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  • FUORI RECINTO| Alla scoperta della Calabria che resiste

    FUORI RECINTO| Alla scoperta della Calabria che resiste

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    I viaggiatori del Settecento e dei secoli successivi hanno alternato nei loro diari impressioni contrastanti su questo lembo d’Italia chiamato Calabria, esaltandone alcune straordinarie bellezze e denunciandone le brutture. Quando la regione non veniva saltata a piè pari perché terra di ruberie, truffe e raggiri, assalti e uccisioni, in molte occasioni, per edulcorare a se stessi le delusioni, nei romantici diari di viaggio si attenuavano le profonde ed evidenti precarietà che la Calabria rappresentava e racchiudeva, nella medesima forma di paradigma delle negatività italiane di oggi.

    Edward Lear, disegno di viaggio in Calabria, 1847

    È pure vero che i frettolosi visitatori dimenticavano una certa quantità di eroi, soprattutto nel secolo risorgimentale. Così come pochi riuscivano a cogliere, in quei medesimi periodi, le tracce dell’antica bellezza magnogreca che pure ha interessato l’intera Calabria. Una storica frase dell’archeologo Lenormant, nel suo passaggio nei pressi dell’antica Sibari, rimane tutt’oggi memorabile: «Non credo che esista in nessuna parte del mondo qualcosa di più bello della pianura dove fu Sibari. Vi è riunita ogni bellezza in una volta: la ridente verzura dei dintorni di Napoli, la vastità dei più maestosi paesaggi alpestri, il sole e il mare della Grecia».

    Un viaggio tra slanci e ritardi

    Sarà la nostalgia di un passato affascinante, il richiamo di radici profonde e lontane quanto attuali, il senso di impotenza e disagio a spingermi a scrivere. L’obiettivo è scorgere, nelle pieghe di un tessuto urbano e sociale lacerato, slanci e sprazzi di vitalità che pure esistono e stanno emergendo. Scavare nelle macerie della nostra malconcia modernità alla ricerca della bellezza che sopravvive. Parlare dei nuovi eroi che la tengono attiva con iniziative che superano ogni difficoltà in una diversa forma di risorgimento sociale calabrese. Ritardi e slanci, quindi.

    Eroi nel Crotonese

    La chef Caterina Ceraudo nell’orto della sua azienda agricola

    La Regione Calabria si presenta alla Bit di Milano con ambizioni, premesse e promesse che pretendono di farla sembrare la Florida, ma il turismo che interessa la nostra terra è ancora di scarso livello culturale, con modeste ricadute socio-economiche. Però, proprio nei padiglioni milanesi della Bit, si accende una luce su una delle nostri giovani eroine: Caterina Ceraudo. Chef stellata, da tempo stupisce tutti con i suoi piatti che affondano le radici nella tradizione calabrese, nei prodotti di questa terra, con rivisitazioni che conquistano. Suo padre Roberto Ceraudo con sana testardaggine calabra ha realizzato dal nulla e conduce una azienda agricola bellissima, tutta ecologica, nei pressi di Strongoli.

    Caterina Ceraudo, Piatto Sottobosco, omaggio alla Sila

    Alla stessa maniera hanno fatto, poco vicino, gli altri nuovi eroi: i Librandi. Da generazioni rinnovano una cultura enologica di rara qualità, che include l’aver saputo rigenerare persino il vitigno calabrese per eccellenza, quel Gaglioppo capace di conservare l’origine della bellezza greca. E lo fanno in un contesto – tra Crotone e Cirò – saccheggiato dalla malavita, dall’abusivismo sulle coste, dalla moria progressiva dell’ex tessuto industriale crotonese. I Librandi hanno superato, da soli, la logica dell’assistenzialismo. Di generazione in generazione hanno acquisito prestigio: dai sei ettari iniziali oggi ne coltivano 232, con una produzione di 2,3 milioni di bottiglie e un nome noto nel mondo.

    I Librandi in un vigneto dell’azienda di famiglia

    La Sila che attira i turisti e quella che li respinge

    Per rimanere nell’ambito della nuova stagione del cibo, quest’anno la stella Michelin è toccata anche al lavoro certosino di ricerca e bellezza, tra odori e sapori dei boschi della Sila, di Antonio Biafora, del ristorante Hyle, a pochi chilometri da San Giovanni in Fiore. Nella stessa località ha sede anche il Consorzio Tutela Patata della Sila, una sfida vinta contro infiniti luoghi comuni avversi all’idea che al Sud si possa fare associazionismo e prodotti della terra di qualità ed ecologici.

    Lo chef stellato Antonio Biafora tra i boschi della Sila

    Tuttavia, a queste eccellenze e a una natura esuberante e di rara bellezza dei boschi di pino laricio fa da contrasto la povertà dei tessuti urbani dei principali centri silani. Fuori dalle cinture storiche, presentano una drammatica precarietà edilizia, estetica, mancanza di elementi minimi di decoro. Sono densi di provvisorietà, esito di ritardi culturali e miopia urbanistica. Certo non sono capaci di attrarre alcun turista intelligente. E non aiutano affatto il prestigio di Biafora, tantomeno della Patata della Sila, così come di altre eccellenze silane.

    San Giovanni In Fiore, Luca Chistè 2020

    Errori pubblici e privati

    Quanto accaduto negli ultimi cinquant’anni ai centri urbani calabresi, dietro al fallimento di ingenti investimenti pubblici con aree produttive vuote e fantasmagoriche, è frutto di una totale mancanza di strategie capaci di uno sguardo che non fosse oltre la soglia di casa. Così, più si scende verso Sud e più la cultura urbana e della manutenzione si fa chimera.

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    Rifiuti nel centro storico di Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Ma qui in Calabria, oltre questa assenza, si tratta di una diffusa condizione di disinteresse civico, di totale disattenzione verso qualsiasi segno di rinascita che si opponga al decadimento. E, se non fosse per il virtuosismo di iniziative private e di alcuni illuminati amministratori, il disagio e il divario verso altre realtà sarebbero ancora maggiori.

    Un’altra Calabria è possibile

    Questo, però, è anche un viaggio di speranza, di fiducia. Per accendere luci dove ci sono e smetterla con la cultura del lamento, ma seguire nel realizzare un panorama diverso dentro ai ritardi e alle devastazioni. Costruire una geografia positiva, capace nei prossimi anni di ribaltare le negatività e invertire la rotta, può tradursi in una ulteriore spinta per non sprecare l’occasione del Piano di Ripresa e Resilienza, che ha il Sud come obiettivo principale perché a Bruxelles lo sanno che è qui il punto nevralgico dell’Italia.

    Luci e ombre a Reggio Calabria

    Tra le ombre lunghe di Reggio Calabria, oltre il suo magnifico lungomare in cui una stupenda installazione dell’artista Edoardo Tresoldi conferisce a questo luogo la magia dell’Arte urbana, la città, nelle pieghe del suo tessuto più densamente abitato, esplode in un dedalo di conflitti urbani e diffusa marginalità. Con un aeroporto scalcinato indegno di tale nome, più verso la collina i pezzi di università che contrastano il degrado; un Museo del Mare mai finito, megalomane progetto dell’allora sindaco Scopelliti; fiumare abusivamente abitate e intasate di cemento.

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    I Bronzi nel Museo di Reggio Calabria

    Poi ci sono i Bronzi, felicemente ritrovati, in un Museo Archeologico che merita molto di più di ciò che ha e che può offrire. Per esempio qualcosa di più dell’inadeguato, recente, marchio per i 50 anni del ritrovamento delle due bellissime sculture, realizzato come sempre senza una sana competizione tra i migliori graphic designer italiani, ma affidato in modo superficiale a qualche miope “sguardo” localistico.

    Anche a Reggio si accendono da tempo luci tra le ombre. Nei numerosi ritardi accumulati dalla città dello Stretto si scorge lo slancio di giovani eroi che fanno cultura, innovazione, ricerca. Alcuni – intorno alla docente di UNIRC, Consuelo Nava, attivissima ricercatrice che dirige un produttivo laboratorio di tecnologia sostenibile sulle possibilità di un abitare ecologico in Calabria e nel Mediterraneo – accendono più di una speranza. Nella stessa università, pur in tempesta per le recenti indagini della procura locale, il dipartimento di Giurisprudenza è tra i più innovativi e avanzati nel settore e di recente è stato riconosciuto come Eccellenza dal MUR.

    L’importanza della scuola

    Proprio sulla tematica del costruire sostenibile, di recente, un ingente investimento statale ha consentito di mettere in sicurezza oltre 700 edifici scolastici calabresi. Le scuole sono di importanza vitale: qui si formano i cittadini futuri, le classi dirigenti e molti di essi rappresentano il segnale negativo di quanto poco interesse si ha per la qualità, il decoro, la funzionalità, diciamolo per la bellezza nelle sue diverse forme attuali. Mi fa piacere, in questo caso, accendere una luce sulla nuova Scuola d’infanzia “Virgilio” di Locri, un esempio di bioedilizia.

    La scuola “Virgilio” di Locri, prima del suo genere in Calabria

    È la prima in Calabria realizzata secondo una sintesi perfetta tra efficienza energetica, comfort e sostenibilità ambientale. La progettazione esecutiva e realizzazione sono di un’impresa calabrese, la Cesario Legno, con sede a Zumpano, dove tra capannoni anonimi e una natura bellissima, a due passi dal fiume Crati, si progettano case domotiche d’avanguardia.

