui gode il settore artistico e la conseguente trascuratezza gestionale, le pastoie burocratiche e l’incapacità della politica di governarle, sono questioni che hanno un peso determinante. Ma la faccenda è più complessa».

    Come sempre. Ma provi a spiegarlo…

    «C’è un problema strutturale. L’organizzazione della Regione e le sue competenze interne non sono adeguate costitutivamente a governare il settore. Serve un ente intermedio, sul modello delle Film Commission regionali, che abbia al suo interno le professionalità e le competenze adeguate. Una Calabria Live Commission, un’istituzione a partecipazione pubblica e privata in grado di produrre una visione corretta, tempi di programmazione certi, conoscenza specifica e sul campo delle varie discipline artistiche, un alfabeto comune con gli addetti ai lavori, regole impermeabili all’invasività della politica e ai cambi di amministrazione, avvisi pubblici redatti in base a obiettivi reali con adeguate azioni di monitoraggio e valutazione dei progetti.

    Gli operatori del settore artistico sono professionisti e meritano una governance all’altezza. Alla guida del settore servono profili professionali precisi: curatori, mediatori culturali in grado di coniugare sensibilità artistica e competenze manageriali, riconosciuti e attivi in ambito nazionale ma ancorati al territorio regionale. Soprattutto non servono artisti: gli artisti facciano gli artisti».

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Con Roberto Occhiuto alla Cittadella non è cambiato niente?

    «È un po’ presto per valutare l’operato della nuova Giunta. Certamente la cultura non è stata tra le priorità di questi primi mesi. Adesso però è urgente darsi una mossa. Ma sono certo che il presidente Occhiuto abbia la giusta sensibilità per affrontare e migliorare la situazione, del resto da consigliere regionale nel 2004 ha redatto e firmato la prima Legge regionale sul Teatro».

    Ma ci saranno anche delle lacune dall’altro lato, quello di chi “produce” arte, no?

    «La lacuna più grave è l’incapacità di produrre un’offerta artistica plurale e di alta qualità. A guardare i principali cartelloni è evidente un’omologazione su un tipo di offerta mainstream, commerciale, di puro intrattenimento. Offerta assolutamente legittima per la quale, al limite, si può discutere della reale necessità di sostegno con soldi pubblici. Ma è possibile che i calabresi restino esclusi da quanto accade nel panorama artistico contemporaneo nazionale e internazionale? In Europa il paesaggio artistico è in continua evoluzione, è in atto un ricambio generazionale che sta portando innovazione nei linguaggi, nei contenuti, nelle estetiche».

    Mentre qui a che punto siamo?

    «Beh… mi chiedo con quale orizzonte artistico, culturale, estetico stiamo crescendo i nostri figli. Gli stiamo offrendo le stesse possibilità di visione, di formazione del gusto, di riflessione sulle nuove forme d’arte e di cittadinanza, di partecipazione al dibattito culturale che hanno i loro coetanei italiani ed europei? La risposta è no. E non è semplicemente responsabilità di cattive politiche pubbliche, che pure sono determinanti. Il punto è la qualità di un’offerta che, nella maggioranza dei casi, è fortemente provinciale e sempre uguale a sé stessa. È un problema, ancora, di profili professionali non adeguati a produrre un rinnovamento nella proposta artistica. È un problema di mancato confronto col resto del mondo, di mancata conoscenza di quanto accade oltre i confini regionali nelle arti contemporanee. Vero, ci sono le eccezioni: esistono alcune realtà che spingono in direzioni nuove, ma sono poche e limitate a contesti dai quali fanno molta fatica ad uscire per raggiungere un pubblico più ampio».

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    Il TAU, Teatro auditorium dell’Unical

    Come si può sprovincializzare la cultura in Calabria?

    «Confronto, confronto e ancora confronto con quello che succede fuori da casa nostra. Visione, conoscenza, ibridazione: per i cittadini e per gli artisti. Per questi ultimi anche di più: gli artisti sono i primi a chiudersi nel loro studio o nel loro teatro e a ignorare quanto accade fuori. E questo è un problema serio per la Calabria, dove quasi tutti gli operatori del settore si definiscono artisti. Dal punto di vista politico, poi, è necessario rafforzare le poche esperienze che stanno dimostrando di aprirsi all’esterno e al nuovo, accompagnarle verso una crescita che le affranchi dalla condizione di isolamento e subalternità».