    La Calabria che non si parla e quella che non si rassegna

    Da questo viaggio emerge quanto la Calabria sia in parte persa nei suoi diffusi e disarticolati territori, “che non si parlano”. Quanto questa terra di “bellezza e orrore” resti tanto chiusa nelle proprie estese e preoccupanti contraddizioni che ne amplificano il degrado. Ma emerge anche il coraggio di un esteso manipolo di resistenti, residenti, non assuefatti all’oblio, non rassegnati alla sconfitta, che alimentano già una letteratura vasta che include calabresi e non, illustri e meno noti.

    Una Calabria di oggi, dunque, ancora diffusamente punteggiata da slanci e ritardi. Dove ad aree industriali dismesse o mai decollate, strade non finite, edifici pubblici fatiscenti, luoghi della perenne precarietà, pontili nel nulla, porti senza navi, aeroporti senza aerei e senza qualità, perenni vuoti senza mai pieni, opere pubbliche faraoniche, si oppongono il desiderio del fare e un anelito al cambiamento diffusi ovunque. Alla scoperta di luci che diradano, nel tempo, le ombre più cupe, segnando una necessaria inversione di tendenza.

  • Mancini Stecchino e l’Occhiuto smemorato

    Mancini Stecchino e l’Occhiuto smemorato

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    «Non gli somiglia per niente». Da ieri mattina Cosenza su Facebook sembra il remake di Johnny Stecchino. La statua in onore di Giacomo Mancini ha messo in pausa per qualche ora virologi ed esperti di geopolitica: largo alla critica d’arte. Impietosa, come spesso l’expertise di settore non riesce ad essere.

    «Era più alto», «Ha un’espressione troppo severa», «Dà le spalle al Comune e al centro storico dove abitava»: «Guarda verso Rende»: sono solo alcune delle invettive all’indirizzo del monumento in onore del Vecchio Leone. Che comunque, già beatificato in vita, da ieri si è trasformato in feticcio di culto (laico, ma non troppo) con cosentini in fila per farsi un selfie “insieme” al metallico politico defunto, bello o brutto che sia. L’amore è cieco.

    Il bue e l’asino

    Degna di nota la stoccata dell’ex sindaco Mario Occhiuto al suo successore Franz Caruso. «In epoca contemporanea, tranne che nei regimi, si fa poco uso di busti e statue celebrative», ha malignato l’architetto tra una bordata alla nuova amministrazione e un ricordo – nell’attesa di eventuali sculture postume in suo onore – autocelebrativo.

    Un po’ come vedere Filini contestare un congiuntivo fuori posto al proprio interlocutore: l’aver fatto pagare al Comune, quando a Palazzo dei Bruzi comandava Occhiuto medesimo, decine e decine di migliaia di euro per una statua celebrativa di Alarico – sulla cui figura quegli odiatori degli storici sono concordi: pare proprio aver fatto meno di Mancini per la città – diventa trascurabile dettaglio nel sempre fecondo dibattito politico nostrano.

    Nuove e vecchie colonne

    Le polemiche estetiche sulla statua, però, hanno ceduto presto il passo ad altre questioni. Già stamane il dibattito si è spostato sulla via del socialismo. Che con la politica c’entra poco, trattandosi dei 50 metri di strada riaperta davanti alle scuole “Pizzuti” e “Zumbini” dal sindaco fedele al garofano rosso. Non ci voleva Nostradamus per immaginare che con la riapertura dei due istituti dopo la pausa per la Fiera di San Giuseppe/Francesco sarebbero tornate le auto incolonnate. C’erano anche prima con la piazzetta demolita e prima ancora che quest’ultima venisse realizzata. Ma la rete si è ritrovata invasa da istantanee sul consueto traffico quasi fossimo di fronte a una sorpresa epocale.

    Auto incolonnate alle 8.30 di stamattina nel tratto che ospitava piazza Rodotà prima della riapertura

    Simboli di Cosenza

    Un monumentino, a questo punto, lo meriterebbe forse anche il Genitore Ignoto, il primo ad essersi fermato in barba ai divieti nel rinnovato tratto per far scendere i pargoli evitando loro la fatica di un metro a piedi in più. Un simbolo di Cosenza anche lui, a suo modo. Quasi quanto Mancini e il gusto per la polemica.

  • Maneskin contro Putin? L’Italia del Coachella parla calabrese

    Maneskin contro Putin? L’Italia del Coachella parla calabrese

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    L’edizione di quest’anno passerà alla storia per quel «Free Ukraine, fuck Putin!» urlato dai Maneskin sul palco, ma c’è molto altro. Perché il Coachella Valley Music and Arts Festival è il festival musicale più famoso e instagrammato al mondo. Un raduno di musicisti che si avvicendano sui palchi giorno e notte, ma anche di celebrities e influencer che sfilano sui campi dell’Empire Polo Club di Indio, California. La location e l’atmosfera vagamente anni ’70 sono il vero spettacolo, quello che si svolge a favore di telefonini e si riversa sui social.

    https://www.youtube.com/watch?v=hewbCtVY2LU

    Un tocco di Calabria al Coachella

    Dietro il successo di questa edizione c’è anche l’estro di una giovane professionista calabrese che, insieme allo staff dello studio newyorkese con cui collabora, ha progettato un’installazione coloratissima che fa da cornice alle esibizioni sui palchi del festival e, naturalmente, a migliaia di foto postate con l’hashtag #Coachella.

    Una influencer in posa di fronte a Playground, il progetto a cui ha collaborato Anna Laura Pinto

    Lei è Anna Laura Pinto, cosentina, laurea in architettura a Roma e una valigia sempre pronta perché gli Stati Uniti sono ormai la sua seconda casa. Il Playground, questo è il nome dell’installazione che porta anche la sua firma, «è un pezzo di paesaggio urbano vagamente onirico – spiega – nel bel mezzo del deserto: quattro torri colorate che si raccolgono attorno a una piazza pensata come luogo di aggregazione, gioco, relax e che funziona come tale: durante la giornata, in particolare durante le ore più calde, è frequentatissima».

    Una calabrese a New York

    È appena rientrata dalla California, alle prese con i postumi del fuso orario e la valigia ancora da disfare. «Sono rimasta piacevolmente colpita dall’atmosfera che ho trovato – dice – non c’ero mai stata prima d’ora e ne avevo sempre avuto un’immagine diversa, filtrata dalle foto “glitterate” degli influencer. C’è anche quello ovviamente, ma non è la caratteristica predominante: ciò che è straordinario – dice – è lo spirito positivo che anima la collettività del festival, decine di concerti al giorno e migliaia di persone spinte dalla voglia di condividere la propria esperienza con altri. Da un lato le performance dei musicisti, dall’altra quelle degli spettatori. Un’esperienza del genere non può che fare bene allo spirito, direi che ne è valsa la pena».

    Anna Laura Pinto al Coachella Festival

    Quella del Coachella Festival è un’avventura che per Anna Laura è iniziata nel 2019. Si trovava a New York in quanto collaboratrice oltreoceano di Architensions, un prestigioso studio che ha sede nella Grande Mela e a Roma. «Ero venuta in estate a visitare i cantieri di progetti che avevo seguito a distanza. Poco dopo il mio arrivo – racconta – lo studio è stato invitato dalla direzione artistica del Coachella a partecipare a una gara per il progetto di una delle installazioni artistiche per l’edizione 2020, in competizione con altri artisti e designer».

    Un invito raccolto al volo: «In quel periodo vivevo l’ufficio dall’interno e sono stata subito coinvolta fin dalle primissime fasi nella progettazione dell’installazione. Ricordo perfettamente le lunghe discussioni in ufficio con Alessandro, Nick e gli altri membri del gruppo: quando inizi a lavorare ad un progetto e non sai ancora come si concretizzerà, gli scambi di opinioni sono fondamentali per stabilire dei criteri e capire quale sarà la strada che porterà alla definizione dell’oggetto. Il team è una forza».

    L’idea ha preso rapidamente forma: così è nata Playground. «Personalmente ho sempre avuto fiducia nel design di quest’opera – sorride Anna Laura – ho sempre pensato che aveva buone probabilità di essere selezionata. Ho ricevuto la notizia che il nostro progetto era stato scelto dopo il mio rientro in Italia. Fino a febbraio del 2020 pensavo che sarei tornata negli Usa per il Coachella 2020, poi è arrivata la pandemia ed eccoci nel 2022».

    Dall’Italia agli USA

    Anna Laura Pinto ha già all’attivo diversi successi nella sua carriera, il progetto di una casa a cui ha preso parte è stato pubblicato su Domus, la prestigiosa rivista di architettura e design.
    «Mi sono laureata in architettura ormai tredici anni fa a Roma – racconta -, dove ho iniziato la mia gavetta lavorando in diversi studi. Erano i primi anni ‘10 e molti miei coetanei in quegli anni erano già partiti per fare esperienze altrove. In Italia già allora un giovane architetto aveva poche opportunità di crescita professionale. In Cina c’era moltissima richiesta di architetti occidentali, in Europa le mete più gettonate erano Londra e Berlino. Io ero incuriosita dagli Usa, in particolare da New York che è la metropoli per eccellenza: è normale che un architetto ne sia affascinato.

    E così arriva dall’altro capo dell’Atlantico. «Sono partita per la prima volta nell’estate del 2013, un viaggio studio per perfezionare il mio inglese. Al mio ritorno in Italia ho conosciuto Alessandro Orsini, architetto italiano ed ex project designer dello studio Steven Holl che aveva da poco fondato Architensions con Nick Roseboro. Da lì a breve è nato il nostro rapporto di collaborazione. Al tempo l’ufficio era ancora molto giovane, ma mi sono trovata subito in linea con la loro maniera di fare e pensare l’architettura. In poco meno di dieci anni sono cresciuti molto, ed io con loro».