    Il rapporto tra politica e cultura, in Calabria, sembra ancora passare per altre dinamiche…

    «È necessaria un’inversione del paradigma secondo il quale la proposta “istituzionale” è quella mainstream, mentre il resto è sperimentazione per pochi eletti. La prima, pur legittima e gradevole, è tuttavia il passato, è un orizzonte limitato che ci impedisce di guardare oltre. “Il resto” è il presente e il futuro, è la strada per riavvicinarci al resto d’Italia e d’Europa, per contribuire alla crescita di una generazione di cittadini più consapevoli e critici in grado di desiderare, immaginare e infine costruire un futuro diverso. È necessaria una rottura, un ribaltamento di prospettiva, un cambio di passo deciso e improvviso. La comunità artistica calabrese deve farsene carico».

  • Capitale della cultura 2025: la Locride sogna senza cinema, scuole e teatri

    Capitale della cultura 2025: la Locride sogna senza cinema, scuole e teatri

    «Superare gli stereotipi, rendere visibile il patrimonio materiale e immateriale di una terra unica al centro del Mediterraneo, ancora tutta da scoprire»: usa slogan intriganti la campagna di lancio per la candidatura della Locride a Capitale della cultura per il 2025. Slogan che parlano di territorio che «genera cultura» e che sperimenta «metodologie e buone prassi per il recupero e la valorizzazione del patrimonio culturale» ma che sembrano fare a pugni con la quotidianità di un territorio che negli anni ha visto diminuire – e di molto – l’offerta culturale destinata ai residenti e ai turisti che scelgono di passarci del tempo.

    Teatri con le porte sbarrate da anni o mai aperti, fondi librari lasciati a marcire in improbabili sottotetti, sfregi e violenze sul patrimonio architettonico e urbanistico ereditato da secoli di dominazioni diverse, persino i Rumori Mediterranei di Roccella jazz – per 40 anni massima espressione della “cultura diffusa” in tutto il territorio reggino – “ridimensionati” ed esclusi dai finanziamenti dei Grandi eventi regionali per opera dell’ex facente funzioni Nino Spirlì. Per non dire delle scuole, con buona parte dei micro paesi della Locride che, negli anni, hanno perso anche gli istituti primari o, nel migliore dei casi, li hanno mantenuti ricorrendo al sistema delle multiclassi.

    L’ex presidente facente fuzioni della Regione Calabria, Nino Spirlì

    Locride Capitale della cultura

    L’idea di avanzare la candidatura unitaria dei 42 paesi che compongono il territorio a Capitale italiana della cultura per il prossimo 2025, è venuta al Gal Terre locridee. Ha visto l’immediata adesione dei sindaci che, in ordine sparso, stanno firmando il protocollo d’intesa presentato nei mesi scorsi. Così come quella dell’assessore regionale all’agricoltura, Gallo, che ha garantito «il sostegno della Regione e il pressing sul Ministero». L’idea, si legge nel manifesto, è quella di costruire «un progetto unitario che attivi forme di resilienza, economia circolare, partecipazione, sostenibilità» lungo un percorso in grado di rappresentare la Locride «in modo complessivo come territorio che genera cultura, in modo coeso, partecipato e condiviso».

    Un’idea – l’ennesima – nel tentativo di rilanciare il territorio. «Sulla falsariga di quello che è successo a Matera – dice il presidente dell’assemblea dei sindaci Giuseppe Campisi – quando fu scelta come Capitale italiana della cultura. Ci saranno eventi, progetti e manifestazioni per sponsorizzare la nostra candidatura. Contiamo di fare conoscere meglio il nostro territorio con le sue particolarità e con le sue ricchezze, a partire da quelle archeologiche di Locri e Kaulon».

    Il passato glorioso della Locride

    Poco più di 150 mila abitanti distribuiti tra il mare e le montagne d’Aspromonte e delle Serre, la Locride ha maturato un rapporto quasi bipolare con le meraviglie naturali e storiche che ha avuto la fortuna di ritrovarsi. Un patrimonio – borghi medievali, monasteri arroccati, castelli e torri di guardia, oltre naturalmente ai resti delle civiltà magnogreche e romane – buono da esibire quando si tratta di vendere pacchetti turistici ma che si scontra con una realtà caratterizzata da inefficienze e sprechi. Come nel caso del parco archeologico di Monasterace, minacciato da anni dall’irruenza dello Jonio e che attende ancora il completamento della recinzione e l’istallazione dell’impianto di video sorveglianza. O quello della rupe su cui sorge Caulonia, che si disfa pezzo dopo pezzo in attesa dell’ennesimo intervento.

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    Il mosaico dei draghi e dei delfini nel parco di Kaulon

    E poi una serie di sfasci e storture che hanno riguardato decine di singoli beni un po’ in tutto il comprensorio. Come il settecentesco casino di caccia sulle colline di Stignano, privo di ogni controllo e vittima indifesa di graffitari dozzinali e zozzoni da gita fuoriporta. O come il balcone in cemento e mattoni costruito impunemente sulla cinquecentesca abitazione natale di Tommaso Campanella a Stilo. Un’oscenità denunciata durante un convegno sugli studi campanelliani nel 2019 e che la terna prefettizia alla guida del Comune, pochi giorni dopo, ordinò di rimuovere.

    Serbatoio di acqua sui ruderi del Castello di Caulonia

    Caulonia e gli scontri tra Comune e Soprintendenza

    E ancora Caulonia, borgo tra i più belli in Regione, che negli anni, non si è fatto mancare proprio niente. Dalla costruzione del serbatoio dell’acqua potabile, edificato negli anni ’50 in spregio a un migliaio di anni di storia, sui resti del castello normanno, all’invasivo restauro della cinquecentesca chiesa matrice, fino alla polemica sul recupero dell’affresco del Cristo Pantacreatore, testimonianza antichissima della lunga dominazione bizantina e vittima suo malgrado di un tira e molla tragicomico. Il Comune voleva farci attorno una piazzetta in cotto con contorno di colonne doriche; la Soprintendenza minacciò di staccare la pittura da ciò che resta dell’abside di San Zaccaria per portarlo “in salvo” all’interno di un museo.

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    L’orribile copertura in vetro che protegge il mosaico del Cristo Pantacreatore a Caulonia

    La polemica è durata mesi ed è finita con un’imbarazzante copertura in acciaio e vetro. La stessa soluzione che a Placanica, pochi chilometri a nord, è stata individuata per il nuovo ascensore esterno in dotazione al castello. Un intervento pesante e dal forte impatto visivo che consentirà l’accesso ai disabili ma che ha scatenato una montagna di polemiche che hanno coinvolto la stessa Soprintendenza.

    L’ascensore esterno in vetro e acciaio del Castello di Placanica

    Accesso negato

    E se il patrimonio ereditato dal passato – punto di forza della candidatura – continua a camminare su un terreno minato, il rapporto attuale tra il territorio e la possibilità di accesso e fruizione alla cultura, è altrettanto contorto. Solo due i cinema superstiti in tutto il comprensorio, uno a Locri, l’altro a Siderno, e trovare un film che non sia un giocattolo della Marvel o un cartoon della Pixar, non è cosa da tutti i giorni. Sulle dita di una mano di contano poi le librerie, fatte salve quelle che riforniscono i testi scolastici, e anche ascoltare della semplice musica dal vivo, tolti i canonici due mesi di stagione estiva, è diventato molto più difficile che in passato.

    Il fantasma del palcoscenico

    Capitolo a parte meritano i teatri. Se buone vibrazioni arrivano dai ragazzi di Fuorisquadro – che hanno recuperato e rimesso a nuovo a loro spese il vecchio cinema liberty del paese per riconvertirlo in un teatro da 90 posti – pessime notizie arrivano da Gioiosa, unica struttura “ufficiale” che era rimasta aperta al pubblico nella Locride. Problemi all’impianto elettrico hanno fermato il cartellone: «I lavori da fare – dice il direttore artistico Domenico Pantano – sono tanti, soldi non ce ne sono. Ad oggi non è possibile ipotizzare una data per la riapertura».

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    Il teatro mai finito di Siderno: in costruzione dal 2002

    E se a Gioiosa il teatro chiude, a Siderno non ha mai aperto. E dire che la prima pietra per l’opera risale ai primi anni del nuovo secolo. Un iter elefantiaco fatto di errori e ritardi che ha fatto salire all’inverosimile i costi dal progetto iniziale e che si nutre di continui nuovi finanziamenti: l’ultimo, 2 milioni di euro garantiti con delibera del Cipe del 2018, prevede il completamento del teatro e la sistemazione della piazza adiacente ma i tempi di realizzazione non sembrano brevi.

    Il collaudo in contumacia

    Surreale poi la storia del teatro comunale Città di Locri – centro che dalla sua può comunque vantare un antico cartellone estivo in scena nel parco archeologico – che non solo ha chiuso i battenti pochi mesi dopo essere stato inaugurato nel 2018, ma è finito, suo malgrado anche nelle aule del tribunale cittadino. Il montacarichi, indispensabile per spostare su è giù dal palco le attrezzature necessarie alla messa in scena degli spettacoli infatti, non era mai stato installato.