    Di nuovo in Calabria

    Ma nel presente e nel futuro di Anna Laura c’è sempre anche la Calabria. «Dopo aver lavorato ad una serie di progetti negli Stati Uniti, attualmente sono la referente sul versante europeo. Abbiamo da poco ultimato un progetto residenziale a Londra e stiamo studiando un piano per la riqualificazione e lo sviluppo di un paesino proprio qui in Calabria, Architensions è stato ufficialmente invitato dal sindaco. Un’ottima occasione di studio e approfondimento, sono contenta di poter portare avanti questa ricerca in un team internazionale: lo scambio di visioni dovute a esperienze in contesti molto diversi penso possa aggiungere valore al risultato finale».

    Un legame forte quello con la sua terra, in particolare con Cosenza, dove è tornata a vivere dopo il primo periodo negli Stati Uniti. «Ho fatto base qui per tutto questo tempo, trascorrendo lunghi periodi a New York e a Roma, sempre con un occhio verso l’esterno. Però non l’ho mai abbandonata. È un rapporto basato fondamentalmente su un legame d’affetto, ma penso che Cosenza sia una città che ha molto da raccontare, piena di potenzialità inespresse che mi auguro possano essere valorizzate. Ancora è presto per entrare nello specifico – conclude – ma devo dire che alcune collaborazioni sono nate proprio in Calabria, dove ci sono degli ottimi professionisti e dove esiste una vivacità intellettuale e culturale che merita di emergere».

  • Calabria film commission: se Grande divide, Vigna resta la vera anomalia

    Calabria film commission: se Grande divide, Vigna resta la vera anomalia

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    La regola dell’amico non sbaglia mai, dicevano gli 883 negli anni ’90. Invece, il ginepraio di polemiche sorte al seguito della nomina del “vecchio amico” di Roberto Occhiuto, il lametino Antonio Grande (detto Anton Giulio per l’haute couture) è arrivata a far porre dei dubbi persino al solitamente dormiente gruppo Pd in Consiglio regionale guidato da Nicola Irto. «Un atto incomprensibile», hanno stigmatizzato pubblicamente, senza annunciare (confidiamo nell’effetto sorpresa) alcun atto politico-istituzionale-ispettivo consequenziale.

    Furgiuele plaude e si smarca

    Il concittadino del neo commissario di Calabria Film Commission, il deputato della Lega Domenico Furgiuele, ha plaudito pubblicamente alla nomina. «Da tempo – il suo commento – l’amico Anton Giulio mostra interesse e sensibilità verso i temi della ripresa culturale e della promozione dell’immagine della Calabria». Poi ha smentito di essere il “suggeritore” della nomina, come pensato nell’immediato dai più. «La nomina l’ha fatta Occhiuto. Io l’ho condivisa in pieno», ha dichiarato a ICalabresi.

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    Domenico Furgiuele

    Tre imprese, tutte chiuse

    Invece, Antonio Grande, avvistato nell’estate 2021 agli eventi di presentazione della candidatura di Roberto Occhiuto, pare quasi sia stato ripescato a seguito della cessione formale delle sue attività aziendali.
    Difatti, da quanto risulta dalla relativa Camera di Commercio e dalle Conservatorie, la società in nome collettivo “Antongiulio Grande di Giovannino Antonio Macrì & Antonio Grande”, è cessata nel 2008. «Il 18 febbraio 2008 il conservatore ha trasmesso al Giudice del registro imprese di Catanzaro la proposta di cancellazione d’ufficio dell’impresa», si legge nella visura camerale.

    Nel contempo, la Anton Giulio Grande s.r.l. con sede a Roma, nata nel febbraio 1996, è finita in liquidazione (con Antonio Grande liquidatore) e poi definitivamente cancellata il 19 luglio del 2012.
    È rimasta in piedi l’impresa artigiana “Antonio Grande”, nata subito dopo la chiusura della s.r.l. romana, nel novembre 2012. Una impresa iscritta con la qualifica di “Piccolo imprenditore” e annotata come impresa artigiana.
    Una azienda di sartoria con un solo addetto (formalmente non dipendente), la cui attività è cessata il 31 dicembre 2020, con cancellazione dal registro delle imprese nel febbraio 2021.

    Silenzi e divagazioni

    Da allora non risulta nient’altro, né Antonio Grande risulta avere altre partecipazioni societarie. Eppure nel gennaio 2022 ha presentato alla Fashion Week di Torino la sua nuova collezione di Alta Moda con 30 abiti, per poi portarla anche al Digital fashion show in Sicilia. «Noto stilista con atelier a Roma e Firenze, amato dalle signore dell’aristocrazia internazionale e dal luccicante mondo dello showbiz», lo definisce l’intro dell’intervista da lui resa a AobMagazine. Mentre lui stesso dichiara nel marzo 2022 a VelvetMag «L’alta moda dovrebbe essere concepita e recepita come un’opera d’arte, sfiorare l’ideale e quindi approdare ad un concetto di eternità». A differenza delle sue aziende che, però, risultano, come si è detto, chiuse, nonostante le presentazioni dei nuovi abiti offerte alla stampa.

    Interpellato direttamente sulla questione, Antonio Grande non ha ritenuto di rispondere alla domanda. Lo stesso deputato Domenico Furgiuele, alla domanda da noi posta se fosse opportuno nominare con un incarico di gestione apicale come risultano essere i compiti del commissario di Calabria Film Commission, una personalità che ha chiuso le sue aziende non ha risposto. Ha solo ripetuto che «La nuova Film commission si occuperà di cinema e non solo, ma di cultura e di arte. Grande è un uomo di arte e di cultura».

    Ma la Lega si smarca

    Lo pseudo sillogismo di Furgiuele – seguendo la stessa logica, perché non affidare la Film Commission a un ballerino o un pittore, visto che sempre di uomini di arte e cultura si tratta? – pare cozzare con la linea ufficiale dei suoi compagni di partito. Nel pomeriggio, infatti, Francesco Saccomanno, commissario regionale del Carroccio, si è affrettato a inviare una nota in cui precisa che eventuali suggerimenti su incarichi a nome del partito spettano solo e soltanto a lui. Che però «non ha mai avanzato nominativi non essendo neanche a conoscenza di tale possibile incarico». Un documento stringatissimo in cui balza all’occhio l’assenza di qualsivoglia apprezzamento per la scelta di Occhiuto.

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    Anton Giulio Grande al Festival di Venezia

    L’incognita compensi

    Il decreto con cui Occhiuto ha nominato Grande come commissario specifica che «il presente provvedimento non comporta oneri a carico del bilancio annuale e/o pluriennale regionale».
    Lo Statuto della Fondazione, invece, dispone che «Al presidente spetta un compenso equiparato a quello dei Dirigenti generali della Regione Calabria», ossia circa 135mila euro annui. Nel nuovo Statuto (contenuto nel burc dello scorso 1 febbraio) la somma scende a 40mila euro annui, ma non è ancora in vigore.

    Non risulta, però, che il ruolo di commissario sia legislativamente equiparato a quello di Presidente (soprattutto per quanto riguarda i compensi). Difatti, l’ex presidente Giuseppe Citrigno, dopo un triennio a titolo gratuito, nel 2019 ha avuto un compenso lordo di 44.379,11 annui. Giovanni Minoli, nella sua qualità, invece, di commissario straordinario nel 2020 e nel 2021 non ha percepito nessuna retribuzione. Difficile, quindi, arrivare a fare una “forzatura interpretativa” che non trova alcun riscontro né nell’atto di incarico, né nello Statuto della Fondazione, al fine di erogare compensi non specificamente previsti.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Doppio incarico per Vigna

    Non c’è solo la questione del Commissario, ma anche quella del direttore di Calabria Film Commission. A ricoprire l’incarico è Luciano Vigna, ex assessore comunale a Cosenza, ex responsabile amministrativo (per un mese) della presidente Jole Santelli e poi suo capo di Gabinetto fino all’1 giugno 2021.
    Proprio in quella stessa data Luciano Vigna viene individuato come Direttore della Fondazione e subito nominato con decreto del Presidente della Regione (Nino Spirlì) numero 43 del 1 giugno 2021, con un compenso annuo (previsto dall’articolo 12 dello Statuto della Fondazione) pari a quello stabilito per i Dirigenti Generali dei dipartimenti della Giunta Regionale, decurtato del 20%. In soldoni sono 129.971,21 euro lordi ogni dodici mesi.

    Vigna, però, è stato nominato con Decreto n. 217 del 24 novembre 2021 a firma di Roberto Occhiuto, nuovamente Capo di Gabinetto del presidente.
    Seppur a titolo gratuito, tale incarico comporta una rilevante gestione del potere, come cristallizzato dall’articolo 9 della legge regionale 8 del 1996. Difatti, si legge che: “L’Ufficio di Gabinetto cura la trattazione degli affari connessi con le funzioni del Presidente, secondo le direttive dallo stesso impartite, ed è d’ausilio nei rapporti con gli altri organi regionali, con gli organi statali, centrali e periferici, nonché con le formazioni sociali e le comunità locali».

    L’ex presidente facente fuzioni della Regione Calabria, Nino Spirlì

    Controllore e controllato: si dimette?

    C’è da dire, però, che qualcosa deve essere sfuggito, perché nell’atto di nomina come Capo di Gabinetto, risulta che Vigna abbia dichiarato di non trovarsi in alcuna delle condizioni di incompatibilità previste dalla legge regionale 7 del 1996, né in cause di conflitto di interessi.
    Eppure nella legge regionale 16 del 2005, che modifica la citata normativa del 1996 si legge che nell’ufficio di Gabinetto non può essere utilizzato chi «sia componente di organi statutari di enti, aziende o società regionali o a rilevante partecipazione regionale».