    Lo ritrovarono a casa di un privato cittadino che, ignaro, lo aveva acquistato al doppio del prezzo dallo stesso imprenditore che aveva vinto l’appalto per il teatro, e di cui era suocero. Una storia dai tratti surreali, finita con sei rinvii a giudizio e una condanna con pena sospesa in abbreviato. Alla sbarra, oltre all’imprenditore che avrebbe messo in moto il doppio raggiro, ci sono finiti anche i tecnici che hanno firmato il collaudo dello stesso montacarichi: una sorta di collaudo “in contumacia” visto che il piccolo ascensore era da un’altra parte.

  • Rap, break dance e street art: come la Calabria scoprì la poesia della strada

    Rap, break dance e street art: come la Calabria scoprì la poesia della strada

    Un tappetino disteso sull’asfalto, il radiolone con le casse sparate “a palla”. Quattro ragazzi si contorcono a turno. E il marciapiede sembra prendere vita nei loro corpi modellati in pose impossibili, al ritmo di una voce che perentoria declama versi su basi ripetute. È il rap, la poesia della strada. Mai vista prima una scena simile in Calabria e regioni confinanti. I cosentini si fermano, osservano incuriositi. È il 1984 quando in città compaiono per la prima volta i B-boy, la break dance, l’hip hop e la street art. I muri spogli di edifici periferici e centrali ospitano vistosi graffiti colorati che appaiono all’alba, suscitando l’interesse dei passanti e il furore di qualche capo-condomino.

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    La street art è arrivata in Calabria

    I pionieri di rap e hip hop

    «Si usciva con radio in spalla a ballare in strada nonostante la pioggia e il freddo. Qualcuno la chiamava ciutìa – racconta Carmelo Gervasi, uno dei pionieri calabresi di questa cultura – ma per noi era magia. Il nostro immaginario era ispirato a film come Flashdance, Electrik boogaloo, Wild style, Breakin’ e Beat street. Avevamo letto il libro Spraycan Art. Ascoltavamo dischi dei Melle Mel, Run Dmc, Whoudini. Per noi l’hip hop significava poter danzare sulle sonorità fuori dai canoni. Lo sport che praticavamo era scovare qualcun altro che avesse le stesso nostro sentimento. C’erano Ramon con la sua fibbia personalizzata e Lugi col capello afro, mezzo popiliano e mezzo etiope. Loro hanno fatto da catalizzatori. Ramon ha aperto la strada a tutti i graffitari, Lugi è da sempre un modello per i rapper nostrani. Se oggi si parla di street dance, graffiti o rap in Calabria si deve solo a loro».

    Le prime crew che fecero scuola

    Mentre gli altri interpreti locali delle sottoculture giovanili apparivano a volte statuari, bloccati nelle pose museali della piazza Kennedy degli anni Ottanta, i giovanissimi B-boy erano dinamici, creativi, carichi di significati inediti per le latitudini meridiane. «La prima crew fu la Southern Style, composta da Ramon, Rak e Dedo. Poi – spiega Amaele Serino – venimmo noi, prima Mexicani e poi Jolly artist crew composta da Tiskio, Simo e J.D. Tutto ruotava nei quartieri di via Panebianco, Bosco de Nicola e l’ultimo lotto di via Popilia. I nostri luoghi di riproduzione sociale erano piazza Kennedy, il C.S.A. Gramna e il garage di Simo. All’epoca ci sembrava strano fare rap in lingua italiana; ascoltavamo Public Enemy, Beastie boys, N.W.A, Run DMC».

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    Writers nel quartiere Bosco De Nicola

    «Le prime controversie – continua Amaele – nacquero tra noi Mexicani e i Portoricani di Commenda e alcuni nostri graffiti furono sfregiati. Oggi è tutto diverso. Il writing e il bombing hanno lasciato il posto alla street art, a un nuovo modo di lanciare messaggi, anche se noi lo abbiamo sempre fatto, la tag c’era, ma non aveva più il significato dell’esserci come individuo, originario del Bronx». Tra i breaker più qualificati spiccava Giannone che nel mondo ultrà assumerà un insolito nome di battaglia: Tonno Nostromo.