    L’articolo 3 dello Statuto della Calabria Film Commission, invece, cristallizza che: «la Fondazione esercita la propria attività prevalente in favore del Socio fondatore Regione Calabria, nel senso che almeno l’80% delle proprie attività sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dal predetto Socio fondatore Regione Calabria». Inoltre, secondo l’articolo 16 «le cariche di Presidente e di Direttore sono incompatibili con attività, incarichi e interessi che siano in conflitto con i compiti istituzionali della Fondazione, fatte salve le altre cause di incompatibilità/inconferibilità previste dalla legislazione vigente».

    Siccome, secondo l’articolo 18 dello Statuto della Fondazione, la Regione Calabria esercita attività di vigilanza (e che la Giunta regionale sovrintende all’ordinamento ed alla gestione della Fondazione), risulta chiaro che con Vigna in entrambi i ruoli, il controllore ed il controllato corrispondono. Si dimetterà?

  • I Bronzi di Riace saranno candidati a Patrimonio dell’Unesco

    I Bronzi di Riace saranno candidati a Patrimonio dell’Unesco

    Patrimonio dell’Unesco. Proprio come il Centro Storico di Roma. O Venezia e la sua laguna. O i Sassi di Matera, i Trulli di Albero Bello, la Costiera Amalfitana, le Dolomiti, i Portici di Bologna, solo per rimanere in Italia. E per menzionare solo alcuni esempi. Anche i Bronzi di Riace potrebbero diventare Patrimonio dell’Umanità.

    L’annuncio è avvenuto proprio nel corso della conferenza stampa con cui il Comitato Interistituzionale presieduto dalla Regione Calabria ha presentato il logo e le iniziative per il cinquantennale del ritrovamento dei Bronzi di Riace.

    Il logo per i 50 anni

    Sfondo azzurro. Proprio come quel mare dove vennero ritrovati, ormai quasi 50 anni fa. Era il 16 agosto del 1972. Oggi il Comitato interistituzionale ha presentato il logo che accompagnerà le numerose iniziative, sul territorio e fuori dalla Calabria, che dovranno celebrare la straordinaria scoperta. Nella parte centrale campeggia la scritta “Bronzi 50”, con i numeri in colore oro.

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    Il logo realizzato per celebrare l’anniversario

    «I Bronzi sono un patrimonio su cui intendiamo lavorare molto per irrobustire l’immagine della Calabria nel mondo. Ed è anche un’occasione per fare squadra con il MaRc, la Città Metropolitana, di modo che la cultura sia tra i cardini del riscatto economico del nostro contesto. E i Bronzi, senza dubbio, hanno uno straordinario effetto trainante», ha detto la vicepresidente Princi.

    Il Tavolo di coordinamento

    La Regione mette così a tacere le tante critiche fin qui giunte circa i ritardi nella preparazione delle iniziative atte non solo a ricordare, ma, soprattutto, a far conoscere i due Guerrieri e la loro storia millenaria.

    A coordinare il Comitato e il tavolo della presentazione, la vicepresidente della Regione Calabria, Giusi Princi. Ma sono numerosi gli enti coinvolti: il Comune e la Città Metropolitana di Reggio Calabria, il Comune di Riace, la Camera di Commercio e l’Università di Reggio Calabria, il Ministero della Cultura e la Sovrintendenza Regionale dei Beni Archeologici.

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    La conferenza stampa di oggi per presentare le iniziative in programma

    I Bronzi di Riace Patrimonio dell’Unesco?

    Il Comitato, infatti, ha elaborato un Piano di promozione, comunicazione ed eventi internazionali, che si concluderanno nel mese di dicembre 2022. Programmati eventi dedicati ai Bronzi di Riace in Texas, Inghilterra, Germania, Francia, con il coinvolgimento delle Camere di commercio estere e delle Ambasciate.

    I due Bronzi, di età riconducibile al V secolo a.C., sono custoditi al Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria. Ma solo raramente sono riusciti ad avere la ribalta meritata. Ora, però, la Regione vuole pensare e agire in grande: «L’anniversario del 50esimo del ritrovamento dei Bronzi di Riace rappresenta una grande opportunità, una vetrina importante per la promozione culturale e turistica della Calabria. Proprio per questo stiamo lavorando affinché le due statue diventino Patrimonio mondiale Unesco», ha detto Princi.

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    Carmelo Malacrino

    Per il direttore del Museo nazionale, Carmelo Malacrino, «si tratta di una occasione irripetibile per rilanciare i Bronzi». Melacrino ha confermato che anche per la prossima stagione estiva, il Museo tornerà ad ospitare, dalle ore 20 alle 23, incontri, concerti e approfondimenti culturali.

    Le iniziative

    Mostre, convegni, incontri, promozione dentro e fuori dal territorio. Ma, soprattutto, l’obiettivo di far conoscere il più possibile i due guerrieri fuori dalla regione. La Cittadella ha già predisposto la proiezione delle statue dei Guerrieri sui video-wall di importanti stazioni ferroviarie, come quelle di Milano e Roma, ma anche sugli schermi degli aeroporti italiani. Tutto dovrebbe partire da maggio e andare fino a dicembre, per far parlare delle statue per tutta la durata del 2022.

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    L’ingresso della Stazione di Roma Termini

    Su questa linea si inquadra anche la partnership con il Giro d’Italia di ciclismo, che partirà a maggio, e con il Salone del Libro di Torino, che si terrà dal 19 al 23 dello stesso mese. Celebrazioni che si dovrebbe concludere a dicembre con l’opera lirica capolavoro di Francesco Cilea, Adriana Lecovreur. Interpreti principali: Maria Agresta, reduce dalla Scala di Milano con la stessa opera, e Michele Fabiano, tenore di fama internazionale, peraltro originario di Scilla.

    Il problema dei trasporti

    Mai del tutto valorizzati. E, proprio per questo, in passato da più parti si sollevò la proposta di spostare i Bronzi, di portarli in giro per il mondo. Il Comitato interistituzionale ha un’altra idea: «I Bronzi devono rimanere al Museo Archeologico di Reggio Calabria». Lo hanno detto sostanzialmente tutti: la stessa Princi, ma anche Malacrino e il sindaco di Riace, Antonio Trifoli. Quindi, dev’essere il mondo a recarsi a Reggio Calabria per ammirare due opere uniche.

    Aeroporto Minniti, la cenerentola degli scali calabresi
    Un aereo fermo sulla pista del Tito Minniti

    Ciò che preoccupa, però, è l’isolamento della regione. I potenziali turisti potrebbero essere scoraggiati dalla difficoltà di raggiungere la Calabria e dai prezzi assai esosi per atterrare a Reggio Calabria. Sul tema degli aeroporti, Princi ha rivendicato il lavoro svolto dalla Giunta Regionale presieduta da Roberto Occhiuto con l’acquisizione del 70% delle quote della Sacal. Attraverso questo passaggio, la vicepresidente della Regione è convinta che già nel breve periodo si possa arrivare a eliminare le limitazioni che hanno fin qui frenato lo sviluppo dell’Aeroporto dello Stretto, con l’arrivo, per esempio, delle compagnie low cost.

    La vicepresidente della Regione, ancora, ha reso noto la proposta di «pacchetti turistici integrati e mirati per le scuole, dedicati ai Bronzi, con il coinvolgimento dell’imprenditoria locale». Oltre un milione di euro per gli istituti scolastici con meta privilegiata la Città Metropolitana di Reggio Calabria.

    Le attività economiche

    Il presidente della Camera di Commercio, Antonino Tramontana, ha reso noto che «all’interno dei pacchetti turistici programmati, con soste da una a tre settimane, con l’impegno dei ristoratori, saranno offerti piatti gastronomici in sintonia con l’evento. Un menù tipico della nostra provincia, accompagnato da cocktail, vini tipici e una birra di produzione locale fatta col nostro grano e il bergamotto».

    Antichi macchinari per l’estrazione dell’essenza di bergamotto (Consorzio tutela del Bergamotto di Reggio Calabria)

    Sono 20 gli itinerari di varia durata, resi già disponibili, dedicati ai Bronzi di Riace e finalizzati a far conoscere le grandi ricchezze culturali, naturalistiche ed enogastronomiche del territorio reggino. Il presidente Tramontana ha annunciato che diversi chef e diversi barman stanno già lavorando per creare dei menù tipici del territorio e dei cocktail dedicati al cinquantennale del ritrovamento dei Bronzi. Così come è in atto il coinvolgimento delle aziende vinicole e dei birrifici. «Le attività ristorative saranno invitate a promuovere anche la somministrazione di preparazioni enogastronomiche identitarie del territorio, dedicate all’evento», dice ancora Tramontana.

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  • Pagliacci global, un delitto made in Montalto alla conquista degli Stati Uniti

    Pagliacci global, un delitto made in Montalto alla conquista degli Stati Uniti

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    «Benvenuti a Montalto Uffugo, il paese di Ruggiero Leoncavallo». Recitava così un enorme cartellone stradale visibile dal 2002 all’ingresso di quello che ora è lo smantellato e fatiscente ipermercato Emmezeta, appena fuori dallo svincolo Rose-Montalto dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Curioso invito alla sosta tra luoghi-non luoghi collegati alla genesi artistica e alla vicenda di uno dei più famosi e popolari melodrammi del teatro lirico italiano. Eppure il palinsesto originario di Pagliacci riconduce a un territorio estraneo e distante dalla soglia mobile ed effimera di questi santuari provvisori del consumismo planetario. A un mondo “altro”, lontano anni luce dalle finzioni glamour e dalla spettacolarizzazione a cui ci ha abituato oggi la cultura di massa.

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    Montalto Uffugo, il museo dedicato a Leoncavallo

    Il piccolo Leoncavallo e la vera storia di Pagliacci

    Il più famoso melodramma di Leoncavallo (autore peraltro molto prolifico) nasce intorno al 1890. Enfatizza gli echi più tragici e coinvolgenti scaturiti da un episodio registrato dalle cronache e dal folclore locale. L’opera si ispira a un delitto realmente accaduto a Montalto Uffugo, quando il compositore era bambino. In seguito, il padre di Ruggiero Leoncavallo, Vincenzo, un magistrato napoletano destinato a quel mandamento giudiziario, ebbe il compito di istruire il processo che portò alla condanna dei colpevoli.

    Ecco in breve come andarono realmente le cose. Per una carambola del caso il piccolo e irrequieto Ruggiero venne affidato dalla famiglia alla sorveglianza di un domestico, il ventenne Gaetano Scavello. Siamo nel 1865, Leoncavallo (che prendeva lezioni di musica da quando aveva 5 anni) all’epoca dei fatti ne aveva appena 8.

    La cronaca nera stava per entrare nella sua vita turbando anche la pigra tranquillità di Montalto Uffugo. Proprio Scavello, giovane factutum di casa Leoncavallo, si era preso una sbandata per una bella e forse non del tutto “illibata” (ma quella era la morale paesana di quei tempi) ragazza del paese, che risultava comunque promessa al calzolaio Luigi D’Alessandro.

    La morte del factotum di casa

    Un giorno di marzo il giovane Scavello vide entrare furtivamente la ragazza in una casa colonica. Era insieme al garzone della famiglia D’Alessandro, tale Pasquale Esposito. Pretendendo maggiori spiegazioni, Scavello fermò Esposito, ma il suo rifiuto di rivelare il motivo dell’incontro con la ragazza lo fece infuriare al punto di ferire l’avversario alle gambe con un bastone. La ragione dello scontro venne subito riferita allo stesso Luigi D’Alessandro e al fratello di questi, Giovanni.

    La sera successiva i due feriti nell’onore minacciarono più volte Scavello. E al culmine di un alterco, approfittando della confusione e del parapiglia promiscuo che si era creato all’uscita di uno spettacolo di varietà messo in scena da una compagnia di sciantose e guitti ambulanti che visitava il paese, accoltellarono il giovane a morte tendendogli un agguato in un sopportico. L’istruttoria e il successivo processo per l’omicidio dello Scavello, celebrati da Vincenzo Leoncavallo, si conclusero con la condanna a venti anni di reclusione per Luigi D’Alessandro e ai lavori forzati a vita per suo fratello Giovanni.

    Troppo verista per Ricordi

    Difficile che il piccolo Leoncavallo possa aver assistito direttamente al fatto di sangue, mentre è certo il legame di familiarità stabilito all’epoca dei fatti con la vittima. La traduzione dei fatti originari è quindi piuttosto diversa da quella che segnerà poi lo sviluppo successivo della scrittura dell’opera lirica. Anche la trama e la scrittura del libretto per Leoncavallo non furono cosa semplice e non mancarono scoraggianti contrarietà e rifiuti. Il compositore sottopose il lavoro all’editore Ricordi, che rimase turbato dalla modernità del libretto e dal prologo eccessivamente verista in cui Leoncavallo, tramutando quella tragedia paesana di sangue e di coltello consumata dal vero, aveva tratto ispirazione e materia creando un ardito cortocircuito tra scena comica e vicenda tragica.

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    Ruggiero Leoncavallo

    Leoncavallo provò infine con Sonzogno, che imponendo qualche revisione, gli consentì di portare finalmente a teatro il lavoro che aveva così a lungo e accanitamente immaginato, scritto e musicato. Il suo lavoro mette per la prima volta a contatto figure e costrutti della tradizione e della culturale locale calabrese con i linguaggi della modernità.
    L’opera lirica fu perciò ambientata dal compositore napoletano proprio nella «sua» Montalto Uffugo, il piccolo paese della provincia di Cosenza dove si consumò l’episodio di cronaca che lo condusse a scrivere a 35 anni Pagliacci.

    Toscanini e il primo clamoroso successo

    L’opera ha nell’aria Vesti la giubba e nella definizione del Prologo, espressione di teatro nel teatro che già anticipa la drammaturgia novecentesca, i suoi passaggi librettistici e musicali più conosciuti. Leoncavallo non fu infatti solo musicista ma anche un buon letterato, fu allievo di Carducci a Bologna, visse e lavorò a Parigi – dove conobbe Zola e Hugo – viaggiò dall’Egitto agli USA, in Francia, in Svizzera e in Sudamerica.

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    Arturo Toscanini

    Partita in sordina, considerata opera di un autore minore, con un libretto di argomento rozzo e «barbaramente verista», aggravato dalla remota ambientazione locale e per giunta rurale, sin dalla prima recita messa in scena il 21 maggio 1892 al teatro Dal Verme di Milano, direttore un giovane Toscanini, Pagliacci si rivelò invece inaspettatamente un clamoroso successo, proseguito e riaffermato poi nei teatri lirici di tutto il mondo.

    Anche meglio di Verdi

    Con Pagliacci Leoncavallo e il suo editore Sonzogno, non molto tempo dopo, riusciranno a superare persino gli incassi delle opere di Verdi. A distanza di un secolo Pagliacci resta nei fatti un unicum. Un esempio di sintesi culturale tra i più autentici e riusciti in mezzo ai capolavori del verismo musicale italiano. Sulla scena è protagonista un povero guitto deriso e fatto becco da una Circe da fiera di paese che sceglie il suo ultimo amante tra uno dei ganzi che le ronzano intorno nella confusione della folla eccitata e stordita di un afoso paesino in cui si celebra tra libagioni omeriche e danze contadine la festa di mezza estate.

    La commedia degli attori girovaghi si tiene sotto un tendone lacero e improvvisato. Ma l’attrazione sta nei carrozzoni colorati da cui occhieggiano zingare compiacenti e sciantose imbellettate, il cui fascino profano gareggia con le immagini pie delle madonne barcollanti portate in processione nella controra. Siamo nella Calabria del 1870, ma due elementi danno una credibilità e uno spessore antropologico universale (e beninteso, teatrale) al melodramma: il paesaggio e l’ambiente sociale, emblema di tutti i Sud che si affacciano per le ultime recite sul bordo del vecchio mondo contadino che già declina verso il Novecento, con l’incipiente mondo contemporaneo che vedrà la globalizzazione dei costumi. C’è poi il dramma «classico» e luttuoso che grava sulla figura tragica di Canio.

    Il melodramma più rappresentato in giro per il mondo

    Il verismo di Pagliacci non è solo rappresentato nei costumi, nelle invocazioni gergali, nell’ampio coinvolgimento scenografico di figure popolari –tratte come le scene dal vero della prima rappresentazione teatrale, dai dipinti del pittore calabrese Rocco Ferrari –, ma anche soprattutto nel dramma dell’onore, nelle figure di Canio e Nedda, nell’apoteosi brutale del duplice omicidio finale.

    Ed è forse per questo che l’opera di Leoncavallo, scritta pensando alla Calabria e al suo mondo segregato e distante, ritrova ancora oggi i contrasti tragici della sua radice più classica e insuperata nella congiuntura culturale, che nonostante il secolo trascorso ne mantiene intatto il successo anche in ambito contemporaneo. Pagliacci è infatti ancora oggi il melodramma italiano più frequentemente portato in scena e cantato, persino più volte delle opere di Verdi e Puccini. Ogni anno in giro per il mondo, nei teatri di tutti i continenti, si contano più di 400 rappresentazioni dell’opera.

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    Pagliacci alla Scala di Milano

    Leoncavallo, Pagliacci e l’industria culturale

    Anche l’industria culturale e il cinema ne hanno attinto a piene mani. Le note delle arie più famose di Pagliacci risuonano ne la trilogia de Il padrino di Coppola e una delle scene clou de Gli intoccabili di De Palma, sino alle più recenti versioni melò dell’opera di Leoncavallo firmate in Italia da Zeffirelli (1983), Liliana Cavani (1998) e Marco Bellocchio (2016). Uno dei marchi delle global company più conosciute nel mondo, la Coca Cola, già più qualche anno fa aveva pensato bene di utilizzare per la pubblicità della sua così poco mediterranea bevanda, proprio la traccia musicale di una delle arie più sentimentali e patetiche che danno lustro universale alla vicenda di questo melodramma.

    Leoncavallo fu in grado di operare così una “traduzione” culturale di realtà marginali nelle forme e nei linguaggi più moderni e comunicativi disponibili all’arte popolare di quel periodo: il melodramma verista, e poi la musica popolare delle arie e delle romanze stampate e diffuse ovunque per la prima volta su disco, e particolarmente diffuse grazie questo primo veicolo tra le comunità di emigrati italiani all’estero e soprattutto nelle due Americhe.

    Un tesoro per gli americani

    Ne è prova il National Recording Registry, un museo di files sonori creato dalla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. In questo archivio multimediale è stata immortalata la storia culturale degli USA. Vi hanno trovato consacrazione le voci ruvide e stentoree di presidenti e generali, le icone sonore di Martin Luther King che pronuncia il suo celebre «I have a dream», la voce da crooner di Frank Sinatra e quella libertaria di un giovane Bob Dylan che canta Blowin’ in the wind.