    Dai murales cancellati a Banksy e Jorit

    All’inizio, quando questa forma di arte apparve sui muri della città, ci fu pure chi si affrettò a cancellare i murales, addirittura considerandoli atti di vandalismo. E in alcuni casi i rapper cosentini furono costretti ad arrivare allo scontro fisico con altre “bande”. Oggi i graffiti riscuotono rispetto e ammirazione. Artisti come Banksy sono celebrati in tutto il mondo. C’è pure qualche amministrazione comunale che destina spazi alla street art e ne finanzia la realizzazione. Rende ha accolto un’opera del grande Jorit. Ma, all’opposto, il perbenismo strisciante e la mania del decoro urbano perseguitano i writer, cancellando i loro lavori e multandoli.

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    Il murales commissionato a Jorit dal Comune di Rende durante la fase di realizzazione

    Ramon ricostruisce le difficoltà dei primi anni: «Io ricordo due momenti fondamentali della nostra storia: anzitutto gli inseguimenti tra noi graffitari e gli agenti di polizia. E parlo di inseguimenti veri e propri, con alcuni di noi catturati e portati in centrale e qualche poliziotto che cadeva e si infortunava nella foga dell’inseguimento, e il mitico concerto al Gramna in cui suonarono i membri della posse di Bologna, i Sangue Misto, tra cui Neffa e Gruff. Quella volta noi facemmo una figura ottima».

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    Cosenza, il concerto del 1992 al Gramna

    Ampollino rap: la Woodstock di Calabria

    Negli anni Novanta il movimento si allargò. Coinvolse ragazzi geniali come il compianto Dj Marcio. Nacque la South Posse. Il festival Ampollino Rap fu la Woodstock di Calabria. Una sera salì sul palco Frankie hi-nrg mc. Su base sincopata declamò i versi della sua Fight da faida: «Cosenza Potenza carne morta in partenza consacrata alla violenza senza opporre resistenza». Il testo non piacque per nulla al numeroso pubblico che si sentì offeso. Fischi, insulti, qualcuno minacciò di salire sul palco per tirare giù con la forza il rapper torinese.

    Sangue Misto (e chillum) all’Ampollino Rap del 1994

    Balzò su Dj Lugi, chiese rispetto per Frankie e lo ottenne dai tantissimi ragazzi provenienti dalle terre più remote della regione. Poi, improvvisando, ingaggiò con lui una sfida a colpi di rime. Lo convinse che i suoi versi raccontavano il sud in modo superficiale, aderente al mainstream, distante dalla realtà. Potenza del Rap: la serata finì in un abbraccio collettivo e sincere strette di mano. Della capacità dell’hip hop di penetrare le coscienze si è accorto di recente pure qualche insegnante nelle scuole. Ci sono professori che lo adoperano come strumento didattico.

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    La South Posse

    Doctor M, un primario graffitaro

    A Cosenza i rapper storici, attivi all’interno del collettivo Brò Crew 360, sono protagonisti di attività istruttive imperniate sull’uso dello spray. Nei workshop tematici realizzati nella Città dei Ragazzi, docente d’eccezione è stato anche Mario Verta. Nell’arte di strada si chiama Doctor M e di giorno fa un delicato lavoro: primario del reparto Gastroenterologia nell’ospedale dell’Annunziata. «Mario è molto bravo nel catturare l’interesse dei ragazzi. Un giorno – prevede Amaele – l’hip hop diventerà materia di studio nelle scuole. Oggi più di prima ha una connotazione socio educativa. E dopo 50 anni possiede ancora, nella sua essenza, la potenza comunicativa del riscatto sociale».

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    La Brò Crew 360

    Animali di strada

    In questi giorni la Brò Crew 360 espone nella Galleria Arte Indipendente Autogestita su corso Telesio una mostra dal titolo ANIMALI, visitabile fino al prossimo 24 aprile. I temi sono quelli di sempre: nessuna discriminazione, lotta contro le ingiustizie, educazione del dissenso, salvaguardia dell’ambiente e delle altre specie viventi. La spray art riproduce su pannelli lo sguardo e il punto di vista che queste creature hanno maturato su di noi, cioè sulla specie cosiddetta sapiens.

    «La mostra – spiega la crew – dà voce agli animali che ci accompagnano lungo la nostra esistenza, non soltanto come compagni, ma come esseri viventi capaci di aprirci gli occhi e il cuore. Il nostro egoismo e il nostro specismo non ci autorizzano a dominare la natura e il mondo in maniera assoluta; anche noi siamo esseri viventi destinati a morire. Il bisogno di comunicare sarà sempre una priorità per il genere umano. Più crescerà il disagio, maggiore diverrà questo bisogno. Nella G.A.I.A. si espongono gli animali. Per loro non c’è giusto o sbagliato. Forse è ciò che cerchiamo anche noi».