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    La biblioteca del Congresso a Washington

    In mezzo a questo campionario di voci memorabili è possibile ascoltare i maestri del jazz e della musica classica, i poeti e gli artisti del rock, pezzi di storia popolare come la prima trasmissione radiofonica americana, il primo disco di jazz, il primo album in stereo e altro ancora. In tutto le registrazioni da consegnare ai posteri per ora sono solo cinquanta, selezionate da un gruppo di esperti guidati da James H. Billington, responsabile della Libreria del Congresso, che le ha giudicate «culturalmente, storicamente o esteticamente rilevanti per importanza» per la ricostruzione della storia culturale degli USA.

    Enrico Caruso e una registrazione da record

    Al n. 7 del repertorio, c’è per ora l’unico brano in italiano: un’aria d’opera che divenne subito famosa e amata, e non solo tra gli immigrati italiani, «Vesti la giubba from Pagliacci of Ruggiero Leoncavallo. By Enrico Caruso. (1907)». Il celebre brano è preceduto da questa motivazione: «Tenor Enrico Caruso was probably the most popular recording artist of his time. His recording of this signature aria by Leoncavallo was a best-selling recording». (Il tenore Enrico Caruso fu probabilmente l’artista più popolare del suo tempo a incidere. La sua registrazione dell’aria simbolo di Leoncavallo fu tra quelle più vendute, ndr).

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    Enrico Caruso in abiti di scena

    Si trattava dunque già allora di un successo ultrapopolare del belcanto; Leoncavallo dimostrando grande fiuto per lo showbiz fu tra i primi compositori a registrare le sue musiche su disco. Successo che dura ancora oggi intatto. Merito di Caruso, merito di Leoncavallo e soprattutto di una storia di paese che raccontava al nuovo mondo l’anima degli italiani del Sud.

    Leoncavallo e i Pagliacci globalizzati

    Con Pagliacci Leoncavallo riformulava il melodramma classico, ibridando il belcanto con i temi e gli ambienti sociali emersi dal basso. Del resto lo stesso Leoncavallo, per guadagnarsi da vivere aveva suonato nei bistrot e nei caffè-concerto malfamati di Parigi.

    Ed è forse per questo che all’epoca autore e opera (nonostante il grande successo popolare) furono ambedue così apertamente osteggiati dalla critica musicale purista e dalle posizioni più ufficiali e conservatrici dell’intellettualità nazionale. Piaceva molto invece agli emigranti italiani, e agli americani, quella musica «tumultuosa e vistosa». Era esagerata, ibrida e sporca, come come il jazz, come un musical, come un’opera rock. Pagliacci, globalizzati.

  • La marcia su Vibo: in strada per difendere il diritto a Cultura e Bellezza

    La marcia su Vibo: in strada per difendere il diritto a Cultura e Bellezza

    Il liceo Morelli dista da quel palazzo, costruito su antichi resti romani, poco più di cento passi. E quello che è accaduto a Vibo in queste poche decine di metri ha molto a che fare con l’idea di «insegnare la bellezza». Senza rispolverare la retorica su Peppino Impastato, che in realtà certe parole non le ha mai pronunciate, si tratta comunque di una storia che fa pensare. Perché riguarda la bellezza e, soprattutto, il coraggio di non girarsi dall’altra parte.

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    Il liceo Morelli di Vibo Valentia

    A spasso nella storia di Vibo

    Parla proprio di questo, ai suoi ragazzi, Maria Concetta Preta, docente di Lettere, Latino e Greco del Classico di Vibo. Della bellezza passata, di quella nascosta e anche di quella ricoperta da cemento e collusioni. La professoressa ha promosso nelle scorse settimane una «Marcia per i Beni culturali» che ha portato i suoi studenti «in cammino per il diritto alla Cultura e alla Bellezza».

    Lo hanno fatto richiamando l’articolo 9 della Costituzione e andando, fisicamente, in alcuni luoghi simbolo del patrimonio archeologico vibonese. Il Tempio Greco al Belvedere, le Aree sacre del Cofino e del Cofinello, il Museo “Capialbi”, le Mura Greche di Hipponion. Gli studenti vorrebbero adottare una porzione di queste mura (nell’ambito del progetto “La scuola adotta un Monumento”, che passa per un concorso nazionale promosso dalla Fondazione Napoli 99), ma per il momento lo hanno potuto fare solo simbolicamente.

    Il Parco archeologico invaso dalla vegetazione

    Nessuno infatti ha aperto loro i cancelli del Parco archeologico perché, hanno risposto dalla Soprintendenza, il sito «risulta inagibile a causa di alta vegetazione che ingombra gran parte del percorso di visita e la vista stessa dei monumenti». Insomma sono necessari dei lavori di manutenzione straordinaria per i quali la Soprintendenza «sta provvedendo», mentre quella ordinaria spetta al Comune che ha pure garantito che se ne occuperà.

    Una tappa non ufficiale

    «Vedremo se mai si riuscirà a visitare il percorso messo in luce da Paolo Orsi nelle campagne di scavo fatte tra 1916 e 1921», commenta la professoressa Preta, che non demorde. Alla Marcia con gli studenti è stata pure aggiunta una “tappa” non ufficiale: sono andati proprio davanti al palazzo, di cui si parla nelle carte dell’inchiesta “Rinascita-Scott” e nel maxiprocesso che ne è scaturito, ricostruendone la controversa vicenda. Su I Calabresi ne abbiamo scritto raccontando gli agganci di un presunto factotum dei Mancuso e il senso del dovere di chi ha provato a ostacolarlo.

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    I resti di epoca romana catalogati prima che ci costruissero un palazzo sopra

    Alla fine lui ce l’ha fatta, ha superato i vincoli e fatto erigere il suo palazzo nel luogo in cui c’erano i resti di un’antica strada e di una villa di epoca romana. Però il fatto che la vicenda sia emersa non è rimasto isolato. C’è stato un seguito grazie alla coscienza sociale di docenti come Maria Concetta Preta che, nella sua «didattica all’aperto» votata alle «competenze», all’«ascolto» e al «pensiero critico», ha ricordato le luci del patrimonio culturale vibonese senza nasconderne le ombre.

    Una lezione per i cittadini di domani

    «Tappa irrinunciabile», commenta la prof sui social. «Non si parla d’altro – aggiunge – quando si tocca l’articolo 9 della Costituzione Italiana e la didattica trasversale sulla Legalità. Dovere della scuola è far leggere criticamente e civilmente la storia antica e presente della propria civitas. La narrazione di Hipponion/Valentia e di Vibo non può ignorare questi argomenti. È un dovere etico dei docenti, prim’ancora cittadini! A chi consegneremo il nostro testimone, se non prepariamo un pochino i giovani, facendo aprire loro gli occhi?».
    Ad affrontare di recente la questione del “palazzo della discordia” è stata anche una docente di Istituzioni di diritto pubblico dell’Unical, Donatella Loprieno. Ne ha parlato diffusamente durante un corso promosso dal Consorzio Macramè con Legacoop Calabria e il Forum del Terzo settore Calabria.

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    Il “palazzo della discordia”

    L’interrogazione a Franceschini dopo gli articoli su I Calabresi

    Il titolo della sessione era “La criminalità organizzata impoverisce la democrazia costituzionale?”. La risposta, questa sì, è retorica. Ma prima o poi, visti i contorni imbarazzanti per gli uffici che da lui dipendono, potrebbe provare a darla anche il ministro della Cultura Dario Franceschini. A lui è infatti rivolta l’interrogazione parlamentare presentata dal deputato del Misto Francesco Sapia dopo i nostri articoli.

  • Capo Colonna, riaperto il museo archeologico dopo due anni

    Capo Colonna, riaperto il museo archeologico dopo due anni

    Ha riaperto le porte al pubblico ieri, dopo quasi due anni di stop alle visite, il Museo Archeologico Nazionale di Capo Colonna. La struttura espositiva, incastonata sul promontorio del Tempio di Hera Lacinia, era rimasta chiusa – pandemia a parte – a causa di importanti e complessi lavori di manutenzione. Si era reso necessario il ripristino degli ambienti a seguito dei danni provocati da alcuni eventi meteorologici.

    Il Museo archeologico di Capo Colonna nasce nel 2006, con un progetto degli architetti Italo Insolera e Paolo Spada Compagnoni Marefoschi. A comporne il percorso espositivo sono tre sezioni. Esse hanno ampie sale open-space disposte su un unico piano a livello strada, privo di barriere architettoniche.

    Il museo di Capo Colonna fa da complemento all’area archeologica al fine di valorizzarne il legame tra storia, archeologia, natura e paesaggio di un’area antichissima. Gli antichi Romani la consideravano sacro limite del golfo di Taranto. I Greci, a loro volta, la veneravano quale uno dei principali centri mediterranei, consacrato al divino e destinato a rivelarne il soprannaturale per la sua peculiare collocazione geografica.

    Numerosi i tesori dell’antichità all’interno della struttura. Tra i più importanti figurano un elmo acheo, la testa marmorea di un cavallo che ornava probabilmente il Tempio di Hera Lacinia, reperti rivenuti nei fondali marini. Alla riapertura ai visitatori seguiranno ulteriori novità che riguardano l’allestimento del Museo.

  • Teatri a Cosenza disabitati: l’arte in cerca di casa

    Teatri a Cosenza disabitati: l’arte in cerca di casa

    Gli spazi culturali e, più in particolare, i teatri pubblici dell’area urbana di Cosenza e provincia sono in massima parte disabitati. Non sono vissuti e utilizzati dagli artisti e operatori culturali del territorio, se non per sporadiche rappresentazioni o periodi molto limitati. Una stranezza che bisognerebbe correggere. Nonostante negli ultimi dieci anni ci siano stati dei tentativi di modificare questa situazione – un esempio è rappresentato dalle residenze teatrali – la gran parte di questi percorsi ha avuto durata breve, perché legati a episodici bandi regionali, agli avvicendamenti di sindaci e amministratori locali, agli umori di dirigenti della cosa pubblica.

    I teatri disabitati di Cosenza

    Come dare un’abitazione agli artisti e gli operatori culturali del territorio nei teatri pubblici disabitati? Come possono questi artisti allestire gli spettacoli? Organizzare e gestire laboratori, corsi di formazione? Organizzare e gestire rassegne e festival? Programmare stagioni? Come entrano nei teatri gli artisti e gli operatori culturali per fare ciò che si solitamente si fa nei teatri? Qualcuno potrebbe rispondere: pagando! Ma chi potrebbe permettersi di sostenere le spese di gestione di un teatro come il Rendano per dar vita ad un organismo di produzione e programmazione?

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    Il teatro Rendano vuoto

    La questione dei “teatri disabitati” che devono essere “abitati” è fondamentale, il ritornello continuo di ogni possibile discorso sui luoghi della cultura, comprendendo ovviamente la musica, la danza e le arti della performance in senso ampio. Per “artisti del teatro” chiaramente ci si riferisce a quanti, professionalmente e con continuità, si occupano di prosa, lirica, musica sinfonica, danza e arti performative.

    La grande crisi

    Ma veniamo agli spazi teatrali pubblici cosentini: l’ultracentenario Rendano, per lungo tempo unico “teatro di tradizione” in Calabria, ha avuto negli ultimi 20 anni una dotazione economica via via sempre più piccola, fino a diventare di fatto inesistente. Nonostante il conclamato stato di crisi delle casse comunali è questa una condizione che la nuova amministrazione dovrebbe affrontare con risolutezza, con un impegno forte. Dove reperire i fondi per il suo corretto funzionamento? Come intercettare i finanziamenti del Ministero della Cultura e della Regione Calabria?*

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    L’ingresso del Cinema-Teatro Tieri è da tempo rifugio per chi non ha un tetto

    Poi c’è il Teatro Italia-Tieri, edificio che nel tempo è stato utilizzato nei modi più disparati. Non c’è mai stato su questo luogo un progetto preciso per l’utilizzo. Da qualche parte ho letto che la passata giunta comunale avrebbe emanato un bando per affidare il Tieri ad una gestione esterna. Non sono a conoscenza dell’eventuale esito di questa iniziativa. Di sicuro c’è che sulle sue scale esterne hanno trovato alloggio due clochards. Almeno è casa per qualcuno.

    Area urbana e spazi culturali

    Il teatro Morelli, già sede del defunto Consorzio Teatrale Calabrese la cui dipartita per fallimento risale ormai a oltre 30 anni fa, giace anch’esso chiuso, tornato di proprietà privata. Ci sono poi altri spazi, ma forse è meglio non allargare troppo il discorso. Giusto come promemoria cito il piccolo teatro all’interno del Cubo Giallo della Città dei Ragazzi, le sale della Casa delle Culture, i BocsArt
    È accettabile questa situazione? Che senso hanno queste porte chiuse? Come restituire questo patrimonio alla vita della comunità?

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    Saracinesche abbassate al Morelli: il Comune ha disdetto il contratto per risparmiare dopo la dichiarazione di dissesto

    Non è più eludibile la progettazione di nuove forme di gestione per i teatri ed eventualmente per gli altri spazi culturali. E girando lo sguardo verso nord ci sarebbe pure da affrontare la condizione nella quale giacciono i due teatri dell’Università della Calabria. Il discorso, però, si farebbe davvero troppo complesso. Eppure sempre di area urbana Cosenza-Rende si parlerebbe.

    Una fondazione per il Rendano

    Ma restando a Cosenza e focalizzando l’attenzione sul meraviglioso Teatro Rendano, cosa si potrebbe fare? Da tempo ormai, varie voci si sono levate parlando dell’opportunità di dar vita ad una fondazione pubblico-privata per la sua gestione. È vero, potrebbe essere opportuna una configurazione giuridica autonoma dal Comune. Intendiamoci: il Rendano deve restare “pubblico”.

    Ma una Fondazione di emanazione comunale adeguatamente sostenuta dalla Regione Calabria e da soggetti privati (con percentuali tutte da studiare), potrebbe essere una strada percorribile per dar vita ad un’ente con un Consiglio d’Amministrazione snello, capace di dotarsi di una direzione artistica che possa operare con il supporto di un adeguato staff organizzativo e gestionale. Un organismo siffatto avrebbe la necessaria autonomia per procedere all’istituzione di una orchestra e/o di una compagnia di prosa stabile.

    Una scatola vuota da rilanciare

    La stabilità teatrale, quando è ben amministrata, è un modo per calcolare i costi di gestione con oculatezza e per garantire la qualità artistica media. È del tutto evidente la necessità di far camminare insieme progettazione culturale, gestione organizzativa e visione artistica. Un teatro altrimenti resta una scatola vuota, più o meno bella e ben tenuta, da aprire saltuariamente per ospitare eventi che il più delle volte non lasciano niente al territorio, episodi effimeri di mero intrattenimento che non incidono sulla trasformazione culturale.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    La creazione di una Fondazione per la gestione e la nascita di un organismo artistico stabile all’interno non deve apparire come un’utopia, ma una concreta possibilità di rilancio, è un’idea di futuro. D’altra parte cos’altro si potrebbe fare? Quali le altre strade percorribili per uscire da questa condizione di eterno stallo?
    Questa sarebbe la vera rivoluzione di cui il teatro calabrese ha bisogno per diventare finalmente adulto, proprio ora, proprio adesso, quando ancora la pandemia non è finita e nel cuore dell’Europa arde una guerra, proprio adesso c’è bisogno di agorà, di centri culturali che abbiano la giusta dimensione per farsi carico della complessità del presente.

    Dai teatri a Cosenza hub creativo

    Bisognerebbe lavorare quindi per la costruzione di un’ente, inizialmente sperimentale, che possa ambire nel giro di qualche anno (3/4?) ad accedere ai finanziamenti ministeriali. Non dico di puntare a far diventare il Rendano un Teatro Nazionale**, perché servirebbero economie da far tremare i polsi, ma con un giusto investimento da parte degli enti territoriali sarebbe plausibile, nel medio periodo, puntare ad ottenere il riconoscimento come TRIC** (Teatro di Rilevante Interesse Culturale).

    L’obiettivo di lungo termine di un organismo istituzionale del genere sarebbe di perseguire un equilibrio tra la valorizzazione delle risorse culturali del luogo (sì, il genius loci è importante!) e il continuo confronto con la produzione artistica nazionale e internazionale. E accanto a questo si dovrebbe delineare un sistema integrato che sia di luoghi, ma soprattutto di progetti socio-culturali innovativi per incidere sullo sviluppo di un’area vasta: la città di Cosenza come naturale baricentro culturale di tutta la provincia. Un “hub creativo” che possa sperimentare in più direzioni nuove modalità produttive, di programmazione, di relazione, di promozione, di formazione del pubblico e degli operatori del settore.

    Istituzioni e operatori allo stesso tavolo

    Come perseguire questo obiettivo? Non ci sono ricette preconfezionate, bisogna essere pieni di dubbi e domande, consapevoli della complessità che un progetto del genere prevede. Ma l’apertura di un tavolo di lavoro, con la partecipazione degli amministratori comunali e degli operatori culturali del territorio, potrebbe essere il viatico per l’inizio di una stagione nuova.

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    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza

    Attraverso un confronto certamente lungo e difficile, si potrebbero individuare i passi da compiere per dotare il nostro territorio di uno strumento che manca da troppo tempo.
    Diversamente ci si limiterà a continuare con la pratica degli eventi saltuari e si andrà avanti vivacchiando, tirando a campare, lasciando i nostri teatri e luoghi culturali pubblici vuoti e disabitati per la maggior parte del tempo.

    Ernesto Orrico


    * La nuova amministrazione ha annunciato, nelle scorse settimane, una collaborazione con il Conservatorio di Cosenza per partecipare ad un bando ministeriale che prevede la costituzione di un’orchestra.

    ** Teatro Nazionale e TRIC sono categorie ministeriali, così come i Centri di Produzione e i Circuiti Teatrali. In Calabria, allo stato attuale, nessun organismo o ente è riconosciuto, attraverso queste categorie, dal Ministero della Cultura.

     

  • Oscar: statuette e nominations di Calabria nella notte delle stelle di Hollywood

    Oscar: statuette e nominations di Calabria nella notte delle stelle di Hollywood

    C’è stato un periodo, a cavallo tra 2010 e 2011, in cui era impossibile sfogliare un giornale o navigare un sito della Calabria senza beccare qualche celebrazione di Mauro Fiore, fino a quel momento ignoto ai più, balzato agli onori per aver vinto ad Hollywood il premio Oscar per la migliore fotografia in Avatar.

    Il film di James Cameron, c’è da dire, aveva fatto incetta di statuette (tre) e di nomination (nove). Ma per l’orgoglio calabro, l’Academy Award a Fiore bastava e avanzava: era la prosecuzione del sogno americano, vissuto quasi fuori tempo massimo.

    Fiore, infatti, aveva lasciato la sua Marzi (oggi poco meno di mille anime nel cuore del Savuto) nei primi anni ’70 e aveva fatto carriera a Hollywood in qualità di tecnico all’ombra di grandissimi come Steven Spielberg.

    Mentre la Calabria lo celebrava alla grande, girava qualche commento pieno d’ironia amara: se Fiore fosse rimasto qui, al massimo avrebbe potuto fotografare matrimoni. Ma poco importava: Fiore era diventato Lu Ziu ’i Lamerica.

    Se l’Oscar parla arbëreshë

    Il cinema è stato, in ordine cronologico, l’ultimo ascensore sociale per i migranti italiani in cerca di fortuna negli Usa. Di sicuro la scorciatoia più vistosa per il successo. I calabresi, va da sé, non potevano fare eccezione, minoranze linguistiche incluse.

    È il caso del musicista arbëresh Salvatore Antonio Guaragna, cioè il mitico Harry Warren, che ottenne tre Oscar (per la precisione, nel ’35, nel ’43 e nel’45) più altre otto nominations per la migliore colonna sonora.

    Il minimo, per un autore seriale come lui, che scrisse circa ottocento brani. Giusto per curiosità, le sue canzoni più famose furono quelle che non vinsero. Cioè Chattanooga Choo Choo (nomination nel ’41, che divenne la colonna sonora delle truppe Usa in Italia) e la mitica That’s Amore, l’inno della Little Italy. Tanto successo, ottenuto fuori dalla Calabria, è all’origine di una disputa sulle radici di Warren tra Cassano Jonio e Civita.

     

    Da Corso Telesio a Hollywood

    Più certe le radici di Antonio Gaudio, che nacque a Cosenza, dove il padre Raffaele faceva il fotografo a via Sertorio Quattromani e Corso Telesio. Emigrato oltreoceano con suo fratello Eugenio, sfondò in America come direttore della fotografia e regista. Anche per lui l’americanizzazione del nome fu obbligatoria, ma non fu totale: divenne Tony Gaudio ed Eugenio si trasformò in Eugene.

     

    Con questo nick si aggiudicò nel 1937 la statuetta per la migliore fotografia nel film Avorio Nero, una delle sei pellicole a cui il Nostro lavorò quell’anno. Il suo, visto che Guaragna era nato a Brooklyn, è il primo Oscar tutto italiano della storia. Ma la statuetta, alla morte di Gaudio, è andata perduta, una storia che diventerà presto un documentario.

    L’ultimo Ziu

    L’ultimo Ziu ’i Lamerica, in ordine cronologico, è Nick Vallelonga, tuttofare del cinema a stelle e strisce discendente da emigrati del Vibonese. Vallelonga, che ha esordito con una particina ne Il Padrino, ha ottenuto nel 2019 l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale per Green Book, pellicola dedicata al grande jazzista Don Shirley.

    C’è da dire che questo premio non è stato proprio al riparo delle polemiche. In particolare, quelle della famiglia di Shirley, che avrebbe accusato Vallelonga di aver lavorato un po’ troppo di fantasia. Ma non importa: a lui la Calabria, generosa nel riconoscere il successo dei suoi migranti, ha tributato la solita sfilza di onori alla ’nduja al corpulento Oscar.

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    Nick Vallelonga

    Nonni… e un cugino da Oscar

    Più magra (e carina), Marisa Tomei ha in comune con Vallelonga il fatto di avere qualche nonno calabrese. Per la Tomei, che proviene dalla middle class newyorchese, le difficoltà dei migranti forse non sono neppure un ricordo. Protagonista di una carriera lineare tra grande e piccolo schermo, la Nostra ha ottenuto l’Oscar come migliore attrice non protagonista in Mio cugino Vincenzo (1993), una statuetta su cui si è malignato per anni. L’attrice ha poi confermato il suo talento con altre due nominations per In the Bedroom (2002) e The Wrestler (2009).

    Decisamente più famoso (e magro), F. Murray Abraham vanta due nonni reggini, per la precisione di Staiti e Condofuri. È diventato celebre per aver interpretato Salieri, il cattivo di Amadeus, che gli valse l’Oscar come miglior attore protagonista (1984).

    Sempre per restare ai nonni, le radici calabre emergono anche per Stanley Tucci, vincitore della statuetta come miglior attore non protagonista nell’horror Amabili Resti (2009).
    Protagonista di una carriera densa tra cinema, televisione e teatro, Tucci discende da Stanislao Tucci, emigrato da Marzi, lo stesso paese di Mauro Fiore. Segno che il pane del Savuto porta bene. Meglio ancora se accompagnato con la ’nduja del Vibonese. Non a caso, la nonna di Tucci era originaria di Serra San Bruno.

    https://www.youtube.com/watch?v=-AmEGCNQRJo

     

    Los Angeles? Cosangeles

    Nel toto Oscar di Calabria non poteva mancare la Sila cosentina, rappresentata da Anastasia Masaro, scenografa canadese che ha ottenuto la nomination nel 2009 per il fantasy Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo di Terry Gilliam: sua madre è originaria di Celico.
    Dalla Sila all’hinterland del capoluogo ci sono circa 20 km, meno comunque di quelli che separano la Masaro dallo statunitense Albert Broccoli, Premio Oscar speciale per aver prodotto il mitico James Bond. La famiglia di Broccoli ha le radici a Carolei.
    A Cosenza è nato nel 1982 anche Alfonso Sicilia, membro del team premiato con l’Oscar per gli effetti speciali nel 2014 per Gravity. Lui vive da anni all’estero, ma suo padre lavora ancora a San Pietro in Guarano, pochi km dalla città dei bruzi.

     

    Catanzaro (quasi) da Academy Awards

    Credevate che la provincia del capoluogo fosse priva di glorie? Sbagliate di grosso. Originario di Girifalco è Mark Ruffalo, volto più che noto del cinema che ha ottenuto tre nominations come miglior attore non protagonista, rispettivamente per The Kids are all right (2009), Foxcatcher (2015) e Il caso Spotlight (2016). Siamo sicuri che, prima o poi, la mitica Statuetta d’oro la becca, visto che lavora tantissimo. Nel frattempo, si consola coi risultati al botteghino.

    Lo scrittore Nicholas Pileggi, nomination assieme a Martin Scorsese per la miglior sceneggiatura non originale in Quei bravi ragazzi (1991) ha radici a Maida, segno che il morseddu lega bene con la celluloide.
    Più noto al pubblico italiano come erede del cinema impegnato degli anni ’70, Gianni Amelio, nativo di Magisano, ha ricevuto nel 1991 la nomination per il miglior film straniero grazie al suo Porte Aperte, ispirato all’omonimo romanzo del grande Leonardo Sciascia.

    Reggio Calabria, Hollywood e gli Oscar

    Una volta tanto, la musica non è sinonimo di tarantella. Il compositore John Corigliano, figlio di John Paul, primo violino della New York Philarmonic, ha radici ben piantate a Villa San Giovanni. Ha vinto, oltre a un Pulitzer e tre Grammy, l’Oscar per Violino Rosso (1999).

    Inoltre, le foto dei reggini possono non essere così “solari”. È il caso di Nicholas Musuraca, che lasciò Riace nel lontano 1907 e fece carriera nella Rko. Ottenne una nomination per la migliore fotografia nel film Mamma ti ricordo, un melò di George Stevens (1948). Ma, a prescindere dagli Oscar, il suo nome resta legato a capolavori del noir o dell’horror come Il bacio della pantera e Le catene della colpa di Jacques Tourneur, La scala a chiocciola di Robert Siodmak o Gardenia Blu di Fritz Lang.

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    Francesca Lo Schiavo e Dante Ferretti ricevono l’Oscar per Sweeney Todd nel 2008

    Nata a Roma, ma originaria di Taurianova, la scenografa Francesca Lo Schiavo ha ottenuto sei nominations e tre Oscar. Precisamente per The Aviator di Martin Scorsese (2005), Sweeney Todd di Tim Burton (2008), Hugo Cabret, sempre di Scorsese (2012).

    Menzioni d’onore

    Non era calabrese, ma ha sposato una calabrese e, soprattutto, ha amato la Calabria, in particolare Lamezia Terme, dove ha trascorso gli ultimi dieci anni di vita.
    Parliamo del grande Carlo Rambaldi, il mitico effettista del cinema mondiale. Suoi, gli effettacci grandguignoleschi di Profondo Rosso, il capolavoro di Dario Argento. Sue le efferatezze iperrealistiche del giallo all’italiana, in particolare dei film di Lucio Fulci. Suo il sangue che schizzava a profusione nei western di Sergio Leone e nei primi due Padrini di Francis Ford Coppola.

     

    Vinse tre Oscar per i migliori effetti speciali grazie a King Kong di John Guillermin (1976), ad Alien di Ridley Scott (1979), per il quale collaborò con l’artista svizzero Hans Ruedi Giger, ed E.T., di Steven Spielberg (1982).

    Sfiorarono la nomination per la colonna sonora di Dune di David Lynch (1984) i Toto e Brian Eno. Eno con la Calabria non c’entra. Invece, c’entrano tantissimo i Toto perché i tre fondatori, i fratelli Jeff, Steve e Mike Porcaro, sono i nipoti di Giuseppe Porcaro, percussionista originario di San Luca d’Aspromonte.

    https://www.youtube.com/watch?v=p_4aTbJ0SCQ

     

    Per sperare

    In attesa di un Oscar a un calabrese che vive in Calabria per un film realizzato in Calabria, c’è di che soddisfare il campanilismo di una regione in cui solo migrando si ha il successo vero. Per gli attuali cinematografari di successo, ogni ritorno in patria è occasione di celebrazioni e retorica a più non posso.
    Chissà che qualcuno si ricordi di loro quando c’è da spendere qualcosa per celebrare il Sud profondo. Magari costerebbero meno dei vari Muccino e solleverebbero meno polemiche…